lunedì 28 marzo 2011

Perchè tanti rifiuti per le strade?

Non è colpa del destino cinico e baro che Corleone (e tanti comuni dell'Ato Rifiuti di Monreale) siano invasi dai rifiuti, ma di una gestione politica fallimentare da parte del Consiglio di Amministrazione e dell'Assemblea dello stesso Ato (presidente l'on. Salvino Caputo + tanti sindaci, compreso il sindaco di Corleone, Nino Iannazzo). E' stato il Consiglio di Amministrazione (durante la prima presidenza Caputo) ad avere assunto decine di dipendenti (oltre a quelli ereditati dai comuni) senza concorso, per chiamata diretta, gonfiando a dismisura l'organico, senza nessuna reale necessità. E ogni sindaco ha segnalato i suoi nominativi (a Corleone si conoscono pure i nomi e i cognomi dei beneficiati: tutta gente riferibile al centrodestra, che adesso sta comodamente seduta dietro una scrivania a "comandare"). E da tempo sono i sindaci che non pagano regolarmente le fatture per il servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti. Per questo, da tempo l'Ato non può pagare i fornitori, non può pagare i i gestori delle discariche, non può pagare le officine per la manutenzione dei mezzi. In altre parole, è sull'orlo del fallimento. E, comunque, "inseguito" da decine di istanze di pignoramento. Da qualche mese, l'Ato non riesce a pagare regolarmente neanche gli stipendi ai dipendenti, che devono ancora percepire i mesi di febbraio e marzo. E giustamente hanno fatto sciopero ed hanno continuato lo stato di agitazione (astensione dal lavoro straordinario, etc.).
Ma il paese è invaso dai rifiuti e (insieme agli operai) gli unici ad essere sicuramente penalizzati sono i cittadini che, comunque, la tassa sui rifiuti (per giunta salata) la pagano regolarmente! Per questo ringraziano il signor sindaco di Corleone... (d.p.)

domenica 27 marzo 2011

Pd, anteprima dell’assemblea regionale. Potrebbe essere un Vietnam, paventano Lumia e Cracolici. Verso il governo politico

Peppe Lumia
(essepì) Non sarà una passeggiata, paventa Antonello Cracolici, ma ci sono ancora spiragli per non vietnamizzare il partito. Quali siano si vedrà sul posto al momento giusto, per ora l’area che fa capo – tra gli altri – a Beppe Lumia, ex presidente dell’antimafia nazionale, ispiratore dalla nuova stagione politica, e al capogruppo parlamentare dell’Ars, si augura che le cose si aggiustino e non dispera che ciò avvenga. Il dissenso ha la schiuma in bocca, ammettono Lumia e Cracolici, ma le buone ragioni e il quadro politico si è evoluto nel senso desiderato e pronosticato (“Le abbiamo azzeccate tutte sia a Palermo che a Roma, come faranno a darci torto?”), dando una mano anche al Pd nazionale, con un cambio epocale dei livelli decisionali: il vecchio Udc è scomparso facendo nascere il Pid, e quello nuovo è un’altra cosa, il Pdl si è scisso ed è all’opposizione, il Mpa vota la sfiducia a Berlusconi e “denuncia” la vecchia alleanza di centrodestra, creando problemi a Roma. E nei settori in cui l’antico sistema di potere – la sanità, i rifiuti, l’energia – è stato messo alla porta “stanno impazzendo per rientrare in sella. Dovremmo forse aiutarli noi?”.
L’anteprima dell’assemblea regionale del Pd, prevista per il 3 aprile, si è consumata in una piacevole domenica primaverile tiepida e salutare, in un albergo cittadino in via Messina Marine a Palermo, dal quale si vede un pezzo di mare – in Sicilia bisogna accontentarsi - e si respira già l’aria della stagione balneare. Atmosfera insolitamente lieve con qualche episodio che mette allegria quando un signore, seguito con lo sguardo da Antonello Cracolici, entrato per sbaglio nel salone in cui i democratici dibattevano sulle loro cose, dopo avere ascoltato per qualche istante Lumia, si è fatto il segno della croce ed è tornato sui suoi passi come chi capita in un luogo di culto per errore e lo lascia in fretta e furia ma in punta di piedi, quasi a scusarsi della sua scelta. È stato Lumia o le sue parole a indurlo a segnarsi con la croce? Né l’uno né l’altro, forse il clima disteso e quel “San Paolo” alle pareti, accompagnato dalla ragione sociale del luogo descritta a lettere minuscole. L’assemblea del 3 aprile, dunque. Il Partito democratico dovrebbe decidere per l’ennesima volta se e come contarsi sul sostegno al governo in carica. Lo fa da più di un anno, quindi non è una novità, e non dovrebbe fare più notizia, ma ci sono i media ad accompagnare con mano ed inesausto interesse questa lunga querelle, tanto che l’evento, stavolta sì, meriterebbe il segno della croce per la sorprendente tenacia. Roba da suscitare la nostalgia della Repubblica di mezzo, quella degli anni Sessanta-Settanta in cui Giulio Andreotti sbrigava le questioni urgenti con encomiabile pragmatismo sollecitando, per esempio, Franco Evangelisti titubante e perplesso a dire la sua presto e bene. “A Fra’che te serve?”, gli chiedeva, con il sorriso sulla bocca, complice generoso di quell’attesa carica di aspettative.
“Il fatto è”, ha detto Cracolici, “che il dissenso parla poco e male. Pensano che gli assessori tecnici siano nelle nostre mani e facciamo ciò che ci pare. Non lo dicono, ma lo pensano, ed è per questo che vogliono il governo politico: una cosa giusta, ma non può essere imposta dall’oggi al domani, dobbiamo arrivarci con un’alleanza politica che ci porti alle elezioni. Non è una questione di nomi”, ha precisato Cracolici, “possono restare quelli che ci sono, ma la coalizione deve assumersi la responsabilità politica dell’esecutivo e della maggioranza che lo sostiene”.
Su questi temi, nell’introduzione ai lavori, Beppe Lumia ha svolto la sua analisi, collegando le vicende siciliane con quelle nazionali. “Non si è fatta una valutazione diligente del ruolo che il Pd siciliano ha avuto nelle questioni nazionali”, ha esordito. “Ricordate che cosa era la Sicilia?”, si è chiesto. “Il granaio del Pdl, la regione berlusconiana al cento per cento, uno dei punti di forza del Paese. Insieme a Lazio e Lombardia permetteva a Berlusconi di minacciare le elezioni anticipate all’opposizione. Lombardia è rimasta al Pdl, il Lazio è andato al Pdl, ma la Sicilia è stata la Waterloo di Berlusconi. È qui che è saltato tutto ed è grazie alla Sicilia che la minaccia è stata disarmata. Lo abbiamo fermato e invertito la rotta. Sono stati cancellati gli inceneritori, grande business dei rifiuti, affidando all’autorità giudiziaria gli elementi utili per capire ciò che c’è dietro; si è intervenuto nel settore strategico della sanità, il ventre molle dell’intermediazione politica-affaristica, e nell’energia con l’eolico nelle mani di loschi figuri. Un assetto scandaloso su cui si è agito con estrema determinazione”.
Dopo avere ricordato la rilevanza dei provvedimenti legislativi adottati (riforma elettorale e semplificazione burocratica), Lumia ha affrontato il caso Vitrano: “È il frutto di un sistema consociativo che ci voleva relegati all’opposizione, ai margini, abilitati agli scambi sotto banco, legali o illegali, fuori da ogni decisione istituzionale in grado di incidere sulla Sicilia. L’ordine delle cose garantito dai democratici all’opposizione. Oggi non è più così e pare che qualcuno si senta orfano di questa fruttuosa emarginazione”.
Si va verso un’alleanza politica con Udc e Mpa e “con chi ci sta”. Lo ha ribadito, dopo Lumia anche il presidente della Commissione regionale antimafia, Lillo Speziale, che del caso Vitrano ha fatto il leit motiv del suo intervento. “La questione morale va affrontata ed il Pd deve alzare la soglia di salvaguardia delle istituzione con una normativa che ponga al riparo da scelte che possono inquinare la pubblica amministrazione attraverso regole rigide che impediscano a dirigenti e consulenti l’accesso. Voglia di severità che,invero, anche Cracolici ha esibito con inconsueta enfasi (“Chi sbaglia deve pagare, politico o funzionario e chi, dirigente o meno, non fa la sua parte, deve subire le sanzioni che la legge recentemente approvata prevede: dobbiamo chiudere con le indulgenze plenarie, il perdonismo e il tirare a campare”).
Cuore e ragione, in tutti gli intervenenti, erano impegnati dall’assemblea del 3 aprile durante la quale i 370 membri dovranno completare la costituzione degli organi statutari ancora incompleti a più di un anno dal congresso e dalle primarie. Bisognerà eleggere il Presidente dell’Assemblea, posto rimasto vacante, e 29 componenti della direzione. C’è anche da apportare una modifica allo statuto per consentire l’elezione diretta dei presidenti dei circoli e c’è la questione del nome da dare al Pd nell’Isola. Deve rimanere “Partito democratico siciliano” e non, “della Sicilia” come si vorrebbe a Roma, perché, ha detto con grande passione Angela Bottari, “abbiamo uno statuto autonomista che va rispettato anche dal partito”.
Fonte: SiciliaInformazioni.it

sabato 26 marzo 2011

Liricità intimista e ironia popolare nelle immagini di Nicola Figlia

di Anna Maria Ruta
MARINEO. Al Castello Beccadelli è visitabile la mostra del pittore Nicola Figlia su Francesco Bentivegna. Si tratta di 16 disegni (china e acquerello) e di un pannello centrale (olio su tela). Grafico più che pittore - anche se il suo impegno d'artista si esercita in entrambi gli ambiti -, a metà tra uso del fumetto ed arte popolare, Nicola Figlia attraversa per ora un felice momento creativo, visibile nei recenti disegni che hanno illustrato i Discorsi scritti e disegnati su alcuni proverbi siciliani. Tu ha raggiuni ma io tortu unn'haiu di Roberto Lopes, edito dall'Associazione culturale "Prospettive" e in questi acquarelli qui pubblicati, dedicati all'eroica e sfortunata vicenda politica e umana di Francesco Bentivegna, patriota antiborbonico fucilato a Mezzojuso nel dicembre del 1856.

A metà tra fumetto e arte popolare, si diceva, perché il racconto iconografico del tentativo di rivolta fallito del Bentivegna si snoda nelle immagini di Figlia con i ritmi propri di tanti cartelli dell'opera dei pupi, pur se con una traduzione segnica più icastica e raffinata, che guarda all'andamento più dotto del fumetto, specialmente nell'ironia che traspare qua e là nei volti e nelle scene di vita, colte con occhio divertito e attento ad una realtà talora penetrata anche nella sua valenza crudele e drammatica.

Questo privilegiare la narrazione e la figurazione, questa mistione di generi, a cui non sono estranei elementi del naif e della favola, perfino certa citazione latente di retaggi classici nella rappresentazione delle masse possono far collocare l'iconografìa di Nicola Figlia in piena post-modernità, con una scelta della sua particolare identità artistica più consapevole di quanto, a prima vista, non possa sembrare. Il suo impegno si svela nei modi con cui fa l'uomo assoluto protagonista delle sue immagini, nella sua individualità e nel suo rapporto con il sociale, nella sua solitudine esistenziale e intellettuale, come è qui il caso del Bentivegna, visto sempre con una profonda malinconia nello sguardo, assorto nei suoi pensieri e nelle sue speranze di libertà non condivise e poi tragicamente solo nel momento della sconfitta, del tradimento e della morte. Le scene della Confessione, del Testamento, della Fucilazione, ma anche le precedenti In attesa della rivolta, Controllato e poi dell'Abbandono, del Tradimento sono quadri pregni di un dramma solitario, che attinge a un delicato lirismo specialmente nel contatto contrastivo con la natura serena e limpida che contorna lo sfortunato eroe.

