giovedì 9 agosto 2007

Mani Pulite e l’Antimafia. Così ritornò la giustizia

di Gian Carlo Caselli
Alcuni vocaboli andrebbero usati con parsimonia estrema, per proteggerli. La pulizia della politica e della mente comincia sempre con una pulizia delle parole più sciupate. Questa riflessione di Barbara Spinelli ben si attaglia allo scempio che in Italia deve spesso subire il termine «garantismo». Uno scempio che negli ultimi tempi sta facendo evaporare la realtà di ieri e di oggi. Ad impartire supponenti lezioni di garantismo, infatti, sono soprattutto i corifei di coloro che hanno sempre praticato strategie finalizzate al rifiuto del processo, alla sua gestione come momento di rottura e di scontro. Mentre è del tutto evidente che queste strategie di contestazione del processo in sé, indipendentemente dal suo esito (quel che conta è la difesa «dal» processo, non «nel» processo) nulla hanno a che vedere con un sistema di stretta legalità.Anzi, questo «neogarantismo» strumentale, diretto a depotenziare la magistratura (che si vorrebbe disarmata di fronte al potere economico e politico), e il parallelo garantismo «selettivo» (che gradua le regole in base allo status sociale dell’imputato) costituiscono la negazione del garantismo «classico», secondo il quale le garanzie o sono veicolo di uguaglianza o si degradano a strumento di sopraffazione e privilegio degli inquisiti eccellenti.L’uso spregiudicato, lo sciupio della parola «garantismo» facilita la perdita di memoria, l’occultamento o travisamento del passato, di ciò che è davvero successo dai primi anni 90 ad oggi. «Mani pulite» fu - secondo la sintesi tacitiana dell’ex presidente del Consiglio - «un’azione lungamente studiata dai comunisti, che hanno introdotto nella magistratura elementi propri, i quali hanno costituito una corrente che ha fatto politica attraverso indagini, processi, sentenze». Fu invece , secondo la trionfalistica definizione di altri (anche tra i magistrati), una rivoluzione per via giudiziaria, che determinò il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica.Non fu, in realtà, né l’una né l’altra cosa. Più semplicemente, fu l’emergere in sede giudiziaria dell’intreccio - diffuso e all’apparenza inarrestabile - tra malaffare e settori dell’amministrazione, dell’imprenditoria e della politica, diretto prevalentemente (ma non soltanto) al finanziamento di quest’ultima. Certamente fu un terremoto: molti uomini politici (fra cui tutti i segretari dei partiti di governo e del principale partito di opposizione) sottoposti a procedimento penale; molti enti pubblici decapitati di presidenti e amministratori... Ma il problema è: fu un terremoto fondato su fatti, oppure su sospetti infondati, forzature, impropri teoremi? La risposta sta negli esiti processuali, oggi agevolmente controllabili. Limitandoci ad alcuni dati della situazione milanese (epicentro del fenomeno) quali risultanti nel 2005, la Procura ha chiesto il rinvio a giudizio per 3.200 persone: di esse 1.322 sono state rinviate a dibattimento, 620 sono state condannate con riti alternativi nell’udienza preliminare, 635 sono state prosciolte dal Gup (in 353 casi per estinzione del reato e solo in 282 per ragioni di merito), mentre i restanti casi sono stati trasmessi ad altri uffici per competenza.Quanto ai 1.322 rinviati a giudizio già definiti, risultano 661 condanne e 476 proscioglimenti (in 299 casi per estinzione del reato e solo in 177 per ragioni di merito). I fatti - e i numeri - hanno la testa dura: «Mani pulite» non è stata, sul versante giudiziario, una stagione di persecuzioni (o l’anticamera di una stagione siffatta) ma il doveroso dispiegarsi del principio di obbligatorietà dell’azione penale e di un controllo di legalità diffuso.Quanto ai processi di mafia, la stagione di grande tensione seguita alle feroci stragi del 1992 ha determinato, a partire dalla magistratura palermitana, una crescita