sabato 26 febbraio 2011

Sicilia-Libia, un'illusione mediterranea

di Agostino Spataro
I libici in Sicilia
C’era un tempo, non molto remoto, nel quale Sicilia e Libia si guardavano con grande simpatia reciproca. L’Isola, la più grande del Mediterraneo, definita da Occhetto “l’unico Stato arabo che non aveva dichiarato guerra a Israele”, ha sempre attratto i leader nordafricani e arabi in genere per il suo splendido passato islamico e per il suo inquieto presente autonomistico. Figurarsi Gheddafi che, avendocela di fronte, desiderava estendere la sua rivoluzionaria influenza. Dall’altro lato, la Sicilia, le sue inconcludenti classi dirigenti che speravano di salvare l’Autonomia capovolgendo le coordinate dello sviluppo: dal nord che aveva deluso al sud dei paesi rivieraschi e soprattutto alla Libia ossia a quell’ex colonia italiana che galleggia sopra un mare di gas e di petrolio. Dalla Jamahirja si aspettavano capitali e commesse miliardarie e lavoro per gli operai e i tecnici isolani. Da entrambi le parti c'era un certo fervore. I libici aprirono a Palermo un consolato generale, un centro culturale e una casa editrice. Mentre i rappresentanti dei tre principali partiti (Pci, Dc, Psi) fondammo la sezione regionale dell’Associazione di amicizia e cooperazione italo - araba che promosse a Palermo alcune importanti iniziative, fra cui la prima conferenza nazionale sull’immigrazione araba in Sicilia e in Italia, patrocinata dal Ministero dell’interno.
A Palermo il primo periodico bilingue arabo-italiano
Questo era il clima che caratterizzava i rapporti siculo-libici negli anni ’70 e ’80. Certo, alla luce dei massacri attuali perpetrati dai pretoriani del colonnello Gheddafi tutto questo può apparire incredibile. Effettivamente, quello che oggi vediamo è il volto peggiore di un regime morente. Ma non è stato sempre così. Nel suo primo ventennio il regime non appariva così corrotto, dispotico e familistico. La “rivoluzione” del 1969 (in realtà un golpe militare) si presentava al mondo con un carattere popolare, anche se un po’ confuso, e con un progetto di radicale cambiamento basato su una distribuzione più equa della rendita petrolifera, oggi appannaggio di gruppi ristretti tribali e familiari. Insomma, grazie al petrolio (abbondante e di ottima qualità) la Libia presto divenne un enorme cantiere, un mercato interessante per le nostre manifatture, una grande opportunità di sviluppo anche per la Sicilia. Imprese, lavoratori e tecnici siciliani furono tra i primi a intuire quelle potenzialità e a tentare di cogliere le disponibilità dichiarate dai dirigenti libici. Tutti in Libia, dunque, e sempre accolti come ospiti graditi, anche quando si trattava di improbabili esponenti dell’indipendentismo, soprattutto etneo, che si nascondevano dietro una moschea finanziata dai libici. Anche la sinistra siciliana, nel suo naturale slancio terzomondista, si mostrò parecchio interessata. L’Ora” di Vittorio Nisticò realizzò un inserto bilingue (arabo-italiano), il primo in Italia e in Europa, curato dalla pasionaria Cris Mancuso, che diede un grande impulso allo scambio delle informazioni e alle iniziative economiche fra la Sicilia, la Libia e gli altri paesi rivieraschi.
Un controverso protocollo di cooperazione fra Sicilia e Jamahirja libica
Insomma, si creò un clima di speranzosa attesa, di fervore costruttivo che indusse il presidente della Regione, on. Angelo Bonfiglio, a intraprendere, nel novembre del 1977, una visita ufficiale a Tripoli nel corso della quale fu sottoscritto un vero e proprio protocollo d’intesa e costituita una commissione mista per dare corso ad una serie d’ipotesi di cooperazione in diversi settori economici e culturali. Il viaggio provocò un certo clamore sulla stampa e una reprimenda pubblica del governo di Roma che non riconosceva alla regione la potestà di firmare un trattato con un uno Stato estero. La polemica continuò così come continuarono le visite di delegazioni di autorità ed operatori economici. Come sempre accade in questi frangenti, ci furono alcuni che colsero l’occasione per realizzare affari privati senza averne titoli o per dare sfogo in Libia a certe frustrazioni secessioniste in Sicilia cadute in disuso. Nell’apparato libico c’era, infatti, una corrente che dava corda a tendenze del genere, inconsistenti quanto imbarazzanti, che creavano equivoci e seri disagio sul piano politico. Ricordo che nell’agosto del 1984, unitamente a parlamentari di altri partiti e nazionalità, ci recammo a Tripoli per partecipare (io come osservatore del Pci) ad una conferenza internazionale sul 15° anniversario della “rivoluzione” libica. Senza saperlo, mi ritrovai sullo stesso aereo e nello stesso albergo con un avvocato catanese che in Libia passava per “autentico rappresentante dell’irredento popolo siciliano”.
Lo squattrinato Billy Carter nelle mani di due compari catanesi
Un personaggio piuttosto colorito che aveva svolto un certo ruolo anche nella famosa vicenda del “Billygate” ossia del fratello del presidente Usa, Jimmy Carter. Com’è noto, lo squattrinato Billy venne adescato ad Atlanta da tale Mario Leanza, immobiliarista d’origine catanese, il quale intrigando con il compaesano avvocato lo condusse a Tripoli dove, in cambio di un prestito, si abbandonò ad elogi sperticati del regime libico che suo fratello presidente (in carica) aveva duramente condannato e messo all’indice. Lo stravagante Billy ebbe in Libia il suo momento d’oro: continuava a rilasciare interviste, a farsi fotografare anche in occasioni solenni come quella della parata militare di Bengasi in cui lo vidi, abbronzato e col suo vistoso cappello da cow-boy, sul palco d’onore, a fianco di Gheddafi. In Libia bisognava essere prudenti, stare attenti ai passaggi politici e anche evitare d’inciampare in personaggi del genere che affollavano il parterre della “rivoluzione”.
Con Susanna Agnelli in visita al porto militare di Homs
Perciò, chiedemmo all’ambasciatore Shalgam (oggi ministro degli esteri libico) di non includere l’ingombrante avvocato etneo nella delegazione italiana, anche perché con noi c’erano l’ambasciatore Quaroni e l’on. Susanna Agnelli, sottosegretario agli esteri, con i quali c’intrattenemmo in interessanti conversazioni politiche e anche per una piacevole visita delle incantevoli rovine di Leptis Magna e… del cantiere dell’Impregilo (partecipata del gruppo Fiat) che stava costruendo a Homs un porto militare che ci parve troppo grande per le esigenze della marina libica. Per tutta risposta, l’avvocato approntò una delegazione che già in albergo si qualifico di nazionalità “siciliana”; tuttavia questa volta mi parve più dignitosa della precedente ch’era composta di svolazzanti donnine inneggianti all’Isola irredenta, per la gioia di certi dirigenti dei comitati popolari libici. A parte questi episodi, le relazione fra la Sicilia e la Libia proseguirono con altre visite tra cui quella del presidente della regione Rino Nicolosi, rimasta famosa più per il bacio di Gheddafi che per gli accordi sottoscritti. Sì, perché i rapporti fra Sicilia e Libia furono intensi ma poco proficui. Nessun progetto proposto dalla Sicilia verrà realizzato. Ci fu un tentativo d’investire nel turismo a Pantelleria, ma abortì sul nascere. Le compagnie libiche i grandi affari li hanno fatti fra Roma, Torino e Milano e, ancora più lontano, fra Londra e la Svizzera. In Sicilia di libico ci sono solo enormi quantità di petrolio e di gas che raffiniamo per mandare avanti l’economia delle regioni del nord.

mercoledì 23 febbraio 2011

Mafia, Mercadante assolto in appello. In primo grado condannato a 10 anni

di SALVO PALAZZOLO
ll primario radiologo, impegnato a lungo in politica, è stato deputato regionale di Forza Italia: era accusato da tre collaboratori di giustizia. Antonino Giuffrè aveva detto: "E' una creatura di Bernardo Provenzano". Contro di lui anche alcune intercettazioni che avevano svelato rapporti e frequentazioni con altri mafiosi, di Palermo e Corleone. Il politico era agli arresti domiciliari dal 2007, dopo essere rimasto un anno in carcere, con l'accusa di associazione mafiosa
Tre mesi dopo la cattura di Bernardo Provenzano, nel luglio 2006, era finito in manette con l’accusa infamante di essere "una creatura del capo di Cosa nostra". Questo diceva di lui il pentito Antonino Giuffrè, un tempo braccio destro del padrino di Corleone. Giovanni Mercadante, notissimo primario radiologo del Maurizio Ascoli ed ex deputato regionale di Forza Italia, era stato condannato a 10 anni e 8 mesi in primo grado, per associazione mafiosa. Era il 28 luglio 2009. Ieri sera, dopo 9 ore di camera di consiglio, la sesta sezione della corte d’appello presieduta da Biagio Insacco (a latere Roberto Murgia e Gaetano La Barbera) ha assolto Mercadante, "perché il fatto non sussiste". E ha ordinato la sua immediata scarcerazione. L’ex esponente politico era ai domiciliari dal 2007, dopo aver scontato un anno in carcere.
Esultano i legali di Mercadante: Nino Caleca, Grazia Volo, Leo Mercurio e Francesca Li Vecchi. Il procuratore Francesco Messineo commenta: "Solo dalla lettura delle motivazioni della sentenza corte potremo capire quali sono le ragioni che hanno portato la corte a riformare la sentenza di condanna". Molto più esplicito il sostituto Nino Di Matteo, uno dei pm che ha rappresentato l’accusa nel processo di primo grado: "Sono veramente sorpreso per la decisione della corte — dice — il quadro probatorio a carico di Mercadante era stato ritenuto molto solido sia dal tribunale, al termine di una istruttoria dibattimentale molto accurata e complessa, sia in sede cautelare da più collegi del riesame e dalla stessa Cassazione".
Contro Mercadante c’erano le dichiarazioni di tre pentiti. Oltre a Giuffrè, Angelo Siino ("Mercadante è uno dei più grossi favoreggiatori di Provenzano"), e Giovanni Brusca ("È molto vicino a Tommaso Cannella, capomafia di Prizzi, di cui è cugino"). Dopo i pentiti erano arrivate le intercettazioni. Il 28 luglio 2005, i poliziotti della squadra mobile avevano ascoltato il medico di Riina e Provenzano, il boss Antonino Cinà, mentre diceva a Nino Rotolo, capomandamento di Pagliarelli: "Mi sono visto con Giovanni Mercadante. Gli ho fatto una premessa: Sono finiti i tempi che ci potevate prendere per fessi, qua non si esce... tu mi dai e io ti do, anche perché ti ho eletto". Il 14 ottobre 2005, i poliziotti seguirono Cinà fino alla segreteria di Mercadante. Secondo la ricostruzione dell’accusa, Cinà aveva chiesto aiuto al politico per fare assumere il figlio all’Ismett, ma anche per raccomandare un medico milanese alla Neurochirurgia del Civico.
Un’altra microspia aveva sorpreso Mercadante a Corleone, mentre parlava con Leoluca Di Miceli, uno dei cassieri di Riina e Provenzano. L’imputato ha sempre respinto tutte le accuse, spiegando che Di Miceli era per lui solo il suocero di un sostenitore elettorale. In tribunale, il politico si è difeso piazzando anche qualche affondo nei confronti dei suoi compagni di partito: "Nel 1996, Di Miceli sostenne Misuraca e Schifani". Mercadante non ha utilizzato mezzi termini. L’autodifesa è proseguita negando che "Angelo" citato nella conversazione con Di Miceli, a proposito di una visita medica "per la madre", fosse il figlio di Provenzano. Ma in primo grado, i giudici non avevano creduto a Mercadante, anche perché in una lettera di Angelo Provenzano, sequestrata nel 2001, c’era proprio il nome "Givanni Mercadante", celato da un codice numerico.
Nulla di tutto questo è stato ritenuto rilevante dalla corte d’appello. Neanche le ultime dichiarazioni di Massimo Ciancimino: in tribunale, l’ultimo testimone della Procura aveva raccontato di una mediazione particolare fatta dal padre Vito. "Mercadante aveva chiesto una punizione per l’amante della moglie — spiegò — ma era un parente del boss Pino Lipari, così fu risparmiato. Dovette solo allontanarsi per qualche tempo da Palermo". Mercadante ha sempre bollato come "falsa" questa storia.
Esulta per l’assoluzione Gianfranco Micciché, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio: "Questa sentenza mi riempie di gioia e lascia dentro di me tanta amarezza: Mercadante è stato condannato a patire le pene dell’inferno ancor prima di ricevere una vera sentenza di condanna".
La Repubblica, 22 febbraio 2011

domenica 20 febbraio 2011

Scandalo Cascata delle Due Rocche. La lettera aperta di Città Nuove e Corleone Dialogos

