martedì 2 dicembre 2008

Parlano i figli del boss: "Mio padre Provenzano e i conti con la mafia"

di Francesco Viviano
Sono i figli del Boss dei Boss, il capo dei capi di Cosa Nostra, Bernardo Provenzano, classe 1933, da Corleone, detto Zu Binnu: 43 anni vissuti in clandestinità fino all´arresto del 2006, l´uomo accusato di essere dietro tutte le stragi di mafia che hanno insanguinato l´Italia. Ora per la prima volta i due figli di Provenzano, Angelo, 30 anni, diploma di geometra, e Francesco Paolo, 27, laureato in lingue, rompono il silenzio. Dicono che per parlare con i giornalisti non hanno ricevuto il «permesso» del padre, da sempre contrario ai contatti con la stampa; dicono che è una loro scelta, e che lo fanno per liberarsi, una volta e per tutte, dalle pressioni dei media che scavano nella loro vita.
Vostro padre è accusato di aver guidato Cosa Nostra, di essere il mandante, insieme a Totò Riina, di delitti e di stragi. Per questo è in galera, dove sta scontando alcuni ergastoli proprio perché considerato il Padrino della mafia.
«Quando mio padre fu arrestato lo scoprii dalla radio», dice Angelo, che parla per tutti e due. «E quando andai su internet per avere conferma, restai interdetto: la foto che pubblicarono, confondendola con un altro arrestato, non era quella di mio padre. Ora, a tutti quelli che dicono che mio padre è il Padrino di Cosa Nostra, io dico che ci sono tanti Padrini. Arrestato uno ne spunta un altro. E parlando ancora di mafia in senso lato, io mi chiedo: lo Stato che ruolo ha ed ha avuto in tutti questi anni? Se andiamo indietro nel tempo ricordo stragi come quelle di Bologna e di Ustica oppure la morte del bandito Giuliano. Cosa c´era dietro? Per la morte di Giuliano, per esempio, sono dovuti passare almeno cinquant´anni per fare un po´ di chiarezza. Dobbiamo aspettare altri 50 anni per conoscere le altre verità, anche quella su mio padre? Ecco perché dare una definizione compiuta di mafia adesso è difficile».

