venerdì 31 dicembre 2010

Intervista all’on. Agostino Spataro. La Sicilia al tempo della globalizzazione


L'on. Agostino Spataro

di Diego Romeo 
On. Spataro, ho l’impressione che lei provi imbarazzo nel constatare che, da uomo appartato, ha una grande libertà di parola e di scrittura. Non mi spiegherei altrimenti la sua cortese resistenza a non farsi intervistare.
In verità, durante la mia lunga esperienza politica ho sempre cercato di pensare e di agire da uomo libero; anche da dirigente e deputato nazionale del Pci, partito regolato al suo interno dal “centralismo democratico”. l fatto è che mi danno fastidio l’attuale processo di omologazione, verso il basso, del ceto politico, l’asservimento della politica e di certa informazione agli interessi dei grandi gruppi finanziari e economici. uesta corsa affannata di uomini e donne che per un posto di consigliere o deputato o di assessore sono disposti a rinunciare alla loro libertà e dignità. a politica, i partiti mi appaiono costruzioni artificiose, ingannevoli, mirate a conseguire obiettivi di affermazione personale. Perciò, cerco di starne alla larga. Anche se, collaborando con “La Repubblica” e con altri giornali e riviste, mi sforzo di continuare a dare un contributo al cambiamento, sempre dalla parte dei lavoratori, dei giovani e della legalità. ose che non si possono fare più all’interno dei partiti, anche di sinistra, dove il confronto delle idee è praticamente vicino allo zero.
Andiamo al tema. Lei, che alla Camera ha rivestito importanti incarichi nelle commissioni parlamentari, continua ad occuparsi di relazioni internazionali. Da poco è tornato da Parigi dove ha partecipato a un seminario promosso da un organismo governativo francese. A bruciapelo le chiedo: ma ce l’ha oggi l’Italia una politica estera o si sente nostalgia di Andreotti e De Michelis?
 Il problema non è nominalistico. La tanto biasimata “prima Repubblica”, pur con ambiguità e condizionamenti esterni (Usa e Nato), riuscì a concepire un disegno relativamente autonomo al quale, da una certa fase in poi, contribuimmo ad elaborarlo anche noi comunisti, dall’opposizione. Era la politica estera possibile di una media potenza regionale legata agli Usa, ma in grado di sviluppare un’azione pacifica e di cooperazione, soprattutto negli scacchieri mediterraneo e mediorientale, che ha avuto un importante risvolto sul terreno politico e degli scambi economici e commerciali.  Insomma, allora, si riusciva a parlare un po’ con tutti: arabi e israeliani, persino con i sovietici. Nel mondo, l’Italia aveva tanti amici e non tanti nemici come oggi. ell’ultimo ventennio, l’immagine internazionale dell’Italia è stata stravolta, indebolita, ridicolizzata perfino. Pur essendo un paese co-fondatore dell’Unione europea, dell’euro, l’Italia tende ad allontanarsi dall’Europa che conta per collocarsi su una linea di ambiguità, oscillante fra gli interessi più retrogradi degli Usa e quelli molto più concreti di taluni gruppi economici e finanziari italiani,. A cominciare dalle imprese del presidente del Consiglio….
Ecco, affidarsi a Putin e a Gheddafi cosa significa e cosa comporta?
Per saperlo non bisognava, certo, attendere la pubblicazione da parte di Wikileaks delle informative dell’ambasciata americana. Già da qualche anno, si poteva notare la trasformazione delle relazioni bilaterali dell’Italia con la Libia e con la Russia in rapporti personali fra Berlusconi Putin e Gheddafi. astava osservare i dati dell’interscambio commerciale per accorgersi che la Russia di Putin e la Libia di Gheddafi erano diventati i nostri primi due fornitori d’idrocarburi (petrolio e gas). Come abbiamo notato su “Infomedi”, i due paesi, nel primo semestre del 2009, hanno coperto il 43% dell’import italiano d’idrocarburi.
Una copertura a dir poco imbarazzante.
 Certamente. Per altro, questa eccessiva concentrazione delle fonti di approvvigionamento ha modificato l’equilibrio tradizionale che poggiava su una più ampia diversificazione, soprattutto sui paesi della penisola arabica verso i quali si registra, di conseguenza, una caduta dei nostri volumi di export. Un dato inquietante che potrebbe condizionare la sicurezza e la continuità del nostro sistema di approvvigionamento energetico e quindi lo sviluppo economico e civile del Paese. In questo delicato campo, si è determinata una condizione di scarsa affidabilità politica che ha spinto l’Europa a promuovere, un po’ frettolosamente, la realizzazione di ben quarantasei nuovi rigassificatori, di cui dodici in Italia e due in Sicilia. Tutto ciò, a parte i colossali tornaconti di società e di persone che maneggiano gli accordi e i relativi contratti, come comincia ad emergere dalle inchieste giornalistiche e d’altra natura.
 I suoi numerosi saggi, a volte, hanno intravisto l’evoluzione della situazione mediterranea e mediorientale. Ha qualcos’altro in preparazione?
Per adesso, sto focalizzando le mie ricerche sul possibile nuovo ruolo del Mediterraneo all’interno dei nuovi scenari della globalizzazione. Questo, a me sembra, il punto di novità essenziale che apre una prospettiva inedita per fare uscire l’Italia, la Sicilia dalla crisi attuale. A mio parere, in questo nuovo ordine internazionale in formazione, pluricentrico e multiculturale, l’area mediterranea potrebbe, addirittura, riacquistare il ruolo di centralità perduto nel 1492, a seguito della scoperta dell’America.
Se n’è parlato al seminario di Parigi?
In realtà, a Parigi si è parlato dell’India, delle sue dinamiche economiche, demografiche e militari. Lo scorso anno è stata la volta della Cina. Due grandi potenze (Cindia) fra loro in concorrenza che influenzano la crescita economica e le relazioni fra gli Stati. Anche il Mediterraneo, la stessa Sicilia, sono, e sempre più saranno, influenzati dagli andamenti e dalle strategie espansive di queste due supereconomie. Se non altro perché rappresentano il luogo privilegiato dello scambio fra Cindia, Europa e Paesi arabi. Per avere un’idea del ruolo crescente di quest’area vitale del mondo basta osservare l’imponenza dei flussi commerciali da e per l’Europa che, attraverso il canale di Suez, solcano il Mediterraneo. Siamo in presenza di una colossale movimentazione di merci cui fa da pendant un flusso di capitali (in prevalenza arabi) che rendono il Mediterraneo e le zone contigue una delle aree più appetibili del Pianeta. Ovviamente, bisogna saper cogliere queste opportunità, attrezzandosi per attirare produzioni, merci e capitali d’investimento. La Sicilia, pur essendo il luogo baricentrico di quest’area, non sta facendo nulla per intercettare tali flussi e predisporsi a svolgere un ruolo dinamico di avamposto e non di periferia emarginata dell’Unione Europea. E’tempo, dunque, di progettare, agire. Ma qui tutto sembra fermo.
C’è oggi un partito, una politica adeguata a queste urgenze?
Spiace rilevarlo, ma all’orizzonte del nostro futuro prossimo non si intravedono un ceto politico e imprenditoriale preparati a questi compiti. In Sicilia, le principali forze politiche sembrano rassegnati alla marginalità, adattarsi all’eterna crisi che sta divorando perfino la speranza nel cambiamento. Altro che Cina e India! Qui manca la progettualità politica e l’autentico spirito d’impresa. Si evita il rischio e si brama l’incentivo. Si vivacchia con il clientelismo, con i contributi pubblici, le raccomandazioni, le mazzette, il pizzo, l’evasione fiscale. Mentre continua la fuga dei giovani siciliani verso il nord o l’estero. Il nuovo rapporto Europa - Asia è già iniziato e si svolge sotto i nostri occhi, nel cuore del Mediterraneo, ma la Sicilia è tagliata fuori. n solo esempio. Il movimento delle navi-container che salta completamente la nostra Isola. E non certo per malevolenza, ma perché la Sicilia non é attrezzata per accoglierlo. li approdi sono altrove: a Gioia Tauro, a Malta, ad Algesiras. Ora anche Tangeri si sta organizzando per divenire il più grande porto mediterraneo di collegamento fra i flussi asiatici e le Americhe. La Sicilia sembra condannata ad accogliere solo pericolosi impianti energetici (rigassificatori, centrali nucleari, discariche in gran quantità), per altro al servizio dell’economia del nord. Mentre i nostri politici tardo-populisti continuano a piangere sulla miseria del popolo e a crogiolarsi nelle loro modeste furbizie.
(dall’intervista a Agostino Spataro raccolta da Diego Romeo per “Grandangolo” del 24/12/2010)

