Un album fotografico curato da Vincenzo Mirisola racconta settant´anni di vita a cavallo tra Ottocento e Novecento. Dietro le luci della belle époque il crudele calembour che denuncia la perdita dell´identità e testimonia una diffusa malinconia
di Marcello Benfante
In "Blues della fine del mondo", lo scrittore inglese Ian McEwan così esordisce: «Dal 1839 in poi, l´archivio fotografico mondiale è andato aumentando con crescente velocità, moltiplicandosi in una congerie pressoché infinita di immagini che ricordano la vertigine di una biblioteca borgesiana».Aggiunge McEwan: «Questa tecnologia ossessiva ci accompagna da ormai così tanto tempo che siamo in grado di guardare, che so, una scena di folla o una via trafficata di fine Ottocento sapendo per certo che ognuna di quelle figure è morta». La fotografia, per dirla con Susan Sontag, è quindi «l´archivio della nostra mortalità». Di questa lapalissiana verità troviamo un´inquietante e suggestiva conferma nel bel volume "Era Palermo" di Vincenzo Mirisola, edito da Lanterna Magica, che nel suo nitore rivela un che di lapidario, una sorta di gelido alito del tempo. Si tratta di un ricco album fotografico che raccoglie, su un totale di 203 pagine, ben 197 immagini, talora ben note, talaltra desuete, che raccontano la storia della città come in una specie di caleidoscopio. Il percorso iconografico di Mirisola si snoda visivamente in un arco di circa settant´anni, dal 1850 al 1920, delineando una sorta di ritratto in progress della città. Questo lasso di tempo si dilata grazie alla scelta dei brani antologici che accompagnano l´excursus fotografico: Goethe, De Musset, Collodi a Roger Lambelin, G. Evangelista Di Blasi, Vincenzo Mortillaro ed Enrico Onufrio. Ma il florilegio ha un compito meramente didascalico. Sono le immagini a essere più eloquenti, grazie alla loro potenza evocativa. Nell´introduzione, l´autore traccia la storia del gran tour pedagogico e del ruolo che in esso giocarono le raffigurazioni pittoriche e poi i dagherrotipi. Se il miglioramento delle rotte navali - elica, motore a vapore, turbine - consentì alla Sicilia di rompere un secolare isolamento (Goethe impiegò ben cento ore per giungere qui da Napoli!), fu però il progresso fotografico a porre le basi di una migliore conoscenza delle nostre città.
A Palermo furono attivi importanti fotografi come Giuseppe Incorpora, Eugenio Interguglielmi, i fratelli Antonino e Tommaso Tagliarini. Ma operarono in città anche professionisti esterni come i famossissimi fratelli Alinari, Giacomo Brogi, il milanese Luigi Sacchi, il pugliese Achille Mauri, i francesi Gustave Eugène Chaufforier, Ferrier & Soulier, Edouard e VictorLaisné, Alfred Nicolas Normand, Robert Rive, Eugène Sevaistre, o l´austriaco Rudolf Lehnert e il suo socio svizzero Ernst Landrock, il tedesco Giorgio Sommer e altri ancora. Palermo era, insomma, un gran laboratorio fotografico. Ed era pure un soggetto fotogenico, dotato di un fascino personalissimo e al tempo stesso pervaso da una mestizia inconsolabile. Guardando e riguardando le vecchie foto della città perduta ci sentiamo come trafitti dalla nostalgia o da un rimpianto inesplicabile che esorbita la nostra stessa memoria biografica. È un sentimento di irreparabilità. Forse Mirisola ha inteso comunicarcerlo fin dal titolo: "Era Palermo", cioè un discorso che attiene a un´età storica, più meno riconducibile alla belle époque, ma che cela anche un crudele calembour, che denuncia il non-essere-più della città. Palermo è stata, nel bene e nel male. Oggi è diventata una mera dimensione urbana. Non si tratta di rimpiangere un´epoca felice. Si scorge davvero poca felicità nelle immagini, spesso struggenti, collazionate da Mirisola. Certo, gli artefici di questo «patrimonio da condividere», come l´autore definisce la memoria fotografica, furono validissimi pionieri (in particolare Interguglielmi, «uno dei fotografi più aggiornati e moderni del XIX secolo»). Dalla loro opera trapela spesso uno slancio ottimistico. Tuttavia si evince pure una miseria feroce che il documentarismo folcloristico, col suo impeccabile estetismo, esaspera ulteriormente. Il pescivendolo, l´acquaiolo, la contadinella con in testa la brocca sembrano figurine di un presepe secolarizzato o modellini di cera. La povertà si avverte più come privazione assoluta che come degrado. Le vie sono straordinariamente pulite e sgombre. Il drastico contenimento dei consumi, ovvero lo stato di indigenza pressoché generale, è segnalato dalla totale mancanza di rifiuti. Erano più civili, senz´altro, i palermitani d´allora, ma anche deprivati dei beni più comuni. E sarà stato pure che i tempi erano più morigerati, ma è difficile chiudere gli occhi sulle scene in cui si aggira un´umanità derelitta, un po´ arabica e un po´ zingaresca, con espressioni rassegnate e apatiche. Né molto più allegri sembrano i gruppi di famiglia che guardano scettici l´obiettivo sui loro carretti siciliani, le cui fastose bardature stridono con il quadro generale di bisogno e di ristrettezza entro cui ossimoricamente si iscrivono.
