di Vincenzo Consolo
L’omerica immagine dell’olivo e dell’olivastro, del ceppo che nutre due rami diversi, è simbolo della civiltà che s’innesta, con gesto di coltura e cultura, di volontà e di sapienza, sul tronco dove insieme è cresciuto, spontaneo, selvatico, il ramo dell’olivastro; della civiltà che, se non è curata, difesa, può regredire e perdersi nel caos, nel disordine da cui proviene. È simbolo più che mai, quel ceppo dai due rami fittamente intrecciati, di questa «nostra terra bellissima e disgraziata», come l’ha definita Paolo Borsellino, della Sicilia della più antica, più ricca civiltà e insieme della barbarie più feroce e rovinosa.La figura dell’inciviltà più buia, della regressione più umiliante; di quest’Isola che fu dimora ideale dell’albero mediterraneo, dell’argenteo olivo del nutrimento e della luce che i Greci consacrarono all’Atena della ragione e della sapienza. È l’albero che immaginò, che vide sul palcoscenico d’un palcoscenico Pirandello, la notte della sua agonia, a risolvere l’ultimo atto di un dramma, di un mito che non avrebbe potuto più scrivere, è l’olivo della cultura e della poesia contro l’irrompere a valle dei barbarici Giganti della montagna.Fuori dal simbolo, dentro la realtà, dentro la storia, sappiamo che il duplice atroce destino della Sicilia, l’intreccio suo inestricabile di civiltà e di barbarie, non è dovuto a un evento della natura, a una legge dell’esistenza, a un destino, a una condanna genetica, come spesso neo-lombrosiani d’accatto hanno voluto far credere, ma a precise responsabilità, a colpe della storia. Chi ha uso di ragione, possesso di cognizione sa che la mafia, questa mala pianta, questo olivastro infestante e devastante, è nata in Sicilia per il ritardo storico in cui l’Isola è stata tenuta, per l’ingiustizia a danno di essa costantemente perpetrata da dominazioni, governi, da ottuse, cieche caste di privilegio e sopruso; sa che in Sicilia la mafia s’è sviluppata con l’abbandono, con l’assenza dello Stato, con la connivenza, l’aiuto di regimi politici, di poteri statali insipienti o corrotti. Un Medioevo di illiberalità, di ingiustizia, di violenza ha gravato su questa regione, una lunga storia di oppressione e sfruttamento dei deboli, di ribellioni popolari, di feroci repressioni, un’assenza dei grandi principi liberali instauratisi in Europa con la Rivoluzione francese.C’è, nel museo Pepoli di Trapani, una terribile macchina; c’è, alta sui due montanti tenuti dall’architrave del potere, una ghigliottina, questa truce scenografia per la rappresentazione della giustizia. Priva qui del terrifico, disumano, ma grandioso sfondo storico contro cui si ergeva la francese consorella, dialettale com’è nel lessico e nella sintassi dei suoi congegni, diventa ancora più incomprensibile, più crudele. Si sa che la ghigliottina di Trapani veniva anche montata sulle piazze dei vari paesi del Circolo giudiziario; si sa che essa funzionò fin dopo l’Unità, sotto i Savoia; si sa che non tagliò teste di re, di nobili, di Amici del popolo o di Incorruttibili, ma solamente teste di ribelli o banditi. Proviamo orrore per ogni tipo di pena di morte, diciamo con Voltaire che quella pena offre vantaggi solo per il boia, ma è vero che la tremenda macchina di Trapani non tagliò mai teste di mafiosi. Chè allora della mafia, da parte di magistrati, di funzionari statali, di politici, di intellettuali, si negava l’esistenza o se ne dava una spiegazione di ordine psicologico o folclorico. Qualche magistrato, qualche politico avvertì della mafia la vera natura, la sua forza invasiva e distruttiva: il procuratore generale di Trapani don Pietro Ulloa, il giudice agrigentino Alessandro Mirabile, il socialista corleonese Bernardino Verro, il repubblicano ennese Napoleone Colajanni. La negazione della mafia come associazione, come ferrea, gerarchica struttura criminale, da parte del potere politico, degli organi dello Stato è durata, si sa, fino a ieri. Dura, ahi noi, fino ad oggi. Tanto più negata la mafia, si direbbe, quanto più le sue azioni criminose si facevano