A fronte, la rappresentazione del popolo, pronto a difendere la propria incolumità e a tradire, rappresentazione attraversata da una sottile vena ironica, che si intravede in certe espressioni appena appena inclinanti al sorriso. Figlia ama disegnare volti su volti, assemblati e fittamente susseguentisi sugli sfondi, e qui il ricordo di tanta pittura classica del passato, rinascimentale e barocca, ma soprattutto bizantina è evidente. La ricerca fisiognomica lo attanaglia spesso con una particolare attenzione offerta allo sguardo, che può a volte apparire ingenuo e assente, ma è invece incredulo dinanzi allo svelamento dell'incomprensione e della distaccata indifferenza altrui. I volti sui volti si fanno popolo e folla, massa anonima, che talora si muove e sfila ordinatamente e dinamicamente, come nella riuscita scena della Traduzione a Mezzojuso e contorna con performances pittoresche singole inquadrature, partecipe sorprendente di grandi imprese e intensamente malinconica anch'essa. La mano di Figlia allora punta sugli occhi, veramente per lui specchio dell'anima, vivacizzati con pochi tratti, rapidamente, e quasi sempre percorsi da un profondo disagio interiore, anche se non sempre consapevole.

Figlia si pone con sapiente distacco, con straniamento di fronte alla vita, come dimostra il suo gusto per un cromatismo tenue e trasparente, per un tratteggio delicato e minuto, per un segno semplificato ma espressionista nella sua essenzialità. In questo omaggio a Francesco Bentivegna il soggetto tragico del suo narrare gli impone una attenzione più acuta, una precisione di percorsi segnici più marcata e realistica, ma altrove il suo penetrare dentro gli interni delle case a origliare e occhieggiare in un mondo più vario e superficiale, lo spinge ad antropomorfizzare edifìci ed elementi della natura, ad abbandonarsi ad una figurazione più espressionista e sorridente, che fa trapelare una carezzevole simpatia di fondo verso uomini e cose, e allora i suoi colori si accendono, i particolari si illuminano di ricordi naif, la rappresentazione del mondo popolare, specialmente nei proverbi appena pubblicati, si carica di energia primordiale e anche negli interni borghesi fa trapelare il gusto della vita e della gioia.

Siamo di fronte allora ad una particolare figura d'artista, veramente interessante, perché espressivo interprete del suo mondo, sia nella sostanza sia nella forma del suo rappresentare.

Le opere

FRANCESCO BENTIVEGNA

STAZIONI DI UNA PASSIONE CIVILE

(didascalie di Pippo Oddo)

1. Sotto il dominio borbonico

Prologo alla narrazione iconografica della Via Crucis di Francesco Bentivegna, la scena è un po’ lo spettro che incombe sull’intera vicenda umana e politica ricostruita da Nicola Figlia con una raffinata vena lirica, indulgente qua e là all’ironia e al pedagogismo del vecchio cantastorie

2. Credo mazziniano

Nel rendere omaggio al pensiero dell’Apostolo genovese, l’artista mostra di privilegiare la tecnica illustrativa della leggenda agiografica e una ricerca fisiognomica mirata a trasformare gli occhi dei discepoli, e quelli di Bentivegna in particolare, in fari puntati verso un futuro di libertà.

3. 1848 a Palermo

Prima stazione della passione civile del martire risorgimentale, l’insurrezione del 12 gennaio ‘48 lo consacrò antiborbonico a prova di bombe, eroe popolare e alfiere di un’utopia della libertà destinata a far proseliti ben oltre i limiti temporali della sua esistenza terrena.

4. Controllato

Da questa scena - che incornicia l’immagine di un uomo sereno, generoso e dotato di un carattere per nulla incline al melodramma (quale era l’eroe corleonese) - traspare, nondimeno, tutto il peso della solitudine con cui è costretto a convivere il perseguitato dalla giustizia borbonica.

5. In attesa della rivolta

Qui la solitudine di Bentivegna sembra apèrirsi alla speranza che il suo progetto di società, volto a liberare la Sicilia dai Borboni e a soddisfare i bisogni primari delle masse diseredate, possa esser presto fatto proprio dai contadini residenti oltre l’informe ammasso delle colline circostanti

6. Insurrezione

Con la scena dell’insurrezione popolare del 22 novembre 1856, i cui primi atti furono il disarmo degli agenti borbonici e la liberazione dei detenuti nel carcere di Mezzojuso, il pittore porta sul davanti della storia un’umanità varia, e non proprio conscia dell’avventura in cui si è imbarcata.

7. Abbandono

Come in certi cartelli dell’opera dei pupi, alla scena precedente (animata da una miriade di personaggi) succede questa, che tratteggia il dramma dell’Eroe lasciato solo, deluso dai facinorosi che avevano accettato il suo invito alla ribellione, senza coglierne la vera portata liberatoria.

8. Tradimento

Più che sul profilo lezioso del supposto Giuda corleonese - che a differenza dell’Iscariota non si accontenterà di soli trenta sicli d’argento - le pennellate di Figlia si concentrano, con tutta la delicatezza che il caso richiede, sui volti provati dei fratelli Francesco e Stefano Bentivegna.

9. Arresto

Ciò che colpisce in questa scena drammatica è il comportamento dignitoso e sereno dell’Eroe, appena catturato in un casolare delle campagne di Corleone. Il suo incedere rassegnato tra i gendarmi del tiranno napoletano la dice lunga sulla solidità delle proprie convinzioni politiche

10. Incontro con la madre

Nella rappresentazione di questa stazione del Calvario di Bentivegna, il tratteggio delicato e il cromatismo tenue di Figlia si caricano di un pessimismo lirico, che rimanda per contrapposizione all’atmosfera gioiosa dell’incontro processionale di Cristo Risorto con la Madre Celeste.

11. Processo

Gli sguardi attoniti della folla ammassata dietro la sbarra, su cui poggia fiero ambo le mani l’imputato, raccontano magistralmente lo sgomento dei contemporanei e la partecipazione emotiva dell’artista, che non riesce ad estraniarsi dalla sorte del destinatario delle sue attenzioni pittoriche

12. Traduzione a Mezzojuso

Il questa scena, tra le più riuscite e dense di pathos, il volto dell’Eroe non compare: può essere caso mai ricercato in una delle quattro ombre che attenuano la tetra monotonia del carrozzone in marcia, con numerosa scorta, sugli stretti e tortuosi sentieri che portano a Mezzojuso.

13. Confessione

Gli sguardi leali di entrambi i protagonisti di questa scena - evocativa della tradizione iconografica bizantina - rivelano la profonda religiosità del barone popolare, che sta per congedarsi da questo mondo con il solo rammarico di non avervi potuto piantare il vessillo della libertà.

14. Testamento

L’immagine di Bentivegna assistito dal notaio, mentre scrive il testamento olografo - vicino alla finestra che incornicia il campanile della chiesetta dove il papàs lo ha appena assolto da tutti i peccati -, immortala la serenità con cui l’Eroe si appresta ad affrontare il plotone d’esecuzione.

15. Fucilazione

La crudezza del linguaggio pittorico con cui di solito si raccontano le esecuzioni capitali, in questo caso, è stemperata dalla geniale trovata dell’artista, che ritaglia all’immagine del Martire non meno spazio di quanto ne copra quella di Cristo Pantocratore tra i mosaici delle chiese bizantine.

16. A memoria

In bilico tra il fumetto e l’arte popolare, l’ultima scena tratteggia, con disincantata ironia, la sconcertante irriverenza di tre giovani volti indifferenti sotto il medaglione marmoreo di De Lisi e la scritta di Mercantini, che eternano la memoria dell’Eroe corleonese moschettato a Mezzojuso



NICOLA FIGLIA

Nicola Figlia è nato a Mezzojuso (Pa) il 27 ottobre 1950. Diplomatosi all’Accademia di Belle Arti di Palermo, è docente di discipline pittoriche al liceo artistico D. Almeyda di Palermo. Disegna a pennino, incide all’acquaforte e dipinge ad olio, lavora su tela e cartelloni. Nella sua pittura convivono in maniera dialettica neorealismo, espressionismo, metafisica, arte popolare, influenze bizantine. Il tutto si presenta attraverso l’ossessione del personaggio e del volto.

“Nicola Figlia è siciliano e la sua imagerie è profondamente legata alla sua terra. Egli infatti attinge all'arte bizantina ed al repertorio popolare, linguaggi ampiamente documentati in Sicilia. Ne scaturisce un sincretismo che perviene a livello estetico dopo una lunga e complessa rielaborazione personalissima, attraverso un linguaggio nuovo che mira a porsi come autoctono, immune da mode e modi tanto dell'oriente quanto dell'occidente. In realtà non si tratta di un linguaggio naif, al contrario si tratta di un recupero colto che si vuole porre come peculiare. Non è un caso se l'artista ha realizzato in prevalenza repertori religiosi essendo la religiosità profondamente radicata nell'isola. I celebri mosaici di Monreale si coniugano con il “racconto” dei cantastorie che trova spazio sui pannelli esplicativi per poi giungere nel teatro dei pupi e sui tipici carretti. A questa Sicilia immortalata da Verga riguarda Figlia, convinto che recuperare i valori della terra sia compito anche dell'arte, e nello specifico di quella figurativa. Non già arte di nostalgia o arte del passato ma arte del presente che si avvicina, per certi aspetti, agli esiti propri della pop art, ma non allineata al pop americano ma nell'ottica di un pop Siciliano”. (S. Severi)

Hanno scritto di lui: Giacomo Baragli, Ludmilla Bianco, Francesco Carbone, Bruno Caruso, Sofia Cuccia, Luca Di Martino, Pino Di Miceli, Riccardo Ferlazzo Ciano, Filippo Fiorino, Franco Grasso, Roberto Lopes, Roberto Lorenzetti, Sandro Miano, Enzo Patti, Lillo Pennacchio, Carmelo Pirrera, Anna Maria Ruta, Tonino Schillizzi, Stefania Severi, Franco Simoncini, Sergio Troisi, Angela Noya Villa.



Personali

1969 - Circolo Culturale “Silvio Pellico”, Mezzojuso.

1973 - Centro d'arte “il Paladino”, Palermo.

