venerdì 27 luglio 2007

L'ultimo boss di Chicago tradito dal figlio pentito


L'"Outfit", organizzazione nata con Al Capone rischia di sparire. Così va in scena in tribunale la saga dei Calabrese

dal nostro inviato MARIO CALABRESI

CHICAGO - Segreti di famiglia" è il serial più appassionante dell'estate americana. Una storia di mafia, omicidi, tradimenti e soldi sporchi. Per vederlo c'è la coda, e non più di cento fortunati riescono a trovare un posto per godersi le otto ore di diretta al giorno. Non è televisione e non è fiction, è il processo alla mafia più importante e avvincente dai tempi di Al Capone. Va in onda da un mese nell'aula delle cerimonie del tribunale federale di Chicago, al venticinquesimo piano di un grattacielo nero in vetro e acciaio a duecento metri dal nuovissimo Millennium Park. In "Family secrets" si raccontano più di vent'anni di strozzinaggio con tassi di usura del dieci per cento la settimana, scommesse clandestine, riciclaggio di denaro sporco, racket delle estorsioni, pizzo, controllo dei videopoker nei bar e 18 omicidi. Ma non è questo ad allungare la coda dei curiosi ogni mattina, a spingere coppie di pensionati e studenti di legge a non perdere una seduta, a riempire i banchi dedicati alla stampa e a tenere le troupe dei network televisivi fisse nell'ingresso. A fare la differenza è una storia familiare senza precedenti: un boss mafioso che passerà il resto della sua vita dietro le sbarre per colpa di due testimoni eccellenti. Suo figlio e suo fratello. Frank Calabrese, settant'anni, da due settimane ascolta le deposizioni di Frank Jr., il suo ragazzo, che lo ha venduto all'Fbi in cambio della libertà e di una nuova vita in Arizona, e di Nick, quel bambino nato cinque anni dopo di lui a cui ha sempre dato ordini e che oggi si vendica, condannandolo ad una cella di massima sicurezza per il resto dei suoi giorni. Non smette mai di fissarli, lo fa per ore sprofondato nella sedia, accarezzandosi la barba brizzolata.

Durante la testimonianza di Frank Jr. scuoteva la testa, poi ha dovuto alzare gli occhi per assistere alla sua pubblica umiliazione: le immagini del tradimento proiettate su un grande schermo. Si vedono padre e figlio nel carcere federale di Milan, in Michigan, ripresi da una telecamera nascosta. Si sente il padre rispondere alle domande del figlio che, istruito dai federali con cui aveva iniziato a collaborare, gli chiede di raccontare come si diventa uomini d'onore. E il boss, pieno di un orgoglio malato che cerca di trasmettere a quel figlio che considera un rammollito, non si sottrae: racconta tutto, perfino i dettagli di otto omicidi e così firma la sua condanna. E quella dei suoi amici James "Little Jimmy" Marcello, l'ultimo capo ufficiale della mafia di Chicago, e di Joseph "il Clown" Lombardo, la vera mente dell'organizzazione. A 78 anni il "Clown" porta ancora gli occhiali quadrati che gli regalarono quel soprannome, ma la faccia è scavata da anni di prigione e il sorriso è scomparso di fronte al naufragio della "Chicago Outfit", distrutta da questa inimmaginabile faida familiare. "Outfit", l'Organizzazione: si sono sempre chiamati così da queste parti, per distinguersi dalla Cosa Nostra della costa atlantica. E poi qui non c'erano cinque famiglie come a New York, ma un unico sindacato del crimine organizzato che ha preso forma nella seconda metà degli Anni Venti con Al Capone. Per ottant'anni hanno diviso la città in sei parti, hanno nominato un boss e un consigliere e hanno regnato incontrastati sulla città. Il loro raggio d'azione arrivava a "Vegas", come chiamavano la città dei casinò, e in Florida, dove amavano andare a mangiare i granchi giganti dopo aver controllato scommesse e riciclaggio. Ora la ribellione di un figlio ha distrutto tutto e questi vecchi seduti sui banchi degli imputati non si danno pace. Perché un figlio mette in trappola il padre? I federali che hanno costruito l'indagine e preparato la trappola raccontano che Frank Jr. è stato il primo a collaborare: "Non ne poteva più della sua brutalità e di una vita di abusi, ci diceva che era uno psicopatico. Quando era bambino, il padre cominciava a urlare per le cose più stupide appena entrato in casa e poi lo picchiava. Non ha mai smesso di farlo e quando è diventato grande ha preso il vizio di puntargli la pistola in faccia". La ferocia di Frank Sr. passa sullo schermo, tutta l'Aula sente il racconto registrato di quel pomeriggio del luglio 1983, quando insieme al fratello Nick uccisero Richard Ortiz, colpevole di aver disobbedito all'Organizzazione, e un innocente che era in macchina con lui, Arthur Morawski. "Vuoi che ti dica un cosa? - dice Frank Senior cercando di insegnare il "coraggio" al figlio -. Il ragazzo polacco che stava nell'auto era una brava persona. Gli era capitato di essere nel posto sbagliato. Ma non potevamo preoccuparci di questo: il lavoro andava fatto. Ricordati che se tu ti trovassi in quella stessa situazione e rinunciassi, poi saresti un fottuto ragazzo".