frequenti e clamorose, la sua azione antisociale, antistatale sempre più distruttiva e arrogante, quanto più la pubblicistica, l’informazione su di essa si arricchiva e diffondeva. Negazione della mafia, nei migliore dei casi, per quella regressiva, falsa difesa dell’«onor di Sicilia», per insipienza, per malafede: per privato, meschino tornaconto, per colpevole connivenza con gruppi di potere. Sicché i morti, tutti i morti di mafia pesano, oltre che sui diretti assassini, su quei responsabili, su quegli uomini che meritano di giacere nel “tristo buco”, nel “pozzo scuro” della dantesca Caina. Pesano su quei responsabili i braccianti, i capilega, i sindacalisti uccisi sopra le terre dei feudi nel 1894, negli anni Venti e nel Secondo Dopoguerra; pesano i contadini, le donne, i bambini uccisi a Portella della Ginestra. Pesa su quei responsabili la morte di tutti quelli - magistrati, militari, politici, burocrati, imprenditori, sacerdoti, comuni cittadini - che nella tremenda, lunga guerra contro la mafia sono caduti. Pesa su di loro la morte di due uomini eroici, di due simboli alti: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.C’è, nella storia di Borsellino, uno sfondo storico siciliano, una dimensione umana spesso ignorata. C’è una parca, dignitosa misura della vita, un pudore, una ritrazione di gesto e di parola, un rigoroso, inflessibile senso morale e civile, una disillusa, lucida conoscenza e accettazione della realtà e un modo aspro, diretto e schietto di affrontarla; c’è un senso privo di limiti del sacrificio, una generosità di sé senza risparmio; c’è infine in quest’uomo orgoglio e candore: tutto che gli viene da una matrice agrigentina, dell’Agrigento di Pirandello. L’eredità culturale paterna, del rigoroso, severo farmacista di via Vetriera, è temperata dalla dolcezza della madre, di Maria Lepanto, cresciuta in quel Belmonte Mezzagno che s’affacciava sulla meraviglia della Conca D’Oro.L’adolescente Borsellino si muove in quello spazio ricco di segni, di echi, di memorie, di immagini e di suoni ormai perduti che era il cuore antico della Palermo tra la Cala, la Kalsa, Piazza Marina e la Magione, la chiesa di San Francesco e la Gancia. È lo stesso spazio, quello di Borsellino, la stessa geometria, la stessa scenografia entro cui si muove negli stessi anni Giovanni Falcone, si muovono tantissimi altri ragazzi che prenderanno altre strade, avranno altro destino. Si trasformeranno, sbucando da quella couche, da quella cultura, in spinosi, selvatici olivastri. «La rilevanza di una tale “promiscuità” tra mafia e società siciliana non è sempre chiara. Palermo è al riguardo un tipico esempio. Io vi ho convissuto fino all’età di venticinque anni e conoscevo a fondo la città. Abitavo nel centro storico, in Piazza Magione, in un edificio di nostra proprietà. Accanto c’erano i catoi, locali umidi abitati da proletari e sottoproletari. Era uno spettacolo la domenica vederli uscire da quei buchi, belli, puliti, eleganti, i capelli impomatati, le scarpe lucide, lo sguardo fiero» ricorda Giovanni Falcone.Vinto il concorso in magistratura, Borsellino compie il suo apprendistato a Palermo presso il collega anziano Cesare Terranova. Nessuno ancora sapeva, ma si stava formando a Palermo, in Sicilia, e naturalmente anche nel resto del Paese, verso la fine degli anni Sessanta, una nuova leva di magistrati, di giovani di nuova cultura, di nuova etica, di nuovo impegno.La famiglia di Borsellino, quella d’origine, la madre e i fratelli, la nuova che aveva appena formato, il lavoro di magistrato unito alla scelta, alla passione per il diritto civile ci fanno pensare che il magistrato immaginasse - com’era normale, com’era giusto immaginare - di vivere in uno stato di diritto, in una società civile in cui la sfera privata, l’umano regno degli affetti, trovasse rispetto e difesa; dove anche l’avere, il frutto dell’onesto lavoro, trovasse legittimità e protezione.Abbiamo tutti, tutti creduto, noi cittadini, forse hanno creduto anche alcuni magistrati, per molto tempo, che la vecchia, parassita velenosa