I pugnalatori di Palermo

di ROSA FARAGI
La notte tra il primo e il due ottobre del 1862 “… fatti orribili funestarono Palermo…”. Il Giornale Officiale di Sicilia in prima pagina, la mattina seguente, così descrisse la vicenda: “Alla stessa ora, in diversi punti della città fra loro quasi equidistanti,
Rosa Faragi
13 persone venivano gravemente ferite di coltello, quasi tutte al basso ventre. I feriti danno tutti gli stessi contrassegni dei feritori, i quali vestivano a un sol modo, erano di pari statura, sicché vi fu un momento che si poté credere, uno solo”. Dalle prime indagini emerse che i 13 accoltellati non si conoscevano reciprocamente, non erano collegati ad ambienti malavitosi o politici e che gli accoltellatori agirono non per uccidere o per rapinare (l’unica vittima un gestore di un banco di lotto, morì dissanguato perché sfortunatamente la coltellata gli recise un’arteria ed i soccorsi tardarono ad intervenire). L’azione fu ben organizzata e probabilmente le indagini non avrebbero portato a nessun risultato se, uno degli accoltellatori, non avesse avuto la sfortuna di imbattersi, dopo aver ridotto a mal partito un impiegato della dogana, in tre sottotenenti dell’esercito e in un capitano della P.S. Nonostante il tentativo di dileguarsi nei vicoli intorno al Palazzo Resuttana, il fuggitivo venne fermato dai quattro militari e portato al più vicino posto di polizia, dove fu identificato come Angelo D’Angelo di anni 38, di professione lustrascarpe. Nelle sue tasche gli furono trovati un coltello a scatto con una lama lunga 15 cm, con tracce evidenti di sangue e nove tarì (moneta ancora in circolazione in Sicilia). Il D’Angelo, in un primo momento, negò tutto, anche l’evidenza, ma dopo qualche ora di interrogatorio, “un pò rude”, confessò. Dichiarò cha qualche giorno prima, era stato avvicinato da un suo conoscente, un certo Gaetano Castelli, il quale gli propose uno strano lavoretto e cioè accoltellare in una certa ora e in un certo giorno il primo passante che gli capitava a tiro. Il D’Angelo, nonostante non fosse uno che rifiutava tali lavoretti, rimase perplesso, ma il Castelli gli spiegò che si trattava di cose politiche, “cose di burbuni”. Gli fu detto che non sarebbe stato il solo a fare “tale lavoretto” e che la paga era di tutto rispetto, tre tarì al giorno. Quest’ultimo fu l’argomento decisivo che distolse le perplessità e i dubbi del D’Angelo. Durante l’interrogatorio fece i nomi di undici accoltellatori. Oltre a Castelli Gaetano il gruppo era composto anche da Calì Giuseppe, Masotto Pasquale, Favara Salvatore, Termini Giuseppe, Oneri Francesco, Denaro Giuseppe, Girone Giuseppe, Girone Salvatore, Scrimo Onofrio, Lo Monaco Antonino. Durante l’inchiesta, i carabinieri scoprirono il nome del 13° accoltellatore, tale Di Giovannni Giuseppe, che però stranamente, non fu mai processato, nonostante il suo nome fosse stato messo a disposizione della magistratura. Con la scoperta degli autori materiali di tali atti di violenza, l’inchiesta non poteva essere considerata chiusa, mancava infatti il mandante, ma soprattutto il movente. Il D’Angelo, dopo qualche titubanza, si decise a rivelare il nome del personaggio che stava dietro a tali attentati. Il procuratore del re Guido Giocosa raccolse tale testimonianza, e, nonostante fosse da poco a Palermo, si rese conto che l’inchiesta stava entrando in un terreno minato. Secondo la confessione del D’Angelo, il mandante era il senatore del regno Romualdo Trigona, principe di Santa Elia, uomo di fiducia del governo sabaudo in Sicilia, oltre che uno dei più eminenti personaggi della nobiltà. Il Trigona, tirato in ballo dal pentito negò tutto e parlò di macchinazioni da parte dei nemici dell’Italia per infangare il proprio onore e il suo casato. Il giudice Giocosa capì l’aria che tirava e fece finta di credere al principe Trigona e stralciò il suo nome dall’inchiesta nonostante le pesanti accuse. Il processo iniziò l’8 gennaio del 1863 presso la Corte d’Assise di Palermo. L’accusa per tutti gli imputati fu quella di tentato omicidio, di omicidio e di attentato diretto alla distruzione e cangiamento dell’attuale forma di governo. Fu un processo senza storia, infatti dopo solo quattro giorni, arrivò la sentenza. Furono condannati a morte Gaetano Castelli, Pasquale Masotto e Giuseppe Calì accusati di essere gli organizzatori di tali attentati mentre gli altri otto furono condannati ai lavori forzati a vita; il D’Angelo, per il contributo dato all’inchiesta, fu condannato a soli 20 anni. Giustizia era fatta? Nemmeno per sogno. Chi erano i mandanti? Nella sentenza si parla del “partito dei borboni”, ma non si fanno mai nomi. E’ vero che durante il processo il nome del principe di Trigona echeggiò sommessamente, ma alla fine, i mandanti rimasero sconosciuti. Cosa speravano di ottenere questi mandanti sconosciuti? Era chiaro che una vicenda del genere più che ad un ipotetico ritorno al regime borbonico, creava nell’opinione pubblica un clima di paura e di sospetto che avrebbe favorito la destra più conservatrice per spingere il paese verso una svolta autoritaria, cosa che effettivamente avvenne in seguito, con la repressione di qualunque forma di dissenso. Possiamo definire “ la notte dei coltelli di Palermo” come il primo esempio di strategia della tensione nel nostro paese (tale tesi fu portata avanti da Leonardo Sciascia nel suo libro “I Pugnalatori” pubblicato nel 1974). Ogni qualvolta bisogna stroncare un processo democratico, ecco che i coltelli, le bombe, le pistole o le lupare, entrano in azione per creare nell’opinione pubblica un bisogno di ordine che qualcuno raccoglie. Peccato che spesso, chi si erge come paladino dell’ordine è lo stesso che arma gli attentatori.

mercoledì 29 dicembre 2010

Russo "ringrazia" i giornali del Nord: "Razzismo mediatico e sciocco servilismo"

L'assessore regionale replica ad alcuni quotidiani che criticano il piano sanitario siciliano: "Evidente abuso di pregiudizi. Preferiscono non sentire gli elogi pubblici del ministero" PALERMO - "Voglio pubblicamente e con grande risalto ringraziare alcuni quotidiani del Nord, per la precisione 'Il Giornale', 'Libero' e la 'Padania' per i loro imbarazzanti articoli di commento sulla sanità siciliana, ben sottolineati da titoli come 'La Sicilia balla sul Titanic', 'Sprechi senza fine' e "Ci risiamo, Sicilia pronta a sperperare". L'assessore regionale alla Sanità, Massimo Russo, riferendosi alle notizie sui bandi per l'assunzione di 4 mila persone nell'ambito sanitario ha replicato: "È evidente - aggiunge - che certa stampa (e certa logora politica), abusando di preconcetti e pregiudizi, non accetta (anzi si sorprende) che in Sicilia possa funzionare qualcosa e che certe evidenti storture politico - amministrative del passato possano essere migliorate". "Forse qualche giornalista, per spocchia e imperizia, non ha letto in questi due anni dell'opera titanica prodotta dalla Sicilia e dai siciliani nel campo della sanità per ripianare i conti e riqualificare l'offerta sanitaria. Forse molti non sanno, o preferiscono non sapere, che la Sicilia è stata più volte elogiata pubblicamente dai rigorosi tavoli ministeriali della Salute e dell'Economia per l'eccellente lavoro svolto". "Sono assolutamente certo - prosegue - che questo tipo di razzismo mediatico, insieme all'opera professionale di certi giornalisti pronti ancora una volta a mortificare la propria professionalità pur di recitare il ruolo di 'servi sciocchi' dei loro editori e dei 'padrini' politici di riferimento, saranno utilissimi a scuotere i siciliani e a stimolare nuove riflessioni sul ruolo di certi politici siciliani che nel corso degli anni, a Roma, avrebbero dovuto rappresentare e tutelare gli interessi della Sicilia. E che avrei voluto ascoltare, in queste ore, in un sussulto di dignità, difendere le ragioni dei siciliani che li hanno eletti".

domenica 26 dicembre 2010

Partinico, neonata muore dopo parto: chiuso reparto ostetricia, sospesi due medici e una ostetrica

L'ospedale di Partinico
La bambina è deceduta dopo essere venuta alla luce giovedì scorso all'ospedale Civico. La puerpera era stata sottoposta a taglio cesario. Sospesi cautelativamente dal servizio due dirigenti medici e un'ostetrica PARTINICO. Natale di pianto e lutto per una coppia di Partinico che il 23 dicembre aspettava la gioia di una nuovo figlio - ne ha altri tre - felicità durata pochi secondi perché la neonata è morta subito dopo il parto. La puerpera era al nono mese di gravidanza ed è stata sottoposta a taglio cesareo. La direzione aziendale dell'Asp di Palermo ha deciso la chiusura temporanea del reparto di Ostetricia e Ginecologia del nosocomio e la sospensione cautelativa dal servizio di due dirigenti medici e di un' ostetrica. Gli stessi che sono indagati dalla procura palermitana che ha subito aperto un'inchiesta per omicidio colposo, affidata al pm Roberta Buzzolani, dopo l'esposto fatto dal padre della bimba morta al commissariato di polizia. Non è la prima volta che nel reparto dell'ospedale di Partinico si verificano decessi di neonati. Sei neonati o feti vicini al parto sono morti negli ultimi due anni e mezzo prima della bimba deceduta giovedì scorso.
Il primo caso è stato registrato il 14 luglio 2008, simile a quello di oggi: una bimba nasce dopo il cesareo ma muore. Nel dicembre dello stesso anni il padre di un neonato morto mentre la madre subiva il cesareo denunciò di essere stato avvicinato, subito dopo la tragedia, da sei persone che lo avrebbero invitato a non presentare denuncia "per non danneggiare l' immagine dell'ospedale". In cambio, avrebbero assicurato all' uomo la copertura delle spese per il funerale. La decisione di chiudere il reparto è stata presa dopo la relazione della commissione tecnico-ispettiva che ha controllato le procedure e i protocolli di assistenza seguiti dal personale in servizio durante il parto. Della sospensione dell'attività di ricovero e degenza è stata data comunicazione al prefetto di Palermo, ai sindaci del comprensorio, all'assessore regionale per la Salute ed a tutte le autorità sanitarie.
L'Asp ha reso noto che è stato attivato nel pronto soccorso un servizio sostitutivo per garantire il trasferimento delle pazienti in altri nosocomi. Vengono assicurate solo le emergenze indifferibili e non trasferibili. Oltre all'inchiesta della procura e dell' azienda sanitaria locale anche l'assesorato regionale alla Sanità manderà gli ispettori. La procura ha sequestrato le cartelle cliniche e domani conferirà l'incarico al medico legale per effettuare l'autopsia sul corpicino. Il presidente della Commissione d'inchiesta sul servizio sanitario nazionale Ignazio Marino ha chiesto "un'istruttoria ai carabinieri del Nas". "E' necessario capire - dice - cosa é successo e per quali ragioni si è deciso di chiudere l' intero reparto di ostetricia e ginecologia, dopo la morte della neonata". Gli atti sulla vicenda saranno chiesti anche dalla commissione parlamentare sugli errori sanitari presieduta da Leoluca Orlando. E per il presidente degli Ordini dei medici (Fnomceo), Amedeo Bianco, è urgente fare chiarezza, "unica medicina che conosco".
Fonte: Gds.it
26 dicembre 2010

