giovedì 6 novembre 2008

Pensare l'impossibile

di EZIO MAURO
Un uomo che è l'icona stessa del cambiamento - perché la sua biografia è il suo messaggio politico - entra alla Casa Bianca e nella storia con il voto americano di martedì, un voto che chiude una politica e apre una nuova epoca, per gli Stati Uniti e per il mondo. Pensando l'impossibile (un nero afroamericano presidente) e riuscendo a realizzarlo, Barack Obama non ha soltanto riconfermato il sogno americano della grande avventura ma ha realizzato fino in fondo il patto fondativo della nazione che coniuga i diritti, la libertà e le opportunità. Quel patto era incompiuto, perché il colore della pelle agiva ancora come limite per il pieno dispiegamento dei diritti nella più grande democrazia del mondo, e la leadership suprema alla Casa Bianca era fino a ieri il simbolo e il tabù di questo confine immateriale, dopo gli anni della discriminazione razziale. Nel momento più difficile della sua storia recente, sotto l'attacco del terrorismo, della crisi finanziaria ed economica, delle nuove e vecchie potenze che spezzano ogni sogno egemonico, l'America ha avvertito la coscienza di quel limite e insieme ha deciso che proprio questo è il momento giusto per superarlo, trasformandolo in un'opportunità per la democrazia: realizzando così fino in fondo la sua storia e dando un senso compiuto e simbolico alla retorica nazionale delle possibilità offerte a tutti, indipendentemente dalle condizioni di partenza di ognuno. Tutto ciò è avvenuto con una scelta netta che è una chiara assunzione di responsabilità da parte del popolo americano, ma anche sotto la pressione del mondo che ha trasformato per la prima volta nella storia la scelta del presidente Usa in una sorta di suffragio davvero universale del pianeta, come testimonia l'ansia dell'Europa, la festa nazionale africana di oggi, la fiducia immediata dei mercati asiatici. C'è in questo spoglio elettorale globale molto di più dello spettacolo culturale e politico di una minoranza che si fa Stato e conquista la leadership emancipandosi da ogni rivendicazione, dopo aver costruito questo cammino verso l'inedito "nei cortili e nei portici" di Des Moines e di Charleston, come ha detto ieri Obama rivendicando la sua natura di outsider, e non "nei corridoi di Washington". Nel voto e nel suo significato universale c'è infatti la fine di un'epoca americana, non solo di una presidenza, e soprattutto la fine di un pensiero che ha avuto la pretesa di proporsi al mondo come unico, e dunque di trasformarsi di fatto nella solitaria ideologia superstite del nuovo secolo. Guardiamo tutto ciò che finisce insieme con l'era Bush nella sua drammatica caduta di consensi, e vedremo che proprio di questo si tratta, una cornice di cultura e di pratica politica che sovrastava l'amministrazione e la determinava quasi a priori: l'unilateralismo, nella convinzione naufragata in Iraq che la superpotenza egemone poteva riassumere in sé il concetto di Occidente - deformandolo - decidendo guerre e interventi militari fuori dal concerto con l'Europa, dalle regole del diritto internazionale e degli istituti di garanzia, con una nuova potestà ideologica che è una derivazione diretta e meccanica della sovranità economica e militare. La deregulation, nella fiducia quasi religiosa nella virtù autonoma del mercato, con il risultato finale di produrre in realtà l'autonomia di una crisi finanziaria che non riconosce alcun principio di governo e nessun centro di autorità. Il cristianismo, cioè l'uso della religione come arma comune di battaglia politica, con la cultura teo-con utilizzata quotidianamente (e programmaticamente) non come valore di riferimento tra altri, ma come strumento di governo e orientamento dell'agire pubblico attraverso l'amministrazione. C'era in America la possibilità di chiudere con l'ideologia e gli errori di Bush rimanendo però sotto l'ombra del conservatorismo rassicurante di John McCain, un comandante in capo più che un politico, outsider d'esperienza, capace di rompere con gli "old boys" delle dinastie che si passano la