di Gaetano Alessi
Alcuni mesi fa in un pezzo scritto per Articolo21 (“Io sto con i facinorosi”) dopo le contestazioni a Schifani e Bonanni, chiudevo l’articolo con la certezza che le manifestazioni di violenza si sarebbero susseguite. Facile profeta? No, forse più novella Cassandra (con l’eccezione che Cassandra aveva sempre ragione). In fondo basta camminare per strada per sentire gli umori delle persone, basta essere in luogo di lavoro, di studio, in una scuola, per avere chiaro il quadro di sofferenza in cui vive il nostro paese. La precarietà nel lavoro che diventa precarietà negli affetti, la certezza di non avere un futuro non solo per chi non ha studiato, ma anche per chi ha investito anni sui libri e ora si trova con una prospettiva di desolazione. La percezione d’essere “straniero” e fuori posto sempre, indipendentemente da dove tu sia nato. Ho letto con attenzione il dibattito che si è scatenato dopo i fatti di Roma d’alcuni giorni fa. Con il gusto di chi non avendo la necessità di scrivere per mestiere può permettersi il privilegio di formarsi un’idea su centinaia di contaminazioni diverse. La sensazione però è sempre la stessa: una lontananza abissale tra chi l’Italia la vive (studenti, lavoratori, cittadini, disoccupati), chi dovrebbe raccontarla (giornalisti e media), e chi è chiamato a governarla. Siamo un paese strano, in cui per sapere degli scontri di Roma bisognava essere nella capitale o collegarsi a canali esteri perché le nostre reti erano impegnate nelle stesse ore a decidere quali mutande saranno più sexy per la notte di Capodanno. Un paese che però non perde nei suoi commentatori la banalità, l’approssimazione e, negli ultimi anni, la voglia di “insegnare” agli altri. Ancora una volta si è assistito ad una sequela di semplificazioni assordanti, ancora una volta si è cercato di dividere i “buoni” dai “cattivi”, ancora una volta si sono riesumati i “Black Block”(ma basta…), ancora una volta si è accesa la macchina del tempo con attempati post (ricchissimi) rivoluzionari per i consueti paragoni con il ’77 ed il ’69 (questa volta addirittura ci si è spinti ai moti di Parigi del 1848!!). Da Saviano e Liguori con stili diversi si è cercato di pontificare, ma con lo stesso scopo: quello di tranquillizzare. “Vedete i bambini in generale sono mansueti, basta isolare i “cattivi” (magari spaccando la testa a qualcuno). Cazzate. Ancora una volta non si è affrontato il tema, si è sviato. Si è trattato il caso di Roma come se fosse un fatto circoscritto, mentre da mesi in tutto il paese si vive una ventata di proteste che abbraccia tutta la struttura del nostro vivere civile: la scuola, le fabbriche, il tessuto economico di base, la cultura, i migranti, le forze dell’ordine. Una disperazione crescente che per la prima volta vede uomini di quarant'anni e ragazzi di sedici vivere lo stesso incubo: aprire gli occhi la mattina e non sapere come sarà il futuro. Basta scorrere gli elenchi dei “facinorosi” per avere il ragionevole dubbio che quanto scritto sopra rasenti la realtà: incensurati, operai, giornalisti di base, maestre, immigrati sfruttati dalla mafia, ricercatori. Non sono “pochi isolati” ma gente disperata che somma ad una condizione materiale devastante una negazione degli spazi sociali e di cultura ancora più frustrante. Una massa che vede la mafia diventare antimafia, la politica trasformata in mercato delle vacche, il giornalismo un cane da guardia della tranquillità e del potere. Una massa che non ha sfoghi politici, non ha referenti che possano canalizzare una rabbia giustissima, perché viene dal dolore, in un azione democratica di cambiamento. Una massa rapita da un sistema che ratifica il silenzio e che ha i mezzi per imporre una distorta percezione della realtà. Un esempio. Tra alcuni mesi andrà in discussione il contratto nazionale