1977 - Centro d'arte “il Paladino”, Palermo

1983 - Il Mastro di Campo di Nicola Figlia, Galleria d'arte “la Persiana”, Palermo

1984 - Associazione Culturale “Prospettive”, Mezzojuso

1988 - Il Mastro di Campo, Centro Artistico “Velca”, Roma

1989 - Iconostasi, Chiesa di S. Maria, Altofonte

1991 - Nicola Figlia al Castello di Mezzojuso, retrospettiva, Comune di Mezzojuso

1992 - Cartelloni e personaggi del Mastro di Campo, Biblioteca Comunale, Mezzojuso

1995 - Primo Meeting della Pace, Godrano

1996 - Epi si Cheri, Chiesa di San Rocco, Mezzojuso

1996 - Omaggio a Nicola Figlia, Galleria d'Arte Moderna, Comune di Avezzano

1997 - BNL, Roma

1998 - Villa Niscemi, Comune di Palermo

1999 - Medioriente, “Qual'at”, Caltanissetta

1999 - Umanità e Religiosità, Chiesa San Francesco Saverio, Palermo

2001- Il Linguaggio del Sacro, seconda edizione, Chiostro di Sant'Antimo, Piombino

2004 - Il Mastro di Campo di Nicola Figlia, Associazione Pro Loco, Mezzojuso

2006 - I Confini del Sacro, Tabularium del Loggiato San Bartolomeo, Palermo

2007 - Francesco Bentivegna, stazioni di una passione civile, Comune di Mezzojuso

2008 - Francesco Bentivegna, stazioni di una passione civile, Comune di Corleone

2008 - Rivisti-Figlia, Associazione “Prospettive”, Castello, Mezzojuso

2010 - Tu ha raggiuni ma iò tortu unn’haiu, Biblioteca Comunale, Villalba (CL)

2010 - I colori del Campo, Associazione “Prospettive”, Castello, Mezzojuso

2010 - Il Volto, il Sacro, Convento Santa Maria di Gesù, Palermo

2010 - Il Mastro di Campo di Nicola Figlia, Palazzo Jung, Palermo

giovedì 24 marzo 2011

Corleone-Potenza, oltre la storia ufficiale


Il gruppo di Corleone Dialogos a Potenza
di Walter Bonanno 18 Marzo Ore 20: Dopo un'estenuante consiglio d'amministrazione tenutosi direttamente fra i banconi della Sisa, il capo-bevanda Vincenzo Bilello decide che le bibite ufficiali del viaggio saranno Glen Grant per gli uomini e Vodka di seconda marca gusto pesca e fragola per tutti gli altri.
Ore 20 (e un po'): all'appuntamento in Via Colletto non manca nessuno eccetto il sindaco. Qualcuno sussurra "allura putemmu partiri", ma si perde tempo con l'autista che non vuole che si carichi sul bus tutta la spesa e il sindaco riesce ad arrivare in tempo.

Ore 21: appuntamento con i forestieri. Ce n'è di tutti tipi. Le educatissime ragazze dell'Associazione Rita Atria che in tutto il viaggio non rifiuteranno mai un bicchiere di vino pur essendo astemie, Radio Aut, i ragazzini dell'Istituto Crispi di Palermo, le ragazzone di libera Palermo, i soci dell'Asvit di Bisacquino, Liborio Corato...insomma, "la crem de la crem" dell'associazionismo palermitano.

Ore 24: al passaggo in Italia c'è tristezza e paura. Nessuno vuole lasciare la madre patria. Fin da Cefalù questo è un pensiero ricorrente e non ci è bastato cantare 21 volte "Bella Ciao", 13 volte "Fischia il vento" e 9 "Io vagabando" per distrarsi. Detto fatto. Siamo in Calabria. Incubi sotto forma di peperoncini animati ci assalgono da ogni dove. Si riparte. Il sindaco vede una cascata dall'autostrada ed esclama "bella!". Attimi di paura.

19 marzo Ore 3:00: Dormono tutti. O quasi tutti. Walter, detto "il pungolo" e Cosimo inteso "parentesi" si dilettano a distruggere l'animo dei manifestanti. Si diffondono volontà omicide specie tra le ragazze "Rita Atria", desiderose di un po' di sonno. Quando anche l'ultima risata nel sonno di Roberta non si ode più, anche i nostri eroi decidono che possono riposarsi.

Ore 6:00: tra imprecazioni di ogni tipo, la carovana si avvicina a Potenza che ricorda vagamente il paese intorno al castello del Conte Dracula. C'è nebbia, il cielo è uggioso, i cornetti sono orribili; solo più tardi scopriremo che è una cittadina ridente, a condizione che non si parli di Elisa Claps.

Ore 8:30: il corteo sta per radunarsi nei pressi di una rotonda. Siamo felici di condividere questa esperienza con ragazzi da tutta la Nazione. Un tizio di Grugliasco (TO) ci addita al grido di "Ma voi siete quelli di Corleone Dialogos!". Il comitato accoglienza si prodiga in informazioni sulla nostra associazione ma avvedutici che le ragazze grugliaschesi sono poche ci allontaniamo con fare destrorso. Meglio le manifestanti Val d'Aostane. Nel frattempo, il Piragna e Lorena fermano tutti gli 80.000 presenti mostrando ad ognuno di loro il tesserino con la scritta "Stampa".

Ore 10:00: Dopo lunghe code ai bagni di un bar, si parte. Siamo indecisi sulla nostra posizione in corteo. Ragione vorrebbe che si stesse accanto alle autorità per confezionare un bel servizio giornalistico. L'istinto casinista invece ci fa optare per il camioncino con la musica. Il compagno Teresi si produce in una lunga arringa al popolo. Ci coglie l'invidia e mandiamo il più tosto dei nostri al microfono. Giovanni Piragna. Del suo intervento si capisce "Noi di Corleone Dialogos..." e "...Basilicata, fatti sentire!!!!!!". Considerato che al suo ritorno confesserà di avere avuto il dubbio che Potenza si trovasse in Molise, ci complimentiamo con lui.

Ore 13:30: inizia la lettura dei nomi delle vittime e inizia a piovere. Addentato un panino con porchetta costato 4 euro troviamo uno stand in disuso a ripararci. Avverto un richiamo ancestrale verso il palco e proprio quando mi avvicino è il turno del Sindaco. Per un attimo sono orgoglioso. Cosimo e Vincenzo mi guardano e scrivono in un libricino nero.

E' il turno anche del presidente. E' emozionato, si vede. Siamo fieri che Giuseppe, corleonese come noi, sia lì ad onorare le vittime che i nostri stessi paesani hanno contribuito a mietere. Capiamo che siamo noi la Corleone quella vera, insieme a coloro che in paese vivono nell'onestà e nella vergogna di aver avuto nel proprio paese gente come Riina, Provenzano e Bagarella (Microsoft Word mi sostituisce questo nome con Cagarella, hehehehe). Il nostro impegno e la promessa di non dimenticare non riporteranno in vita nessuno di questi nomi, ma forse un giorno contribuiranno alla definitiva morte della Mafia.

Ore 14:30: alla disperata ricerca di un posto dove mangiare e ripararci. Si va in un centro commerciale. Chissà perché a decidere sono state le ragazze.

Ore 15:30: si decide di fare un giro a Potenza. Marco e Silvia, stanchi e contrari, tentano un suicidio dimostrativo, ma alla fine prevale la sete di cultura del presidente. Scopriamo che Potenza è bell(ina). Cosimo si accapiglia con una potentina riguardo a Elisa Claps di fronte alla chiesa dove è stata ritrovata. Le sue argomentazioni sono semplici: basta risalire ai Borboni che già dal XIX secolo avevano siglato degli accordi con gli agrari per...chiusa parentesi.

Ore 18:00: e' il momento di ritornare. Ci dispiace un po' perché ci stavamo divertendo e il maltempo aveva dato un po' di tregua. Sull'autobus decidiamo di riposarci, ma già dopo 15 chilometri ce ne pentiamo. Prendono la parola i capi che commentano la giornata. Nel frattempo scoppia la guerra in Libia.

Ore 20:00: Prove di canto. Scopriamo che il compagno Teresi è una fucina inesauribile di canzoni comuniste. La nostra hit preferita diventa "L'alberello" che però riusciamo ad imparare bene solo per le tre di notte. Partono le interviste, ma siamo stanchi e brilli e finiamo per intervistare anche la moquette che Liborio ha deciso di inumidire col Limoncello. (Comunicazione per l'autista: "iddu fu!")

20 marzo, Ore 01:00: si prova a riposare. La stanchezza è davvero tanta. Sullo stretto c'è chi vorrebbe rimanere perché impaurito dai missili di Gheddafi, ma grazie a complicati calcoli di Vincenzo"il Bilello" ci rendiamo coto che il campo di gittata non andrebbe al di là di Bisacquino. Con un sorriso di compiacimento, guardiamo i ragazzi dell'Asvit e spingiamo sull'accelleratore del traghetto.

Ore 04:00: ci separiamo dai compagni palermitani. E' stata davvero una gran bella esperienza. Un gruppo di giovani unito che crede in qualcosa e che con gioia lo manifesta. Scendono anche le colleghe di Partanna che da lontano vediamo dirigersi in un osteria vicino alla fermata. Ormai le abbiamo perse...hanno dormito 21 minuti in due giorni e hanno bevuto n° 43 bicchieri di differenti bevande alcoliche.

Ore 05:00: nella prostrazione più totale, si arriva in paese. Nessuno ci aspetta e noi non aspettiamo che di andare a dormire, ma non prima di aver preso un cornettino da Bentivengna. E' stata una festa? Forse il termine è improprio, ma non si fa festa per ricordare i santi di paese morti sul rogo? Sì! E cosa sono Rizzotto, Verro, Letizia se non santi eroi che hanno dato la loro vita perché noi avessimo una vita libera? Siamo fieri dei corleonesi. Di quelli veri.
Da: Corleonedialogos.it

lunedì 21 marzo 2011

Sondaggio shock. «Falcone e Borsellino? Due illusi o fessi»

Giovanni Falcone e Paolo Borsellino
di Leone Zingales
SONDAGGIO CHOC. I risultati di un’indagine effettuata su 1.062 studenti di 8 scuole siciliane, una del Bresciano e una di Udine. Per il 31% la mafia è un’invenzione o addirittura un bene, il 34% non sa cosa sia il pizzo
PALERMO. Il 34% degli studenti siciliani, secondo un campione preso in esame di 1.062 ragazzi di età compresa tra i 15 ed i 18 anni, non ha mai sentito parlare del «pizzo»; il 18% considera Falcone e Borsellino degli illusi se non addirittura dei fessi; il 10% di studenti ritiene Riina e Provenzano uomini d’onore; per il 31% degli studenti la mafia è un’invenzione o un bene. E ancora: il 41% ritiene che le forze dell’ordine siano «sbirri» e persino inutili, il 71% non ha fiducia nelle istituzioni e il 64% pensa che la politica sia uno spreco di denaro. Questi i risultati emersi dal sondaggio «Sedici risposte per il tuo futuro» effettuato dall’associazione MafiaContro, in collaborazione con l’Asasi, che ha coinvolto gli studenti di otto scuole siciliane, una di Palazzolo sull’Oglio (Brescia) ed un’altra di Udine. Dall’analisi delle risposte rimane però «uno zoccolo duro – secondo MafiaContro – sul quale bisogna insistere per rimuovere ampi residui di un sentire mafioso fortemente condizionato da fattori socio economici». Risulta infatti che il 48% degli studenti provvederebbe a vendicarsi direttamente o, peggio, si affretterebbe a chiedere aiuto a qualcuno in grado di spalleggiarli, in caso di ingiustizia. Per quanto riguarda il rapporto giovani e scuola, è risultato che il 55% crede che le attività scolastiche non aiutino a formare le coscienze e un 21% afferma che i maggiori insegnamenti li hanno ricevuti per strada. Il test, effettuato tra dicembre 2010 e febbraio 2011, è stato comparato con le risposte fornite da un campione di studenti di Udine e della provincia di Brescia ai quali sono stati posti i medesimi quesiti. Il 68% di essi non ha mai sentito parlare (o solo qualche volta) della imposizione del «pizzo» e, in ogni caso, solo il 32% pensa di sapere di che si tratti perché, in effetti, solo la metà di questi ultimi definisce il pizzo una estorsione. Un dato che unisce, in un certo senso, Nord e Sud, è quello che vede il 62% degli studenti di Udine e di Palazzolo decisi a vendicarsi o a chiedere aiuto a qualcuno in caso di una ingiustizia subita. L’unica certezza che li distingue è quel 98% che non ha dubbi nel definire la mafia un male per la nostra società. Più modesta, ma di rilievo, la percentuale del 38% di coloro che ritengono la politica uno spreco di risorse pubbliche o che risponde di non sapere come definirla. Giudizio tutto sommato positivo sul ruolo della scuola. Il 72% risponde che la scuola è in grado di istruire e di informare. Si scende al 55% nel valutare le potenzialità della scuole nel formare nuove coscienze. Un dato in controtendenza è quello del 26% di ragazzi che considera Falcone e Borsellino illusi o fessi mentre il 34% degli intervistati avrebbe preferito non fare nulla o andare via dalla Sicilia qualora fossero stati chiamati a compiere le medesime scelte professionali. «I risultati del sondaggio – ha detto il senatore Carlo Vizzini, presidente di MafiaContro – dimostrano inequivocabilmente due cose: il profondo distacco degli studenti dalla politica e dalle istituzioni, ma anche come il giudizio sul fenomeno mafioso, e su coloro che lo combattono, sia denso di giudizi giustificativi o, peggio ancora, di valutazioni negative sulle forze dell’ordine». «Gli studenti interpellati – ha continuato – sono soggetti nati dopo le stragi di mafia, conoscono la stagione delle stragi sostanzialmente attraverso le fiction tv: dunque emerge con grande urgenza la necessità che la scuola sia dotata di mezzi che consentano ai giovani di conoscere la storia martoriata della loro terra, per poter dare un giudizio consapevole». «In una Regione in cui, da sempre, la formazione professionale ha bruciato milioni di euro – ha concluso Vizzini – ritengo indispensabile il finanziamento della formazione delle coscienze, attraverso l’insegnamento della storia della Sicilia, della propria Autonomia, della devastazione mafiosa e delle battaglie dei grandi siciliani che hanno combattuto contro la mafia anche a costo della vita. Una Regione che ha migliaia e migliaia di consulenti, farebbe ad impiegare più utilmente il proprio denaro e a farlo subito».
La Sicilia, 20.3.2011