Un dato che colpisce è la malinconia dei bambini. D´ogni ceto o condizione. Una specie di tristezza presaga, si direbbe. E c´è pure lo spleen emaciato dei nobili, colti dal fotografo in interni crepuscolari, ammantati d´una eleganza austera, talora bruttissimi come in un romanzo della scapigliatura. Scorre una galleria di dame monumentali, prime donne, attrici, signorinelle pallide: quasi nessuna sorride o appare lieta. Così pure gli immancabili Florio e i Gattopardi. Le gentildonne con ombrellino da sole e i notabili dai baffi impomatati sono circonfusi da un alone di decadenza, da un insalubre fatalismo. E la stessa Palermo splende di una bellezza pallida, lunare. È una città allucinata e deserta, squadrata da una spettrale geometria. Rarissimi i passanti, come comparse chiamate a fingere un posticcio viavai. Le carrozze si aggirano un po´ funebri tra sparuti uomini in bombetta o in paglietta. Il lungomare è una spianata abbacinante su cui spiccano due neri carabinieri col pennacchio che si direbbero alla ricerca di Pinocchio. Qua e là un pescatore si mimetizza tra gli scogli, un donabbondio si ripara nel suo tetro tabarro, un individuo smarrito bazzica solitario nei pressi di Porta Nuova nel 1860 (quarant´anni dopo, agli inizi del secolo breve, la stessa ribalta si anima di una piccola folla eteroclita: una donna avvolta nel suo scialle, un carretto malandato, gente che passeggia e chiacchiera come in una piazza di provincia). Qualcuno sembra spiare la città da un riparo nascosto: un uomo si sporge dai tetti di Palazzo Steri e pare una sentinella pronta a suonare le campane in caso di pericolo. C´è un che di disumano, in queste foto. La popolosa città vi appare come un luogo in cui è avvenuto un colossale esodo o che è stato colpito da una terribile epidemia. Una rappresentazione da day after si impone prepotentemente sui fragili amarcord floreali: il Teatro Massimo ancora in costruzione sembra devastato dai bombardamenti, proprio come la Palermo della sollevazione garibaldina squassata dalle cannonate borboniche. Ovunque si percepisce un silenzio quasi metafisico. E in questo onirico palcoscenico, le Catacombe dei Cappuccini si lasciano interpretare come la faccia speculare della città fantasma. Certo, è una città di spazio, aria, luce. Che respira a pieni polmoni. Dove si indovina un refolo di mare che passa tra gli scenografici piloni di Porta Felice, nel cui riquadro appare, come in un fondale dipinto, l´immagine romantica di un veliero, come nella bellissima foto di copertina. Di origine nissena (è nato a Riesi), Vincenzo Mirisola rende omaggio alla sua «splendida» - come recita la dedica - città adottiva. Ma con spiccata sensibilità artistica di fotografo e di storico della fotografia, ha saputo anche interpretarla nella sua fragilità ontologica, in quel suo cupio dissolvi in cui consiste la sua redimibile irredimibilità.
(La Repubblica, 21 novembre 2008)
lunedì 15 dicembre 2008
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