giovedì 23 dicembre 2010

L'INTERVISTA: Parla Giuseppe Pisanu, presidente della Commissione Nazionale Antimafia

Giuseppe Pisanu
di Paolo Cucchiarelli
C’e’ un quadro politico in movimento, nonostante la fiducia al governo. Ci sono le condizioni per dire qualcosa di nuovo sulla stagione delle stragi visto che con le audizioni ultime l’Antimafia ha aperto un filone, quello dei 41 bis non rinnovati, che ha riservato molte sorprese?
L'accertamento dei fatti e delle responsabilità spetta alla magistratura che se ne sta occupando seriamente alla luce di nuove circostanze emerse negli ultimi due anni. Alla Commissione Antimafia, invece, spetta essenzialmente il compito di individuare una plausibile "verità politica" e cioè di capire come e perchè quelle tragedie si verificarono ed evitare così che possano ripetersi. E' ciò che stiamo facendo anche in ordine all'applicazione del 41 bis negli anni 1992 e '93.

Lei indica sempre nei capitali la strada principale per colpire la mafia. Quale bilancio trae da questo momento di crisi economica. La mafia ha trovato il modo di trarre profitto anche dalla debolezza dell’euro?
La crisi spalanca le porte alla penetrazione della mafia nell'economia legale. Con l'enorme liquidità di cui dispone essa aggredisce e conquista facilmente aziende in difficoltà e in molti casi già stremate col racket e l'usura. Ma queste sono pratiche ormai tradizionali. In realtà la mafia è molto più avanti ed investe con grande abilità dalla "green economy" alle nano-tecnologie e alla finanza pura.E' certo comunque che essa affonda le sue radici più vigorose e nutrienti nel terreno dell'economia. Se riusciremo a tagliare quelle radici vinciamo la partita.

Con la sua relazione dello scorso maggio lei mise sull’avviso che uno degli uomini citati da Massimo Ciancimino jr come "interno" alla trattativa mafia-stato, Lorenzo Narracci, era indagato per concorso in strage per Via D’Amelio. Sempre e solo "mele marce" o qualcosa di più complesso , frutto anche della debolezza politica di quegli anni a cavallo tra Prima e Seconda repubblica?
La strage, per definizione, è un messaggio politico che qualcuno invia a colui che sa ‘leggere’ quel messaggio. Cosa si voleva dire nel ’92-’93 con quelle bombe?Certamente quelle bombe furono lanciate contro lo Stato col deliberato proposito di indurlo ad abrogare l'isolamento carcerario dei mafiosi (il 41 bis), a chiudere alcune carceri speciali ed a sterilizzare la normativa sui collaboratori di giustizia: misure tutte queste che stavano letteralmente scardinando l'organizzazione criminale. Può darsi che allo stesso fine la mafia abbia cercato rapporti con esponenti o funzionari infedeli dello Stato e che si sia avvalsa di altre persone che rappresentavano comunque interessi occulti, illeciti, antidemocratici. Ma siamo ancora nel campo delle ipotesi ragionevoli.

Una delle poche volte in cui Totò Riina ha parlato di Via D’Amelio ha detto in sostanza “non lo abbiamo ucciso noi Borsellino, guardate nello Stato”. La presenza di tanti uomini dello Stato in questa partita fa ipotizzare, anche ai magistrati, che cordate parallele di potere abbiano “dettato” , imposto o comunque condotto o indotto i politici ad accettare, subire una qualche forma strisciante di trattativa. Se questo accadde effettivamente - e l'Antimafia indica riscontri non ipotetici- pensa che potrà mai emergere con la dovuta chiarezza?
Non credo che Totò Riina abbia parlato per amore di verità, ma solo per lanciare quella frase contro il suo principale nemico, lo Stato. E infatti si è subito rinchiuso nel suo cupo silenzio, lui che pur conoscendo tutto della strage di Via D'Amelio, non vuol dire niente altro.E del resto fu sempre lui a deliberare, oltre all'assassinio di Falcone, anche quello di Borsellino. Risulta inoltre che la data dell'esecuzione fu anticipata per ragioni ancora ignote, ma così importanti da far rinviare sine die alcuni omicidi politici già programmati.Forse la conoscenza di quelle ragioni potrebbe chiarire alcuni persistenti misteri sulle cosiddette trattative e sulle probabili convergenze di Via D'Amelio.

Un tema poco scandagliato è quello degli interessi internazionali che potrebbero aver offerto una cornice alle intimidazioni a suon di bombe. Si è detto e scritto degli Usa. Si è parlato di altre nazioni a noi piu’ vicine. Lei che ne pensa?
In quegli anni si parlò di paesi stranieri interessati alla destabilizzazione dell'Italia e dunque in qualche modo favorevoli al terrorismo mafioso che devastava il nostro patrimonio artistico e insanguinava le nostre strade da Palermo, a Roma e a Milano.Lo stesso capo della polizia di allora, il compianto Prefetto Parisi, attribuiva notevole importanza a voci di questo tenore provenienti da servizi segreti stranieri.A quanto mi risulta nessuna sede autorevole ha mai avuto dubbi sugli Stati Uniti, paese notoriamente amico e sempre impegnato con noi nella lotta alla criminalità transnazionale.

L’ex ministro Conso ha rivendicato a San Macuto di aver deciso in solitudine nel novembre del 1993 la revoca di 140 41 bis per evitare altre stragi di mafia. In effetti queste non ci furono più, tranne quella mancata di via dei Gladiatori, allo Stadio Olimpico, nel gennaio del 1994. L’Antimafia sta indagando per capire se questa decisione sia stata effettivamente “solitaria” oppure frutto di molteplici scelte, pressioni ed indicazioni. Tra revoche e mancati rinnovi in quei mesi vennero meno poco meno di 500 provvedimenti contro mafiosi in carcere. Non le sembra questa la prova che lo Stato trattò ma che ora questo non si può più raccontare perché molti furono i soggetti istituzionali che dissero- in maniera indiretta - di sì a far cadere il 41 bis per tanti mafiosi pensando anche di fare il bene dell'Italia?
Chi conosce il rigore morale e il senso dello Stato del professor Conso non può mettere in dubbio la sincerità delle dichiarazioni che egli ha reso alla Commissione antimafia. Nel merito ricordo che in quel periodo ci furono non solo mancate conferme ma anche rinnovi del 41 bis, sui quali stiamo facendo ulteriori controlli sulla base di nuovi documenti che ci ha fornito in questi giorni il Ministero della Giustizia.Per ora mi limito ad osservare che se ci fu la mancata conferma del 41 bis ai 140 mafiosi di calibro medio-basso detenuti all'Ucciardone, vi fu anche, due mesi dopo, la proroga di altri 325 provvedimenti tra i quali figurava tutto il "gotha" di Cosa Nostra: Gerlando Alberti, Bernardo Brusca, Pippo Calò, Stefano Fidanzati, Giacomo Gambino, Salvatore Greco, Luciano Liggio e Francesco Madonia, solo per fare alcuni nomi in ordine alfabetico.Come spiegare il senso pratico di una trattativa così spericolata tra mafia e Stato che alla fine avrebbe premiato i gregari e punito i grandi boss? Bisogna essere molto cauti quando si parla di trattativa.

Sempre Riina ha alluso al ruolo giocato da Paolo Bellini, informatore dei carabinieri, nella questione stragi. Fu lui a suggerire di colpire il patrimonio artistico. Riina si chiede perché l’Arma lo mandò a contattare la mafia proprio in quei mesi. Voi lo ascolterete?
Almeno per ora, la sua audizione non è prevista. Paolo Bellini, come è noto, sarebbe l'artefice di una seconda trattativa intessuta per conto di chissà chi con Gioè, Brusca e lo stesso Riina. E proprio lui avrebbe suggerito o ispirato l'attacco al patrimonio artistico, dicendo ai suoi interlocutori: "ucciso un giudice questi viene sostituito, ucciso un poliziotto avviene la stessa cosa, ma distrutta la Torre di Pisa, viene distrutta una cosa insostituibile con incalcolabili danni per lo Stato". Il ministro Conso durante la sua audizione ha risposto ad una domanda sulla presenza dei servizi segreti in questa vicenda con parole che nessuno finora ha chiarito: "Certi dubbi mi nacquero dopo, con il passare del tempo. Certe vicende, che sono poi esplose, molto oscure, e poi il segreto di Stato che blocca tutto. Questo è un altro discorso. All'epoca del mio mandato e con particolare riguardo a questo tema, devo dire di no’’.