domenica 20 marzo 2011

Rombano i motori dell'armata dell'Occidente

di EUGENIO SCALFARI
A PARIGI il vertice internazionale dei Paesi interventisti ha deciso l'attacco militare immediato avvertendo Gheddafi che lo stop ai raid è subordinato alla sua resa. Gli aerei delle potenze che agiscono sulla base della risoluzione dell'Onu sono arrivati nelle basi italiane. L'operazione militare è cominciata, ma il dibattito politico in Europa è apertissimo. Aiutare gli insorti, impedire che le milizie del raìs libico occupino Bengasi e Tobruk, soccorrere i profughi e arginare l'ondata dei migranti, sono obiettivi condivisi da tutti. Resta invece una differenza di opinioni molto profonda sui limiti tattici dell'intervento e sulla strategia politica nei confronti di Gheddafi. Bisogna impacchettarlo consegnandolo alla Corte di giustizia internazionale e processarlo per i crimini commessi contro il suo popolo? Oppure munirlo d'un salvacondotto ed esiliarlo? Oppure ancora lasciargli una parvenza di potere in una sorta di libertà vigilata disarmata e commissariata? Infine: bisogna mantenere l'unità della Libia o prendere atto che quell'unità è un'invenzione perché Tripolitania e Cirenaica sono realtà diverse dal punto di vista storico, tribale, religioso e la loro fittizia unità è stata imposta dal colonialismo italiano prima e dalla dittatura di Gheddafi poi?

Questo dibattito divide trasversalmente l'opinione pubblica europea ed anche i governi dell'Unione. Soprattutto divide Parigi da Berlino, Sarkozy da Angela Merkel. Bombardare o negoziare, questo è il tema. In Italia divide anche la destra; Berlusconi, dopo il lungo fidanzamento con il raìs libico, è entrato a far parte degli interventisti; Bossi si è allineato con la Merkel. Ma la divisione attraversa anche l'opinione pubblica al di là degli schieramenti politici.

Un fenomeno analogo si verificò trent'anni fa, quando l'Urss cominciò a dare palesi segnali di implosione. Regnava al Cremlino Breznev ma crescevano le tensioni all'interno del partito e del regime tra chi voleva perpetuare all'infinito la dittatura post-staliniana e chi voleva invece aprire la strada ad un "comunismo dal volto umano". L'opinione pubblica e le cancellerie occidentali si divisero tra i favorevoli all'innovazione e chi vedeva in Breznev una garanzia di stabilità europea e mondiale. Si sa come finì: Breznev, stroncato dalla malattia, aprì la strada ad Andropov, seguito da Cernenko, poi venne Gorbaciov, la "perestrojka", Eltsin e infine Putin. Storie molto diverse e non paragonabili con quella libica ma è interessante ricordare come reagì allora l'Occidente e come reagisce oggi sul caso Gheddafi. Le analogie sono forti. Alla base, come sempre avviene in politica, ci sono i diversi interessi che ispirano l'azione dei governi e orientano la pubblica opinione.

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Poche settimane fa, dopo la caduta di Mubarak, del dittatore tunisino Ali e delle insorgenze nello Yemen e negli Emirati, anche i giovani di Tripoli e soprattutto di Bengasi si ribellarono mettendo a mal partito la dittatura di Gheddafi che durava da oltre quarant'anni. L'Occidente non ebbe esitazioni: il caso libico appariva come un altro tassello della rivoluzione nord-africana; al Qaeda era scavalcata da un movimento che vedeva insieme uomini e donne, motivato da uno slogan formidabile: "pane e libertà", al tempo stesso sociale e ideale. Sembrò e in gran parte rimane una svolta storica, un'innovazione profonda che scavalcava il terrorismo di Bin Laden, il fondamentalismo coranico e talebano, aprendo un capitolo inedito nella convivenza delle civiltà. Questa fu la prima e unanime reazione dell'opinione pubblica ed anche delle cancellerie occidentali ma si pose subito il problema della gestione politica della fase successiva all'abbattimento delle dittature.

In Egitto l'esercito è sempre stato il perno dello Stato e non poteva che esser l'esercito a gestire la transizione. La storia della Turchia ne forniva l'esempio. In Tunisia mancava la "risorsa" dell'esercito e infatti la transizione si presenta ancora fragile e agitata. La Libia è un caso a sé, assai diverso dagli altri. Il paese è geograficamente immenso, demograficamente assai poco popolato, non arriva a cinque milioni di abitanti. Ricco di petrolio solo parzialmente sfruttato. Da quasi mezzo secolo guidato da Gheddafi con mano di ferro, accortamente populista, spregiudicato, corrotto, avventuroso oltre ogni limite. L'esercito non è che una milizia ben pagata e ammaestrata, con reparti speciali mercenari, una sorta di "legione straniera" assai contundente e feroce. Convincerli alla resa è molto difficile. Alle brutte i mercenari si squaglieranno, la milizia tribale si difenderà fino alla fine. Dopo l'inizio dell'operazione militare resta dunque la domanda: bombardare fino a che punto? Negoziare fino a che punto?

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Si possono, anzi si debbono bombardare gli aeroporti, abbattere i caccia se si alzeranno o distruggerli a terra, smantellare gli impianti di comunicazione, colpire le truppe se non si ritireranno nelle caserme. Più in là non si può andare. Quanto alla negoziazione si può forse rilasciare un salvacondotto al raìs e ai suoi familiari. Se non ci sta, bisogna abbatterlo, ogni altra soluzione è impensabile, sarebbe fonte di trappole continue e di incontrollabili avventure. A questa strategia vengono opposte due obiezioni. La prima sostiene che il mandato dell'Onu non può violare la sovranità di uno Stato che tra l'altro non ha invaso nessun altro paese. Saddam Hussein aveva invaso il Kuwait però si ritirò subito dopo l'ingiunzione internazionale ma l'armata di Bush in nome dell'Onu lo inseguì fino a Baghdad, lo processò e lo giustiziò. L'Onu di tanto in tanto assume le sembianze di uno Stato mondiale di fronte al quale le sovranità nazionali debbono cedere il passo. È avvenuto di rado ma alcune volte le sue risoluzioni hanno avuto questa valenza. In quante occasioni avremmo voluto l'esistenza di uno Stato mondiale nell'era della globalizzazione?

La seconda obiezione è: che cosa avverrà dopo? Una Libia senza un capo, senza una classe dirigente, sarà ancora governabile? Si dividerà in due, in tre, in cinque pezzi? Diventerà preda dei signori della guerra? E il suo petrolio? Le sue città? Le sue aziende? Gli investimenti esteri? I pessimisti temono che la Libia senza Gheddafi sarà un'altra Somalia, nido di briganti e di pirati. È un destino che le ex colonie italiane facciano tutte questa fine?

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Questa obiezione è più pertinente della prima. Non considera però che anche in Tripolitania e in Cirenaica esiste un ceto evoluto, esiste una rete di aziende produttive, un artigianato folto, una gioventù che aspira a cimentarsi con l'amministrazione e con la politica e una religione che fa da cemento sociale.

Bisogna accompagnare questa fase di rinnovamento, aiutarli a costruire uno Stato, un'amministrazione, una rete di commerci e di produzione. La Turchia può aiutare, l'Egitto può aiutare. L'Europa deve aiutare e l'Italia che ha responsabilità notevoli a causa di un antico e di un recentissimo passato con parecchi peccati da scontare.

Romano Prodi in una recente intervista ha tracciato una lucida visione del "che fare" nell'Africa mediterranea e in Libia in particolare. Parlava con la duplice esperienza di ex presidente del Consiglio e di ex presidente dell'Unione europea. Proponeva tra le altre cose trattati di associazione dei Paesi africani mediterranei all'Unione europea. Non ingresso nell'Unione per il quale non esistono le condizioni, ma associazione, amicizia istituzionalizzata a vari livelli secondo le condizioni politiche, sociali ed economiche di quei Paesi.

Queste proposte andrebbero riprese e messe con i piedi per terra. Il Mediterraneo è stato per millenni il centro del mondo atlantico. In tutte le sue sponde è un mare europeo e ancora di più lo è oggi con l'immigrazione che in questo Ventunesimo secolo cambierà la fisionomia etnica del continente. Flussi di persone e di famiglie, flussi di capitale e di investimenti, flussi culturali e religiosi, conquista di diritti, osservanza di doveri poiché ogni dovere suscita un diritto e ogni diritto comporta un dovere. L'Italia ha una missione da adempiere e una grande occasione da cogliere. Noi ci auguriamo che ne sia all'altezza. Le esortazioni di Giorgio Napolitano ci siano, anche in questo, di insegnamento e di stimolo.