Frank junior ascolta il padre in silenzio, sa che lo sta registrando, ha già deciso la sua strada e ha trovato il coraggio. "Ma soprattutto - raccontano i federali - non voleva passare la vita in carcere per lui. A casa lo aspettavano una moglie e due ragazzini. Ha scelto loro". Oggi è libero, ha 45 anni e vive in Arizona con il suo nome sulla cassetta della posta: non ha voluto cambiare identità né ha accettato di entrare in un programma di protezione. Ha scommesso, con qualche rischio, che quella storia sia finita, che la mafia di Chicago non abbia più nessuno che lo andrà a cercare. Oggi è il turno di Nicholas. Ha i capelli bianchi, pettinati con la riga, è vestito con una felpa girocollo verde, i jeans e le scarpe da tennis, non guarda mai il fratello, parla girato verso la giuria così da dargli le spalle, da una settimana è sotto interrogatorio e i loro sguardi non si sono mai incrociati. Risponde con tono di voce basso, lento, quasi monotono, ma con precisione inchioda Frank alle sue responsabilità, lo fa con la stessa freddezza con cui ha fatto il killer. Sì, perché a sparare per quattrodici volte è stato proprio Nick, che oggi è il testimone d'accusa. L'avvocato difensore di James Marcello lo controinterroga senza sosta: gli mostra la foto di Nicholas D'Andrea, a cui ha sparato il 13 settembre del 1981, e fa la domanda di rito: "Lo riconosce?". Ma a sorpresa Nick Calabrese risponde: "Riconosco il nome, so che ho ucciso un uomo che si chiamava così, ma la faccia quella no". "Ci vuole dire che non ha presente il volto di una persona che ha ucciso?". "L'ho visto solo per alcuni brevi istanti prima di ammazzarlo, solo pochi secondi". "Allora non è in grado di identificare la persona che ha ucciso?". "Se quella faccia corrisponde a quel nome, allora quello è l'uomo a cui ho sparato". Si è sempre piegato a recitare il ruolo che gli chiedevano gli altri: ha fatto l'estorsore, picchiato chi non restituiva i prestiti, bruciato negozi, sparato a chi non manteneva la parola, tutto per suo fratello. Ora gioca con la squadra dei buoni, perché glielo ha chiesto l'Fbi, perché aveva paura della pena di morte e perché spera di vivere ancora uno spicchio di vita fuori da carcere. Per convincerlo a collaborare però è stato necessario fargli sentire una di quelle conversazioni segrete tra padre e figlio, così scoprì che Frank lo avrebbe lasciato ammazzare se l'Organizzazione lo avesse deciso. Si è sentito tradito e ha deciso che allora era libero anche lui da ogni legame. E da quel momento racconta tutto, particolari compresi. È la volta dell'omicidio dei fratelli Tony e Michael Spilotro, il 14 giugno del 1986. Tony era l'uomo di fiducia dell'Organizzazione a Las Vegas, la sua storia è stata raccontata da Martin Scorsese nel film "Casinò", in cui ha la faccia di Joe Pesci. Fece molti errori, ma uno non venne perdonato dal vecchio boss Joseph Aiuppa, che aveva ottant'anni e non capiva i nuovi costumi: essere andato a letto con la moglie di Frank Rosenthal (Robert De Niro nel film) che gestiva lo Stardust per conto dell'Organizzazione. Per la parte di lei Scorsese scelse Sharon Stone, ma il fatto che fosse bellissima non cambiò la sentenza di Aiuppa. Al cinema Tony e suo fratello Michael vennero picchiati e bruciati in un campo di mais dell'Indiana. Invece Nick Calabrese racconta un'altra storia: "Li attirammo in una casa nella periferia nord di Chicago con la promessa di un posto di rilievo nell'Organizzazione, entrarono e gli andai incontro per stringergli la mano, poi a sorpresa iniziammo a picchiarli e li strangolammo. Tony fece in tempo a capire, e per un attimo cominciò a pregare. Solo dopo vennero bruciati insieme alla loro auto". L'avvocato di Marcello si accorge di una contraddizione: "Ci ha raccontato che per fare queste cose mettevate i guanti". "È così". "Ma quando le hanno stretto la mano e vi hanno visto tutti con i guanti non hanno capito? Non vi hanno detto: "Ehi, ragazzi cosa sta succedendo, ci stiamo preparando per un colpo?". Nick non sa rispondere, poi mentre l'avvocato Tom Breen comincia a dire alla giuria che forse sta mentendo e che forse quel giorno non era insieme a quel "brain trust", lui si schiarisce la voce, la alza per la prima volta e quasi gli urla: "La verità è la verità, i fatti sono i fatti, e io racconto solo quello che ho visto e sentito. E poi non eravamo un gruppo di cervelli ma un gruppo di criminali". Ma i guanti sono il suo punto debole. Nel 1986 il fratello gli ordinò di uccidere John Fecarotta, uno dei suoi migliori amici, colpevole di aver fallito una prima volta nel tentativo di eliminare i fratelli Spilotro.