La Cascata delle Due Rocche di Corleone
Città Nuove e Corleone Dialogos chiedono all’Amministrazione comunale di revocare la delibera con cui concede la Cascata delle Due Rocche all’Associazione Omnia Onlus, diretta dalla sorella di un consigliere comunale di maggioranza e dalla moglie del sindaco
Con delibera della Giunta Municipale n. 9 del 20.1.2011 il Comune di Corleone ha concesso per almeno tre anni (e con un cofinanziamento del valore di 30 mila euro) l’area naturalistica della Cascata delle Due Rocche e del Parco fluviale all’Associazione OMNIA Onlus, per l’attuazione del progetto FLORA. La concessione diretta ad un’associazione privata di un bene pubblico di così grande valore lascia perplessi, anche perché non è per nulla evidente la competenza professionale della predetta associazione nella gestione di aree naturalistiche.
Fino al 17 febbraio 2011, effettuando un semplice collegamento al sito internet dell’Associazione OMNIA Onlus (http://www.omniaonlus.org) e cliccando sulla voce “chi siamo”, si poteva leggere che «il rappresentante legale dell’ente è la dottoressa Giuseppina IARIA, il segretario generale è la dottoressa Mara DI LEO». La prima è sorella di un consigliere comunale molto vicino al sindaco Nino Iannazzo, la seconda è la moglie del primo cittadino di Corleone. E quest’ultimo più volte e per diversi anni è stato legato da solidi rapporti professionali con l’associazione in questione.
Per legge, tra i doveri degli amministratori pubblici vi è quello di garantire l’imparzialità dell’azione amministrativa, evitando di creare situazioni che potrebbero dar luogo a conflitti d’interesse. A questa garanzia di imparzialità e di buon andamento dell’azione amministrativa si ispira l’obbligo per il pubblico amministratore di astenersi dal partecipare alla discussione e alla votazione delle delibere comunali riguardanti interessi propri o di parenti ed affini sino al quarto grado. Nella discussione e nella votazione della delibera n. 9 del 20.1.2011 il sindaco Iannazzo ha avuto l’accortezza di assentarsi. Ma a nessuno sfugge che, nella sostanza, il conflitto d’interessi permane lo stesso, per il semplice fatto dell’esistenza della convenzione. Per esempio, come si legge nella convenzione, l’associazione Omnia Onlus potrà prevedere un ticket «a carico degli utenti che rimarrà a disposizione dell’assegnatario e che verrà concordata annualmente con l’ente comune». Chi concorderà l’opportunità di istituire il ticket per i cittadini di Corleone che vorranno visitare la Cascata delle Due Rocche e il suo importo?
Alla luce di quanto sopra, per dissipare ogni possibile ombra sull’imparzialità dell’azione amministrativa del Comune di Corleone e per evitare pericolosi scivoloni morali, che potrebbero compromettere la credibilità del difficile percorso di legalità portato avanti, si chiede all’amministrazione comunale di revocare in autotutela la propria delibera n. 9 del 20.1.2011, avente per oggetto: “Progetto FLORA presa d’atto dell’approvazione del progetto e cofinanziamento dello stesso in beni e servizi. Concessione area del Parco fluviale delle Due rocche”.
Si chiede, infine, che alla gestione del Parco fluviale si provveda attraverso il personale comunale, appositamente formato, oppure mediante un affidamento con gara pubblica.
L’Associazione “Città Nuove“
L’Associazione “Corleone Dialogos“
Corleone, febbraio 2011
In allegato la copia della pagina del sito dell'associazione Omnia Onlus dove si evince che il Segretario generale della stessa è la moglie dell'attuale Sindaco, datata 17/02/2011. Stranamente adesso tale nominativo è stato cancellato.

L'intervista integrale di Giorgio Napolitano

Napolitano e Berlusconi
Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, alla vigilia della sua visita ufficiale in Germania ha rilasciato al giornalista Thomas Schmid la seguente intervista pubblicata oggi da "Welt am Sonntag" con il titolo "La Fortuna dell'Italia".

Welt am Sonntag: Signor Presidente della Repubblica, tra poche settimane l'Italia celebra il 150° anniversario della fondazione del proprio Stato. Ora il Paese, invece di gioirne, deve prepararsi ad assistere ad un processo nei confronti del Presidente del Consiglio. Ed il Presidente della Provincia autonoma dell'Alto Adige si rifiuta persino di aderire ai festeggiamenti per l'Unità , dicendo che per lui non c'è nulla da festeggiare. Continua a piacere fare il Presidente della Repubblica viste tali circostanze?
Napolitano. «Tra i miei doveri rientra anche quello di gestire situazioni difficili. Tra l'altro io sono molto impaziente di veder svilupparsi le celebrazioni dell'Unità d'Italia. Per me e per tanti altri saranno una buona occasione per renderci conto di quello che abbiamo realizzato per questa nazione con questo Stato. L'Italia è uno Stato tardivo che però, - come la Germania - è riuscito ad assumere un buon ruolo nel concerto delle nazioni».

A proposito della Germania: nel nostro Paese i monumenti in memoria all'Unità tedesca sono risultati di dimensioni grandissime, gigantesche non tanto perché la nostra identità nazionale sia così forte, ma anzi perché è debole. Passando poco fa qui a Roma a Piazza Venezia davanti al Vostro monumento nazionale di Vittorio Emanuele II, ho visto che si tratta di una costruzione poderosa che sovrasta tutto il resto. E' debole anche l'identità nazionale italiana?
«Un tempo era debole. I nostri due Paesi hanno diverse cose in comune. Come ho già detto, siamo diventati uno Stato nazionale relativamente tardi si è trattato di un processo laborioso e doloroso. Probabilmente ha a che fare con le insufficienze dei nostri Stati nazionali così come si sono formati, il fatto che successivamente Italia e Germania abbiano imboccato la via del totalitarismo, gli Italiani quella del Fascismo, i Tedeschi quella del Nazismo. Delle affinità tra i rispettivi percorsi storici, entrambe le nazioni se ne resero conto ben presto. Lo si può vedere se si prendono le due figure maggiori per la fondazione dello Stato nazionale, Cavour e Bismarck. Lo Stato nazionale italiano è stato fondato nel 1861, dieci anni prima di quello tedesco. Bismarck ha seguito molto attentamente l'operato del sapiente politico Cavour nel processo dell'unificazione – che all'opposto di lui era un liberale».

Di nuovo: perché è mancata alle due nazioni la forza di resistere al totalitarismo?
«Indubbiamente ciò ha a che fare con la debolezza delle istituzioni democratiche dei due paesi all'indomani della prima guerra mondiale. E anche il fatto che nei cittadini dei due Paesi non ci fosse una sufficiente coscienza democratica. Il filosofo Benedetto Croce, da sempre grande conoscitore e amico della cultura tedesca, ha sempre messo in guardia dall'identificare la Germania con il nazismo. Una volta asserì che i Tedeschi di Bismarck erano degenerati in Tedeschi di Hitler; però aggiunse tale circostanza non è avvenuta per ragioni genetiche, bensì ha rappresentato una vicenda storica, contingente, che si sarebbe corretta nel corso della storia. Parallelamente alla Resistenza italiana, ci fu anche resistenza antinazista in Germania, si pensi solo a Ulrich von Hassel, ambasciatore tedesco a Roma, richiamato da Hitler e giustiziato nel 1944 a Plötzensee. La Germania ha vissuto l'esperienza totalitaria fino alla sconfitta totale, finendo per essere più pesantemente distrutta. In Italia, invece, con la Resistenza si è imposta una forte spinta in grado di recuperare dignità e onore nazionale e di portare l'Italia nell'ultima fase della seconda guerra mondiale al fianco degli Alleati».

In questo periodo, tra il 1943 ed il 1945, fascisti ed antifascisti lottarono gli uni contro gli altri. Fu una guerra civile?
«Diciamo che c'è stata una componente di guerra civile. C'è stata una guerra di liberazione, una guerra patriottica, perché l'obiettivo fondamentale della Resistenza, sia dei partigiani, sia dei militari che non vollero aderire alla Repubblica di Salò, era di riconquistare l'indipendenza nazionale con la libertà. Poi è stata anche guerra civile, senza dubbio. Su questo siamo andati oltre una rappresentazione retorica della Resistenza. Ne abbiamo vissuto tutte le facce».

Italia e Germania continuano ad essere nazioni deboli?
«Decisamente no. Le preoccupazioni che la Germania potesse prendere una strada diversa con la riunificazione, si sono rivelate inconsistenti. E anche l'Italia è divenuta, dopo essersi liberata dal fascismo, una nazione affidabile e sicura di sé. Ciò ha molto a che vedere con l'Europa. E' una fortuna immensa che si sia riusciti a creare con l'Unione Europea un'entità responsabile di aver promosso il benessere e in grado di offrire sotto il proprio tetto un'esistenza sicura in una condizione di stabile pace».

Il Risorgimento, il movimento di liberazione italiano, è stato animato dal senso di superiorità culturale basata sulla grande storia dell'Italia antica e medievale. E allo stesso tempo da un forte senso di reale arretratezza. Non è rimasto più nulla di questo modello romantico?
«La fondazione dello Stato nazionale italiano segna per l'Italia l'ingresso nella modernità. Si è trattato della prima condizione per poter superare l'arretratezza in cui nel complesso eravamo rimasti. La frammentazione in tanti piccoli Stati, tra i quali il più solido Regno di Sardegna, il Regno delle due Sicilie e lo Stato della Chiesa, ci rendevano privi di forza, un'entità insignificante ai margini dell'Europa. Facendo della nazione uno Stato, siamo entrati sulla scena europea. Malgrado tutti i disastri che si sono succeduti, lo Stato nazionale è stata la forma grazie alla quale siamo riusciti a diventare un soggetto politico essenziale in Europa».

Nell'era della globalizzazione, le frontiere diventano sempre più permeabili e importanti. A che ci servono quindi ancora le nazioni?
«Perché Europa significa unità nella diversità . E' così che l'Europa è sorta ed è questa la via che essa deve continuare a percorrere. Non ci può essere uno stato europeo. Le nazioni sono una realtà storica e culturale, e in esse si incarna la memoria collettiva. E questi sono valori che non devono scomparire con l'eliminazione delle frontiere. I confini in un certo senso incarnavano l'eredità negativa del nazionalismo. Quanto meno in Italia, quello nazionale fu un movimento liberale. Successivamente esso, non solo in Italia, è scivolato nel nazionalismo che infine ha portato a due terribili guerre mondiali. E' una grande conquista il fatto che non esista più l'Europa delle barriere e delle contrapposizioni nazionali. Durante il mio incarico di Ministro degli Interni, con l'entrata dell'Italia nel 1998 nell'Area Schengen non ho potuto rinunciare ad andare al Brennero per rimuovere la barriera con l'Austria. Lungo questo confine nel XX secolo per due volte si sono scontrati gli eserciti delle nostre nazioni. E' stata una bella esperienza vedere che questo confine è divenuto superfluo mentre invece le nazioni continuano ad esistere».