In questi mesi la figura del nostro Presidente ha acquistato uno spessore etico e politico che ne fa il punto di riferimento di tutto il Paese. Questa unanimità non è posticcia né retorica, esprime un sentimento e un bisogno. Ci rafforza come nazione. Rafforza i nostri legami europei. Suscita all'estero rispetto e ascolto. Non eravamo più abituati a questa considerazione, avevamo scambiato (alcuni avevano scambiato) la politica delle pacche sulle spalle per considerazione internazionale. Ora non è più così. Abbiamo una guida ed una rappresentanza migliore. Possiamo di nuovo considerare la nostra presenza mediterranea come un punto di forza non solo per noi e per i nostri legittimi interessi nazionali, ma per l'Europa e per l'Occidente.
La Repubblica, 20 marzo 2011

mercoledì 16 marzo 2011

IL VIDEO. Corleone ricorda Placido Rizzotto, 10 marzo 2011

Il manager dell'ASP di Palermo, Salvatore Cirignotta: "Ecco come potenzierò Corleone e Petralia"

Salvatore Cirignotta
Avvio dei PTA, ampliamento dell'attività specialistica ambulatoriale, RSA e riabilitazione, potenziamento della prevenzione e l'attribuzione delle prestazioni di assistenza domiciliare proporzionate alla popolazione. Sono alcuni degli interventi previsti dal "Piano delle attività e dei servizi" previsti dall'Asp di Palermo sia per il bacino del Distretto di Corleone sia per quello di Petralia Sottana. I particolari sono stati illustrati ai Sindaci dei rispettivi comprensori, dal Direttore generale, Salvatore Cirignotta. "Considerata la particolarità delle zone montane e di quelle con difficoltà di collegamento – ha spiegato il manager dell'Asp - ho avuto il piacere in questi giorni di illustrare, prima a Corleone e poi a Petralia Sottana, ai Sindaci dei rispettivi distretti, ma anche ai rappresentanti sindacali ed agli esponenti della società civile, il piano attuativo 2011 relativo ai servizi sul territorio che l'Azienda intende assicurare anche potenziando quelli esistenti". I piani attuativi per Corleone e Petralia, cui seguiranno quelli per il Distretto di Lercara e per le isole, costituiscono un anticipo del piano triennale attuativo aziendale. "Ho ritenuto giusto – ha sottolineato Cirignotta - rendere immediatamente chiaro, a seguito della rifunzionalizzazione dell'Ospedale, quali fossero le previsioni di offerta dei servizi territoriali. L'organizzare di piani "robusti" ha comportato un impiego di risorse umane ed economiche notevoli. Tra l'altro, le nuove piante organiche degli Ospedali di Corleone e Petralia Sottana stabiliscono un aumento del personale rispetto a quello in servizio nel 2009". Il Piano dei servizi territoriali prevede, tra l'altro, per Corleone il potenziamento della neuropsichiatria infantile in ambito autistico, l'ampliamento delle prestazioni di specialistica ambulatoriale di cardiologia, diabetologia e radiologia e di tutte quelle branche che superano i normali tempi di attesa, mentre la lungodegenza è stata, già, attivata. A Petralia, invece, riaprirà presto il Centro di dialisi di "Madonnuzza" ed entro il mese di giugno sarà attivo il Reparto di riabilitazione. L'Asp prevede di realizzare con un investimento di circa mezzo milione di euro una RSA, mentre 600 mila euro costerà il potenziamento tecnologico dell'Ospedale "Madonna dell'Alto".
"Per entrambi i territori – ha aggiunto Cirignotta - l'Asp, oltre ad avviare i PTA, si impegna nel 2011 ad assegnare pacchetti di assistenza domiciliare e di assistenza domiciliare oncologica proporzionata alla popolazione. Con fondi aziendali, saranno ristrutturati, sempre nel 2011, i pronto soccorso dei due Ospedali. Già da quest'anno, quindi, i distretti di Corleone e Petralia potranno disporre in modo ampio di quello che ai cittadini, soprattutto agli anziani, serve maggiormente. E' chiaro che per determinati ricoveri occorrerà andare fuori per qualche giorno in strutture più complesse e dove il rischio clinico è minore, ma è pur vero, ad esempio, che al ritorno in provincia, si avrà la possibilità di fare la riabilitazione, che può durare anche mesi, nel proprio territorio. Non bisogna dimenticare che dal secondo semestre 2011, attraverso l'opera di risanamento del bilancio, l'assistenza domiciliare crescerà del 20% in tutta la provincia. Sia a Corleone che a Petralia, sarà attivato nel secondo semestre di quest'anno un servizio di telecardiologia e di teleradiologia che consentirà di mettere in comunicazione le strutture con centri specializzati. Sempre nel secondo semestre verrà attivata l'equipe oculistica itinerante che potrà effettuare ciclicamente interventi di cataratta e di piccola chirurgia sia a Petralia che a Corleone.
Allo stesso modo non può trascurarsi che in provincia, stanno 'sorgendo' risposte nuove e diversificate che prima l'utente doveva cercare altrove. Basta fare l'esempio del Centro di alta specializzazione per medullolesi di "Villa delle Ginestre" a Palermo, dell'apertura del Centro per Pluriminorati sensoriali a Termini Imerese, del primo modulo di Hospice per malati oncologici, dei circa 150 posti di Residenze sanitarie assistite (RSA) in tutta la provincia e della prossima apertura a Piana degli Albanesi di una RSA per malati gravi di Alzheimer. In tutti questi casi, gli utenti della provincia possono trovare risposta a patologie che affliggono pazienti e familiari, talora in via continuativa e comunque per tempi lunghi, senza bisogno di spostamenti. E' chiaro che la risposta ospedaliera di eccellenza, non può che essere fornita in strutture correlate a larghi bacini di utenza, ma l'aumento delle prestazioni territoriali – ha concluso Cirignotta - costituisce la vera ed appropriata garanzia delle pari opportunità di accesso ai servizi sanitari che tutti i cittadini devono avere".
http://www.asppalermo.org/

sabato 12 marzo 2011

Mario Draghi e Luigi Ciotti: "Mafie al nord, pericolo per democrazia"

Un impianto fotovoltaico
di Lorenzo Frigerio
Il giorno dopo il diluvio, splende il sole su Milano. Il giorno dopo il tremendo schiaffo della DNA, che nella sua relazione parla di “colonizzazione” della Lombardia da parte della ‘ndrangheta, un timido raggio di sole fa capolino tra le nuvole, per farsi sempre più forte con il passare delle ore a rischiarare il futuro prossimo: forse la speranza c’è, forse la battaglia contro il cancro mafioso si può vincere, forse. In realtà, a Milano c’è il bigio cielo di sempre, ma oggi la società civile e responsabile ha battuto un colpo e ha risposto all’appello lanciato da Libera e dalle sette università milanesi: appuntamento questa mattina presso l’aula magna di via Festa del Perdono, ospiti d’eccezione Mario Draghi, governatore della Banca d’Italia e Don Luigi Ciotti, presidente di Libera. Incontro e tema erano stati fissati da lungo tempo, tempo durante il quale i sette atenei milanesi hanno elaborato un programma di seminari interuniversitari che hanno l’ambizione di organizzare una risposta culturale e scientifica alla sfida criminale. Una risposta civile che, partendo proprio dagli atenei, innervi il mondo delle professioni e responsabilizzi la cittadinanza, per creare quegli anticorpi necessari a debellare il fenomeno mafioso.
Oltre mille persone
Nemmeno nella più rosea delle previsioni iniziali era immaginabile un esito così importante, in termini di partecipazione e consenso all’iniziativa di oggi. La data dell’incontro, blindata in ragione dei molteplici impegni dei due prestigiosi relatori, era da subito stata un problema, perché coincidente con il carnevale di rito ambrosiano. Mostrando buon viso a cattivo gioco e quindi pronti a rinunciare in partenza agli studenti fuori sede, vista la sospensione delle lezioni, gli organizzatori non avevano però fatto i conti con lo sciopero dei mezzi pubblici, annunciato solo qualche giorno fa. E, quindi, quando a meno di un’ora dall’inizio, erano ancora poche decine i presenti in sala, ci si preparava al peggio. Nel giro di una decina di minuti però, in una Statale pressoché deserta, l’affluenza iniziava lentamente ad aumentare e le sedie andavano riempiendosi, tanto che alle undici in punto l’aula magna era gremita in ogni ordine di posti. Alla fine le presenze saranno stimate tra le mille e le milleduecento. Una variopinta e fresca partecipazione di giovani e di studenti, i rappresentanti delle associazioni (molti referenti di Libera provenienti da fuori regione) e dei sindacati, i docenti delle università milanesi e gli amministratori di enti locali. Tutti intenti a scambiarsi opinioni e saluti. Tutti pronti però a fare silenzio, quando fanno il loro ingresso in sala i due ospiti, accolti da un lungo applauso: sono passate da poco le undici e un quarto e nel rispetto del più classico quarto d’ora di ritardo accademico, inizia il dialogo a distanza tra i due.
Ciotti ricorda Borsellino
Don Luigi inizia il suo appassionato intervento ricordando Paolo Borsellino, con le parole pronunciate dal magistrato ucciso da Cosa Nostra, in occasione della celebrazione del maxiprocesso contro le cosche siciliane. In quello che sembrava il momento di massimo successo dell’offensiva dello Stato contro la mafia, proprio quando la vittoria sembrava vicino, il giudice metteva in guardia da pericolosi allentamenti di tensione e dalle “perniciose illusioni” che potevano far credere di aver debellato per sempre il cancro criminale. E il sacerdote decide di partire utilizzando proprio questa citazione, per ricordare subito a tutti come, a fronte degli importanti risultati conseguiti in termini di catture dei latitanti e di sequestro dei beni, non siano pochi i segnali di preoccupazione sul versante della lotta alle mafie. A partire proprio dalla relazione della DNA che, in riferimento alla Lombardia utilizza proprio l’espressione “colonizzazione”, abbandonando per sempre ogni timido riferimento ad infiltrazioni possibili o presenze indesiderate. Ciotti ricorda come da anni, proprio l’osservatorio rappresentato dalle tante associazioni che si muovono sul territorio e che si riconoscono sotto l’egida di Libera avesse già lanciato segnali di profonda preoccupazione per la pervasiva presenza delle mafie nel contesto delle regioni del nord. Oggi ai danni perpetrati dal crimine organizzato devono aggiungersi quelli prodotti dalla corruzione: le cifre riportate dalla Corte dei Conti sui costi dei reati legati alla corruzione, insieme al fatturato delle mafie sono, secondo Don Ciotti, una ferita costante alla reale esigibilità dei diritti nel nostro paese. Ecco la ragione della campagna in corso di svolgimento intitolata “Corrotti” che punta a chiedere al presidente Napolitano l’adeguamento normativo del nostro sistema per contrastare la corruzione. Ciotti ricorda poi l’allarme lanciato dal procuratore aggiunto di Milano Ilda Boccassini che, nel denunciare la zona grigia dove allignano le collusioni con il crimine, lancia l’allarme anche per il clima di omertà diffuso e la passività di tanti, cittadini e imprenditori, nel collaborare con le istituzioni preposte al controllo di legalità. Per questo segnali importanti, come il protocollo stipulato a Modena da tutti gli ordini per vigilare sul corretto esercizio della professione e l’eventuale espulsione di quanti si macchiassero di rapporti illeciti con appartenenti alle cosche, vanno incoraggiati e segnalati per il presidente di Libera. Altri importanti risultati, come l’agenzia per i beni confiscati, vanno nella giusta direzione, ma occorre ogni giorno rilanciare l’impegno personale e collettivo. “Vogliamo più giustizia, vogliamo più trasparenza, vogliamo più libertà per tutti – ha concluso il sacerdote – ma noi dobbiamo fare la nostra parte. Vogliamo essere una spina propositiva. Il cambiamento ha bisogno di più da parte di ciascuno di noi. Questa è la speranza”.
Draghi: “Mafie frenano lo sviluppo”
Tocca poi a Mario Draghi che si dice grato a Libera per l’invito, rivolto alle oltre mille persone assiepate nell’aula magna dell’ateneo: “Sono orgoglioso di questa risposta civile”. Per il governatore della Banca d’Italia, “contrastare le mafie, la presa che esse conservano al Sud, l'infiltrazione che tentano al Nord, serve a rinsaldare la fibra sociale del paese ma anche a togliere uno dei freni che rallentano il cammino della nostra economia”. Draghi ricorda il difficile momento economico che ha visto molte imprese in difficoltà e facili prede del crimine mafioso. Nell’argomentare il suo ragionamento, riporta una serie di statistiche e cifre che testimoniano la costante e crescente aggressione delle cosche all’economia del nostro paese, soprattutto nelle regioni del sud. Un’avanzata che oggi si misura in modo preoccupante anche al nord: tra il 2004 e il 2009 le denunce per associazione mafiosa al nord sono concentrate per quattro quinti nelle province di Milano, Bergamo e Brescia. Le cosche avanzano quindi e la loro presa sul territorio aumenta in maniera esponenziale. Non solo pericoli per l’economia ma anche per la democrazia, vengono dal combinato disposto degli affari delle mafie e dai danni provocati dalla corruzione.
Ecco perché un impegno prevalente della Banca d’Italia è nel contrasto del riciclaggio, con la segnalazione delle operazioni sospette: “il sistema finanziario italiano si sta gradualmente conformando alla disciplina: siamo passati da 12.500 segnalazioni nel 2007 a 37.000 lo scorso anno, con una dinamica in accelerazione. Professionisti e altri operatori sono meno solerti: i potenziali segnalanti avvocati, notai, commercialisti, sarebbero diverse centinaia di migliaia, ma nel 2010 sono pervenute solo 223 segnalazioni”. Il governatore chiude il suo intervento richiamando le banche ad una maggiore solerzia nella vigilanza ma anche nella vicinanza ai clienti in difficoltà perché non cadano nelle maglie dell’usura e dell’estorsione mafiosa.
C’è tempo ancora per qualche domanda raccolta nei percorsi formativi promossi da Libera e dalle università. Il governatore non si sottrae e quando l’incontro termina, ad attendere lui e don Ciotti sono le tante telecamere e i taccuini dei tanti giornalisti di tv e quotidiani. La notizia viene rilanciata con grande enfasi da tutte le testate online dei maggiori quotidiani: nel leggere questi articoli resta però l’impressione che si sia persa l’occasione di raccontare il contesto attento e partecipato che ha accolto gli interventi di Ciotti e Draghi. In nessuno di questi si legge delle circa cinquecento persone che hanno lasciato i loro riferimenti per essere coinvolti nelle attività di Libera o delle quattrocento cartoline contro la corruzione sottoscritte in meno di due ore. Nessuna delle agenzie o dei resoconti giornalistici, infatti, ci racconta del raggio di sole che oggi, timido, si è fatto largo nel cielo bigio di Milano. Se le università di Milano, se le associazioni si impegnano, i giovani ci sono e loro sì che fanno sperare che il cambiamento sia possibile. Il cammino ora continua con i seminari e con i corsi promossi dai sette atenei. Indietro non si torna. Il sole forse, domani, tornerà a splendere su Milano.
Liberainformazione.org, 11.3.2011