malapianta della mafia fosse qualcosa di separato dal nostro contesto civile, che essa sarebbe stata prima o dopo tagliata con un colpo d’ascia dal ceppo sano della nostra società da parte di organi a questo delegati: magistratura e forze dell’ordine. Borsellino e altri magistrati hanno visto a un punto che la mafia tutto invadeva e distruggeva, in Sicilia, nel Paese, che era un mostro osceno, un bestiale Polifemo che stritola e divora uomini, che minacciava ogni giorno di più, nonché l’avere, il primo dei beni, la vita, minacciava la sfera privata della famiglia, la pubblica sfera, distruggeva i valori della civiltà. Uccideva e uccideva la mafia, spargeva morte per le strade di Palermo e di ogni città di Sicilia, la morte - lo diciamo qui con Savinio - «che insudicia quello che era pulito. Intorbida quello che era limpido. Inlaidisce quello che era bello. Intenebra quello che era luminoso. Istupidisce quello che era intelligente. Immiserisce quello che era ricco...». La mafia umiliava e infamava nel mondo la Sicilia della storia, della cultura, dell’arte, della filosofia, del diritto. Dopo l’uccisione dei magistrati Terranova, Costa, del capitano Basile, del commissario Boris Giuliano, Chinnici e gli altri magistrati capirono che in Sicilia era la guerra: la guerra contro la civiltà, contro la democrazia. Decisero di combattere, quei magistrati, e si fecero, per la Sicilia, per noi tutti, soldati in prima linea. Non vogliamo qui raccontare ancora la vita di sacrifici a cui si sottoposero i magistrati del pool antimafia, l’altissimo prezzo che hanno dovuto pagare in quella guerra le loro famiglie. Uno dopo l’altro caddero quei magistrati. Caddero Chinnici, Saetta, Livatino, Falcone, Borsellino...Noi, non più giovani o vecchi, riusciamo solo a dire, parafrasando il poeta de La terra desolata: con il ricordo di Borsellino, con la lezione del sacrificio di tutte le vittime della mafia, riusciamo a puntellare le nostre macerie. Le macerie della nostra vita civile.
L'Unità, 16.07.07
L’omerica immagine dell’olivo e dell’olivastro, del ceppo che nutre due rami diversi, è simbolo della civiltà che s’innesta, con gesto di coltura e cultura, di volontà e di sapienza, sul tronco dove insieme è cresciuto, spontaneo, selvatico, il ramo dell’olivastro; della civiltà che, se non è curata, difesa, può regredire e perdersi nel caos, nel disordine da cui proviene. È simbolo più che mai, quel ceppo dai due rami fittamente intrecciati, di questa «nostra terra bellissima e disgraziata», come l’ha definita Paolo Borsellino, della Sicilia della più antica, più ricca civiltà e insieme della barbarie più feroce e rovinosa.La figura dell’inciviltà più buia, della regressione più umiliante; di quest’Isola che fu dimora ideale dell’albero mediterraneo, dell’argenteo olivo del nutrimento e della luce che i Greci consacrarono all’Atena della ragione e della sapienza. È l’albero che immaginò, che vide sul palcoscenico d’un palcoscenico Pirandello, la notte della sua agonia, a risolvere l’ultimo atto di un dramma, di un mito che non avrebbe potuto più scrivere, è l’olivo della cultura e della poesia contro l’irrompere a valle dei barbarici Giganti della montagna.Fuori dal simbolo, dentro la realtà, dentro la storia, sappiamo che il duplice atroce destino della Sicilia, l’intreccio suo inestricabile di civiltà e di barbarie, non è dovuto a un evento della natura, a una legge dell’esistenza, a un destino, a una condanna genetica, come spesso neo-lombrosiani d’accatto hanno voluto far credere, ma a precise responsabilità, a colpe della storia. Chi ha uso di ragione, possesso di cognizione sa che la mafia, questa mala pianta, questo olivastro infestante e devastante, è nata in Sicilia per il ritardo storico in cui l’Isola è stata tenuta, per l’ingiustizia a danno di essa costantemente perpetrata da dominazioni, governi, da ottuse, cieche caste di privilegio e sopruso; sa che in Sicilia la mafia s’è sviluppata con l’abbandono, con l’assenza dello Stato, con la connivenza, l’aiuto di regimi politici, di poteri statali