Che cosa la Germania potrebbe imparare dall'Italia?
«Preferirei non rispondere direttamente a questa domanda perché avrebbe qualcosa di presuntuoso. Ma penso che ci siano buone ragioni perché la Germania, malgrado le nostre difficoltà attuali, possa guardare all'Italia con stima e fiducia. Nel dopoguerra siamo riusciti a ricostruire il Paese e a portarlo al benessere. Dopo la terribile esperienza del fascismo abbiamo ritrovato la democrazia. Oppure un altro esempio: siamo riusciti a tenere testa al terrorismo rosso degli anni 70 ed 80 che costituiva una sfida molto più radicata del terrorismo tedesco. Da noi, tra l'altro, rimase vittima del terrore un grande statista, Aldo Moro. Penso che il dinamismo e la creatività caratterizzino il nostro sviluppo più recente. Non so se la Germania può imparare qualcosa da noi ma può certamente contare su di noi. L'Italia è una culla della civiltà europea. E' quello che conta».

E che cosa invece l'Italia potrebbe imparare dalla Germania?
«Tanto. Ora stiamo vivendo le conseguenze di una crisi globale, la più grande dopo quella degli anni '30 del Novecento, la Germania vi reagisce in modo esemplare. Quello che apprezziamo della Germania è la grande capacità di coesione sociale e la grande produttività e competitività della sua economia. Potremmo certamente imparare qualcosa della disciplina democratica che regna da voi. La Germania è uno Stato estremamente stabile ed efficiente. Lo apprezzo molto. Abbiamo fiducia nei confronti della Germania, e forse la cosa più importante: insieme, tedeschi ed italiani, abbiamo scritto la storia dell'Europa unita».

In passato i partiti hanno offerto ai cittadini una sorta di casa politica. Gli ambienti sociali creati dai partiti sono oggi in fase di dissoluzione. I partiti hanno perso irrevocabilmente questa forza di formare degli ambienti sociali?
«Sono chiamati a riacquistare tale capacità , non vedo altra via. Non saprei quali altre forme altrimenti potrebbe assumere la vita democratica, la partecipazione democratica. Certamente è molto diminuita la forza dei partiti di mantenere il legame con i cittadini e di legarli a sé. In questo senso i partiti si sono impoveriti. Ma sono chiamati a riacquistare forza, insieme con tutte le espressioni della società civile. Una cosa è sicura, plebisciti e referendum non possono sostituire la democrazia rappresentativa, che è e continua a rimanere la migliore forma di democrazia e presuppone l'esistenza di partiti forti. Qualora i partiti non dovessero più essere in grado di coinvolgere i cittadini e organizzare il consenso, sarei allarmato per quanto concerne il nostro futuro».

Circa 20 anni fa è crollato il vecchio sistema partitico italiano. Ci sarebbe da pensare che 20 anni sarebbero dovuti essere sufficienti per crearne uno nuovo e stabile. A mio avviso, però, non sembra proprio.
«La Sua impressione è giustificata e ben motivata. Non siamo riusciti a trovare un nuovo assetto politico che fosse stabile. Speravamo di pervenire, attraverso riforme elettorali, ad un sistema partitico bipolare solido: da una parte il centro-destra, dall'altra il centro-sinistra, nella chiarezza dell'alternanza. Sembrava essere tanto semplice, ma non lo fu. Vi sono state invece nuove escrescenze, nuove frammentazioni. A ciò si aggiunge che ci sono anche molti personalismi dentro e attorno ai partiti, il ché, in effetti, non contribuisce alla stabilità».

Aprendo i giornali italiani, ogni giorno mi imbatto con tenace regolarità già nelle prime pagine in scandali politici, intrighi ogni giorno, come si usa dire in Germania, "si manda in giro per il paese una nuova scrofa ". Non è certo qualcosa di accattivante nei confronti della politica italiana.
«In effetti, non è piacevole. Troppo spesso si scelgono toni troppo clamorosi, troppo eccessivi, nel giudizio si manca di misura, molte analisi sono contraddistinte da un certo estremismo. Tutto questo contribuisce a inasprire la tensione politica. I partiti si scontrano, si dividono, tutto questo in un certo modo è normale in una democrazia. In Italia, tuttavia, ciò degenera in una vera e propria guerriglia politica».

Lei crede che l'attuale Governo guidato da Silvio Berlusconi reggerà?
«Io credo che un Governo regge finché dispone della maggioranza in Parlamento e opera di conseguenza».

E' stato appena deciso che il 6 aprile inizierà il processo nei confronti del Presidente del Consiglio Berlusconi. Lei che ne pensa?
«Penso che abbia le sue ragioni e buoni mezzi giuridici per difendersi contro le accuse. Sia la nostra Costituzione, sia le nostre leggi garantiscono che un procedimento come questo, in cui si sollevano gravi accuse che il Presidente del Consiglio respinge, si svolgerà e concluderà secondo giustizia. Confido nel nostro Stato di diritto».

Lei conosceva personalmente lo scrittore e regista Pier Paolo Pasolini ed ha più volte litigato pubblicamente con lui. Pasolini criticò aspramente la politica e la società italiana, Lei lo accusò di dipingere tutto di nero. Come vede le sue critiche oggi?
«Conoscevo bene Pasolini, ci incontrammo spesso e ci stimavamo a vicenda. Fu un poeta, un visionario e le sue visioni erano spesso cupe. Ma senza dubbio presagì alcuni sviluppi che poi si verificarono veramente. Il suo pessimismo non era del tutto infondato».

La Sua autobiografia contiene anche un'autocritica: Lei descrive il Suo cammino da comunista a socialdemocratico. Che ne rimane dell'idea del socialismo che ha ispirato tanti uomini proprio in Italia?
«E non solo in Italia ! Rimane l'ideale dell'emancipazione del mondo del lavoro, e più in generale l'ideale della giustizia sociale in società che hanno visto crescere le disuguaglianze. E' completamente fallita, di contro, l'idea di un sistema economico che fosse un'alternativa valida al sistema capitalistico e addirittura all'economia di mercato».
20 febbraio 2011

Mafia, il pentito Naimo al processo: "Così venne ucciso De Mauro su ordine di Riina"

Palermo - (Adnkronos) - "Lo prelevarono sotto casa e forse lo buttarono in un pozzo. Fu ucciso perché scriveva di Cosa Nostra: dava fastidio con i suoi articoli". Il neo collaboratore, arrestato nell'ottobre 2010 e subito pentito, ha detto alla Corte d'Assise di avere appreso i particolari sul delitto nel 1972 da Emanuele D'Agostino, un piccolo mafioso palermitano Palermo, 18 feb. - (Adnkronos) - Gli ultimi istanti di vita del giornalista Mauro De Mauro, scomparso la sera del 16 settembre 1970 da Palermo sono stati raccontati oggi in aula dal neo collaboratore di giustizia Rosario Naimo al processo per il sequestro e l'omicidio di De Mauro. Naimo, arrestato nell'ottobre 2010 e subito pentito, ha detto alla Corte d'Assise, rispondendo alle domande del pm Sergio De Montis, di avere appreso i particolari sulla morte di De Mauro nel 1972 da Emanuele D'Agostino, un piccolo mafioso palermitano.

"Quando nel 1972 tornai dagli Stati Uniti a Palermo -racconta Naimo- chiamai al telefono Emanuele D'Agostino, e lui mi raggiunse subito in un appartamento a Ballaro', dicendomi per prima cosa che lo avevano affiliato. Era euforico e incomincio' a raccontarmi subito un sacco di cose. Voleva fare bella figura con me per dimostrarmi che anche lui era diventato un mafioso e che era diventato importante. "Prima mi racconto' tutto sulla strage di viale Lazio, poi - prosegue Naimo - mi disse come fu ucciso Michele Cavataio e infine mi disse 'la sai quella del giornalista De Mauro, hai sentito che e' successo?' ma io negli Stati Uniti non avevo ancora sentito cosa fosse accaduto. Cosi' mi racconto' che De Mauro fu preso e ucciso su ordine dello 'zio Totuccio', cioe' Toto' Riina".

Inizia cosi' il racconto degli ultimi istanti di vita di De Mauro: "Emanuele D'Agostino lo colpi' al viso con il calcio della pistola chiamandolo con un nome diverso, mentre De Mauro stava uscendo dalla sua macchina. Insieme a D'Agostino c'era un ragazzo, un picciutteddu. Pero' non so il suo nome. A quel punto, De Mauro era pieno di sangue e stonato e il giovane si mise al volante nella machcina di De Mauro insieme a D'Agostino. De Mauro continuava a pensare ad un equivoco e ribadiva: "Ma io sono Mauro De Mauro".

"Poi D'Agostino mi racconto' che lo portarono in un posto dove c'era lo 'zio Totuccio', cioe' Riina e - riferisce Naimo - gli fu detto 'e, caro Mauro De Mauro...'. A quel punto il giornalista capi' che non si trattava di un equivoco e subito dopo venne ucciso. Lo tenevano fermo con la pistola". Ma per l'omicidio di Mauro De Mauro, secondo quanto racconta sempre Rosario Naimo, "c'era lo star bene di Stefano Bontade, che disse agli altri di fare tutto quello che diceva lo 'zio Totuccio' e di stargli vicino". Naimo ha qualche dubbio sul posto in cui venne poi portato Mauro De Mauro. "Forse a Fondo Amari, ma non ne sono molto sicuro perche' forse faccio confusione con l'altro racconto di D'Agostino sulla strage di viale Lazio. So pero' che fecero sparire il corpo di De Mauro".

Durante il primo interrogatorio, Naimo aveva parlato di un pozzo in cui il corpo di De Mauro sarebbe stato gettato dopo l'omicido. "Forse e' vero -dice ancora- ma sono ricordi del 1972, e' possibile che lo abbiano gettato in un pozzo. Ma non lo posso confermare al cento per cento". Sempre secondo il racconto di Rosario Naimo, insieme a Toto' Riina, l'unico imputato del processo per l'omicidio De Mauro, ci sarebbero state altre persone: "Ricordo pure Madonia, ma forse faccio confusione". Quando parla degli altri mafiosi li chiama con nome e cognome, da Calogero Bagarella a Giovambattista Ferrante, da Giacomo Gambino a Emanuele Badalamenti. Ma appena nomina il capo mafia Toto' Riina, Naimo lo chiama con deferenza 'il signor Riina'.

Il neo pentito di mafia Naimo ha anche raccontato i motivi che lo hanno spinto, nell'ottobre 2010 subito dopo l'arresto, dopo una lunga latitanza, a collaborare con la giustizia. "Gia' nel 1993 Cosa nostra mi aveva fatto schifo, ero molto deluso e lo dissi anche a Giovambattista Ferrante quando lasciai Palermo e mi accompagno' in Corsica. Ero deluso perche' quando mi affiliarono la prima cosa che facemmo era stata quella di comprare una mucca ad un poveretto a cui era morta. Noi invece eravamo terroristi, e' stato tutto qusto terrorismo a farmi schifo. Era da tempo che volevo collaborare, poi ebbi l'occasione e l'ho fatto consapevole di quello che facevo".

Rispondendo alle domande del pm Sergio De Montis, Naimo ricorda che "dall'89 al '93 sono stato latitante a Palermo, nel '93 lasciai Palermo e da allora mi sono totalmente distaccato da Cosa nostra e non ho piu' avuto contatti con la mafia. Lo dissi nel '93 proprio a Giovambattista Ferrante (anch'egli poi pentito ndr). Gli dissi che non mi piacevano piu' i modi di tutto quello che facevano e lui, con le lacrime agli occhi, mi rispose 'e lo dici a me?'. Io gli risposi 'se tuo padre fosse qui, mi darebbe ragione e direbbe che non era questa Cosa nostra quando eravamo entrati'".