Delitto Rostagno: quando nel 1988 Polizia e Carabinieri seguivano piste diverse E Gladio cercava la droga dentro Saman

Mauro Rostagno
di RINO GIACALONE
Polizia e carabinieri confliggenti. Rino Germanà e Nazareno Montanti, sono due investigatori, il primo poliziotto, l’altro carabiniere, che nel 1988 si occupavano a Trapani della lotta alla criminalità. Eppure il loro approccio con uno dei più efferati delitti di quell’epoca, quello di Mauro Rostagno, 26 settembre 1988, a 12 giorni da un altro delitto, quello del giudice (in pensione) Alberto Giacomelli, è risultato essere diverso, opposto. Polizia da una parte, con il dirigente della Mobile, Rino Germanà, oggi questore a Piacenza, dopo esserlo stato a Forlì, ed essere sfuggito nel 1992 ad un agguato mafioso a Mazara, e Carabinieri, dall’altra parte, con l’allora tenente colonnello Nazareno Montanti, oggi generale in pensione, si sono subito divisi: i poliziotti hanno pensato subito al delitto di mafia, per la caratteristiche dell’agguato, i carabinieri a una vendetta interna, maturata dentro la Saman, la comunità fondata da Rostagno assieme a Francesco Cardella e alla sua compagna, Chicca Roveri. Le differenze nelle indagini sono venute fuori in modo lampante dal processo in corso davanti la Corte di Assise dove imputati di essere presunti mandante ed esecutore, sono due mafiosi conclamati, Vincenzo Virga e Vito Mazzara. Se per Germanà non è modo di comportarsi di chi commette un delitto d’impeto, una vendetta, quello di usare una autovettura rubata, e rubata molti mesi prima e lontano dal luogo dell’omicidio, auto poi fatta trovare bruciata, a 48 ore da delitto, ma semmai questa è una «sequenza» mafiosa, per il generale Montanti la circostanza quasi non ha valore, lui davanti la Corte ha insistito che gli unici che avevano interesse ad uccidere Rostagno erano soggetti della Comunità Saman: «Lui (Rostagno ndr) era un tipo rigido, onesto, noi all’epoca indagavamo sull’amministrazione della Comunità, c’erano cose nei conti che erano irregolari, siamo sicuri che se Rostagno li avesse scoperti non poteva mai essere disponibile a coprirli». C’è per Montanti poi un altro episodio, lo spaccio (pochissima «roba») tra gli ospiti della comunità che lavoravano con Rostagno a Rtc. Si può uccidere per questo? Organizzare un commando, prendere un’auto rubata, usarla, poi bruciarla. "Una pista che fa comodo". Ma i punti di vista, investigativi, diversi sono stati anche su altro. Per Montanti ad un killer di mafia non può mai scoppiare in mano il fucile, ma non sapeva però che a uccidere è stato anche un killer armato di revolver, per Germanà lo scoppio è dovuto ad un sovra caricamento, e la mafia per Germanà questo lo ha spesso fatto per avere sicurezza che la «vittima» non ne uscisse viva, per i carabinieri questo è semmai comportamento tipico «dei cacciatori che vogliono risparmiare». Ma c’è anche altro. Germanà ha puntato dritto sugli editoriali e gli interventi televisivi in tv fatti da Rostagno. Se i carabinieri hanno dovuto ammettere (luogotenente Beniamino Cannas, all’epoca brigadiere) che «era un nuovo modo di fare giornalismo», stranamente poi in aula Montanti e Cannas hanno detto di non conoscere addirittura il contenuto degli interventi televisivi di Rostagno. Incredibile, i carabinieri che di solito sono gli «occhi» più attenti nel territorio non seguivano le cronache della stampa e sopratutto quel Rostagno che Montanti peraltro ha detto che già conosceva, da Milano, lo aveva rivisto a Trapani, non si erano mai detti molto, l’ultima cosa che lui ha detto di avergli detto è stato, «vai Mauro che ce la fai» quando lo vide disteso su una barella al suo arrivo in ospedale dopo l’agguato, ma Rostagno era già morto. Ma per i carabinieri la pista mafiosa «era solo da sbeffeggiare», «faceva solo comodo a certa stampa». Germanà invece nel suo rapporto ha fatto molto riferimento agli interventi televisivi di Rostagno, contro la cattiva politica e la malamministrazione della cosa pubblica, il traffico e lo spaccio di droga, la mafia, con interviste anche qualificate, allo scrittore Marcello Cimino, al procuratore Borsellino. Tutto questo ai carabinieri è sfuggito, tanto da non avere mai pensato a sequestrare le cassette con gli interventi televisivi di Rostagno. «Non c’erano elementi che ci portavano alla mafia» ha detto Montanti, «ogni cosa che vedevamo ci faceva pensare alla mafia» ha detto Germanà. Ma alla fine a indagare furono i carabinieri. A capo della Procura all’epoca cera il dott. Nino Coci, Nazareno Montanti ha detto che «non era facile parlare col procuratore», ma senza parlare su una cosa i due erano d’accordo, «non era stata la mafia» perchè questo pubblicamente un giorno il procuratore Coci ebbe a dire, sostenendo che nessun organo investigativo gli aveva mai presentato un rapporto sull’esistenza della mafia a Trapani. L’ordine era «silenzio» e Germanà a Trapani forse per questo non ci restò molto, e poi nella stagione stragista del 1992 doveva essere ucciso. Una perizia non ripetuta fino al 2009. Tutto questo succedeva nel 1988 mentre si diceva che la mafia a Trapani non esisteva, a Mazara trascorreva la latitanza il capo dei capi Totò Riina e Bernardo Provenzano viveva in città e portava i figli in una scuola del centro storico. La mafia cambiava pelle, non solo «campieri» o trafficanti di droga, ma anche appalti e politica nella sua «agenda». Le differenze investigative tra Polizia e Carabinieri sono state forse decisive in questi quasi 23 anni trascorsi dal delitto, e si è dovuta attendere la felice intuizione di un «brigadiere» di polizia, “Nanai” Ferlito, che riprendendo il fascicolo pose all’allora suo dirigente della Mobile, Giuseppe Linares, una domanda semplice, se mai erano stati ripetuti i confronti balistici tra i delitti Rostagno e quelli successivi. A nessuno fino ad allora era mai venuto in mente di farlo. Il confronto balistico ha fatto combaciare alcuni delitti di mafia con l’omicidio Rostagno. La nuova indagine. Oggi si aprono nuovi scenari non incompatibili col processo in corso. «La pista mafiosa non esclude le altre» si legge in uno dei passaggi giudiziari che sono finiti dentro al processo in corso dinanzi alla Corte di Assise. La stessa affermazione costituisce un elemento dello «stralcio», della nuova indagine che è in corso sul delitto Rostagno, «fu mafia ma non solo mafia» ripete il procuratore aggiunto Antonio Ingroia. È indicativa degli «scenari» la circostanza che il «passaggio» è contenuto in una delle richieste di archiviazione, quella relativa alla posizione dell’ex guru Francesco Cardella, la magistratura ha dovuto archiviare ma i dubbi sono rimasti. Tant’è che su Cardella nella richiesta di misura cautelare firmata dalla Dda di Palermo contro Vincenzo Virga e Vito Mazzara, i magistrati continuano a fare stagliare tante «ombre». Ma la novità che emergerebbe dallo «stralcio» in corso, e sul quale i magistrati della procura antimafia di Palermo stanno lavorando, non riguarda le «piste» delle quali si è tornato a sentire dire, Lotta Continua e il delitto Calabresi, il contrasto per una intervista tra Rostagno e Cardella, oppure l’impegno di Rostagno per la liberalizzazione delle droghe, o ancora l’invito fatto da Rostagno a Renato Curcio (il capo delle Br all’epoca prossimo alla semilibertà), e infine i «colleghi» di Rtc di Rostagno trovati a «bucarsi», ma riguarda proprio gli «affari» che la mafia all’epoca stava conducendo e rispetto ai quali Rostagno poteva essere un «nemico» indiretto perchè «disturbatore» della tranquillità cittadina dove era riuscito a piantare «radici» un groviglio di interessi venuto fuori, e in parte, solo dalla fine degli anni ’90 in poi, mafia, politica e imprese. Prima di essere ucciso (lo dicono i suoi editoriali) intensa si era fatta la sua attività di approfondita conoscenza del mondo politico locale, forse apposta per scrutarne qualche aspetto «segreto»: i politici da lui presi nel mirino sono gli stessi che anni dopo sono finiti a riempire con i loro nomi le cronache giudiziarie e quelle antimafia. Mafia e poteri forti, come la massoneria. C’è questo dentro l’indagine in corso a Palermo? Sembra proprio di si. Anche se ancora contro ignoti. C’è un altro particolare del quale bisogna tenere conto. L’insistenza dei carabinieri del col. Montanti di inseguire altre piste per il delitto, come quella «interna» alla Saman, malamministrazione e il fatto che alcuni ospiti continuavano a spacciare a a drogarsi, trova inquietante riscontro nell’unico rapporto ufficiale presentato dalla struttura para militare di Gladio che aveva una «cellula» a Trapani, il centro Scorpione. L’unica relazione presentata riguardava proprio la Saman e un traffico di droga con coinvolti soggetti della comunità. Una mano si portò via la cassetta. È tra queste carte che bisogna cercare i depistaggi che nell’indagine sul delitto Rostagno sono stati più che evidenti. Anche «provate» da certe testimonianze in Corte di Assise, subito emerse ad avvio di processo. Qualcosa di losco è ancora accaduto quella sera del 26 settembre 1988, se a sentire alcuni testi appena un quarto d’ora dopo il delitto la porta dell’ufficio di Rtc che apparteneva a Rostagno fu aperta e qualcosa sparì dal suo tavolo. Tutti finora hanno cercato una cassetta video, e invece si tratterebbe, come ha ricordato Maddalena Rostagno, la figlia di Mauro, di una cassetta audio.