staffetta washingtoniana del potere. Ma anche di proteggere una nazione disorientata dalla crisi, inquieta per la sfida della crescita cinese, spaventata dalla riemersione del nemico ereditario a Mosca, con l'anima imperiale che dopo la morte del sovietismo sopravvive nella Russia eterna. Ma ciò che l'America cercava era di più: un cambio radicale, di innovazione politica e non solo di generazione. Di modernizzazione democratica, potremmo dire, ripartendo proprio dai diritti, come se si aprisse una nuova stagione e non solo una presidenza, come se si chiudesse la lunga epoca del reaganismo e non solo il bushismo durato otto anni. Il risultato nella sua dimensione (62 milioni di voti per Obama contro 55 pro McCain, 349 grandi elettori contro 163, e ancora 52 per cento dei suffragi nazionali contro 46) testimonia proprio questo, il cambiamento come scelta politica, un atto di coraggio che è anche l'assunzione di un rischio, ma è l'espressione della libertà: e dell'energia democratica che l'America custodisce dentro di sé e si traduce in voglia di futuro, speranza, proiezione in avanti nella percezione che qui, nella "frontiera" inesplorata ma disponibile del nuovo, c'è la soluzione dei problemi e la fuoruscita dalla crisi. Obama ha chiesto il "change" per tutta la campagna, in tutti gli slogan sui cartelli dei comizi, in tutti i suoi discorsi. L'ha impersonato politicamente, culturalmente, soprattutto biograficamente, nell'evidenza della sua avventura umana. Ha disegnato il perimetro della crisi con semplicità: due guerre, un pianeta a rischio, la peggior crisi finanziaria da un secolo. Lo ha aggredito con quattro offerte politiche: lavoro, opportunità, prosperità e pace. Ha minacciato coloro che vogliono distruggere il mondo (non gli Usa): "Vi sconfiggeremo"; ha offerto collaborazione a chi cerca pace e sicurezza: "Vi sosterremo". Ha cancellato l'unilateralismo, perché "uomini con storie diverse condividono lo stesso destino". Soprattutto, ha usato la retorica di una nuova epica politica dai toni kennediani: dal cambiamento può nascere "l'alba di una nuova leadership americana", e anzi il cambiamento di oggi può collegarsi alle altre svolte leggendarie del mondo contemporaneo: "Un uomo ha camminato sulla luna, un muro è caduto a Berlino, un mondo è stato messo in rete dalla nostra scienza e dalla nostra fantasia". È il contrario del populismo (guai a contrapporre Main Street a Wall Street, ha detto Obama, e guai a pensare che il governo possa risolvere tutti i problemi), è anzi l'indicazione tutta politica di un nuovo modo di esercitare la leadership, dentro l'America e fuori. Con la preoccupazione, che nasce anche dal sentimento politico di una minoranza diventata maggioranza, di unire il Paese e di parlare a tutta l'America. In questo, McCain si è rivelato dopo la sconfitta un partner d'eccezione, assicurando a Obama non solo il suo "rispetto" e la sua collaborazione, ma riconoscendo la valenza "storica" della sua nomina a presidente, così come Bush ha invitato tutti gli americani, democratici o repubblicani, ad essere orgogliosi perché con il voto "hanno fatto la storia". Adesso tocca ad Obama essere all'altezza non delle sue promesse, ma delle attese e delle speranze che la sua avventura politica ha suscitato nel Paese e nel mondo, proporzionate più ai simboli che ai programmi. Tocca a lui dimostrare che il cambiamento non si esaurisce con la sua stessa figura, con l'incoronazione popolare, con la trasfigurazione presidenziale, ma può diventare una politica. Addirittura una nuova dottrina, capace di creare una moderna cultura democratica per un mondo in crisi, sostituendo un pensiero conservatore che riteneva di essere eterno, e si è arenato proprio nell'incapacità di concepire in forme nuove la politica e il futuro. Mostrando così esaurita la sua rivoluzione davanti alla rivoluzionaria avventura del primo americano nero che ha voluto davvero essere presidente degli Stati Uniti, e riuscendoci ha cambiato la storia.
(La Repubblica, 6 novembre 2008)

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