Ecco il testo della canzone "Chiamami ancora amore" di Roberto Vecchioni, che ha vinto "Sanremo 2011"

Roberto Vecchioni
E per la barca che è volata in cielo
che i bimbi ancora stavano a giocare
che gli avrei regalato il mare intero
pur di vedermeli arrivare
Per il poeta che non può cantare
per l’operaio che non ha più il suo lavoro
per chi ha vent’anni e se ne sta a morire
in un deserto come in un porcile
e per tutti i ragazzi e le ragazze
che difendono un libro, un libro vero
così belli a gridare nelle piazze
perché stanno uccidendo il pensiero
per il bastardo che sta sempre al sole
per il vigliacco che nasconde il cuore
per la nostra memoria gettata al vento
da questi signori del dolore
Chiamami ancora amore
Chiamami sempre amore
Che questa maledetta notte
dovrà pur finire
perché la riempiremo noi da qui
di musica e di parole
Chiamami ancora amore
Chiamami sempre amore
In questo disperato sogno
tra il silenzio e il tuono
difendi questa umanità
anche restasse un solo uomo
Chiamami ancora amore
Chiamami ancora amore
Chiamami sempre amore
Perché le idee sono come farfalle
che non puoi togliergli le ali
perché le idee sono come le stelle
che non le spengono i temporali
perché le idee sono voci di madre
che credevano di avere perso
e sono come il sorriso di Dio
in questo sputo di universo
Chiamami ancora amore
Chiamami sempre amore
Che questa maledetta notte
dovrà pur finire
perché la riempiremo noi da qui
di musica e parole
Chiamami ancora amore
Chiamami sempre amore
Continua a scrivere la vita
tra il silenzio e il tuono
difendi questa umanità
che è così vera in ogni uomo
Chiamami ancora amore
Chiamami ancora amore
Chiamami sempre amore
Chiamami ancora amore
Chiamami sempre amore
Che questa maledetta notte
dovrà pur finire
perché la riempiremo noi da qui
di musica e parole
Chiamami ancora amore
Chiamami sempre amore
In questo disperato sogno
tra il silenzio e il tuono
difendi questa umanità
anche restasse un solo uomo
Chiamami ancora amore
Chiamami ancora amore
Chiamami sempre amore
Perché noi siamo amore

20 febbraio 2011

mercoledì 16 febbraio 2011

L’Italia unita e la scoperta della mafia

di Carlo Ruta
Già prima dell’unificazione del paese sotto la dinastia sabauda, alcuni miti resistenti che i viaggiatori europei dell’ultimo Settecento avevano irradiato della Sicilia, a partire da quello di Palermo «città felicissima», prendevano a venir meno: non senza fondamento. Di massima, gli osservatori stranieri in quei decenni usavano toni cupi nell’annotare la città, sottolineando più che in passato il disarmante spettacolo dei poveri, il commercio decaduto, il terrore borbonico, lo spionaggio, le brutalità, la corruzione degli uffici. La capitale siciliana si mostrava in effetti come il centro di una suppurazione sociale e politica. E benché non tutto apparisse in disordine, pure in virtù dei commerci e delle relazioni che intessevano i protagonisti dell’industria, i più importanti dei quali stranieri, come gli Ingham e i Whitaker, i deficit civili riuscivano ad adombrare le curiosità architettoniche, il paesaggio, la storia millenaria. Non venivano riconosciute realtà criminali di rilievo, perché il regime poliziesco dei Borboni di Napoli in qualche modo le oscurava. Qualcosa avveniva tuttavia nella segretezza delle comunicazioni di Stato. Il procuratore generale di Trapani Pietro Ulloa in un rapporto del 1837 destinato al ministro della Giustizia Parisio, diceva di una consorteria occulta, radicata nella vita e nelle consuetudini dell’isola, che reggeva sull’intimidazione e sul delitto. Non si trattava beninteso di un fatto atipico, distante da quanto avveniva gli Stati italiani ed europei del tempo. Tutti i centri del continente ospitavano società segrete che si nutrivano di delitti. Venivano registrati comunque dei fatti, delle situazioni attive, che nei frangenti successivi, fermentati dalla questione mafiosa, avrebbero fatto il nucleo della «differenza» siciliana.

L’unificazione del paese, con i suoi laceranti risvolti civili, a partire dall’irriducibile contenzioso fra il potere centrale e il Meridione, frustrato e per forza di cose rivoltoso, creò comunque le condizioni perché le problematiche sociali delle regioni più emarginate, a partire dalla Sicilia, esplodessero e acquistassero una visibilità inedita. Da prospettive eterogenee vennero allora le prime interpretazioni del fenomeno mafioso, sotto il peso della realtà effettiva, investigata perlopiù direttamente, ma dietro pure una varietà di sollecitazioni, divise fra la diplomazia, l’economia, la politica. L’unità compiuta dell’Italia consentiva d’altronde di registrare meglio che in passato le tipicità e le differenze territoriali, di operare quindi confronti quantitativi e valutazioni, ponendo altresì a frutto gli strumenti delle scienze positive, che proprio in quei periodi registravano in ambito criminologico l’assunzione di paradigmi complessi, con gli studi di Cesare Lombroso. Riguardo alla interpretazione delle «differenze» siciliane si registrarono comunque varie fasi. Di primo acchito, testimoni ascoltati divennero, nel paese e all’estero, i cronisti e gli osservatori, tanti dei quali non italiani, che seguono gli eventi militari del 1860 e quelli civili di poco successivi. Acquistarono poi rilevanza i rapporti di prefetti e magistrati, di massima non siciliani, circa gli alti indici di criminalità nelle aree centro-occidentali. Stabilirono infine dei punti fermi, a dispetto delle differenze di valutazione, gl’inquirenti governativi e parlamentari, i notisti politici, gli economisti e i sociologi che nell’isola si recarono, a partire dalla metà degli anni settanta, per verificare le condizioni dei contadini e, maggiormente, per indagare quel fenomeno ormai ineludibile che veniva largamente riconosciuto come mafia. Si trattò in sostanza di passaggi nodali, su cui è il caso di dare un minimo ragguaglio.

Nel 1860 si ritrovarono in Sicilia un gran numero di osservatori, i più dei quali al seguito di Garibaldi, la cui iniziativa militare, godette ovviamente del massimo interesse, non soltanto in Europa, per quanto avrebbe potuto nei difficili equilibri continentali. Tali osservatori si coinvolsero negli eventi, scrutarono, annotarono, diffusero sui giornali europei e d’oltreoceano i loro reportage. Di lì a poco avrebbero dato alle stampe i loro diari, non di rado con buoni risultati di vendita. La componente più folta e motivata era quella francese, in sintonia con il «partito italiano», vicino a Garibaldi, che andava consolidandosi nella regione oltremontana. Vi si ritrovarono, fra gli altri, il celebre romanziere Alexandre Dumas, che in Sicilia era stato già nel 1835, i giornalisti Émile Maison e Ulric de Fonvielle, il giovane Èdouard Lockroy, che sarebbe divenuto alcuni anni dopo un politico di spicco, mentre la scrittrice Louise Revoil giungeva a Palermo al seguito di Vittorio Emanuele, nello stesso anno, quando occorreva dare ufficialità agli esiti del plebiscito. Cospicue risultarono comunque le rappresentanze di altre nazioni.

L’osservazione dei fatti che riguardavano la Sicilia non si fermò tuttavia alle operazioni militari del 1860. A tenere vivo l’interesse verso l’isola concorsero una serie di eventi, di difficile interpretazione, degli anni successivi, a partire dall’intrigo dei pugnalatori. L’uccisione pressoché simultanea di tredici uomini in una notte del 1862 ottenne in effetti una risonanza straordinaria, che continuò fino alla conclusione del processo l’anno successivo, con diverse condanne a morte. E un clamore eguale, se non superiore, suscitò nel 1863 l’assassinio del generale garibaldino Giovanni Corrao, che voci del tempo addebitarono alle istituzioni sabaude. Era partita in realtà la resa dei conti del governo nei riguardi del radicalismo democratico e repubblicano, che nell’isola avrebbe acceso rivolte e determinato l’eccidio di Fantina a opera delle truppe sabaude, per chiudersi poco dopo con i fatti di Aspromonte. Fu comunque la peculiarità e la continuità dei fatti a fissare l’interesse. Nello stesso anno destò impressione il rapimento dell’industriale britannico James Forester Rose, avvenuto in una località vicino Palermo mentre viaggiava in carrozza con la figlia. Per gli inglesi non si trattava della prima volta. Già nel 1848 John Barlow, direttore della ditta Woodhouse, era stato rapito con il contabile Alison, e liberato cinque giorni dopo dietro il pagamento di cinquecento onze. Ma dopo il 1860 le condizioni erano altre, e l’evolversi delle cose corroborava l’opinione che andava affermandosi nel continente. Nel 1865 l’inglese William Moens rischiò di essere catturato da briganti nei pressi di Randazzo, ma curiosamente fu rapito nei pressi di Paestum, per essere rilasciato dopo il pagamento del riscatto. Come in altri casi, si accesero discussioni, e non solo. Appena un anno dopo la vicenda venne raccontata dallo stesso Moens in un libro, English travellers and italian brigants, che, uscito appena un anno dopo, registrò in Inghilterra, e non solo, un discreto successo.

Nelle opinioni pubbliche continentali si radicava in sostanza l’idea, vantaggiosa per i governi sabaudi che pianificavano la repressione, di un Sud italiano e di una Sicilia incivili, omertosi e infestati da bande criminali. In tali casi non si trattava propriamente di mafia. Era banditismo, privo di ogni altra connotazione. Per i giornali del tempo faceva tuttavia poca differenza. Il nesso tra i briganti, l’omertà sociale e le consorterie dei malfattori che serravano i centri urbani veniva dato per scontato. Costituiva una sorta di sottinteso, corroborato peraltro dagli interventi dell’Agenzia Stefani, che, già devota a Cavour, sosteneva le iniziative centralistiche della Destra.

La conoscenza della mafia maturava intanto sul campo, attraverso il confronto con la quotidianità dell’isola. Dai rapporti di alcuni prefetti e di altri pubblici funzioni cominciava a delinearsi un sistema, che corroborava la nozione di una Sicilia distante dalla normalità e, per certi versi, dai trend continentali. Il sottosuolo delle città, scandagliato pure con rigore sociologico, dietro sollecitazioni di vario tipo, cominciava in realtà a rendersi visibile. Il prefetto di Palermo Gioacchino Rasponi, in un rapporto richiesto dal ministro dell’Interno nel 1874, quando resisteva ancora il governo della Destra, rappresentava la mafia come una consorteria ampia, presente in pressoché tutti i ceti sociali, espressione comunque di un diffuso pervertimento morale, reso pure possibile dai retaggi del passato regime borbonico. Nello stesso periodo, ancora su sollecitazione del ministro, il prefetto di Trapani, Cotta Ramusino, convinto pure lui che la mafia fosse il risultato di un pervertimento del senso morale, ne spiegava l’esistenza con l’ingordigia dei ceti medi, soprattutto artigianali, e la tradizione dei ceti proprietari di ricorrere al braccio privato per farsi giustizia da sé, in definitiva per compiere le loro vendette. Dal canto suo, il prefetto di Girgenti Luigi Berti riteneva che la mafia fosse «un poco invidiabile privilegio della Sicilia». E rimarcando ancora i presunti deficit civili del sud e dell’isola si esprimeva quello di Caltanissetta, Guido Fortuzzi, che invocava nuove leggi repressive, dopo quella firmata nel 1863 dal deputato abruzzese Pica, che secondo lui era riuscita estirpare il «terribile brigantaggio napoletano».

Tale quadro di scoperte, oltre che travisamenti e pregiudizi, offriva elementi conoscitivi del fenomeno, con la enumerazione di dati sarebbero stati rielaborati con maggiore scrupolo sociologico dalle inchieste successive. Le analisi dei prefetti non erano comunque il solo percorso che portava alla conoscenza del fenomeno. Un altro, si direbbe il più fecondo, era costituito dalle investigazioni condotte dai magistrati sul terreno. È il caso di fare allora un breve passo indietro, ai primi anni settanta, perché una radicalità del tutto inedita assunse in quel periodo la sfida del procuratore del re a Palermo Diego Tajani, originario della Calabria. Riunendo indizi e dati, pure testimoniali, questo magistrato ebbe l’audacia di inquisire il questore Giuseppe Albanese, accusandolo di essersi servito di bande di malfattori per eliminare boss irriducibili e, addirittura, oppositori politici, sotto la protezione del prefetto Giacomo Medici del Vascello. Il generale Medici era allora una delle autorità più prestigiose del Regno. Dopo aver combattuto in tutte le campagne garibaldine, dal 1860, aveva guidato una colonna dell’Esercito Regio nella guerra combattuta nel 1866 contro l’Austria, finita con l’annessione del Veneto all’Italia. Aveva guadagnato per tutto questo il favore incondizionato della Corona e l’incarico di prefetto di Palermo, che avrebbe mantenuto fino al 1873. Il caso insorse, con effetti da scandalo, nel luglio 1871, quando il procuratore giunse a ordinare l’arresto di Albanese, accusandolo di aver fatto assassinare il malavitoso Santi Termini. Inaugurando una tradizione, Tajani finì con il pagare il gesto temerario con le dimissioni dalla magistratura, dopo l’assoluzione, ovvia, del questore per insufficienza di prove. Le sue requisitorie, fatte circolare in opuscoli, e i discorsi parlamentari, dopo che venne eletto deputato per la Sinistra nel collegio di Amalfi, ampliarono tuttavia la conoscenza del fenomeno criminale, mentre abbozzavano in qualche modo il paradigma giudiziario della lotta alla mafia.