L'azione è drammatica, John si rende conto, cerca di scappare, alla fine Nick riesce a sparargli in testa, ma perde un guanto insanguinato. Quello su cui l'Fbi farà l'esame del Dna nel 2002, quello che lo avrebbe portato alla condanna a morte. Frank oggi ha un abito color crema e dietro gli occhiali dai vetri affumicati ride delle difficoltà del fratello, si piega verso il suo avvocato e scherza mostrando il suo disprezzo verso l'uomo che ha gettato nel discredito l'onore della famiglia. Il suo avvocato è rumoroso e plateale, calato nel personaggio che il pubblico voleva vedere: abito nero con camicia, cravatta e calze rosa. Padre messicano, madre italiana, Joe Lopez, ama la teatralità e le frasi ad effetto: Ha esordito con queste parole: "Il mio assistito non è italiano, è siciliano". La giuria si è guardata perplessa e nessuno ha capito cosa volesse dire. L'udienza è finita. Nick è in piedi, aspetta di uscire, guarda lontano. I federali gli hanno promesso una condanna a non più di dieci anni, cinque li ha già scontati, se il giudice non farà scherzi all'alba dei settanta sarà fuori: avrà una nuova identità, sarà in un programma di protezione, nascosto in una piccola cittadina americana a fare quello che ha sempre sognato: una vita banale, anonima, normale. Senza omicidi, senza esplosivo, senza doversi mettere i guanti per uccidere un amico, senza dover guidare una macchina con un cadavere in mezzo alla gente che fa festa il sabato sera. Forse per qualche anno lo potrà fare e chissà se allora, nel silenzio della sua villetta a schiera, gli tornerà finalmente in mente la faccia di qualcuno degli uomini che ha ammazzato.
(La Repubblica, 26 luglio 2007)
FOTO: Al Capone

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