di attenzione alla complessità del fenomeno mafioso e alla sua non riducibilità alla cosiddetta «ala militare». Di qui l’apertura e lo svilupparsi (anche) di procedimenti a carico di imputati «eccellenti» appartenenti alla borghesia politica, imprenditoriale e professionale (cioè a settori che da sempre, secondo le analisi più accreditate, hanno avuto e hanno un ruolo centrale nella storia della mafia): ovviamente non in base a teoremi politico-sociologici ma a fatti ed emergenze probatorie precisi. Le cosiddette «relazioni esterne» sono, invero, lo specifico della mafia rispetto alle altre organizzazioni criminali. Se si indagasse soltanto sulla faccia «illuminata» del pianeta mafia, e non anche sulla sua parte «in ombra», si garantirebbe l’impunità al vero perno della potenza mafiosa. Ma la doverosa scelta di indagare a 360° non è stata indolore: ed è accaduto che, pur di scongiurare il salto qualitativo nell’azione di accertamento dei legami e delle collusioni con Cosa Nostra, si sia spesso preferito inscenare un processo non alla mafia quanto piuttosto... alla stagione giudiziaria antimafia che ha seguito le stragi del ’92. Così rendendo più difficile una guerra che si sarebbe potuto vincere. E vari commentatori, deliberatamente ignorando i risultati investigativi e processuali ottenuti (un livello senza precedenti, per numero e caratura criminale, di latitanti arrestati; un numero impressionante di condanne all’ergastolo - quasi 650 nel 2000/2004 - inflitte o confermate nel distretto della Corte d’appello di Palermo, oltre a moltissime dure condanne a pene temporanee; beni sequestrati ai mafiosi - dal ’93 al ’99 - per un valore di 10.000 miliardi di vecchie lire; numerose e significative pronunzie anche nei confronti di imputati «eccellenti») hanno preferito, con sovrana indifferenza per la verità, parlare di fallimento di un’intera stagione.In questo contesto si è interessatamente praticato lo sterminio del significato delle parole, al punto da confondere «assoluzione» con «prescrizione» e da presentare come liberato da ogni accusa un autorevole uomo politico riconosciuto - con sentenza definitiva della Suprema Corte - responsabile del delitto di associazione a delinquere (con Cosa Nostra), delitto commesso, ancorché prescritto, fino al 1980. E tutto ciò con il supporto di prove su prove su cui si fonda la conclusione che gli elementi concretamente ravvisabili a carico dell’imputato «non possono interpretarsi come una semplice manifestazione di un comportamento solo moralmente scorretto e di una vicinanza penalmente irrilevante, ma indicano una vera e propria partecipazione alla associazione mafiosa, apprezzabilmente protrattasi nel tempo». Dunque, negli anni Novanta del secolo scorso vi è stato uno sviluppo assolutamente inedito di processi per corruzione e per reati di mafia. Le ragioni di questa «esplosione» sono molteplici e ne parleremo in una successiva «puntata». Fin d’ora va detto che si può - si deve - discutere di ogni stagione giudiziaria e delle sue caratteristiche. Se ne deve discutere a maggior ragione quando il passar del tempo consente maggior lucidità e distacco emotivo, anche sapendo cogliere eventuali forzature inquisitorie od emulative. Si tratterebbe comunque - per gli anni Novanta - di sporadici ed isolati episodi. Una valutazione serena, che sappia guardare alla sostanza delle vicende, considerate nel loro complesso, non consente di rinvenire fatti che giustifichino il polverone sollevato da certi commentatori. Le accuse di metodi di lavoro «giustizialisti», di persecuzioni giudiziarie, di complotti orditi da «toghe rosse» per servire una fazione politica a danno di un’altra tradiscono in realtà una forte insofferenza per il controllo di legalità e per la rigorosa applicazione del principio di obbligatorietà dell’azione penale.(1 - segue)
L'Unità, 08.08.07

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