Intorno la metà degli anni settanta, come si diceva, la situazione veniva riconosciuta dai prefetti come drammatica. Il governo Minghetti ne approfittò quindi per emanare, a firma del ministro degli Interni Girolamo Cantelli, una serie provvedimenti straordinari, che determinarono nell’isola repressioni indiscriminate. L’operazione ebbe tuttavia un costo politico, perché sotto la guida dell’aristocratico Nicolò Turrisi-Colonna, di cui il questore Ermanno Sangiorgi alcuni decenni dopo avrebbe documentato i rapporti con il boss dell’Uditore Antonino Giammona, la Sicilia dei notabili reagì con forza, mandando in parlamento 44 deputati d’opposizione, sui 48 che rappresentavano l’isola. La Sinistra, a partire dal 1876, non fu comunque da meno. Con l’esordio governativo di Giovanni Depretis si apriva infatti una stagione di violenze e abusi, resi possibili dai provvedimenti d’emergenza firmati dal ministro dell’Interno Giovanni Nicotera. Tutti in ogni caso si dissero convinti della necessità di investigare la sostanza della mafia. In un crescendo di tensione civile e politica, partiva quindi la stagione delle inchieste parlamentari e governative, oltre che quelle private.

La prima commissione parlamentare d’inchiesta sulle condizioni della Sicilia, istituita nel 1875, alimentò aspettative importanti. Chiusi però i lavori l’anno successivo, con la relazione del deputato di destra Romualdo Bonfadini, gli esiti, da molti osservatori, non solo italiani, furono considerati deludenti. Non si giunse a definire cosa fosse realmente la mafia, né si osò chiarire i punti di contatto con i ceti dirigenti, che non fossero quelli borbonici, malgrado si avesse alle spalle la vicenda Albanese-Medici. Ci fu comunque poco tempo per lamentare l’occasione perduta perché poco dopo, nel 1877, uscì per la casa editrice Barbera di Firenze un’inchiesta a due voci, che, senza recare l’imprimatur dello Stato, segnava una vera e propria svolta, soprattutto sotto il profilo sociologico. Gli autori, i toscani Raimondo Franchetti e Sidney Sonnino, entrambi di tradizione conservatrice, recavano l’intento dichiarato di rimediare ai deficit di conoscenza che riguardavano l’isola, convinti, al pari del «Times» di Londra, che gli stranieri conoscessero il sud del paese meglio degli italiani del settentrione. E tutto sommato centrarono l’obiettivo. Diversamente dai commissari dei due rami del parlamento riuscirono a comporre infatti, con un uso largo dei saperi scientifici del tempo, un’analisi rigorosa sulla condizione dei contadini e del fenomeno mafioso.

Franchetti, che elaborò il secondo tema, definì la mafia un’industria del delitto, opera di un ceto medio di facinorosi, una sorta di borghesia bellicosa e periferica, in grado di contestare il monopolio della forza esercitato dallo Stato. Ne spiegò le compenetrazioni con i poteri ufficiali dell’isola, portando a esempio la vicenda Albanese-Medici. Argomentò altresì che la modernizzazione dell'isola era stata fermata dalle protervie del ceto dominante, l'unico a far arrivare la sua voce fuori dall'isola, arrogandosi di rappresentarla tutta, oltre che al permanere del latifondo e delle sue fosche consuetudini. Contestò la tesi sull’ingovernabilità dei siciliani a causa di una loro supposta insularità d’animo, imputandola invece alle condizioni d’indigenza in cui era ridotta gran parte della popolazione. Riprendendo poi alcuni temi ricorrenti dell’illuminismo meridionale, addebitò pure ai ceti borghesi il persistere delle iniquità. La soluzione dei problemi siciliani era comunque di tipo centralistico. Più che in un atto di volontà delle popolazioni siciliane secondo Franchetti era da ravvisare infatti nell’autorità dello Stato centrale. C’era in definitiva quanto occorreva perché in Italia e all’estero la discussione sulla mafia registrasse ulteriori rilanci. E così fu.

venerdì 11 febbraio 2011

Mubarak si è dimesso, potere alle forze armate

Immenso boato di gioia esplode in piazza Tahrir. Obama: siamo all'inizio di una storica transizione Il vicepresidente egiziano Omar Suleiman ha annunciato in televisione che il presidente Hosni Mubarak ha rinunciato al suo mandato presidenziale e ha incaricato le forze armate di gestire gli affari dello stato. La piazza Tahir ha accolto con un immenso boato l'annuncio. Un tripudio di bandiere egiziane sventolate in piazza Tahrir con sottofondo dI fischi e grida di giubilo ha accolto l'annuncio delle dimissioni di Mubarak. Da un lampione viene agitato un fantoccio impiccato che era stato appeso gia' giorni fa.
IL DISCORSO DI SULEIMAN - Questo il testo integrale del breve discorso alla televisione di stato in cui il vice presidente egiziano Omar Suleiman ha annunciato le dimissioni del presidente Hosni Mubarak. "Cittadini, in nome di Dio misericordioso, nella difficile situazione che l'Egitto sta attraversando, il presidente Hosni Mubarak ha deciso di dimettersi dal suo mandato e ha incaricato le forze armate di gestire gli affari del paese. Che Dio ci aiuti".
GIOIA ESPLODE IN TUTTO PAESE - Egiziani in tutto il paese si stanno riversando nelle strade per festeggiare la notizia delle dimissioni del presidente Hosni Mubarak. Lo riferiscono testimoni. Il Cairo, Alessandria e altre citta' dell'Egitto sono stata invase da suoni di clacson e bandiere. Le persone scese in piazza si congratulano le une con le altre e urlano slogan come: "Lui e' fuori noi siamo dentro!" e "Il popolo ha abbattuto il regime".
MUBARAK E' A SHARM EL SHEIKH - Hosni Mubarak e' a Sharm-el-Sheikh. Lo hanno riferito fonti del suo partito Pnd. Praticamente abbandona dai turisti, anche Sharm festeggia l'uscita di scena di Hosni Mubarak: macchine che suonano il clacson, sventolando bandiere dai finestrini, si sono raccolte nella piazza del centro 'vecchio' della cittadina mentre un corteo di persone sfila per le strade, inneggiando all'addio del presidente. Nonostante il Rais si troverebbe proprio nella famosa localita' del Mar Rosso - nota in tutto il mondo per i suoi fondali - di lui la gente oggi non ha visto traccia. ''Quando viene qui c'e' sempre un ingente dispiegamento di forze dell'ordine e di sicurezza. Ma oggi non abbiamo notato nulla che potesse far capire che stesse qui o fosse in procinto di arrivare'', spiega al telefono all'ANSA Fabio Cesarotti, un italiano che da anni vive e lavora nella localita' turistica.
OBAMA: SIAMO SOLO A INIZIO TRANSIZIONE - Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha detto che l'Egitto ''e' solo all'inizio della sua transizione''. Obama ha detto che l'uscita di scena del presidente egiziano, Hosni Mubarak, rappresenta ''un momento storico'' e ''noi abbiamo il privilegio di esserne testimoni''.
ESERCITO: GARANTIREMO PASSAGGIO POTERI E ELEZIONI - Il Consiglio supremo delle Forze Armate egiziane garantirà "il pacifico passaggio dei poteri" ed "elezioni libere" nel Paese. Lo sottolinea il comunicato n.2 dei militari dopo una riunione del Consiglio. I militari si fanno inoltre garanti - recita il comunicato - delle "riforme legislative e costituzionali" promesse dal presidente Hosni Mubarak. Il testo è stato letto alla Tv di Stato da uno speaker e uno da un portavoce dell'esercito. Il palazzo è presidiato all'esterno dai manifestanti, che hanno impedito l'accesso ad alcuni ospiti previsti nei programmi mattutini, e costringendo la Tv a scusarsi per le assenze. Lo stato di emergenza verrà tolto in Egitto "una volta che saranno finiti i disordini". L'Esercito egiziano fa appello perché "si torni a una vita normale". Invitiamo "le persone nobili che hanno condannato la corruzione e chiedono le riforme", "a tornare a una vita normale", recita il comunicato. ''La voce dei cittadini egiziani, specialmente dei giovani, e' stata ascoltata: spetta a loro definire il futuro dell'Egitto. Ora ci siano elezioni libere, credibili e giuste''. Lo ha detto il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, durante un breve incontro con la stampa. Nel comunicato del Consiglio supremo della Difesa si afferma che i militari sono ''consapevoli'' della ''pericolosita' della situazione''. ''Studiamo misure da attuare'' per venire incontro alle aspettative del popolo, si afferma fra l'altro nel comunicato. Il Consiglio ha espressO ''apprezzamento'' a Hosni Mubarak per il ''ruolo svolto in pace e in guerra''.
AL ARABIYA: SARANNO SCIOLTI GOVERNO E PARLAMENTO - La televisione al Arabiya ha detto anticipando il contenuto di un comunicato del Consiglio superiore delle forze armate che saranno sciolti il governo e il parlamento.
EL BARADEI: E' PIU' BEL GIORNO DELLA MIA VITA - "Questo e' il piu' bel giorno della mia vita". Loi ha detto Mohamed El Baradei, una delle figure di spicco dell'opposizione in Egitto, secondo quanto riportato dalla Bbc. A proposito delle dimissioni del presidente Hosni Mubarak, l'ex direttore dell'Aiea ha dichiarato che l'Egitto "e' stato liberato dopo dieci anni di repressione" e che adesso si aspetta una "bella transizione".
AMR MOUSSA: ORA SONO OTTIMISTA - Il segretario generale della Lega Araba, Amr Moussa, si e' detto ''ottimista'' per il futuro dell'Egitto. Raggiunto telefonicamente dalla CNN, Moussa ha detto che ''ora il futuro dell'Egitto e' nelle mani del popolo egiziano''.
ISRAELE: SPERIAMO CHE LA PACE RESISTA - La speranza di Israele e' che le dimissioni del presidente egiziano Hosni Mubarak non abbiano ripercussioni negative sulla pace fra i due Paesi. Lo ha detto una fonte governativa israeliana, citata dal quotidiano Maariv.
GAZA, HAMAS FESTEGGIA 'INIZIO DELLA VITTORIA' - Hamas ha festeggiato le dimissioni del presidente egiziano Hosni Mubarak definendole ''l'inizio della vittoria della rivoluzione''. Nel contempo le strade della Striscia, controllate dal movimento integralista palestinese, sono piene di gente esultante.
SVIZZERA CONGELA POTENZIALI BENI MUBARAK - Il governo svizzero congela potenziali beni di Hosni Mubarak nella repubblica elvetica. Lo ha detto un portavoce del ministero degli Esteri.
ONU, BAN KI-MOON: ORA TRANSIZIONE ORDINATA - Il segretario generale dell'Onu, Ban Ki-moon, auspica che in Egitto possa avere luogo una transizione ''pacifica e ordinata''. Lo ha detto al Palazzo di Vetro Martin Nersirky, portavoce di Ban. ''Il popolo egiziano e' frustrato e ha chiesto riforme coraggiose - ha detto il portavoce - la transizione, ora, deve essere pacifica e ordinata''.
USA, BIDEN: GIORNO STORICO VERSO DEMOCRAZIA - Il vicepresidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha detto che quanto sta avvenendo in Egitto rappresenta ''un irreversibile cambiamento verso la democrazia''. ''A poche generazioni capita di cogliere l'opportunita' che il popolo egiziano sta cogliendo. Per l'Egitto e' un giorno storico'' ha detto Biden parlando in Kentucky. ''La voce dei cittadini egiziani, specialmente dei giovani, e' stata ascoltata: spetta a loro definire il futuro dell'Egitto. Ora ci siano elezioni libere, credibili e giuste'', ha detto Ban Ki-moon.
(Ansa) - 11 febbraio, 23:48

martedì 8 febbraio 2011

Tifosirosanero.it: la lettera aperta al presidente del Palermo Calcio Maurizio Zamparini