La mafia è soprattutto un´organizzazione criminale.
«La mafia? Siamo ancora oggi alla ricerca di una risposta definitiva su che cosa sia. Di primo acchito mi verrebbe da dire che è un atteggiamento mentale. La mafia viene dopo la mafiosità, che non è comportamento solo ed esclusivamente siciliano. La mafiosità si manifesta in mille modi, a cominciare dalla raccomandazione per arrivare prima a fare una radiografia o ad avere un certificato in Comune. Mi chiedo: dov´è il limite, tra mafia e mafiosità? Tra l´organizzazione criminale per come la intende il codice penale, e l´atteggiamento mentale per come la intendono i siciliani? Secondo me la mafia è un magma fluido che non ha contorni definiti. Per quanto riguarda i fatti di sangue e le sentenze di condanna, il codice dice che la mafia è un´associazione per delinquere. E su questo non discuto e non entro nel merito. Ma il discorso è molto più ampio, non si può ridurre tutto a persone che sparano».
Suo padre ha battuto tutti i record della latitanza: sin da giovane, prima che voi nasceste, era già un pregiudicato, accusato di omicidi e di far parte dei corleonesi mafiosi.
«Si è detto che mio padre, in 43 anni di latitanza, quale capo di Cosa Nostra ha bloccato il sistema, l´economia, la crescita di un Paese. È stato dipinto come la personificazione del "male assoluto". Con la sua cattura, ho letto, finiva la mafia. E invece la mafia non è finita. La "mitizzazione" di papà esiste, è un dato incontrovertibile, che ha fatto comodo a molti. Se la latitanza fosse durata un anno anziché 43 il personaggio Provenzano non sarebbe esistito. Avrebbero trovato qualcun altro su cui scaricare l´attenzione per non sollevare coperchi su problemi e sui grandi misteri dell´Italia».Tutti i pentiti di mafia, anche quelli che vi hanno preso parte materialmente, accusano i vertici di Cosa nostra e quindi Totò Riina ed anche suo padre delle stragi Falcone e Borsellino. «Guardi, dei pentiti ci sarebbe tantissimo da dire, ma sono cosciente che anche la più lontana sfumatura si presterebbe a strumentalizzazione o verrebbe interpretata come una minaccia. E allora facciamo così: se a parlare è Angelo Provenzano, non dico nulla. Se a parlare è Angelo, cittadino italiano, dico che i pentiti sono una delle più grandi sconfitte dello Stato».
Le chiedevo delle responsabilità di suo padre
«Io allora ero relativamente piccolo, l´ho vissuta di riflesso. Se mi ci soffermo ora credo che i giudici Falcone e Borsellino sono da considerarsi due vittime sacrificali, giudici immolati sull´altare della ragion di Stato».
I giudici Falcone e Borsellino sono prima di tutto vittime della mafia. E lei non ha nulla da rimproverare a suo padre? Non si è mai posto delle domande su chi fosse, chi è veramente suo padre? Lo ha mai chiesto a sua madre?
«Io a mio padre riconosco alcune attenuanti. Per questo non ho da rimproverargli alcunché. Chi sono io? Semplicemente il figlio di mio padre, io esisto perché lui esiste, è lui che mi ha messo al mondo».
Un magistrato, tempo fa, invitò la figlia di Totò Riina a rinnegare suo padre: non crede anche lei che sarebbe giusto farlo?
«Ma come si fa solo a pensare una cosa del genere? Bernardo Provenzano è mio padre, e allora? Basta questo per essere considerato un cittadino, un figlio, di serie B? Non è giusto. Io rispondo delle mie scelte, non di quelle di mio padre che oltretutto non so quali siano e quali siano state. E poi chi ve lo dice che non abbiamo mai parlato con mia madre di mio padre, che non le abbiamo chiesto qualcosa? Diciamo che in linea di massima mi sono tenuto le mie curiosità, domande dirette mai. Però, è innegabile che poi anche noi abbiamo indagato un po´. Ma Bernardo Provenzano era, e resta, mio padre».
All´interno di Cosa nostra c´è chi sostiene che suo padre abbia "trattato" con lo Stato, attraverso l´ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, poi condannato per mafia, per consegnare Totò Riina ai carabinieri.
«Io posso rispondere delle mie scelte, non di quelle di mio padre, che non so quali siano perché con lui mai ho affrontato simili questioni. Ma a una domanda così posta mi viene da sorridere, poiché se fosse come dice lei non si spiegherebbe perché poi lo Stato lo arresta e lo mette in prigione con il 41 bis».
Come avete vissuto il vostro ritorno a Corleone? E perché avete deciso di tornare?
«Io qui ci sono nato, non l´ho scelto. È un paese come qualsiasi altro paese, siciliano e non. Pregi e difetti dei paesi: talvolta c´è una visione ristretta delle cose, una sorta di chiusura mentale. Per il resto, però, Corleone è Corleone. Ci stiamo bene. Chissà, magari al momento opportuno, a determinate condizioni, potremmo anche decidere di andare via. Il nostro ritorno? Sotto controllo. Io, mio fratello, mia madre, siamo in assoluto le persone più controllate d´Italia, se si pensa alla durata della latitanza di mio padre. Sanno tutto di noi, controllavano (o controllano) ogni ambiente, ogni spazio, in camera da pranzo, in macchina, al bagno, alle finestre. Abbiamo vissuto, e viviamo, come se fossimo dei concorrenti del Grande Fratello. Se vogliamo sdrammatizzare, diciamo che siamo stati i protagonisti del più grosso reality su Cosa Nostra. Se ci controllano ancora, non lo sappiamo. Di certo noi ci comportiamo e ci comporteremo sempre come se lo fossimo».
A dire il vero fino a sedici anni lei e suo fratello più piccolo siete stati "latitanti" anche voi con vostro padre e vostra madre.
«Dei miei primi sedici anni, vissuti in clandestinità, non voglio parlare. Non per omertà o perché devo custodire chissà quali segreti ma perché quello è un periodo della mia vita che resta mio perché mai nessuno me lo ha toccato. Il 5 aprile 1992, quando sono uscito dalla clandestinità e sono andato a Corleone, è iniziata la mia crescita, dopo avere vissuto la latitanza sono entrato in contatto con la gente. Ovviamente è stato difficile l´inserimento nella cosiddetta società civile. La mia vita prima? Ripeto. Non ho potuto scegliere, è stata una latitanza forzata, sono nato e cresciuto in quel contesto».
Perché dopo tanti anni di silenzio vi siete decisi a parlare?
«Ho accettato di rilasciare l´intervista anche per una sorta di crisi d´identità nei confronti di questo Stato, che prima dava la caccia a mio padre sostenendo che era la causa di tutti i mali e che con la sua cattura la mafia sarebbe stata finalmente sconfitta; dopo il suo arresto, invece, le cose continuano ad essere come prima. La mafia c´è ancora. Mi viene il dubbio che papà, pur con le responsabilità che i tribunali hanno ritenuto di riconoscergli, fosse stato fatto diventare una sorta di coperchio su cui scaricare tutti i mali».
Che cosa vuol dire? Lei non può permettersi di lanciare delle accuse generiche senza sostanziarle
«Io chiedo solo un po´ di rispetto per me, mia madre, mio fratello. Allo Stato chiedo anche il rispetto di quello che è scritto nelle aule di giustizia e cioè che la legge è uguale per tutti. È vero, noi portiamo un cognome pesante, ma è per questo che cerchiamo sempre di farci conoscere con il nome, non con il cognome. Io, per esempio, mi presento sempre come Angelo, e solo se c´è bisogno aggiungo il resto. Non solo professionalmente, noi vogliamo farci apprezzare, o farci dire di no, in base a quello che siamo, non per la famiglia da cui proveniamo. Non abbiamo paura: non l´avevamo prima, non l´abbiamo adesso. Noi famiglia Provenzano vogliamo solo essere lasciati in pace. Il nostro disagio è quello di essere personaggi pubblici senza alcun merito. Io non ho avuto la possibilità di scegliere. Si continuano a pubblicare lettere intime di mio padre, lettere mie e di mia madre, per questioni che non hanno nulla a che fare con la mafia. Se io infrango la legge, è giusto che paghi. Se sui giornali finiscono atti coperti dal segreto istruttorio, non paga mai nessuno».
La vicenda di suo padre è diventata anche una fiction tv
«Non l´ho vista, se non a tratti. Me l´hanno raccontata. Possono fare quello che vogliono, anche perché la fiction è su mio padre, non su di noi. È quando invadono la nostra sfera che stiamo male».
Signor Provenzano, lei vota?
«Noi non votiamo, e poi non parliamo di politica, come non parliamo di religione, perché mezza parola potrebbe essere strumentalizzata in un senso o in un altro».
(La Repubblica, 01 dicembre 2008)

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