A lei risulta il segreto di Stato su questa vicenda? Perché Conso lo ha evocato?
No, l'apposizione del segreto di Stato su queste vicende non mi risulta.Penso che il professor Conso, si sia riferito ad indagini e ricostruzioni successive che hanno proiettato l'ombra di pezzi deviati o di servitori infedeli dello Stato sulle scene dell'Addaura, di Capaci e di Via D'Amelio.
(ANSA) 23 dicembre 2010

mercoledì 22 dicembre 2010

Smettetela di uccidere Corleone!

Se non voti Pdl forse leggi Repubblica, il quotidiano migliore del Paese. Grandi firme, inchieste scomode e una posizione di prima linea nella quotidiana battaglia contro il diffondersi del pensiero unico. Se oltre a non votare Pdl sei di Corleone (il che, lo ammetto, costituisce una rarità), potrà essere accaduto anche a te di sfogliare Repubblica col timore inconfessato di vedere, dietro alla prossima pagina, magari prima di arrivare allo Sport e poter tirare un sospiro di sollievo, l’ennesimo pezzo folkloristico sul tuo paese. Talmente irreale, per te che a Corleone ci vivi, da chiederti se la firma di Salvatore Palazzolo sia in realtà uno pseudonimo usato da Francis Ford Coppola. “Repubblica” ha nel corso degli anni dimostrato un’attenzione maniacale alla mia città affidando il racconto della quotidianità corleonese a grandi professionisti del giornalismo quali, prima di Palazzolo, Attilio Bolzoni. Quest’ultimo, su un inserto del quotidiano, ai tempi della scarcerazione di Riina Jr aveva descritto il nostro paese come percorso dalla frenetica attesa del ritorno del “Figlio”. “[…] e a Corleone stanno già festeggiando” erano le parole conclusive di quel pezzo infamante condito con le foto del vecchio che passeggia a dorso di mulo in piazza o di poco raccomandabili stradine buie. Lo stesso Bolzoni avrebbe ricevuto più tardi la cittadinanza onoraria di Corleone, a differenza mia che, pur onorandomi di esserne cittadino, resto un semplice “disonorato” corleonese. Disonorato da Bolzoni, s’intende. Pochi giorni fa Repubblica.it si è nuovamente ricordata del mio paese per via della morte del fratello di Bernardo Provenzano, Simone. Qualcuno avrà chiamato Palazzolo chiedendogli il pezzo sull’argomento e scommetto che gia a Ficuzza il buon Palazzolo, da professionista qual è, aveva già tutto bell’e pronto. Peccato dover dire che nelle sue righe che parlano all’Italia di un funerale di popolo, di un paese bloccato, di vigili ossequiosi e di saracinesche abbassate di vero non ci sia nulla. O meglio, non ci sarebbe nulla di onestamente vero se alla realtà siciliana si fosse guardato con gli occhi sinceri di chi alla Sicilia non volta le spalle (e il cuore) una volta passato Ganzirri. Io sono corleonese e a quel funerale ho assistito, pur non essendo in corteo. I vigili facevano il loro lavoro, lo stesso che farebbero durante qualunque altro corteo funebre, ma evidentemente Palazzolo non era mai stato a Corleone, men che meno durante un funerale, altrimenti si sarebbe accorto che noi corleonesi le saracinesche le abbassiamo per il rispetto che si deve a chi muore e magari dietro a quelle saracinesche recitiamo anche i nostri “Eterno riposo” all’anima che lascia la vita. Siamo così, che ci possiamo fare? Buona gente intrisa di sentimento cattolico che teme Dio più della Mafia e che a Dio eleva preghiere di intercessione per quelle vite che la Mafia ha portato con sé, uccidendole o ammaliandole. Il che non era il caso del “Fratello del boss” o almeno così non sembra. Sono un ragazzo di Corleone Dialogos, ho la tessera di Libera, di Arci e voto Vendola, eppure oggi provo vergogna solo per l’ignominiosa tendenza dei giornalisti più illuminati a voler descrivere il mio paese come irredimibile, cattivo dentro, incatenato per sempre alla sua natura omertosa e terribile. La loro Corleone mi fa schifo, la mia l’adoro. Mi chiedo come avrei dovuto comportarmi per non mostrarmi ossequioso e per far sventolare il mio tesserino di comprovata onestà? Strombazzare il clacson al passaggio del feretro? Mettere la Banda Bardò a tutto volume? Dire a voce alta che “i Provenzano ci hanno rovinato”? Avrei dovuto, quindi, disonorare la mia terra e la mia cultura che mi hanno insegnato il rispetto per il prossimo che soffre e il timore di Dio? Avrei, quindi, dovuto commettere lo stesso peccato di Bernardo Provenzano che il prossimo lo uccideva e che su Dio spergiurava? Avrei dovuto, per colpa sua, maledire suo fratello. Lo chiedo a te Salvatore Palazzolo. Lo chiedo a Repubblica. Che delusione capire, leggendo il tuo giornale, di essere solo contro un mondo che, passino anni o secoli, continuerà a credere che Corleone è, e resterà per sempre, la fottutissima Capitale della Mafia.
Walter Bonanno

domenica 19 dicembre 2010

Parlando di studenti in lotta, Saviano e giornalismo

di Gaetano Alessi
Alcuni mesi fa in un pezzo scritto per Articolo21 (“Io sto con i facinorosi”) dopo le contestazioni a Schifani e Bonanni, chiudevo l’articolo con la certezza che le manifestazioni di violenza si sarebbero susseguite. Facile profeta? No, forse più novella Cassandra (con l’eccezione che Cassandra aveva sempre ragione). In fondo basta camminare per strada per sentire gli umori delle persone, basta essere in luogo di lavoro, di studio, in una scuola, per avere chiaro il quadro di sofferenza in cui vive il nostro paese. La precarietà nel lavoro che diventa precarietà negli affetti, la certezza di non avere un futuro non solo per chi non ha studiato, ma anche per chi ha investito anni sui libri e ora si trova con una prospettiva di desolazione. La percezione d’essere “straniero” e fuori posto sempre, indipendentemente da dove tu sia nato. Ho letto con attenzione il dibattito che si è scatenato dopo i fatti di Roma d’alcuni giorni fa. Con il gusto di chi non avendo la necessità di scrivere per mestiere può permettersi il privilegio di formarsi un’idea su centinaia di contaminazioni diverse. La sensazione però è sempre la stessa: una lontananza abissale tra chi l’Italia la vive (studenti, lavoratori, cittadini, disoccupati), chi dovrebbe raccontarla (giornalisti e media), e chi è chiamato a governarla. Siamo un paese strano, in cui per sapere degli scontri di Roma bisognava essere nella capitale o collegarsi a canali esteri perché le nostre reti erano impegnate nelle stesse ore a decidere quali mutande saranno più sexy per la notte di Capodanno. Un paese che però non perde nei suoi commentatori la banalità, l’approssimazione e, negli ultimi anni, la voglia di “insegnare” agli altri. Ancora una volta si è assistito ad una sequela di semplificazioni assordanti, ancora una volta si è cercato di dividere i “buoni” dai “cattivi”, ancora una volta si sono riesumati i “Black Block”(ma basta…), ancora una volta si è accesa la macchina del tempo con attempati post (ricchissimi) rivoluzionari per i consueti paragoni con il ’77 ed il ’69 (questa volta addirittura ci si è spinti ai moti di Parigi del 1848!!). Da Saviano e Liguori con stili diversi si è cercato di pontificare, ma con lo stesso scopo: quello di tranquillizzare. “Vedete i bambini in generale sono mansueti, basta isolare i “cattivi” (magari spaccando la testa a qualcuno). Cazzate. Ancora una volta non si è affrontato il tema, si è sviato. Si è trattato il caso di Roma come se fosse un fatto circoscritto, mentre da mesi in tutto il paese si vive una ventata di proteste che abbraccia tutta la struttura del nostro vivere civile: la scuola, le fabbriche, il tessuto economico di base, la cultura, i migranti, le forze dell’ordine. Una disperazione crescente che per la prima volta vede uomini di quarant'anni e ragazzi di sedici vivere lo stesso incubo: aprire gli occhi la mattina e non sapere come sarà il futuro. Basta scorrere gli elenchi dei “facinorosi” per avere il ragionevole dubbio che quanto scritto sopra rasenti la realtà: incensurati, operai, giornalisti di base, maestre, immigrati sfruttati dalla mafia, ricercatori. Non sono “pochi isolati” ma gente disperata che somma ad una condizione materiale devastante una negazione degli spazi sociali e di cultura ancora più frustrante. Una massa che vede la mafia diventare antimafia, la politica trasformata in mercato delle vacche, il giornalismo un cane da guardia della tranquillità e del potere. Una massa che non ha sfoghi politici, non ha referenti che possano canalizzare una rabbia giustissima, perché viene dal dolore, in un azione democratica di cambiamento. Una massa rapita da un sistema che ratifica il silenzio e che ha i mezzi per imporre una distorta percezione della realtà. Un esempio. Tra alcuni mesi andrà in discussione il contratto nazionale del Commercio, la Confcommercio (in pieno stile Marchionne – osannato da chi come Fassino dovrebbe rappresentare i lavoratori-) avanza proposte come la cancellazione dei permessi ottenuti a titolo di riduzione orario, la riduzione delle ferie, delle indennità di malattia, degli scatti anzianità. Una mazzata per i lavoratori di un settore che occupa buona parte degli italiani. Chi ne parla? Nessuno. Il risultato? Altri diritti calpestati, altra disperazione nei luoghi di lavoro, nelle case, altra rabbia che cova in una notte che non vede mai l’alba. E se un giorno qualche lavoratore stanco di vessazioni contesterà un politico, un imprenditore, un giornalista, un sindacalista sarà isolato dal Saviano di turno, perché con la sua protesta offuscherà (?) la ragione dei silenti (che nel silenzio hanno sempre perso). Ho visto ragazzi rivendicare le azioni di piazza di questi mesi, con la rabbia e la convinzione che quelle forme di protesta siano “la scelta di chi non ha scelta”, un grido che rimarrà inascoltato fino a quando non si capirà che questo paese è sprofondato in un problema ben più ampio del berlusconismo: viviamo un enorme problema di solitudine umana e sociale. Non ho ricette, e penso non le abbia nessuno, credo però che chi fa informazione dovrebbe cominciare a raccontare le sofferenze del paese, magari parlando meno di Berlusconi, Fini, Casini, Bersani e Scilipoti, magari non pontificando da pulpiti algidi e ben retribuiti da Mondatori o De Benedetti, magari capendo che se non si crea uno sfogo democratico alla protesta, anche solo raccontandola per quella che è, questa continuerà e la rabbia sorda non ha scudi che la possano fermare. E capendo che la disperazione degli altri, la solitudine degli altri, le speranze degli altri sono infine anche le nostre.
“Cerchiamo solo la verità. La democrazia è un ideale della vita umana come la libertà ed il diritto. Stiamo combattendo per la vita con il coraggio di morire.. Ma siamo ancora ragazzi….”
Pechino, 13 maggio 1989