Maurizio Zamparini
Carissimo Presidente,
Il calcio a Palermo è indissolubilmente legato alla figura di Maurizio Zamparini. Una volta la maglia rosa era famosa nel mondo solo per la sua unica e magica combinazione di colori ma non certo per i risultati sportivi.
In questo quadro idilliaco c’è però qualcosa che non quadra e che ci disorienta, lasciandoci perplessi ed attoniti per ciò che riguarda il presente e il futuro di questa squadra. Proprio quest’anno crediamo che la società abbia trovato finalmente, nella persona di Delio Rossi, l’uomo giusto per portare avanti quel serio progetto basato sui giovani che può essere il fiore all’occhiello di una realtà moderna e proiettata nel futuro, quale vuole essere il Palermo calcio. Il nostro tecnico è persona leale, competente e appassionata e sta raggiungendo dei risultati eccezionali con il gruppo che ha a disposizione. Ma proprio nel momento in cui dovremmo essere più uniti e felici per il rendimento di un Palermo che vola, ripeto nel pieno rispetto dei programmi della società e senza fare follie finanziarie, non passa giorno che attraverso i media non appaia una crepa, una frizione, uno scontro, tra lei e il tecnico che porterà all’inevitabile scioglimento a fine campionato di questo rapporto.
Se è vero, come è vero, che Maurizio Zamparini è stato l’artefice della rinascita del calcio a Palermo, è anche vero che i grandi risultati si costruiscono tutti insieme con un lavoro d’equipe, ognuno per la sua competenza, che può portarci lontano.
Anche dal cuore della squadra, attraverso Miccoli, Migliaccio, e Pastore, si sono levate delle voci a tal proposito. Il mister sta lavorando benissimo, la squadra è con lui, la tifoseria condivide e lo rispetta, la classifica e le prestazioni parlano chiaro, quindi perché farci del male da soli?
Come tifosi e sinceri appassionati le chiediamo vivamente di sedersi attorno a un tavolo con Mr. Rossi per guardarvi in faccia e progettare serenamente il futuro. Un futuro che sarà più che mai rosa se i punti di riferimento dei tifosi palermitani saranno costituiti da un grande presidente come Maurizio Zamparini e da un grande allenatore come Delio Rossi, insieme per il bene del Palermo.
Viceversa un ulteriore e incomprensibile strappo sarebbe una grande delusione e un boccone amaro difficile da inghiottire.
Dal suo arrivo a Palermo però le cose sono cambiate e la società è cresciuta in maniera esponenziale tanto che, oggi come oggi, una delle poche certezze positive della nostra città è proprio quella che il Palermo calcio si trova stabilmente in serie A e compete alla pari con le grandi del calcio italiano. Zamparini ha risposto presente all’impegno che si è assunto nei confronti della città e degli appassionati, ed i tifosi hanno risposto egualmente presente tributandole il dovuto affetto, riempiendo lo stadio, e comportandosi sempre all’insegna della civiltà e dell’etica sportiva come pochi altre tifoserie in Italia.

L'intervista. Vendola: “Ora tocca all’opposizione”

Nichi Vendola
di Francesco Palladino
È l’uomo della “narrazione”, delle “fabbriche”, del “cantiere” programmatico, Nichi Vendola, il leader di “Sinistra, ecologia e libertà” (Sel). Con queste metafore ed immagini, Vendola disegna scenari politici suggestivi, affascina l’interlocutore, conquista le piazze. È un grande affabulatore che realmente è un competitore forte e credibile per Berlusconi sul piano mediatico e popolare. Nel messaggio inviato a “Libertà e Giustizia” per la manifestazione al Palasharp di Milano, Vendola dice che “c’è tutta un’Italia che non ne può più. La Nazione è tramortita, il paese è in ginocchio. Ciò che condannerà Berlusconi non sarà la triste e squallida vicenda di Ruby e delle altre ragazze ai festini; chi lo condannerà saranno i coetanei di Ruby, quei ragazzi e ragazze che oggi non hanno un futuro. Ecco, pensare che un’intera generazione per immaginare il proprio futuro debba prostituirsi: questo è il vero scandalo del berlusconismo!”. Vendola è nato a Bari il 26 agosto 1958, è stato deputato ed è governatore della Puglia dal 2005. Scrittore e anche poeta. Mi dice: “Abbiamo visto a Milano migliaia di persone che hanno un sentimento sparpagliato, a volte caotico, alla ricerca di un orizzonte e di una bussola, che dovrebbe essere il compito della politica e del centrosinistra in particolare. Per liberarci di Berlusconi dobbiamo capire bene cosa è il berlusconismo: in questi anni c’è stata una mutazione culturale, evidenziata con la marginalizzazione del valore sociale della scuola, della conoscenza e del sapere. La Tv commerciale ha sostituito gli apparati della formazione ed ha diffuso l’idea che non esiste la società ma il mercato, non siamo cittadini ma clienti, utenti, pubblico. Anche il centrosinistra è stato complice di questa regressione culturale”. L’attacco alla democrazia, secondo Vendola, si manifesta nella critica alla Costituzione, agli articoli 1 e 3 (uguali di fronte alla legge) e poi 21 (sulla libertà di stampa): “Il bavaglio sulla bocca di Santoro è grave quanto il bavaglio all’operaio di Pomigliano o Mirafiori. Oggi la modifica dell’articolo 41 è il momento di massima aggressione della destra (e di subalternità della sinistra). Se cambi quell’articolo, che prevede la responsabilità sociale e ambientale dell’impresa, vuol dire che vuoi ‘costituzionalizzare’ il metodo Marchionne, cioè l’irresponsabilità dell’industria verso la società. “Ecco perchè dico che le forze di opposizione devono ora costruire una storia, una ‘narrazione’, un cantiere programmatico che abbia la capacità di legare insieme diritti sociali e civili, diritti umani e ambiente. Voglio voltare davvero pagina. Non trovarmi con il berlusconismo senza Berlusconi. Vorrei vivere in un paese non berlusconiano, con Berlusconi che fa il nonno”.

Ma lei con la ‘narrazione’ e le ‘fabbriche’ può anche raccogliere tra gli elettori tanti consensi da portare alla vittoria il centrosinistra? D’altronde Giovanni Bachelet al ‘Palasharp’ ci ha ricordato che “in democrazia non basta avere ragione, ma dobbiamo anche convincere il 51% ad essere d’accordo con noi”.
“Nel passato, candidati del centrosinistra, icone del moderatismo, hanno preso schiaffi e sono stati sconfitti (un esempio, Rutelli). Io ho vinto due volte in una regione che è sempre stata percepita come una fucina politica per l’Italia (ricordo Moro e, sull’altro versante, Tatarella), e, in tempi recenti, come la cassaforte elettorale del centrodestra (Fitto). Secondo i campioni della tattica e della realpolitik del Pd per vincere bisogna trasferire tanti frammenti di idee e proposte dell’avversario nel proprio campo; poi fare un discorso che non turbi il perbenismo piccoloborghese che si suppone essere la cifra dell’opposizione: quindi non si deve essere comunisti, nè credenti alla mia maniera, ma essere neosagrestani. Ma i ceti medi di oggi sono diversi da quelli di una volta: perdono la fiducia nel futuro, sono angosciati dalla precarizzazione del lavoro, un giovane su due nel mezzogiorno non ha prospettive di impiego. Noi dobbiamo interpretare questa paura. L’Italia è finita nel pantano non perché qualcuno si è presentato come estremista, ma perché la politica è diventata una melassa informe. Se Marchionne vuole stracciare 100 anni di storia industriale e sindacale, dobbiamo reagire e non tacere”.

Quindi, Vendola candidato alle primarie del Pd – se ci saranno davvero- per quali obiettivi di governo immagina di battersi?
”Non sto giocando una partita per la mia carriera….intendo invece combattere per destrutturare il centrosinistra com’è adesso, per poter aprire il ‘cantiere’ di un nuovo centrosinistra. Finora esso si è sempre presentato come un compromesso precario e forzoso tra cosiddetti radicali e i riformisti. Ma così non si è mai entrati nel merito vero dei problemi. Finora una parte del centrosinistra ha pensato a come guadagnare la vittoria elettorale, certo importante, ma non ha lavorato per raggiungere il mutamento sociale e culturale. Per cui si può anche vincere alle elezioni, e insieme perdere la società. Al centrosinistra è accaduto più volte. Quindi le primarie per me sono il momento della discussione sulla coalizione e sul programma, compiuta….all’aria aperta. Discutere nel chiuso degli organi direttivi significa condannarsi ad un avvitamento continuo”.

Il segretario Pd Bersani, all’Assemblea nazionale, ha detto che siamo “in una emergenza democratica, economica, sociale, morale” e, per andare oltre Berlusconi, ha riproposto un’alleanza elettorale di “tutte le forze di opposizione responsabili” e poi un “governo costituente” per affrontare i problemi più urgenti e gravi. Le pare una via percorribile?
“Francamente spero che nessuno insista ancora sulla proposta del governo costituente, perché sarebbe un contributo alla campagna elettorale di Berlusconi. Si pensa ad un accordo con Fini e senza Di Pietro. E perché? Casini poi non andrebbe mai insieme a quello o a quell’altro. È il gioco dei veti e delle interdizioni. Una coalizione così non si può fare. Io non ho pregiudizi verso gruppi o persone, ma chiedo: posso fare un accordo con chi ha considerato giusta la riforma Gelmini? Che è il cuore del berlusconismo. Ma di cosa stiamo parlando? Fini cosa vuole fare? Lo ha detto chiaramente: rifondare il centrodestra; mentre io voglio rifondare il centrosinistra. Come possiamo stare insieme? A meno che non si dica: alle elezioni andremo con un accordo perché vogliamo liberarci di Berlusconi e subito dopo il voto, modificheremo la legge elettorale, faremo una legge sul conflitto di interessi e poi torneremo di nuovo alle urne”.

Non è un obiettivo programmatico di poco conto fare un governo per cambiare la legge elettorale….
“Ma è credibile e serio chiedere ora il voto per indire altre elezioni dopo sei mesi? Tolta la possibile intesa sulle regole, non è pensabile, dopo, giocare la partita nel campo della destra; né posso pretendere che un uomo di rango come Fini venga a giocarla in compagnia del centrosinistra. È autolesionismo puro: ogni volta che si parla di alleanza da Vendola a Fini la pattuglia parlamentare di ‘Futuro e Libertà’ rischia di perdere pezzi… Mentre è tempo di aprire il ‘cantiere’ del centrosinistra senza vincoli: la questione morale, il modello sociale, la libertà delle donne, la questione dell’immigrazione. Discutiamo dell’Italia che vogliamo, c’è un’Italia migliore di quella volgare che abbiamo sulle spalle ancora adesso”.

Ma lei ritiene che siamo alla vigilia di elezioni generali?
“I fatti politici e giudiziari si sviluppano in modo imprevedibile. Gli ingredienti decisivi variano di momento in momento. Oggi è Berlusconi che appare il più preoccupato per il ricorso alle urne. Sta vivendo queste settimane barricato nel Palazzo, come un qualunque ‘rais’ nordafricano. È attaccato alla poltrona. D’altronde la crisi del centrodestra è irreversibile, strutturale, non si capisce come si potrà ricomporre un quadro di stabilità. Anche la credibilità di quella classe dirigente è crollata. Adesso conterà molto la capacità che avrà il centrosinistra di mettere in campo una ipotesi di alternativa possibile e realizzabile”.