insipienti o corrotti. Un Medioevo di illiberalità, di ingiustizia, di violenza ha gravato su questa regione, una lunga storia di oppressione e sfruttamento dei deboli, di ribellioni popolari, di feroci repressioni, un’assenza dei grandi principi liberali instauratisi in Europa con la Rivoluzione francese.C’è, nel museo Pepoli di Trapani, una terribile macchina; c’è, alta sui due montanti tenuti dall’architrave del potere, una ghigliottina, questa truce scenografia per la rappresentazione della giustizia. Priva qui del terrifico, disumano, ma grandioso sfondo storico contro cui si ergeva la francese consorella, dialettale com’è nel lessico e nella sintassi dei suoi congegni, diventa ancora più incomprensibile, più crudele. Si sa che la ghigliottina di Trapani veniva anche montata sulle piazze dei vari paesi del Circolo giudiziario; si sa che essa funzionò fin dopo l’Unità, sotto i Savoia; si sa che non tagliò teste di re, di nobili, di Amici del popolo o di Incorruttibili, ma solamente teste di ribelli o banditi. Proviamo orrore per ogni tipo di pena di morte, diciamo con Voltaire che quella pena offre vantaggi solo per il boia, ma è vero che la tremenda macchina di Trapani non tagliò mai teste di mafiosi. Chè allora della mafia, da parte di magistrati, di funzionari statali, di politici, di intellettuali, si negava l’esistenza o se ne dava una spiegazione di ordine psicologico o folclorico. Qualche magistrato, qualche politico avvertì della mafia la vera natura, la sua forza invasiva e distruttiva: il procuratore generale di Trapani don Pietro Ulloa, il giudice agrigentino Alessandro Mirabile, il socialista corleonese Bernardino Verro, il repubblicano ennese Napoleone Colajanni. La negazione della mafia come associazione, come ferrea, gerarchica struttura criminale, da parte del potere politico, degli organi dello Stato è durata, si sa, fino a ieri. Dura, ahi noi, fino ad oggi. Tanto più negata la mafia, si direbbe, quanto più le sue azioni criminose si facevano frequenti e clamorose, la sua azione antisociale, antistatale sempre più distruttiva e arrogante, quanto più la pubblicistica, l’informazione su di essa si arricchiva e diffondeva. Negazione della mafia, nei migliore dei casi, per quella regressiva, falsa difesa dell’«onor di Sicilia», per insipienza, per malafede: per privato, meschino tornaconto, per colpevole connivenza con gruppi di potere. Sicché i morti, tutti i morti di mafia pesano, oltre che sui diretti assassini, su quei responsabili, su quegli uomini che meritano di giacere nel “tristo buco”, nel “pozzo scuro” della dantesca Caina. Pesano su quei responsabili i braccianti, i capilega, i sindacalisti uccisi sopra le terre dei feudi nel 1894, negli anni Venti e nel Secondo Dopoguerra; pesano i contadini, le donne, i bambini uccisi a Portella della Ginestra. Pesa su quei responsabili la morte di tutti quelli - magistrati, militari, politici, burocrati, imprenditori, sacerdoti, comuni cittadini - che nella tremenda, lunga guerra contro la mafia sono caduti. Pesa su di loro la morte di due uomini eroici, di due simboli alti: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.C’è, nella storia di Borsellino, uno sfondo storico siciliano, una dimensione umana spesso ignorata. C’è una parca, dignitosa misura della vita, un pudore, una ritrazione di gesto e di parola, un rigoroso, inflessibile senso morale e civile, una disillusa, lucida conoscenza e accettazione della realtà e un modo aspro, diretto e schietto di affrontarla; c’è un senso privo di limiti del sacrificio, una generosità di sé senza risparmio; c’è infine in quest’uomo orgoglio e candore: tutto che gli viene da una matrice agrigentina, dell’Agrigento di Pirandello. L’eredità culturale paterna, del rigoroso, severo farmacista di via Vetriera, è temperata dalla dolcezza della madre, di Maria Lepanto, cresciuta in quel Belmonte Mezzagno che s’affacciava sulla meraviglia della Conca D’Oro.L’adolescente Borsellino si muove in quello spazio ricco di segni, di echi, di memorie, di immagini e di suoni ormai perduti che era