Villa Igiea tra dive e sovrani, un romanzo lungo 110 anni

di SALVATORE FALZONE L´idea era di farne un sanatorio di lusso, ma una commissione di inglesi lo sconsigliò. Il Fai celebra l´anniversario del Grand hotel di Palermo.
C’era una volta - e mai ci fu - un sanatorio di lusso sul mare, all´Acquasanta, dove curare i polmoni alto-borghesi di mezza Europa. Comincia così il romanzo del grande albergo palermitano, mitico già nel nome, mito abitato da miti, che tra alti e bassi, anno dopo anno, ha attraversato il Novecento e ancora oggi è qui con l´imponenza supponente di chi ha visto la storia con gli occhi: Villa Igiea. Reggia borghese della famiglia siciliana più famosa della Belle Epoque, salotto chic della bella società che credeva nel progresso, superbo rifugio dell´intellighenzia internazionale, cornice liberty di mille storie e mille avventure, castello di passioni infuocate e feste che finivano all´alba. Night negli anni Cinquanta, tutto smoking e balli, auto da sogno e panfili, e tanti artisti, scrittori, registi, attori, massoni, whisky a fiumi e sigari pregiati, flash e donne impellicciate, in posa sugli scaloni, tra specchi e dipinti, inseguite sulle terrazze che sfumavano verso il mare con finte rovine.
Il tempio dedicato alla ninfa della Salute fu inaugurato il 19 dicembre di centodieci anni fa. E l´anniversario sarà festeggiato domenica con un incontro organizzato dalla Fai di Palermo cui prenderanno parte gli studiosi Francesco Amendolagine, Eliana Mauro ed Ettore Sessa. Qualche anno prima di quel 1900, il professor Vincenzo Cervello, famoso medico e sperimentatore palermitano, si era convinto di guarire i malati di tubercolosi con cure nuovissime e nello stesso tempo di realizzare un sanatorio popolare, oltre che un laboratorio chimico e farmaceutico. Ne parlò con l´amico Ignazio Florio junior, che non ci pensò due volte a uscire i quattrini e a creare una società ad hoc, con un capitale di un milione di lire.
L´armatore comprò l´area del parco neoclassico dell´illuminista massone principe di Belmonte, compresa la villa in stile neogotico di proprietà degli eredi dell´eccentrico ammiraglio Cecil Downville, che ne aveva fatto un singolare rifugio d´amore. Quel pezzo di Sicilia incontaminata, tra le pendici del Monte Pellegrino e la scogliera dell´Arenella, era solcato da una sorgente con straordinarie capacità organolettiche (non a caso sfruttata dai fratelli Pandolfo che nel 1871 avevano aperto il primo stabilimento di bagni minerali). Lì doveva sorgere Villa Igiea, stazione climatica dove purificarsi lo spirito e il corpo, impresa che doveva servire anche a sovvenzionare la clinica popolare. Il progetto venne affidato a Ernesto Basile, che stava lavorando alla costruzione del villino Florio all´Olivuzza.
E partirono i lavori. Ma poi arrivò una commissione di medici inglesi - era l´estate del 1899 - e del sanatorio non se ne fece più nulla. Secondo loro i committenti non ce l´avrebbero spuntata: l´intento umanitario era nobile ma poco remunerativo, meglio trasformare il complesso in un casinò come quello di Montecarlo. Era il periodo del boom delle terme e dei Grand Hotel. Così Ignazio Florio, che era il maggiore azionista, decise di modificarne la destinazione d´uso.
«Rimasero al loro posto - spiega Sessa - tutti gli accorgimenti di ingegneria sanitaria consigliati da Cervello e progettati da Basile, dalla ventilazione al riscaldamento, dalla pendenza delle scale ai montacarichi».
Ma la medicina fu sostituita con la mondanità e con il turismo di lusso. E nacque il più rinomato albergo dell´Italia meridionale, severo negli esterni, magnifico all´interno, con la sala da pranzo progettata per ospitare gli affreschi di Ettore De Maria Bergler e i manufatti mobilieri di Ducrot. All´inaugurazione partecipò la crème dell´alta società internazionale dell´epoca. Erano presenti anche gli inviati del Figaro, del New York Times, del Daily Mail, del Koelnische Zeitung, del Corriere della sera e di numerose altre testate, compresa ovviamente L´Ora fondata da Ignazio nell´aprile dello stesso anno.
Dopo quella sera si susseguirono i capitoli di un romanzo lungo un secolo (svelato qualche anno fa da Amendolagine, autore di un pregiato volume edito da Sellerio). Nel 1903 nacque il club dell´hotel, il Cercle des Etrangers con sale da gioco e da ballo. Nel 1907 arrivarono in pompa magna i sovrani d´Inghilterra. Poi fu la volta del sultano di Zanzibar coronato da un turbante da Mille e una notte. La slava Sminorva fece perdere la testa a centinaia di corteggiatori, a cominciare dal tenente de Bosis che l´ammirava, mentre lei prendeva il sole, sorvolando la spiaggia con l´aereo:, lei lo salutava con la mano, lui andò a schiantarsi sugli scogli e morì. Arrivò il re del Siam, Paramandra Maha Chulalongkom, piccolo tozzo e baffuto. E poi Giolitti, Marinetti, Marconi. Mussolini nel 1924, fu ospite di Giuseppe Lanza di Scalea. E i sovrani di Grecia, del Belgio, di Spagna e Romania. Ma con la grande guerra tramontò la Belle èpoque palermitana e nessuno suonò più il can-can.
Gli anni Trenta furono più noiosi, i camerieri rimpiangevano le mance di un tempo, le feste dei gerarchi in camicia nera non erano poi così divertenti. Scoppia la seconda guerra mondiale: arrivano i tedeschi prima e gli americani poi (bevevano come spugne e vestivano male) e l´albergo subì profonde trasformazioni. Solo il Salone Basile rimane inalterato. Gli ospiti? Ricchi inglesi, svedesi, danesi che venivano a svernare in riva al mare. Ma anche musicisti, archeologi, antiquari, esiliati. E arrivò il dopoguerra con gli yankees, gli svizzeri e certi agiati rentiers nordeuropei che stringevano amicizia con i tromboni e i viveur del luogo.
Era bizzarro il mondo di Villa Igiea: allora, il direttore aveva un nome tedesco, Helmann, ma era di Genova, il barman era malato di gioco e inventava cocktail dalla mattina alla sera, un certo Burnus, americano gigantesco, passeggiò per giorni scalzo in attesa di un calzolaio: gli avevano rubato tre paia di scarpe numero 50.
Proprio come gli anni che a Villa Igiea portarono di nuovo sfarzosi gala. Italoamericani con orribili giacche a quadri, signore vestite da Pucci e Dior, uomini in giacca bianca. Flora Volpini, l´autrice del bestseller "Fiorentina" veniva lisciata da tutti, Greta Garbo faceva il bagno con la sua classe inconfondibile, Ranieri di Monaco accompagnato dalla bellissima Grace Kelly, la Callas prendeva il sole, Onassis beveva da solo al bar e non rideva mai dietro gli occhiali neri. Approdò il grande cinema: prima Rossellini con in mano menu e carte di vini (doveva girare un film su Garibaldi e il Risorgimento), poi Claudia Cardinale, Alain Delon e Burt Lancaster (camera 237) nel 1962 ai tempi del "Gattopardo", Alberto Sordi insieme a Senta Berger per "Il mafioso" (Sordi trangugiava angurie tutto il giorno), Paul Newman, Kirk Douglas abbracciato con Irene Papas (Ulisse cinematografico lui, Penelope televisiva lei), Gina Lollobrigida, Sophia Loren ospite durante le riprese del "Viaggio" (la scena finale, quella della morte del personaggio, venne girata nella decadente Sala Segesta), Richard Burton sempre ubriaco sul suo yacht ancorato davanti alle terrazze.
Negli anni Settanta scese anche De Sica, che rimase affascinato dalla decadente malinconia dell´albergo. Siamo ai giorni nostri: Benigni gira una scena di "Johnny Stecchino" nel Salone Basile. A fine anni Novanta sbarcano Gustavo VI di Svezia, Beatrice d´Olanda, e Juan Carlos di Spagna con la regina Sofia, ultime teste coronate ad approdare a Villa Igiea. L´anno dopo toccherà a una regina senza corona, la first lady Hillary Clinton. I Florio non ci sono più, il Novecento è finito, ma c´è ancora il Grand Hotel che doveva diventare sanatorio.
La Repubblica-Palermo, 17.12.2010