Vendola ci ha così portato a sognare un’Italia davvero diversa e migliore, con una politica pulita e carica di progetti. La sua ‘narrazione’ è importante: finchè Berlusconi e il berlusconismo non saranno sconfitti, saremo immersi nell’incubo. Dimissioni del premier, anzitutto. Arrivederci a domenica 13 febbraio, in piazza con le donne.
INTERVISTA PUBBLICATA SUL SITO
DI "LIBERTA' E GIUSTIZIA"

30 interventi a “Vendola: “Ora tocca all’opposizione””

1. Giovanni scrive:
8 febbraio 2011 alle 18:28
De Coubertein abita ancora a sinistra, per la quale- come emerge dal ragionamento di Vendola- l’importante é partecipare. Vincere diventa secondario, fondamentale é che si sia sempre e comunque “duri e puri”. Temo che con questi ragionamenti Berlusconi continuerà a dominare. Solo nella parte finale dell’intervista, il “narratore” ha un attimo di lucidità politica, non escludendo un’alleanza costituzionale e repubblicana, anche con un orizzonte temporale ristretto per poi tornare subito al voto una volta formulata una nuova legge elettorale e definite regole certe e democratiche che evitino i conflitti d’interesse.In questa fase, per tornare a vincere, la linea giusta é quella di Bersani. Solo che tanti grandi “illustri” pensatori fanno a gara per demolirla

2. marco tarantino scrive:
8 febbraio 2011 alle 18:27
Attilio, credo che sia ovviamente legittimo avere la propria opinione, ma meno legittimo è affermare il falso. Ti rispondo su tre punti: 1 le internalizzazioni fanno risparmiare alla sanità che riduce gli appalti alle aziende e cooperative private che spesso assumono con contratti superprecari e crea posti dfi lavoro a tempo indeterminato. 2 Il solare non interessa campi coltivati che vengono riutilizzati ma spesso è una risorsa per convertire le migliaia di ettari di terreno non coltivbato che è presente in regione (e comunque si è più volte detto che adesso si deve investire nel solare in città). 3 i festival musicali che sembri disprezzare (ai quali si aggiunge anche l’ex Arezzo wave) alimentano il turismo culturale e creano indotto e posti di lavoro. Credo che Vendola sia oggi l’unica vera alternativa politica er culturale a Berlusconi

3. Mauro Cavicchini scrive:
8 febbraio 2011 alle 18:25
Nichi Vendola sa parlare alla testa e al cuore della gente di sinistra come me. Esprime la migliore tradizione della migliore sinistra italiana ed è capace di innovarla e di proiettarla in un progetto di cambiamento del nostro paese. Questa è la modernità, a meno che non si voglia dire che è moderno chi sta con Marchionne e non con i lavoratori di Mirafiori che hanno votato no (e con quelli che hanno votato sì sotto ricatto). Credo che con Vendola, e con Sinistra Ecologia Libertà, possiamo farcela a cambiare il centrosinistra, a mandare Berlusconi a fare il nonno (o alla bocciofila, se preferisce), e anche a cambiare il paese sradicando il berlusconismo.

4. Patrizia von Eles scrive:
8 febbraio 2011 alle 18:23
Concordo con quasi tutto quello che dice Vendola. Credo anche che molta più gente che in passato sarebbe interessata non solo ad un cambio di governo ma alla costruzione di un nuovo modello di società. E’ un problema politico ma anche culturale e significa innanzitutto vincere il berlusconismo. Tuttavia bisogna prima mandare a casa Berlusconi. Certo il problema non è solo lui ma gli italiani che lo votano (confesso che faccio fatica a capire e come italiana, sopratutto all’estero, me ne vergogno). Ma Berlusconi (e non il berlusconismo) rappresenta oggi una vera emergenza democratica. Non riusciamo, unendo tutti coloro che sono d’accordo su questo, fare questo primo passo fondamentale per restituire al nostro paese regole uguali per tutti e rispettabili per poi tornare a confrontare opinioni anche diverse? Nella nostra storia questo è già successo! E se abbiamo una “bellissima Costituzione” è grazie a chi allora si rese conto che bisognava essere uniti per darsi regole condivise. Oggi ne abbiamo bisogno come allora

5. Rosanna scrive:
8 febbraio 2011 alle 17:59
Beati coloro che pensano che quest’uomo sia un uomo veramente di sinistra. Purtroppo tra quello che dice e quello che fa c’è un abisso. Ricordo quando in un’intervista alle iene ha detto che se l’ILVA di taranto non si fosse messa a norma con le emissioni entro il 31/12/2010 lui l’avrebbe fatta chiudere. Ora va dicendo che il problema l’ha risolto e che i valori sono rientrati nella norma, ma nei suoi sogni! come fa a fare certe affermazioni visto che l’ilva non si lascia monitorare? Questa è solo una delle tante balle colossali che Vendola ha raccontato ai pugliesi ma purtroppo queste cose nel resto d’Italia non si sanno

6. Tweets that mention Vendola: “Ora tocca all’opposizione”
Libertà e Giustizia -- Topsy.com scrive:
7. aldo45 scrive:
8 febbraio 2011 alle 17:58
Sono pensionato sempre piu incazzato credo nonostante tutto ancora nel PD e stimo molto il Mio segretario.Ma vendola mi piace, mi incantano le sue proposte.E spero che però anche lui si convinca che nel PD ci sono diverse anime,che bisogna fare i conti, altrimenti non si và da nessuna parte.

8. Romolo scrive:
8 febbraio 2011 alle 17:51
Niki, questa volta dobbiamo espatriare tutti? Volete regalare altri 20 anni alla destra? Vorrei ricordare che l’ ultima volta ciliegina sulla torta siete rimasti fuori dal Parlamento. Niki, siamo nel 2011 non nel 1800. Sveglia!!!

9. MASSIMO scrive:
8 febbraio 2011 alle 17:39
Le primarie non sono quelle del PD , come si dice ma quelle di coalizione, per cui bisogna mettersi d’accordo anche con chi sta nella coalizione oltre a lui. Quando parla delle primarie con si capisce qual’e’ l’argomento, e’ in stato confusionale, se entra nel PD allora e’ ‘una cosa , ma se si fanno per una coalizione allora bisogna vedere chi fa parte della coalizione e con loro stabilire le modalita di svolgimento. Il problema e’ che come si dice, il governatore vuole fare l’americano con i soldi degli altri. entri nel Pd cosi potra pretendere di fare le primarie come vuole lui. . E chiaro che gli aderenti hanno una quantita di partecipazione di granlunga superiore ai simpatizzanti del Pd. E nella ragione sociale del movimento e nella sua ragione di esistere . Entri nel Pd poi se ne parla.

10. Carlo scrive:
8 febbraio 2011 alle 17:33
Nichi Vendola sa portare avanti una nuova narrazione, sa concretizzare le sue proposte, sa essere convincente, ma non ha alle sue spalle un partito che davvero possa fare la differenza, di quelli che quando vincono si affermano con il 60% e quando perdono non scendono sotto il 20%. Utopia? No, semplicemente un partito del Socialismo Europeo, un partito del PSE. Se lo avesse sarebbe già premier.

11. Michele Trotta scrive:
8 febbraio 2011 alle 17:28
Cosa dire…finalmente qualcosa di sinistra. Sono un insegnante che il prossimo anno vado in pensione. Ha ragione sulla Contro riforma Gelmini e su questo ci giochiamo il futuro di tutti, nonni, figli e nipoti.

12. Francesco scrive:
8 febbraio 2011 alle 17:24
Stimo Nichi Vendola e condivido l’idea della necessità di una nuova narrazione collettiva, visto lo smarrimento di una parte importante dell’opinione pubblica, solo parzialmente riempito dalle immagini vuote che l’impero mass-mediatico del raís continu a pompare nelle teste di tutti noi dala fine degli anni ’70. Tuttavia mi sembra che lui inverta l’ordine: la narrazione nasce dall’azione, secondo me. A me piacerebbe vedere delineato un programma su alcuni punti molto sensibili. Il nostro è un paese in cui ognuno vive nell’incertezza: di perdere il lavoro, di non poter pagare il mutuo, di non poter avere accesso al mutuo, di non aver accesso agli ammortizzatori sociali di base in caso di disoccupazione, di non sapere come fare a pagare la retta della casa di riposo dei genitori, di non sapere se alla fine del percorso di studi ci sarà un lavoro all’altezza ad attenderlo… Perché Vendola non spiega con numeri e un piano credibile come pensa di dare fiducia e sicurezza alla nostra società? Quali sarebbero le sue priorità? Dove taglierebbe? Dove investirebbe? Vorrei vedere numeri affidabili, calcoli sul medio-lungo periodo, assuznione di responsabilità. Da lì potrebbe costruire un discorso più credibile, concreto e allo stesso tempo coerente con principi di sinistra. P.S.: vivo in Svezia e so cosa significa vivere in una società fortemente compettiiva (niente funzionari pubblici inamovibili a vita, nemmeno nell’educazione) dove tuttavia esiste sempre una rete di protezione che rende l’individuo (il perno della società svedese) sicuro delle proprie possibilità e autonomo.

13. Vincenzo Fiore scrive:
8 febbraio 2011 alle 17:24
@altilio pressi: le internalizzazioni in sanità portano a un risparmio per le casse regionali ed un aumento di stipendio (oltre che stabilità) per i lavoratori. Gli unici a perdere sono gli intermediari: agenzie interinali et similia, che non possono fare la “cresta” e non fanno più da serbatoio di voti per i politici più squallidi (con relative mazzette e scambi di favori). E’ stata una operazione economicamente, socialmente e moralmente esemplare ed è stata bloccata da Tremonti (non da Sacconi, che l’aveva approvata) per puri motivi propagandistici (non per niente i tecnici del ministero erano favorevoli). Questi sono i dati: tutti ampiamente documentati.

14. alessandra scrive:
8 febbraio 2011 alle 17:22
Per fortuna che NICHI c’è!! Finalmente idee, progetti concreti, volontà seria di cambiamento, apertura mentale contro l’ottusità squallida imperante, contro questa volgarità, contro questo svilimento del ruolo della donna nella società…sì, perchè le donne non sono solo belle e avide fanciulle di facili costumi o angeli del focolare. Ci siamo anche noi, che combattiamo nel nostro piccolo ogni giorno, contro i soprusi sul lavoro (da parte anche delle donne che o non vogliono rivali o non accettano che tu possa avere ambizioni professionali nonostante la famiglia), contro il “bella quindi stupida” (come se per essere intelligente devi essere per forza bruttina e sciatta), contro i mariti/compagni che pensano che se lavori lo fai per necessità o per gioco e quindi va bene ma non esageriamo (non è il mio caso, per fortuna! Il mio è un complice di cui vado molto fiera) e chi più ne ha più ne metta…. Forza Nichi. Vai dritto per la tua strada e noi ti seguiremo!

15. Leo scrive:
8 febbraio 2011 alle 17:12
Perfettamente d’accordo con il Presidente Vendola.É l’unico che parla di Sinistra. Il Pd,invece,é intento a riformare un nuovo centrodestra con Fini e Casini, quest’ultimo amico di Cuffaro….

16. Andrea scrive:
8 febbraio 2011 alle 17:11
La penso esattamente come Vendola non è possibile fare accordi con Fini e Casini, meglio un’opposizione vera che andare al governo con persone con cui non abbiamo nulla in comune.

17. mariano scrive:
8 febbraio 2011 alle 17:11
Un vero Centrosinistra non può fare a meno di Vendola. Se il PD vuole perdere si allei con Fini e Casini.

18. Mirko scrive:
8 febbraio 2011 alle 17:09
Fiorenza, lo sappiamo tutti che Vendola alle politiche si alleerà con Pd e Idv, da solo ovviamente non andrebbe da nessuna parte. Con l’affabulazione (che è tale se si guarda alle realtà in cui governa con Udc e a volte con Io Sud) vuole solo spostare l’attenzione sulla propria persona in funzione primarie.

19. PAOLO GALLETTI scrive:
8 febbraio 2011 alle 17:07
Benissimo, concordo largamente, ma ora ci vuole un programma concreto. Bisogna smetterla con il dire che vogliamo un paese diverso, è il momento di dire “come” lo vogliamo diverso e facendo “cosa”. Dall’economia alla scuola, dal parlamento alla sanità. Lavoriamoci sopra e vediamo se nasce un progetto che non sia di mille pagine ma che sia comprensibile e realizzabile. Su questo andiamo a misurarci con il niente del governo Berlusconi facendo presente che se le escort ci fanno perdere la faccia; la crisi economica, i tagli e le iniquità sociali ci fanno perdere il sonno niente può fraci perdere la ragione.