il cuore antico della Palermo tra la Cala, la Kalsa, Piazza Marina e la Magione, la chiesa di San Francesco e la Gancia. È lo stesso spazio, quello di Borsellino, la stessa geometria, la stessa scenografia entro cui si muove negli stessi anni Giovanni Falcone, si muovono tantissimi altri ragazzi che prenderanno altre strade, avranno altro destino. Si trasformeranno, sbucando da quella couche, da quella cultura, in spinosi, selvatici olivastri. «La rilevanza di una tale “promiscuità” tra mafia e società siciliana non è sempre chiara. Palermo è al riguardo un tipico esempio. Io vi ho convissuto fino all’età di venticinque anni e conoscevo a fondo la città. Abitavo nel centro storico, in Piazza Magione, in un edificio di nostra proprietà. Accanto c’erano i catoi, locali umidi abitati da proletari e sottoproletari. Era uno spettacolo la domenica vederli uscire da quei buchi, belli, puliti, eleganti, i capelli impomatati, le scarpe lucide, lo sguardo fiero» ricorda Giovanni Falcone.Vinto il concorso in magistratura, Borsellino compie il suo apprendistato a Palermo presso il collega anziano Cesare Terranova. Nessuno ancora sapeva, ma si stava formando a Palermo, in Sicilia, e naturalmente anche nel resto del Paese, verso la fine degli anni Sessanta, una nuova leva di magistrati, di giovani di nuova cultura, di nuova etica, di nuovo impegno.La famiglia di Borsellino, quella d’origine, la madre e i fratelli, la nuova che aveva appena formato, il lavoro di magistrato unito alla scelta, alla passione per il diritto civile ci fanno pensare che il magistrato immaginasse - com’era normale, com’era giusto immaginare - di vivere in uno stato di diritto, in una società civile in cui la sfera privata, l’umano regno degli affetti, trovasse rispetto e difesa; dove anche l’avere, il frutto dell’onesto lavoro, trovasse legittimità e protezione.Abbiamo tutti, tutti creduto, noi cittadini, forse hanno creduto anche alcuni magistrati, per molto tempo, che la vecchia, parassita velenosa malapianta della mafia fosse qualcosa di separato dal nostro contesto civile, che essa sarebbe stata prima o dopo tagliata con un colpo d’ascia dal ceppo sano della nostra società da parte di organi a questo delegati: magistratura e forze dell’ordine. Borsellino e altri magistrati hanno visto a un punto che la mafia tutto invadeva e distruggeva, in Sicilia, nel Paese, che era un mostro osceno, un bestiale Polifemo che stritola e divora uomini, che minacciava ogni giorno di più, nonché l’avere, il primo dei beni, la vita, minacciava la sfera privata della famiglia, la pubblica sfera, distruggeva i valori della civiltà. Uccideva e uccideva la mafia, spargeva morte per le strade di Palermo e di ogni città di Sicilia, la morte - lo diciamo qui con Savinio - «che insudicia quello che era pulito. Intorbida quello che era limpido. Inlaidisce quello che era bello. Intenebra quello che era luminoso. Istupidisce quello che era intelligente. Immiserisce quello che era ricco...». La mafia umiliava e infamava nel mondo la Sicilia della storia, della cultura, dell’arte, della filosofia, del diritto. Dopo l’uccisione dei magistrati Terranova, Costa, del capitano Basile, del commissario Boris Giuliano, Chinnici e gli altri magistrati capirono che in Sicilia era la guerra: la guerra contro la civiltà, contro la democrazia. Decisero di combattere, quei magistrati, e si fecero, per la Sicilia, per noi tutti, soldati in prima linea. Non vogliamo qui raccontare ancora la vita di sacrifici a cui si sottoposero i magistrati del pool antimafia, l’altissimo prezzo che hanno dovuto pagare in quella guerra le loro famiglie. Uno dopo l’altro caddero quei magistrati. Caddero Chinnici, Saetta, Livatino, Falcone, Borsellino...Noi, non più giovani o vecchi, riusciamo solo a dire, parafrasando il poeta de La terra desolata: con il ricordo di Borsellino, con la lezione del sacrificio di tutte le vittime della mafia, riusciamo a puntellare le nostre macerie. Le macerie della nostra vita civile.
L'Unità, 16.07.07
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