venerdì 17 dicembre 2010

La Regione spende 4 milioni per addestrare le badanti

di EMANUELE LAURIA

Il Presidente Lombardo
Quattro milioni per 107 corsi di formazione che addestreranno 1.648 badanti. La Sicilia diviene il regno delle "assistenti familiari" foraggiate dalla Regione. Ma quasi il 40 per cento dei progetti è stato presentato da un solo ente. E Marsala, da sola, ha il 25 per cento dei corsisti
Il paradiso delle badanti. In attesa di capire se la Sicilia sia un paese per vecchi, la Regione gioca d'anticipo. E sparge sull'Isola 107 corsi di formazione, investendo quattro milioni di euro per immettere sul mercato 1.648 assistenti familiari. Sì, esattamente 1.648: un esercito che dà corpo a un'operazione sontuosa nel campo del sociale, che potrebbe alleviare il compito dei parenti di anziani e disabili. Una coorte che, ancor prima di partire, scivola già sul terreno del sospetto. Perché, fatto il bando, pubblicate le graduatorie, ecco la sorpresa: un solo ente di formazione, l'Anfe, racimola il 38,3 per cento dei progetti. E sei scuole, in tutto, si spartiscono l'84,6 per cento della torta. Ma non finisce qui.
A dare nell'occhio è soprattutto la concentrazione geografica dei corsi: in provincia di Trapani sarà tenuto il 43,3 per cento delle iniziative, mentre a Ragusa non c'è alcun progetto. Il caso-limite è quello di Marsala, che si accaparra ben 20 corsi che dovrebbero vedere fra i banchi 314 badanti. Significa che un quarto dei corsisti di tutta la Sicilia è raggruppato nella cittadina lilibetana. Pronta a un nuovo sbarco, quello delle aiutanti di casa foraggiate dalla Regione.
La distribuzione dei corsi sembra il prodotto di un flipper impazzito: anche Gela, che è la quarta città della Sicilia e conta quasi cinquemila over 75, non ha avuto finanziato alcun progetto. Ma Giuliana, che ha appena 350 ultrasettantenni (e non si sa quanti siano autosufficienti), sarà sede di due corsi di formazione per 40 - quaranta! - badanti. Due corsi anche in un piccolo centro come Sambuca di Sicilia. Trentadue assistenti familiari potranno fare scuola a Castrofilippo, 14 a Sperlinga dove - secondo i dati Istat - gli over 75 sono appena 137. I corsi, per inciso, avranno la durata di 300 ore ciascuno: periodo formativo certo non brevissimo. Ci vuole così tanto per addestrare una badante?
Interrogativi che, per prima, ha sollevato la Cgil, in una lettera inviata all'assessore regionale al Lavoro e alle Politiche sociali Andrea Piraino. "È del tutto evidente che qui, più che finanziare formazione per assistenti familiari corriamo il rischio di finanziare enti", scrivono Elvira Morana, componente della segreteria regionale, e Nino Reale, del dipartimento politiche sociali del sindacato. E quando parlano di "rischio", i due sindacalisti, usano un eufemismo.
È solo un caso che a capo della potente Anfe, l'associazione che ha fatto man bassa di progetti, presentati soprattutto nel Trapanese, vi sia un presidente, Paolo Genco, nato a Salemi? Tutti gli enti premiati dall'operazione-badanti hanno un preciso riferimento politico: Interefop e Cefop, guidati da Nino Perricone, sono vicini all'Mpa. Appartiene al solo Cefop, peraltro, il 4,6 per cento dei progetti finanziati, malgrado questo ente sia sotto osservazione da parte dell'assessorato per rischio di fallimento. Sul Cesifop, presieduto da Filippo Russo (figlio dell'ex sottosegretario democristiano agli Interni Ferdinando Russo), e su Anapia ha invece un'influenza il deputato del Pd di Misilmeri Gaspare Vitrano. L'ultimo ente a fare la parte del leone è l'Unci - anch'esso di Trapani - guidato da Salvatore La Porta, figlio di un ex sindaco di Erice.
E allora, è vero che la Regione fa notare come in alcune zone della Sicilia - come Ragusa - non si sia potuto intervenire per mancanza di progetti. Ed è vero pure che nel Trapanese c'è un'alta concentrazione di immigrati che possono partecipare ai corsi. Ma è vero pure, sottolinea la Cgil, che "le opportunità lavorative devono essere legate a parametri definiti come, ad esempio, la presenza degli over 75". E c'è una norma degli avvisi comunitari che impedirebbe la presentazione, da parte di un ente, di più progetti nello stesso Comune. Un fenomeno che, oltre che a Marsala, avviene in altri 19 centri siciliani. Dice Reale: "In passato abbiamo segnalato più volte la nostra perplessità per un mercato del lavoro specifico, quello delle badanti, non regolato. E dove, dunque, trionfa il "nero". Chi può garantire che le assistenti familiari formate dalla Regione trovino un impiego? Oggi, chi cerca una badante, si rivolge principalmente alla Caritas o ad organizzazioni di volontariato".
Ragionamenti che portano la Cgil a chiedere la revoca del bando e delle graduatorie, pubblicate l'8 ottobre e firmate dal dirigente generale Maria Letizia Di Liberti. "L'ottimizzazione della spesa - dicono Morana e Reale - deve riuscire a coniugare la velocità con l'individuazione di obiettivi razionali, perseguibili e funzionali ai bisogni". La formazione alla siciliana, oggetto di polemiche e inchieste della magistratura ordinaria e della Corte dei conti, macchina mangiasoldi che il governo Lombardo ha annunciato di voler riformare, non smette di fornire dati controversi. I due sindacalisti concludono così la loro lettera all'assessore Piraino: "La invitiamo a marcare la discontinuità con il passato, perché non si può raggiungere l'obiettivo proposto e per coerenza con il suo obiettivo di ottimizzazione della spesa".
La Repubblica, 16.12.2010

lunedì 13 dicembre 2010

Mafia: duro colpo al racket del pizzo a Palermo, 62 arresti. Smantellata la cosca dei Lo Piccolo

PALERMO (ANSA) - Una maxi-operazione antimafia ha smantellato a Palermo il mandamento guidato dai boss Salvatore e Sandro Lo Piccolo, rispettivamente padre e figlio. Gli agenti della Mobile hanno eseguito 62 dei 63 ordini di custodia cautelare in carcere emessi nei confronti di esponenti delle famiglie di San Lorenzo, Tommaso Natale, Partanna Mondello, Terrasini, Carini e Cinisi, che ricadono nel mandamento mafioso controllato dai Lo Piccolo fino al momento del loro arresto, avvenuto il 5 novembre 2007. Per tutti le accuse vanno dall'associazione per delinquere di stampo mafioso all'estorsione, dal traffico di stupefacenti al porto ed alla detenzione di armi da fuoco, all'intestazione fittizia di beni, reati aggravati dalla modalita' mafiosa.

UN SUCCESSO CONQUISTATO GRAZIE ANCHE AD ADDIOPIZZO

L'operazione s'inquadra nell'ambito delle indagini condotte dalla sezione criminalita' organizzata sul mandamento mafioso di Tommaso Natale e rappresenta l'ultima tranche delle inchieste denominate 'Addiopizzo'. La complessa attivita' di intelligence della polizia si e' avvalsa, infatti, anche dell'attivita' di supporto e sensibilizzazione svolta dall'Associazione Addiopizzo, che ha convinto numerosi commercianti ed imprenditori nel mirino del racket delle estorsioni a collaborare con gli investigatori. Le indagini hanno consentito di accertare una sistematica aggressione nei confronti delle piu' svariate attivita' economiche (hotel, imprese edili, attivita' commerciali, lavori di urbanizzazione, cantieri nautici, gestione di discoteche) da parte degli uomini di Cosa nostra su un territorio che spaziava dal capoluogo siciliano fino ai paesi della costa occidentale della provincia di Palermo.