20. Franzis scrive:
8 febbraio 2011 alle 17:06
per un’Italia migliore, più giusta e che riesce a credere nel futuro … io sto con Nichi … Yes, we can !!!

21. fiorenza scrive:
8 febbraio 2011 alle 17:04
Sono d’accordo con Nichi Vendola su quasi tutto . Però gli chiedo: quanti anni ci vorranno per fondare un nuovo centro sinistra? Secondo me tanti, troppi, quindi vorrei che Nichi Vendola fosse più chiaro e si proponesse con forza per alleanze precise nel centro sinistra in vista di elezioni vicine. Sennò cade nella retorica e basta. Si rischia un pugno di voti. Forza Nichi!

22. Mirko scrive:
8 febbraio 2011 alle 17:00
Vendola: da quando è stato rieletto a governatore della Puglia il suo primo pensiero è l’occupazione della Presidenza del Consiglio. Mai un invito alle altre forze del centrosinistra, mai il nome di qualcuno che stimi nel centrosinistra. Lui è uno che non si arrampica ai nomi, ed è ovvio, nella sua logica un nome buono sarebbe solo un concorrente… Siamo di fronte a qualcuno che si propone come salvatore della patria e magari oggi ci sarebbe ancora Prodi al governo… Non mi piace Vendola da quando mi è chiara la sua logica: tutto e subito. Da elettore del centrosinistra dico meglio una donna come la Bindi o la Finocchiaro che fumosi cantieri e primarie come ossigeno. Non voglio morire berlusconiano ma neanche di berlusconismo… E diffido di chi andrebbe volentieri domani alle elezioni, quale migliore occasione poi col Porcellum?

23. ginotaleban scrive:
8 febbraio 2011 alle 16:57
...Vendola punta alla rifondazione del centrosinistra che è un intento nobile, senza dubbio, ma quanto tempo ci vorra? sarà pronto per l’alternativa alle prossime elezioni? … beh, credo proprio di no per quanto condivida il suo sogno riformatore. Credo invece che sarebbe molto piu realistico efficace e convincente tentare prima di tutto un leale ricongiungimento col PD e poi insieme cercare di riconquistare tutti quegli elettori che votano le micro forze di sinistra o quelli che se ne sono allontanati lasciando che il terzo polo trovi la sua strada nella convinzione che almeno in caso di prossime elezioni di berlusconi e berlusconismo se ne ha tutti davvero abbastanza
… la sua velata guerra al PD non produce che danni a quello stesso centrosinistra che vuole rifondare

24. VINCENZO scrive:
8 febbraio 2011 alle 16:55
l’unico ad aver intuito per tempo cosè il berlusconismo è senza ombra di dubbio Antonio Di Pietro, io stò con IDV.

25. luca scrive:
8 febbraio 2011 alle 16:52
Finalmente. Io sto con Vendola!

26. Silvana scrive:
8 febbraio 2011 alle 16:52
Il “sinistrismo” è una malattia della sinistra, che spesso ha privilegiato la retorica dell’utopia, assai preicolosa e con profonde tendenze autoritarie, a una laica concezione dello stato. Abbiamo visto come tutte le fantasticherie della sinistra si sono affievolite e sgonfiate (soufflè mal riusciti), mentre sempre più avanzava un’idea liberale dello stato. E anche la sinistra vi si è approcciata, prima socialdemocraticamente, poi sempre in modo sempre più liberale. Non credo che si debba abbracciare il liberalismo sfrenato (che è carneficina), ma mediarlo con contenuti solidaristici e culturali. Ma, con Altilio Pressi che ha scritto prima di me, sono completamente d’accordo: basta con la retorica fumosa della sinistra, bisogna pensare a lavorare e lavorare bene e di buona lena, con risultati chiari, concreti. I “racconti” lasciamoli agli scrittori, è il loro mestiere! Saluti. Silvana

27. altilio pressi scrive:
8 febbraio 2011 alle 16:42
spero con tutto il cuore, che Vendola non riesca in nulla in politica.. Lui arriva al cuore della gente col suo affabulare, che somiglia a Berlusconi, e si ferma lì. Basta vedere in che strana situazione è la Puglia, un baillame di festival di cinema,di taranta,di notti bianche,di festival rawe,di fiere commerciali fallimentari,di politica sanitaria confusa ,di forme di energie alternative che stanno rendendo il paesaggio pugliese uno specchio,rovinando la nostra agricoltura..non uno dico un posto di lavoro ha portato Vendola in Puglia,tranne le assunzioni a migliaia, portantini ,addetti lle pulizie ed alle mense negli ospedali,facendo crescere la spesa in modo smisurato,tanto da fargli bloccare i contributi del governo. Si candida addirittura a fare il *primo ministro*..ma siamo seri!

28. sandro scrive:
8 febbraio 2011 alle 16:37
Caro Niki, l’Italia non è stupida, ma sporca. O diciamo questo a gran voce o sarà tutto inutile. Con stima.

29. Marcello scrive:
8 febbraio 2011 alle 16:36
Verissimo ! il problema non è fare 1+1 per vincere le elezioni, ma dare speranza ad un paese degradato e inquinato dal berlusconismo. Serve una sussulto culturale prima ancora che politico che metta avanti a tutto la lotta alla mafia e alla corruzione. Spero tanto che il PD abbia il coraggio di intraprendere questo percorso e riallacciare un rapporto con tutti i cittadini. Vendola è una risorsa preziosa per questa difficile strada !

30. Michele scrive:
8 febbraio 2011 alle 16:16
Mi auguro con tutto il cuore che Nichi Vendola possa essere il prossimo Presidente del Consiglio. Le sue idee, il suo progetto per un’Italia migliore mi rincuorano di fronte allo sfacelo attuale. Io sto con Nichi.

lunedì 7 febbraio 2011

Una studentessa in Egitto: "Ho voluto diventare una giornalista per spiegare la situazione difficile della popolazione egiziana..."

Abbiamo ricevuto via mail il racconto di un'altra ragazza italiana. Leggete le sue parole, hanno fatto un giro lunghissimo: dal Cairo a Cagliari, ma passando per il Michigan, da dove siamo stati contattati. Sono una studentessa italiana residente al Cairo da ormai un anno e mezzo. Studio giornalismo presso l'Università Americana del Cairo e da alcuni mesi lavoro come reporter per il giornale egiziano Al Masry Al Youm, edizione inglese. La situazione al Cairo è chiaramente degenerata nelle ultime ore. Ho cercato molte volte di mettermi in contatto con giornali italiani, ma a causa dell'interruzione dei mezzi di comunicazione non mi è stato possibile. E quando sono riuscita, la delusione di capire che non c'e' volontà di ascoltare, mi ha fatto smettere; fino ad oggi, quando ho assistito ad un tentativo di omicidio di massa, e ho deciso che il motivo per cui ho voluto diventare una giornalista e' quello di spiegare situazioni difficili ed evitare che l'ignoranza e il disinteresse vanifichino lo sforzo degli egiziani di riappropriarsi dei propri diritti e dignità. Ci sarebbero molti aspetti da analizzare, ma il mio obiettivo, in queste ora di caos e di terrore, è chiarire alcuni punti di essenziale importanza per contestualizzare la situazione e chiedere con forza che l'Europa prenda una posizione chiara e netta affinché il presidente Mubarak si dimetta ora. Dalla manifestazione di venerdì 28, durante la quale le forze di polizia hanno brutalmente attaccato i manifestanti, si sono susseguite una serie di pacifiche e massicce manifestazioni senza precedenti. Ho preso parte alla manifestazione del 28 Gennaio nella zona di Giza, alla quale ha partecipato El Baradei , e presso Tahrir, piazza della Liberazione, centro principale delle proteste in Cairo. Posso testimoniare direttamente la brutalità e l'aggressività con la quale le forze di polizia hanno attaccato i manifestanti, lanciando gas lacrimogeno e getti d'acqua nel momento stesso in cui i cittadini hanno cominciato, pacificamente, a muoversi e cantare slogan anti-Mubarak. Nel caos di venerdì non tutti i proiettili lanciati erano di gomma; alcuni erano veri proiettili, come mi ha riferito Mohamed, dottorando egiziano in medicina di 34 anni, tornato dall'Irlanda per una breve vacanza poco prima dell'inizio degli scontri. "Mi hanno sparato venerdì mentre ero in Matareya square," Mohamed mi ha spiegato dopo avermi avvicinato per chiedermi di dare voce alla sua esperienza. "I colpi sono partiti presumibilmente da un tetto e mi hanno colpito al petto e al braccio destro. Ho cercato di togliermi i proiettili da solo e di aiutare altri feriti perché sono un medico. Dopo essere colpiti da proiettili, nulla può più spaventare. Per questo, non appena mi sono sentito meglio sono sceso di nuovo in strada a dimostrare per dire al regime che i proiettili ci rendono più forti." Molti egiziani in piazza Tahrir mi hanno avvicinata chiedendomi perché le televisioni straniere mostrassero sempre le stesse immagini, senza davvero spiegare cosa stesse accadendo e i soprusi e le aggressioni da loro subite. Ancora ora non so come rispondere loro, non so come spiegare la vergogna che provo per essere cittadina italiana ed europea, il profondo disgusto perché il mio paese è più impegnato a seguire i cambiamenti della vita privata del premier Berlusconi che la crisi in Egitto e la profonda vergogna per il silenzio dietro al quale l'Europa si e' trincerata per una settimana. Sono stata contattata da giornalisti e ogni volta che cercavo di spiegare l'accaduto ho percepito la totale mancanza di interesse ad ascoltare vicende di cui presuppongono di conoscere l'accaduto senza essere sul posto e, nella maggior parte dei casi, senza avere alcun background del contesto del quale si parla. Difficilmente si è parlato degli ospedali attaccati da vandali supportati dal regime, intrusi penetrati con coltelli e armi per accanirsi su medici e pazienti indifesi. Poche persone hanno analizzato il ruolo della polizia e dell'esercito in questa settimana. Dopo la violenta manifestazione di venerdì ed il successo dei manifestanti nel penetrare nella piazza della Liberazione, la polizia e' completamente scomparsa dalla circolazione ed e' stata rimpiazzata dall'esercito, chiamato a ristabilire la situazione senza intervenire con la forza sui civili. Ci sono state una serie di intelligenti quanto terribili giochi psicologici del regime diretti a terrorizzare i cittadini affinché non prendessero parte alle proteste e "capissero" che senza Mubarak l'ordine non e' garantito. La punizione collettiva è cominciata venerdì, quando ogni mezzo di comunicazione ha cessato di funzionare. Solo questo fa capire la prepotenza e l'aggressività del regime. Non penso sia stato abbastanza sottolineato lo stato d'animo di puro terrore che può suscitare la consapevolezza di essere completamente abbandonati al proprio destino, senza la possibilità di comunicare non solo all'esterno ma anche con i propri amici in Egitto per avere la certezza che tutto vada bene. La punizione è continuata nei giorni seguenti, facendo fuggire criminali dalle prigioni, con l'intenzione di seminare il panico tra i cittadini, distribuendo armi a delinquenti o a poliziotti in borghese. Tutte queste persone hanno e stanno terrorizzando i cittadini con il supporto e la direzione del regime, affinché il desiderio di tornare alla normalità e il timore di restare senza beni di prima necessità e senza denaro contante li convinca a cedere. I dimostranti pro-democrazia hanno dato prova di saper manifestare pacificamente, di sapersi organizzare senza alcun bisogno di armi ne' di polizia. Com'è possibile credere che sostenitori del regime si ricordino di supportare il proprio presidente dopo una settimana? Com'è possibile non capire che il regime è terrorizzato di perdere il proprio potere e sta reagendo con la forza per fermare i manifestanti? Com'è possibile non capire che Mubarak non manterrà promesse alle quali non ha mai dato seguito in 30 anni di dittatura; l'uso della forza di oggi lo dimostra, ancora una volta. Il presidente Mubarak non avrebbe mai avuto bisogno di reprimere pacifiche dimostrazioni con una tale violenza se davvero pensasse di lasciare il potere in pochi mesi. Dopo quanto è accaduto oggi, analisi superficiali e dichiarazioni vaghe non sono più accettabili.
FONTE: http://affrica.org/una-giornalista-al-cairo/