mercoledì 9 marzo 2011

Processo per l'omicidio di Mauro Rostagno

                                                                                 Non c’è a Trapani solo il processo in corso contro i boss Vincenzo Virga e Vito Mazzara. C’è un’altra indagine, a Palermo, sul delitto di Mauro Rostagno del 26 settembre 1988. Si cercano i mandanti «occulti» del delitto, è una ipotesi che la Procura antimafia di Palermo ha stralciato dall’indagine che ha portato al processo in corso davanti alla Corte di Assise di Trapani. Mandanti «occulti» nel senso che la mafia ha avuto «appaltato» il delitto da altri? Il pm Ingroia non risponde, parla genericamente, si coglie che la mafia non ha commesso il delitto per conto di altri ma quanto gli altri avrebbe avuto interesse ad uccidere Rostagno. Si è cominciato così per la terza udienza del processo Rostagno. L'atmosfera in aula sembra distesa, ma nell'aria pesa la pubblicazione appena uscita su un mensile, "I quaderni de l'Ora", un «dossier» dedicato al delitto Rostagno, dove si parla dell'indagine quasi mettendo in ombra l'ipotesi mafiosa oggi a dibattimento. C’è scritto che al contrario di Peppino Impastato che si trovò a cento passi dal boss mafioso Badalamenti, per Rostagno non fu così. E invece è provato che Rostagno era in mezzo ai lupi e i lupi lo hanno azzannato. I passi che dividevano Rostagno dalla mafia erano molto meno di cento. Editore di Rtc, la tv dove lavorava era quel tale Puccio Bulgarella, ora defunto, imprenditore edile, era uno di quelli che parlava con i boss palermitani, amico di Angelo Siino, il cosidetto ministro dei lavori pubblici del capo dei capi Totò Riina.
Presto arrivano tensioni e clamori
Una udienza che via via si è caricata di tensione e clamore. La testimonianza di Maddalena, la figlia di Mauro, e quella di due carabinieri, investigatori della prima ora, testimonianze carichi di vuoti, che hanno lasciate domande senza risposta. Le testimonianze dei due investigatori dei carabinieri, in particolare del generale (in pensione) Nazareno Montanti, hanno presentato aspetti clamorosi, del genere che si poteva indagare da subito, si potevano prendere di mira immediatamente gli ambienti mafiosi, ma non lo si è fatto, e il delitto Rostagno per 22 anni è rimasto qualcosa di vago, alla fine come se fosse irrisolvibile. Come se le indagini dovevano fermarsi nell’istante esatto in cui si scopriva l’omicidio. E la pista della mafia è finita «sbeffeggiata». E gli interventi in tv di Rostagno contro mafia, massoneria, politici corrotti. Non considerati? Ci sono le intercettazioni cominciate a un anno dal delitto, il verbale di sopralluogo redatto mesi e mesi dopo l’omicidio, per dire alcune cose. Certo c’è da prendere consapevolezza piena di alcune cose: che negli anni ’80 in un territorio come Trapani dove la criminalità mafiosa «impazzava», con una innumerevole serie di omicidi, a indagare contro la criminalità organizzata c’erano, lo ha detto il gen. Montanti, 15 carabinieri. Poi ci sono gli aspetti di incredibile sottovalutazione, l’uso di un’auto rubata sei mesi prima del delitto dai sicari entrati in azione a Lenzi, non ha per nulla indotto Montanti, allora tenente colonnello, a sospettare che non potevano essere dei «balordi» come lui pensava ad avere ucciso. E poi perchè avrebbero ucciso? «Perchè Rostagno aveva scoperto la "malamministrazione" dentro Saman». E quindi le irregolarità che sarebbero state commesse da Cardella. Le difese hanno cercato di sfruttare questo «canale», un difensore, l’avv. Mezzadini, pur di inseguire altre piste, fuori dalla mafia, ha finito con il tirare fuori una vicenda personale di Maddalena Rostagno, rinnovandole in modo «gratuito» un dolore mai sopito.
La voce di Mauro Rostagno
L’udienza è cominciata con la voce di Mauro Rostagno. Nessun sortilegio. La Corte di Assise ha acquisito gli spezzoni di un documentario dove ci sono le immagini girate dall’operatore di Tele Scirocco, Agostino Occhipinti, la sera del delitto. Immagini che servono al processo, che sono poste tra un intervento di Mauro e un altro, per questo riecheggia la sua voce in aula durante la proiezione che dura pochi minuti, ma sono quelli che servono per ascoltare pezzetti degli editoriali fatti da Rostagno a Rtc, quelli dove parlava del traffico e lo spaccio di droga a Trapani, «ma i politici dice si interessano ad altro», poi a seguire le immagini di quella Duna sforacchiata dei colpi sparati dai killer. Vito Mazzara, l'imputato accusato di avere ucciso Rostagno, presente in aula, dentro la cella, sembra guardare da un'altra parte ma dovunque volge lo sguardo trova gli schermi sistemati nell'aula bunker «Giovanni Falcone» del Palazzo di Giustizia e che trasmettono quei fotogrammi. Poi continua a parlare Mauro: «Trapani quarta in Sicilia nella classifica dei morti ammazzati», era il 1988, tra qualche giorno sarebbe toccato anche a lui. L'ultima immagine è il sedile della Fiat Duna dove era seduto Rostagno quando lo uccisero. Una macchia di sangue, poi il filmato viene stoppato.
Maddalena sul pretorio.
Sembra più magra del solito, e forse lo è. Maddalena Rostagno aveva 15 anni quando il 26 settembre 1988 le uccisero suo padre, Mauro. Di buon mattino ha messo piede con il suo avvocato, Carmelo Miceli, nell’aula bunker «Giovanni Falcone», la si vede piegata sul tavolo a parlare con il suo difensore di parte civile. Ieri è toccato per prima a lei salire sul pretorio davanti ai giudici della Corte di Assise, per raccontare quei giorni lontani quasi 23 anni. In questi giorni c'è chi le ha chiesto 24 ore per preparare un nuovo dossier (giornalistico) sulla morte di Mauro Rostagno, a lei non le dettero neppure un millesimo di secondo per potere salvare la vita al padre. È tesa, ma non si tira indietro a nessuna domanda. Racconta la vita con suo padre, in giro per il mondo, le scelte quasi di povertà, e di aiuto ai meno fortunati, ma assieme la fermezza dell’uomo che voleva da lei quello che qualunque genitore può volere per una figlia di quella età, e cioè la regolare frequenza scolastica. Quel 26 settembre 1988 ha dovuto ricordare ai giudici la discussione avuta in mattinata con suo padre, lei non voleva andare a scuola e non ci andò, «mi incrociai con lui ad ora di pranzo», non lo dice ma si capisce che i due non si parlarono: «Fu l’ultima volta che lo vidi». Ha ricordato che la sera era nella sua stanza dentro il cosidetto «Gabbiano» della Saman, la residenza dei dirigenti della comunità, «ho sentito i colpi di arma da fuoco, poi qualcuno entrò dentro spalancando la porta e gridando forte il nome di mia madre Chicca, dissi che non c’era e che era negli uffici». Il racconto è frenetico: «Sono uscita fuori, sono andata evrso gli uffici, vidi Monica Serra, sapevo che lei doveva tornare con mio padre da Rtc, guardai intorno e non vidi Mauro, Monica stava abbracciata ad uno, mi disse lei che c'era stato un incidente. Non ricordo se lei fosse sporca di sangue, ma lo era mia madre che io incontrai nella stretta stradina fuori dalla comunità quando mi fermarono impedendomi di raggiungere l’auto di mio padre ferma 400 metri più avanti, mia madre mi abbracciò aveva le mani sporche di sangue». Monica Serra è testimone oculare di quel delitto. Fu sospettata di non avere detto tutta la verità. Lei e Maddalena sono rimaste in contatto: «Non le ho mai chiesto nulla di quegli istanti, non ne ho mai sentito il bisogno perchè ho sempre considerato come vera la versione che lei ha raccontato». Con suo padre ricorda di avere parlato di alcune cose in particolare, come l’indagine sul delitto del commissario Calabresi, per la quale Rostagno ricevette una comunicazione giudiziaria, l’indagine milanese sui mandanti del delitto da cercare dentro l’organizzazione politica Lotta Continua della quale Rostagno fu tra i dirigenti: «Mio padre lo disse a me e lo ha ripetuto anche in tv, lui e Lotta Continua non c'entrava nulla con quel delitto. Mauro mi chiamò mi disse che voleva essere sentito al più presto per testimoniare questa estranietà. Le domande la portano a ricordare i contrasti, improvvisi, tra suo padre e Francesco Cardella, i fodnatori della Comunità: «Lo ricordo quel foglio scritto a mano, diceva a mio padre sostanzialmente falso, inopportuno, indelicato, così mio padre fu invitato da Cardella a lasciare il Gabbiano dentro la Comunità per una intervista che aveva fatto a King, intervistato da Claudio Fava, una bellissima intervista ma non aveva citato Cardella e Cardella lo accusò in questa maniera». Ma chi era suo padre, chiede il pm Antonio Ingroia (nel pomeriggio ha poi continuato il pm Francesco Del Bene): «Era il terapeuta della famiglia, della comunità, del giornalismo, lo vedevo in tv, nei servizi importanti e quando andava in giro a fare parlare la gente, quando scoprì che un gruppo di ospiti della comunità e che lavoravano con lui a Rtc erano tornati a spacciare droga, li cacciò dalla tv e lo vidi piangere, mio padre era deluso, teneva al suo lavoro di giornalista e a quello in comunità». Smentisce che il padre poteva essere «depresso» dopo quel giro di droga scoperto dentro la comunità, è scritto in un verbale: «Non posso avere detto questo perchè la parola depresso non rientra nel mio linguaggio, non poteva mai essere un comportamento di mio padre, poteva essere semmai deluso». Poi le domande entrano nei temi del processo. La storia del traffico di armi che Rostagno avrebbe scoperto prima di essere ucciso, svelata nel 1996 da un suo sedicente amico, Sergio Di Cori, «nessuno mi ha mai confermato che vi era conoscenza diretta tra lui e mio padre, lui si è presentato come un giornalista che si trovava in America, era grottesco come personaggio». E legata a questo fatto una cassetta sparita dal suo ufficio a Rtc: «Per quello che ricordo lui teneva sul tavolo una cassetta audio e non video con su scritto non toccare». Questa non si trovò più, ma anche un’agenda: «Dentro la borsa di mio padre quella che fu trovata sull’auto non c’era alcuna agenda, un bloc notes, mi sembra strano che lui facendo il giornalista non ne facesse uso». L’avvocato di parte civile della Saman, Elio Esposito introduce il tema del ruolo di cardella quel giorno: «Non c’era quel giorno era a Milano, lo vidi a sera tardi, ci portò con la sua Bentley». Ma l’auto di solito non stava ferma dentro Saman? E come riuscì ad uscire se c’era la Fiat Duna che bloccava il passaggio? «Non lo so». Ma l’auto quella volta Cardella non l’aveva lasciata a Lenzi, l’aveva lasciata in aeroporto a Palermo. Provvidenzialmente.
I carabinieri testimoni.Poi è stata la volta dell’ex comandante del nucleo operativo dei Carabinieri l’allora tenente colonnello, oggi generale, Nazareno Montanti. Quando si dice i casi della vita. Ha ammesso che conosceva Rostagno, lo aveva conosciuto a Milano e lo aveva reincontrato a Trapani, meno di un anno dopo dal delitto andò via da Trapani lasciando le indagini che cominciarono secondo una pista precisa, «delitto maturato dentro la Saman». Non si fecero nemmeno le intercettazioni. Cominciarono quasi un anno dopo il delitto, il 13 maggio 1989, e sempre relativamente alla Saman. Ha raccontato che vide Rostagno arrivare in ospedale portato dall’ambulanza, «gli dissi vai Mauro che ce la fai, poi seppi che era morto». Delitto di mafia? «Quel fucile scoppiato per terra ci face pensare che non potevano essere dei professionisti. Rostagno era un galantuomo poteva avere scoperto delle irregolarità dentro Saman sulle quali noi già indagavamo». E poi le cartucce trovate per terra, tre inesplose erano satte «ricaricate», «roba da cacciatori che vogliono risparmiare» risposta secca del generale. A pagina 13 del rapporto firmato dal col. Montanti il 26 novembre 1988 sul delitto Rostagno la pista mafiosa (parole del pm Del Bene) «viene sbeffeggiata»: «Non c’entra la pista mafiosa tanto cara a certi organi di informazione e ai responsabili della Saman». «Noi – aggiunge – non avevamo nulla sulla pista mafiosa». Il pm chiede se ha ricordo degli interventi in tv di Rostagno: «Io non li ho mai sentiti perché tornavo a casa la sera tardi». Ma avete mai pensato ad acquisire quelle cassette? «Fino a quando c'ero io no». Montanti, offre molti non ricordo, molte le sorprese. Quando uno dei difensori di parte civile gli ha chiesto su quali armi sono state usate per uccidere Rostagno e gli ha parlato di un revolver, lui ha risposto dicendo «perchè c'era un revolver?». Ma perché quei ritardi? Perché il mancato coordinamento con la Procura? Il generale Montanti ha parlato del procuratore dell'epoca,dott. Coci, «era inavvicinabile non gli si poteva parlare».Altro teste, l’odierno luogotenente, allora brigadiere, Beniamino Cannas. Conosceva Rostagno, ha detto che i due spesso si parlavano e si vedevano, ma sul’oggetto delle discussioni è stato vago, ha saputo solo dire che «Rostagno aveva un modo nuovo di fare giornalismo». E sulle indagini. Poco o nulla di veramente importante, ha detto che sarebbero leggende alcune circostanze, l’incontro a Palermo tra Falcone e Rostagno, raccontato da Alessandra Faconti, amica di Mauro, «la sentimmo ma non ce lo disse», la storia della cassetta, «mai vista», poi si corregge, «cercata e non trovata». Alla fine punta il dito contro Cardella. Un giorno mi parlò a lungo, si lamentava di una nostra indagine sui conti di Saman e mi parlò di Rostagno, mi disse che si era messo strane idee in testa, voleva fare il senatore». Ma a lui Rostagno si dice che aveva espresso preoccupazione, «è vero – chiede un legale di parte civile – che le avrebbe detto che gli avevano allungato la vita di un mese?». «È una cosa della quale si è sentito parlare a me disse solo se mi lasciano il tempo ti vengo a trovare, ma per me era un intercalare, una frase ad effetto». Montanti e Cannas lo hanno dovuto confermare. Da investigatori sul delitto Rostagno nel 1996 divennero persone informate dei fatti, testi, nell’ambito delle indagini che l’allora procuratore di Trapani Garofalo riaprì sul delitto, puntando anche lui sulla pista interna, trovando poi quegli elementi che erano come nascosti, «la firma della mafia».