DECODIFICATO L'ARCHIVIO SEGRETO DEI BOSS LO PICCOLO

L'operazione condotta dalla Mobile di Palermo, denominata Addiopizzo 5 e sfociata nell'esecuzione di 62 ordini di custodia cautelare, costituisce l'epilogo delle indagini connesse alla decodificazione dell' archivio scoperto nel covo dei boss latitanti Salvatore e Sandro Lo Piccolo in occasione del loro arresto, avvenuto il 5 novembre 2007. Una certosina attivita' di riscontro dei nomi in codice indicati nei 'pizzini', e custoditi gelosamente dai Lo Piccolo, ha consentito di decifrare nomi e cognomi degli affiliati alla cosca. Sono stati cosi' identificati i soggetti indicati, ad esempio come 'Y' o 'Camion', ritenuti responsabili di estorsioni, traffico di stupefacenti ed altre ipotesi di reato. In alcuni casi il personale specializzato della polizia scientifica e' riuscito a ricostruire alcune trame mafiose della famiglia, estrapolando i dati contenuti nel nastro di una macchina da scrivere utilizzata dai Lo Piccolo, reso apparentemente inservibile e gettato poi tra i rifiuti. Gli investigatori hanno cosi' accertato una serie di estorsioni messe a segno nel mandamento mafioso controllato dai boss. In alcuni casi e' stato pagato il pizzo da imprenditori impegnati in lavori di ristrutturazione dell'aeroporto di Palermo Punta Raisi, nella realizzazione di una caserma militare ed anche di un asilo. Gli investigatori hanno trovato ulteriori riscontri anche in relazione al quadro probatorio connesso all'uccisione del boss di Resuttana, Giovanni Bonanno, ed al successivo occultamento del cadavere, sotterrato in un terreno destinato a lottizzazione nel territorio di Carini, ad una ventina di km da Palermo. E' stata fatta luce anche sul disegno dei Lo Piccolo di monopolizzare il mercato palermitano del traffico di droga, invadendolo con la cocaina proveniente dal Sudamerica tramite le navi che giungevano nei porti olandesi, come hanno confermato recenti indagini della polizia a Milano.

UN DURO COLPO AI VERTICI DI COSA NOSTRA

Con il blitz odierno, la Mobile hanno inflitto un duro colpo all'establishment di Cosa nostra che, grazie alle precedenti operazioni condotte nel corso delle prime fasi dell'inchiesta Addiopizzo, ha complessivamente portato all'arresto di 184 persone, all'individuazione dei responsabili di ben 87 estorsioni, all'escussione testimoniale di 232 persone sentite come parti offese o informate sui fatti, alla collaborazione di 61 operatori economici alle indagini di polizia, al sequestro di 15 societa' con fatturati di svariati milioni di euro.

LA SODDISFAZIONE DI LIBERO FUTURO E ADDIOPIZZO

''Diverse vittime hanno maturato la forza e il coraggio di denunciare, avvalendosi del supporto e dell'assistenza dell'Associazione antiracket Libero futuro e dell'Associazione Addiopizzo''. Lo ha sottolineato una nota delle due associazioni, che salutano con soddisfazione l'operazione portata a termine dalla Mobile di Palermo, che e' sfociata nell'arresto di 62 presunti mafiosi. ''L'operazione - prosegue la nota - denota l'efficacia di un modello di prevenzione e contrasto al fenomeno del racket, sperimentato e consolidato in questi anni tra autorita' giudiziaria, forze dell'ordine e associazioni antiracket''. ''Da tempo - osservano le due associazioni - registriamo segnali d'insofferenza profonda tra gli imprenditori che, per anni, hanno subito l'imposizione del pizzo ed e' proprio su questa nuova consapevolezza che abbiamo fatto leva per infondere piu' fiducia nelle istituzioni e nella possibilita' di liberarsi dal giogo del racket''. Nella nota si ricorda l'azione delle forze dell'ordine, ma anche il lavoro nel territorio svolto da Addiopizzo e Libero Futuro, con il sostegno della Fai. (ANSA).

domenica 12 dicembre 2010

Il funerale e la retorica antimafia

Corleone rischia di restare impantanata nella retorica dell’antimafia. Rischia di restare schiacciata dal “pensiero unico”, secondo cui (in una città proclamata unilateralmente “città della legalità” dall’amministrazione comunale) per la mafia non ci sia (quasi) più spazio. Rischiamo “di farci il film” di una mafia ormai all’angolo o, comunque, sulla difensiva, sotto i “colpi” della magistratura, delle forze dell’ordine, della società civile e del Comune “trasparente”. Rischiamo di coltivare l’illusione dei “Padrini” (in carcere, in procinto di uscire dal carcere o appena usciti dal carcere) guardati male dai cittadini corleonesi, isolati, emarginati. A noi pure piacerebbe pensare tutto questo. Sarebbe bello, se solo fosse vero. Purtroppo, non è vero. Certo, non siamo come 20-30 anni fa, ma ancora bisogna farne di strada. Purtroppo, i boss e i loro “amici” godono ancora di tanto (troppo) rispetto a Corleone. Ed anche di un certo consenso.


Il pretesto per una riflessione sulla Corleone di oggi ci è stato dato dal funerale di Simone Provenzano, fratello del boss mafioso Bernardo, che ha tanto colpito il giornalista di “Repubblica” Salvo Palazzolo. Si tratta delle impressioni di un giornalista onesto, intelligente e coraggioso, che ha tutta la nostra stima. Sicuramente non voleva dire (e non ha detto) che “tutto” il popolo corleonese ha ossequiato il fratello del boss, ma che al funerale si respirava una certa area di “rispetto”, probabilmente di eccessivo “rispetto”. Non si deve scrivere questo? Disturba qualcuno? Invece, faremmo bene ad essere critici, a non abbassare la guardia, perché gli spazi di libertà e di democrazia non sono mai conquistati una volta e per tutte. C’è sempre il rischio del passo indietro, del ritorno al passato. Non dimentichiamo che fino a pochi mesi fa c’è stato un omicidio eccellente nelle campagne vicino Corleone. Non dimentichiamo che tanta parte dell’economia agricola viene ancora fortemente condizionata dai mafiosi. Non lasciamoci trascinare dalla retorica del ministro Alfano, secondo cui si tratta ormai di arrestare l’ultimo boss mafioso ancora in libertà (Matteo Messina Denaro) e Cosa Nostra sarà sconfitta. Purtroppo, la riproduzione della mafia rischia di essere più veloce degli arresti. Per un boss dal nome noto, ci sono tanti altri boss dai nomi meno noti o addirittura sconosciuti in piena attività. Non disarmiamoci per amore di retorica, quindi. (d.p.)

Funerale di popolo per il fratello del boss


Il funerale di Simone Provenzano

dal nostro inviato SALVO PALAZZOLO 
Corleone dà l'addio a Simone Provenzano, fratello di Bernardo. I commercianti abbassano le saracinesche. Il sindacalista del paese: "Ossequiosi con i mafiosi" Il sindaco: "Solo tradizione"
CORLEONE - Alcuni commercianti del centro abbassano le saracinesche mentre passa il lungo corteo funebre che accompagna il feretro di Simone Provenzano, fratello del capo di Cosa nostra, Bernardo. Monsignor Vincenzo Pizzitola è davanti a tutti e continua a recitare al microfono Ave Maria e Padre Nostro. I vigili urbani bloccano il traffico. Un giovane turista arrivato dalla Turchia con la sua fidanzata calabrese scatta fotografie: "Sono venuto a Corleone perché adoro il film del Padrino", spiega e osserva incuriosito il corteo che blocca il centro città, dal Municipio fino alla piazza Falcone e Borsellino. "Ma Bernardo Provenzano è in carcere?", domanda. Qualcuno gli spiega che l'uomo nella bara era "senza alcun dubbio una persona perbene". Lo dice anche monsignor Pizzitola durante la messa a San Domenico, in una chiesa strapiena. Saranno circa 250 persone ad assistere al funerale con la messa cantata. In prima fila, c'è l'altro fratello Provenzano, Salvatore. C'è anche una sorella. Qualche banco più indietro, i figli di Bernardo, Angelo e Francesco Paolo, con la madre Benedetta Saveria. Poi, tantissimi parenti e amici. Nessuno di casa Riina.
Per davvero Simone Provenzano non ha mai avuto alcun guaio con la giustizia. Solo nel 1963 era stato arrestato, durante la faida fra Liggiani e Navarriani. Ma poi fu assolto dall'accusa di tentato omicidio e si trasferì in Germania, dove è rimasto trent'anni a lavorare in una fabbrica di metalli. Dal 2005, Simone Provenzano era un tranquillo pensionato come tanti a Corleone. Viveva con il fratello Salvatore.
La casa che si era fatto costruire all'ingresso del paese con i risparmi di una vita l'aveva ceduta alla compagna e ai figli di suo fratello Bernardo. Lui non ci ha messo mai piede. Il perché è stato un giallo che ha arrovellato a lungo gli investigatori che hanno dato la caccia al capo di Cosa nostra. Nell'estate 2005, una microspia piazzata dalla squadra mobile registrò alcuni dialoghi fra Salvatore e Simone Provenzano. In famiglia c'era una lite in corso, per questioni economiche. A un tratto, Simone citò "Iddu". E i poliziotti capirono che Binnu Provenzano era a Corleone. Lo arrestarono dieci mesi dopo.
Dice Dino Paternostro, segretario della Camera del lavoro di Corleone: "Davvero un funerale in grande stile per un emigrato in pensione. La verità è che a Corleone certa gente non perde il vizio di ossequiare i boss e i loro parenti". Dino Paternostro è preoccupato: "Il rinnovamento culturale della nostra realtà può essere messo a rischio da manifestazioni come queste". Il sindaco Nino Iannazzo minimizza: "I vigili urbani facevano solo viabilità, come per ogni funerale. E quelle saracinesche abbassate sono solo per scaramanzia. Vecchie innocue tradizioni, niente altro". A Ferragosto, davanti alla casa dove abitava Simone Provenzano, in cortile Colletti, era arrivato il ministro dell'Interno Roberto Maroni per inaugurare la casa della legalità, in un'altra palazzina confiscata ai Provenzano. Quel giorno, Salvatore Provenzano disse in un'intervista a Repubblica: "Mio fratello è diventato il capro espiatorio di tutto quello che è accaduto e accade in Italia". Simone era rimasto a letto, ma aveva voluto parlare - "senza microfono" - con Pino Maniaci, il battagliero direttore di Tele Jato: "Mi disse che lo Stato aveva vestito un pupo", ricorda oggi Maniaci. "Ripeteva: Mio fratello è solo un bravo contadino".
(La Repubblica, 12 dicembre 2010)