del Commercio, la Confcommercio (in pieno stile Marchionne – osannato da chi come Fassino dovrebbe rappresentare i lavoratori-) avanza proposte come la cancellazione dei permessi ottenuti a titolo di riduzione orario, la riduzione delle ferie, delle indennità di malattia, degli scatti anzianità. Una mazzata per i lavoratori di un settore che occupa buona parte degli italiani. Chi ne parla? Nessuno. Il risultato? Altri diritti calpestati, altra disperazione nei luoghi di lavoro, nelle case, altra rabbia che cova in una notte che non vede mai l’alba. E se un giorno qualche lavoratore stanco di vessazioni contesterà un politico, un imprenditore, un giornalista, un sindacalista sarà isolato dal Saviano di turno, perché con la sua protesta offuscherà (?) la ragione dei silenti (che nel silenzio hanno sempre perso). Ho visto ragazzi rivendicare le azioni di piazza di questi mesi, con la rabbia e la convinzione che quelle forme di protesta siano “la scelta di chi non ha scelta”, un grido che rimarrà inascoltato fino a quando non si capirà che questo paese è sprofondato in un problema ben più ampio del berlusconismo: viviamo un enorme problema di solitudine umana e sociale. Non ho ricette, e penso non le abbia nessuno, credo però che chi fa informazione dovrebbe cominciare a raccontare le sofferenze del paese, magari parlando meno di Berlusconi, Fini, Casini, Bersani e Scilipoti, magari non pontificando da pulpiti algidi e ben retribuiti da Mondatori o De Benedetti, magari capendo che se non si crea uno sfogo democratico alla protesta, anche solo raccontandola per quella che è, questa continuerà e la rabbia sorda non ha scudi che la possano fermare. E capendo che la disperazione degli altri, la solitudine degli altri, le speranze degli altri sono infine anche le nostre.
Alcuni mesi fa in un pezzo scritto per Articolo21 (“Io sto con i facinorosi”) dopo le contestazioni a Schifani e Bonanni, chiudevo l’articolo con la certezza che le manifestazioni di violenza si sarebbero susseguite. Facile profeta? No, forse più novella Cassandra (con l’eccezione che Cassandra aveva sempre ragione). In fondo basta camminare per strada per sentire gli umori delle persone, basta essere in luogo di lavoro, di studio, in una scuola, per avere chiaro il quadro di sofferenza in cui vive il nostro paese. La precarietà nel lavoro che diventa precarietà negli affetti, la certezza di non avere un futuro non solo per chi non ha studiato, ma anche per chi ha investito anni sui libri e ora si trova con una prospettiva di desolazione. La percezione d’essere “straniero” e fuori posto sempre, indipendentemente da dove tu sia nato. Ho letto con attenzione il dibattito che si è scatenato dopo i fatti di Roma d’alcuni giorni fa. Con il gusto di chi non avendo la necessità di scrivere per mestiere può permettersi il privilegio di formarsi un’idea su centinaia di contaminazioni diverse. La sensazione però è sempre la stessa: una lontananza abissale tra chi l’Italia la vive (studenti, lavoratori, cittadini, disoccupati), chi dovrebbe raccontarla (giornalisti e media), e chi è chiamato a governarla. Siamo un paese strano, in cui per sapere degli scontri di Roma bisognava essere nella capitale o collegarsi a canali esteri perché le nostre reti erano impegnate nelle stesse ore a decidere quali mutande saranno più sexy per la notte di Capodanno. Un paese che però non perde nei suoi commentatori la banalità, l’approssimazione e, negli ultimi anni, la voglia di “insegnare” agli altri. Ancora una volta si è assistito ad una sequela di semplificazioni assordanti, ancora una volta si è cercato di dividere i “buoni” dai “cattivi”, ancora una volta si sono riesumati i “Black Block”(ma basta…), ancora una volta si è accesa la macchina del tempo con attempati post (ricchissimi) rivoluzionari per i consueti paragoni con