Mauro Rostagno


sabato 5 marzo 2011

Ancora sulla Cascata delle Due Rocche...

ANONIMO HA SCRITTO
All’intreccioso argomento “Cascate delle due Rocche”, messo in luce dalle Associazioni “Città Nuove” e “Corleone Dialogos” si sono aggiunti due nuovi tasselli: i tentennamenti, le contraddizioni e le incoerenze fatte rilevare da Dino Paternostro nell’intervista rilasciata dal Sindaco Iannazzo a Tele Jato (ognuno di noi guardando l’intervista può trarne le proprie considerazioni) e i chiarimenti presentati dalla Dott.ssa Mara Di Leo sul ruolo non più ricoperto all’interno dell’Associazione “Omnia Onlus” (non ho capito perché pubblicato parecchi giorni dopo dalla data della missiva 23/02/2011 e che sino ad ora non ha sortito quanto richiesto dall’interessata). Premetto che sulle modalità seguite per l’affidamento ho già espresso il mio parere. Ho seguito con attenzione il susseguirsi della vicenda e ho tratto le mie riflessioni/considerazioni . Si assiste a un accanimento politico/personale nei confronti del Sindaco sol perché la moglie era il Direttore Generale dell’Associazione mentre non vi è uguale accanimento nei confronti della sorella di un Consigliere Comunale molto vicino al Sindaco che era ed è a tutt’oggi il Presidente dell’Associazione. Sarebbe grave se per attaccare politicamente il Sindaco le Associazioni si fossero basate solamente sull’ informazione assunta online dal sito dell’Associazione, tenuto conto come avviene di sovente che l’aggiornamento dei siti istituzionali e non avviene con notevole ritardo e cito ad esempio il sito della Regione Siciliana che per parecchio tempo indicava nomi di Assessori che non ricoprivano più tale incarico o numeri di telefono inesistenti. Pertanto rivolgo invito non all’interessata (così come suggerito da Dino Paternostro) ma al Presidente dell’Associazione sempreché le norme statutarie lo permettono (al fine di dissipare ogni ombra di dubbio che ancora aleggia sulla spiacevole vicenda) di pubblicare sul loro sito la documentazione inerente allo scioglimento del rapporto intercorso fra l’Associazione “Omnia Onlus” e la Dott.ssa Di Leo.
04 marzo, 2011 22:21
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DINO PATERNOSTRO

La lettera della d.ssa Di Leo è stata pubblicata alcuni giorni dopo la data della missiva perchè è stata spedita per posta. Sia la d.ssa Di Leo, sia l'Associazione Omnia onlus, sia il sindaco di Corleone hanno "le carte" per dimostrare ai cittadini la data delle dimissioni e la data dell'accettazione delle stesse. Perchè restano tutti abbottonatissimi e qualdo aprono bocca o sono generici o si contraddicono?
Nè Città Nuove nè Corleone Dialogos hanno detto che sicuramente la moglie del sindaco era ancora "segretario generale" di Omnia onlus alla data di richiesta del patrocinio, alla data della concessione dello stesso e alla data di adozione della delibera di affidamento della cascata. La nostra unica fonte è il sito dell'Associazione. Che è il sito ufficiale però! Se il sito portava un dato inesatto che lo dicano! Questo silenzio "omertoso", direbbe qualcuno, fa pensare male.
La posizione del sindaco che ha i pieni poteri amministrativi per decidere sull'affidamento è molto più "pesante" di quella del consigliere Iaria, che invece giuridicamente non ha alcun potere di decidere sull'atto. Ecco perchè c'è una differente attenzione. Il dato etico-morale, comunque, accomuna entrambi.
04 marzo, 2011 23:26
ANONIMO HA SCRITTO:Un punto di domanda se beneficiaria dell’affidamento fosse stata un’altra Associazione si sarebbe creato tutto questo polverone??? Viviamo a Corleone e come Dino conosce bene attorno a Consiglieri e Assessori orbitano tante Associazioni (a Corleone secondo me ce ne sono tante quasi tutte costituite No Profit - senza scopo di lucro !!!!) formate da amici e parenti e ognuno cerca di portare acqua al proprio mulino con il risultato che si dovrebbe bloccare tutto e per affidare/organizzare qualcosa bisognerebbe rivolgersi ad Associazioni di altri paesi stando ben attenti che non vi siano parenti/affini sino al 4° grado. Il Consigliere Comunale Dino Paternostro si prepara a presentare una mozione al Consiglio Comunale per la revoca della deliberazione comunale n. 9 del 20 gennaio 2011 e se per ipotesi remota (stante la composizione del Consiglio Comunale) fosse approvata cosa, si otterrebbe? Solo uno scopo quello di aver bloccato una procedura ritenuta irregolare inerente all’affidamento diretto a un’Associazione molto vicina al Sindaco Iannazzo che ha fatto del rispetto della legalità il proprio cavallo di battaglia. Francamente mi sembrerebbe di assistere a una vittoria di Pirro. Penso invece agli sviluppi negativi e in primis che le meravigliose ricchezze naturali del parco fluviale si potrebbero continuare ad ammirare solo con il binocolo e dovremmo assistere con le mani nelle mani al suo inesorabile degrado. L’Associazione “Omnia Onlus” potrebbe e uso il condizionale chiedere il risarcimento danni al Comune perché costretta a rinunciare al finanziamento e quindi si potrebbe aprire un contenzioso che può costare alle esigue casse comunali parecchi quattrini. Nel frattempo l’Amministrazione Comunale così come proposto dalle Associazioni Città Nuove e Corleone Dialogos dovrebbe iniziare l’iter burocratico/amministrativo per affidare la gestione del parco fluviale all’Azienda Foreste Demaniali della Regione Siciliana. L’Azienda sarà disponibile e a quali condizioni/benefici? Con quali soldi? Quando tempo occorrerà per una definitiva soluzione? Anche se la proposta è condivisibile, è da considerare l’unica alternativa validamente percorribile? In conclusione e per non annoiare i lettori voglio lanciare una mia proposta: mantenere l’affidamento della gestione della cascata delle due rocche a prescindere della vicinanza o meno al Sindaco nei confronti dell’Associazione “Omnia Onlus” già detentrice di un finanziamento pubblico di € 200.000,00 modificando ove fossero necessari i punti inseriti nella convenzione che deve ancora (se non ho capito male) essere sottoscritta fra le parti. L’importante è che si raggiunga l’obiettivo di rendere fruibile per la collettività e per i visitatori un bene di valore inestimabile che sta cascando da tutte le parti. Caro Dino anche se sarebbe corretto apporre la mia firma preferisco per ovvi motivi mantenere ancora l’anonimato……con l’augurio che a questa vicenda fosse posta la parola “fine”……….e con un invito ad una netta presa di posizione da parte dell’Amministrazione e del Consiglio Comunale (stante il poco tempo rimasto da qui all’elezioni comunali previste per il prossimo mese di maggio 2012) nel portare avanti insieme la risoluzione di alcune problematiche che affliggono la nostra “animosa civitas corleonis”.
04 marzo, 2011 22:23
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DINO PATERNOSTRO:
Sulla vicenda vi sono due livelli di valutazioni da fare. Il primo è giuridico. Un pubblico amministratore non può adottare atti che riguardano un parente o affine entro il quarto grado. Lo prevede la legge. Piaccia o no, finanziamenti o non finanziamenti, se le cose stanno così la delibera va revocata "senza se e senza ma". Se ci sentiamo ancora in uno stato di diritto.
Il secondo livello è etico-morale. Quand'anche la d.ssa Di Leo non fosse più segretario generale di Omnia onlus, siccome lo è stata e siccome presidente resta pur sempre la sorella di un consigliere comunale vicinissimo al sindaco e siccome è notorio che la stessa associazione nel suo complesso è stata sempre vicinissima al sindaco, tanto che più volte gli ha conferito incarichi professionali retribuiti, non sarebbe il massimo della trasparenza e della correttezza che il primo cittadino affidasse direttamente (senza gara pubblica) la gestione di un bene per giunta con un cofinanziamento di 30 mila euro. Almeno questo non dovrebbe essere consentito al sindaco di "Corleone città della legalità". La legalità non è vuoto formalismo, ma pratica concreta di trasparenza e di giustizia. O no?
Infine, l'affidamento all'Azienda foreste della Cascata delle Due Rocche potrebbe avvenire in brevissimo tempo. L'Azienda Foreste potrebbe garantire la manutenzione e la custodia per sempre e non per soli tre anni. Occupando diversi operai forestali e non qualche "amico".
E poi vi sono i dieci operai del verde pubblico, illusi da questo sindaco e lasciati senza lavoro. Nelle more della forestale, potrebbero essere loro ad occuparsi della Cascata.
Dino Paternostro