venerdì 3 dicembre 2010

IL RAPPORTO ANNUALE DEL CENSIS. Una società senza regole e sogni, che non crede più nel carisma del capo

di ROSARIA AMATO
"Berlusconi è l'icona del soggettivismo, un ciclo che si è esaurito". Gli italiani vorrebbero maggiore onestà nella vita pubblica, ma la volontà è fiaccata, e non solo dalla crisi. Viviamo in una società "appiattita". De Rita: "Bisogna rilanciare la legge, e ridare fiato al desiderio"
L'analisi di De Rita. "Non abbiamo spessore perché non funziona più il nostro inconscio. - spiega il presidente del Censis, confessando un po' d'imbarazzo per un'analisi del Paese che quest'anno non parte da considerazioni di ordine economico, ma piuttosto sociale e psicologico - L'inconscio non è il posto dove si formano i sogni e l'irrazionalità, ma il luogo dove c'è una modulazione costante tra legge e desideri. Abbiamo una legge che conta sempre di meno, e un desiderio che svanisce. Il rapporto tra queste due potenze che fanno l'uomo da 3000 anni, è in crisi. La legge è in declino, dall'auctoritas che nessuno rispetta più al padre che evapora. La stessa magistratura non ha più quella logica della rappresentanza della legge. E anche la verticalizzazione del potere, la personalizzazione ha distrutto quello che rimaneva dell'autorità. Ma arretra anche il desiderio: l'offerta lo ha neutralizzato. Pensate quanti bambini giocano con giocattoli che non hanno mai desiderato.. o a un ragazzo che entra all'università e si ritrova con 3200 corsi di laurea.. "La strategia del tardo capitalismo sarà quella di moltiplicare l'offerta", diceva Marcuse. Siccome la società non ha più desideri da coltivare, e non ha più leggi con cui scontrarsi, declina". La soluzione? Per De Rita abbiamo "un bisogno assoluto o di rilanciare la legge, ridare senso allo Stato, alla figura paterna, alla dimensione sociale del peccato, ma anche di ridare fiato al desiderio. Solo il desiderio ti fa ripartire da te stesso, altrimenti si cade nel narcisismo. Il desiderio può in qualche modo ricomporre un'unità di noi stessi. Ma per desiderare bisogna pensare, il desiderio nasce dalla solitudine della mancanza. Mentre la mia generazione ha molto giocato sul riarmo morale, qui bisogna puntare sul riarmo mentale", conclude il presidente del Censis.
Nessuna regola, solo 'pulsioni'. I sempre maggiori episodi di violenza familiare, il "bullismo gratuito", il "gusto apatico di compiere delitti comuni", persino "la tendenza a facili godimenti sessuali" (il Censis non teme di apparire moralista): cos'altro sono se non il sintomo di una "diffusa e inquietante sregolazione pulsionale"? In definitiva, ognuno agisce in base all'istinto del momento, a frenare o perlomeno a regolare le azioni non ci sono più "l'eredità risorgimentale, il laico primato dello Stato, la cultura del riformismo, la fede in uno sviluppo continuato e progressivo". L'Italia è a pieno titolo parte del mondo globalizzato, inteso come "un campo di calcio senza neppure il rilievo delle porte dove indirizzare la palla". "Siamo una società in cui gli individui vengono sempre più lasciati a se stessi, liberi di perseguire ciò che più aggrada loro senza più il quotidiano controllo di norme di tipo generale o dettate dalle diverse appartenenze a sistemi intermedi".
Oltre alla legge, declina anche il desiderio. Ma gli italiani, oltre a non riconoscere più alcun sistema di regole, non sanno neanche più desiderare. Un po' è il frutto dell'eccesso di consumismo degli anni passati. Due esempi per tutti: "Bambini obbligati a godere giocattoli mai chiesti" e "adulti coatti, più che desideranti, al sesto tipo di telefono cellulare". Possibilità ampliate anche dalla maggiore facilità di accesso al credito al consumo, cresciuto persino negli anni della crisi: +5,6 per cento nel 2008 e +4,7 per cento nel 2009, "mentre il valore delle operazioni con carte di pagamento ha raggiunto complessivamente i 252 miliardi di euro nel 2009". "Forse aveva ragione chi profetizzava che il capitalismo avrebbe trionfato con la strategia del rinforzo continuato dell'offerta - osservano i ricercatori Censis - strumento invincibile nel non dare spazio ai desideri". Ma il desiderio inappagato è una spinta formidabile, che invece in Italia adesso manca, o meglio, c'è ancora, ma è "diventato esangue, senza forza".
Leaderismo e carisma non seducono più. Calma piatta anche sul fronte della politica. Gli italiani esprimono "stanchezza verso la personalizzazione della politica", e riversano le energie residue verso l'associazionismo e il volontariato. "Leaderismo e carisma - gran parte del lessico politico di questi anni - non seducono più: quasi il 71% degli italiani ritiene che nell'attuale situazione socio-economica la scelta di dare più poteri al governo e/o al capo del governo non sia adeguata per risolvere i problemi del Paese. Il distacco è più marcato tra i giovani (75%), le donne (76,9%), le persone con titolo di studio elevato (quasi il 74% dei diplomati e oltre il 73% dei laureati) e tra i residenti del Nord-Ovest (73,6%) e del Nord-Est (73,7%)", si legge nel Rapporto.
Sgonfiamento mediatico. Cosa è successo, perché non si crede più nel ruolo risolutivo del leader politico? Perché il tanto esibito decisionismo degli ultimi anni non ha prodotto nulla, o quasi. Il Censis esamina puntigliosamente le principali decisioni assunte (e ampiamente pubblicizzate) dal governo Berlusconi, e i magrissimi risultati prodotti. Qualche esempio: social card, avrebbe dovuto alleviare i disagi dovuti alla povertà in Italia, numero di beneficiari effettivi inferiore alle attese (circa 450.000), a fronte di 830.000 richieste e una platea di riferimento annunciata di circa 1 milione e 300 mila persone; il provvedimento non è stato rifinanziato nel ddl di stabilità 2011 (che ha operato un taglio considerevole della spesa sociale). Piano casa, avrebbe dovuto rilanciare l'edilizia, si parlava di investimenti per 70 miliardi di euro, ma a oltre un anno di distanza sono state presentate solo 2.700 istanze, l'impatto economico è risultato scarsamente significativo, tanto che ieri un editoriale del Sole24Ore titolava ironicamente "Un piano casa tanto carino, senza soffitto, senza cucina". Ronde per l'ordine pubblico: bassissimo numero di domande presentate alla prefettura. E così via. Il "governo del fare" si è rivelato l'esecutivo dello "sgonfiamento non solo mediatico, ma dovuto anche alla crescente sproporzione tra l'enfasi comunicativa della fase di lancio (che il più delle volte ha nella Tv il palcoscenico preferito) e l'attenzione per il reale impatto delle iniziative di riforma".
Pubblica Amministrazione: altro che miglioramento. Il ministro della Funzione Pubblica Renato Brunetta ha annunciato più volte i passi in avanti della Pubblica Amministrazione, dovuti alle riforme introdotte in questi anni, ma il 47% degli italiani, rileva il Censis, non la pensa così, e riscontra al contrario un peggioramento del modo in cui funziona la PA, mentre nei 27 Paesi dell'Unione Europea è in media il 33% a dichiarare di aver percepito un peggioramento.
Tv: arretra l'ascolto, troppa parzialità per il Pdl. Gli italiani sono delusi anche dalla televisione. Tra il settembre 2009 e il giugno 2010 si registra un calo di 3,3 milioni di spettatoli (passati da 18,3 a 14,9 milioni). A diminuire in misura maggiore l'ascolto del Tg5 e del Tg1, che hanno perso un milione circa di spettatori. E' probabile che i telespettatori imputino alle reti ammiraglie una eccessiva parzialità nei confronti del governo e del Pdl, ritiene il Censis: "In totale, in un mese i notiziari Rai hanno dedicato 7 ore e 51 minuti al Pdl e 5 ore e 10 minuti al Pd (cioè 2 ore e 40 minuti in meno). Per le reti Mediaset il divario supera le tre ore.
Voglia di onestà (ma non troppo). In questa situazione di stallo, di rifiuto di valori vecchi, nuovi e recentissimi, gli italiani sembrano voler riscoprire "il piacere dell'onestà", anche se poi, al momento debito, forse schiacciati da quest'appiattimento generale, non trovano la forza o la voglia di porre in essere comportamenti 'virtuosi'. Il 44% degli italiani, secondo l'indagine del Censis, individua nell'evasione fiscale il male principale del nostro sitema, e il 60% ritiene che negli ultimi tre anni l'evasione fiscale sia aumentata. Se però il 51,7% chiede di aumentare i controlli per contrastare l'evasione, il 34,1% ammette di non richiedere scontrini o fattura quando il commerciante o il professionista non la rilasciano, tanto più se questo consente di ottenere uno sconto.
La Repubblica, 3 dicembre 2010