il ’77 ed il ’69 (questa volta addirittura ci si è spinti ai moti di Parigi del 1848!!). Da Saviano e Liguori con stili diversi si è cercato di pontificare, ma con lo stesso scopo: quello di tranquillizzare. “Vedete i bambini in generale sono mansueti, basta isolare i “cattivi” (magari spaccando la testa a qualcuno). Cazzate. Ancora una volta non si è affrontato il tema, si è sviato. Si è trattato il caso di Roma come se fosse un fatto circoscritto, mentre da mesi in tutto il paese si vive una ventata di proteste che abbraccia tutta la struttura del nostro vivere civile: la scuola, le fabbriche, il tessuto economico di base, la cultura, i migranti, le forze dell’ordine. Una disperazione crescente che per la prima volta vede uomini di quarant'anni e ragazzi di sedici vivere lo stesso incubo: aprire gli occhi la mattina e non sapere come sarà il futuro. Basta scorrere gli elenchi dei “facinorosi” per avere il ragionevole dubbio che quanto scritto sopra rasenti la realtà: incensurati, operai, giornalisti di base, maestre, immigrati sfruttati dalla mafia, ricercatori. Non sono “pochi isolati” ma gente disperata che somma ad una condizione materiale devastante una negazione degli spazi sociali e di cultura ancora più frustrante. Una massa che vede la mafia diventare antimafia, la politica trasformata in mercato delle vacche, il giornalismo un cane da guardia della tranquillità e del potere. Una massa che non ha sfoghi politici, non ha referenti che possano canalizzare una rabbia giustissima, perché viene dal dolore, in un azione democratica di cambiamento. Una massa rapita da un sistema che ratifica il silenzio e che ha i mezzi per imporre una distorta percezione della realtà. Un esempio. Tra alcuni mesi andrà in discussione il contratto nazionale del Commercio, la Confcommercio (in pieno stile Marchionne – osannato da chi come Fassino dovrebbe rappresentare i lavoratori-) avanza proposte come la cancellazione dei permessi ottenuti a titolo di riduzione orario, la riduzione delle ferie, delle indennità di malattia, degli scatti anzianità. Una mazzata per i lavoratori di un settore che occupa buona parte degli italiani. Chi ne parla? Nessuno. Il risultato? Altri diritti calpestati, altra disperazione nei luoghi di lavoro, nelle case, altra rabbia che cova in una notte che non vede mai l’alba. E se un giorno qualche lavoratore stanco di vessazioni contesterà un politico, un imprenditore, un giornalista, un sindacalista sarà isolato dal Saviano di turno, perché con la sua protesta offuscherà (?) la ragione dei silenti (che nel silenzio hanno sempre perso). Ho visto ragazzi rivendicare le azioni di piazza di questi mesi, con la rabbia e la convinzione che quelle forme di protesta siano “la scelta di chi non ha scelta”, un grido che rimarrà inascoltato fino a quando non si capirà che questo paese è sprofondato in un problema ben più ampio del berlusconismo: viviamo un enorme problema di solitudine umana e sociale. Non ho ricette, e penso non le abbia nessuno, credo però che chi fa informazione dovrebbe cominciare a raccontare le sofferenze del paese, magari parlando meno di Berlusconi, Fini, Casini, Bersani e Scilipoti, magari non pontificando da pulpiti algidi e ben retribuiti da Mondatori o De Benedetti, magari capendo che se non si crea uno sfogo democratico alla protesta, anche solo raccontandola per quella che è, questa continuerà e la rabbia sorda non ha scudi che la possano fermare. E capendo che la disperazione degli altri, la solitudine degli altri, le speranze degli altri sono infine anche le nostre.
“Cerchiamo solo la verità. La democrazia è un ideale della vita umana come la libertà ed il diritto. Stiamo combattendo per la vita con il coraggio di morire.. Ma siamo ancora ragazzi….”
Pechino, 13 maggio 1989
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