venerdì 17 agosto 2007

Cosa c'è dietro le cosche?

di Francesco Forgione*
Una nuova strage di mafia nel cuore della Germania, a Duisburg, riaccende i riflettori sulla ’ndrangheta, sulla sua barbarie, sui suoi affari, sul suo ruolo internazionale che ne fanno, oggi, la più potente organizzazione criminale italiana e tra le più pericolose e ricche del mondo. Non ci fossero stati questi sei morti, col macabro rituale del colpo di grazia, e la scelta della «prima volta» fuori dal proprio territorio e dall’Italia, gli unici riflettori accesi, e di questo la ringrazio, sarebbero stati quelli de l’Unità, il giornale che da settimane racconta la «normalità» della presenza della ’ndrangheta nella vita economico-sociale e politica della Calabria.In queste ore di sconcerto per la barbarie di cui sono stati capaci i killer mandati dall’Aspromonte per colpire in una città industriale della Germania, non dobbiamo perdere la bussola. Siamo di fronte alla coda di una faida tra le famiglie di San Luca che ha già prodotto decine di morti, e probabilmente altri ne produrrà se non sapremo mettere in campo tutte le potenzialità investigative e gli strumenti giudiziari per arrestarla definitivamente; ma chi era in Germania - vittima o carnefice - non era partito con la valigia di cartone per fare il pizzaiolo, era lì per gestire investimenti, operazioni finanziarie, speculazioni edilizie. Per controllare e gestire il traffico della droga, come dimostrano recenti inchieste tra Germania Belgio e Olanda, o trattare importanti partite di armi o, come pare, era anche interessato all’acquisto di Gazprom, monopolista russo del gas, e agli investimenti turistici sul Baltico. La ’ndrangheta va guardata così: senza mai perdere il significato del suo simbolismo arcaico nel controllo del territorio, dai riti dell'affiliazione fino alle faide familiari, soprattutto nella ionica reggina, ma cogliendone sempre i nessi con la sua «modernità», frutto delle sue disponibilità finanziarie ripulite nelle mille opportunità della globalizzazione. Tutto il resto è fuorviante e tende a minimizzare un fenomeno che va aggredito al più alto livello della sua pericolosità: la sua ricchezza, i suoi patrimoni, la pervasività delle sue relazioni sociali e istituzionali.Parliamo di una mafia che, a seguito dei colpi inferti a Cosa Nostra dopo la stagione stragista del ‘92-‘93, è riuscita a conquistare il primato mondiale nel traffico della droga, gestendo gran parte delle porte di accesso della cocaina in Europa. In questa scalata tra le organizzazioni criminali mondiali, la ‘ndrangheta è stata favorita dalla sua natura di organizzazione chiusa, dalla solidità di legami famigliari che l’hanno resa impermeabile al fenomeno dei «pentiti» che, per Cosa Nostra e la Camorra, ha avuto un effetto deflagrante in tutti gli anni 90.Ed è una mafia che ha avuto una grande capacità imprenditoriale, contrattando, già nella fase di progettazione del mai realizzato centro siderurgico prima, e del nascente porto di Gioia Tauro poi, il proprio ruolo nel sistema di imprese nazionale e con i soggetti economici e politico-istituzionali che dovevano gestire il più grande insediamento industriale della regione.Si è assicurata così il sistema degli appalti e dei grandi flussi di denaro pubblico arrivati a fiumi in Calabria senza incidere in termini di sviluppo, di modernizzazione, di livelli di civiltà.Eppure le mafie, e la ‘ndrangheta tra esse, non sono più fattori di arretratezza, ma soggetti tra i più «dinamici» della modernizzazione distorta che ha investito il Sud e ne ha trasformato il paesaggio sociale: speculazione e cemento, saccheggio ambientale, stupro delle coste, dissipazione dei finanziamenti pubblici, scempio di ogni forma di diritti, negazione della libertà di mercato e d’impresa. Basta osservare il paesaggio percorrendo la Salerno-Reggio Calabria per toccare la materialità di ognuno di questi aspetti. Queste mafie, la politica non ha avuto la forza di combatterle e sconfiggerle, proponendo un altro modello di sviluppo credibile e sostenibile, di lavoro pulito, di gestione delle risorse trasparenti, di diritti esigibili al posto di favori elargibili. Anzi, ne ha accettato le logiche e ha compartecipato al sistema.In fondo, la crisi della politica, in Calabria, è tutta qui: nell’essersi trasformata in esercizio separato del potere, trasversalità senza vincoli ideali o etico-morali, ricerca ossessiva del consenso senza regole, scambio privato e non più risposta generale e trasparente ai bisogni diffusi. Anzi, i bisogni della gente - dalla sanità, al lavoro, dai servizi alla pubblica amministrazione - sono diventati la leva di una nuova dipendenza non più e non solo clientelare, ma, in intere aree, anche mafiosa. In questo scenario, si è anche affermata una commistione, a tutti i livelli, tra gestione politica e interessi economico-finanziari privati. Ricostruire l’autonomia e la trasparenza della politica: questo tema è più duro in Calabria, dove il livello occulto delle decisioni e l’intreccio con gli interessi mafiosi e la massoneria rappresentano la materialità di un potere che espropria le istituzioni di scelte fondamentali per la vita pubblica della regione. Di questo si fa forte la ‘ndrangheta. Per questo, per combatterla, non basta la dimensione giudiziaria e repressiva, necessaria e ineludibile.Serve un ritorno alla politica pulita, a partiti indiscussi, a rappresentanti delle istituzioni senza condanne e rinvii a giudizio, come indicato dal Codice etico approvato dalla Commissione antimafia, ma anche senza ombre. Occorre evitare il rischio del definitivo distacco della gente dalle istituzioni e quello, forse peggiore, dell’accettazione, fino all'emulazione, dei comportamenti politici amorali e mafiosi come gli unici possibili.È questo il dovere per chiunque diriga uno spazio pubblico (partito, associazione, ente locale, istituzione economica di ogni livello) in una regione di frontiera come la Calabria.Qualcuno contesterà che bisogna essere pragmatici: la politica, in fondo, è «realismo»!È proprio questo il problema: adeguarsi al sistema, magari traendone benefici elettorali e finanziari o avviare processi di rottura. In fondo, la lotta alla mafia si è sempre sviluppata tra queste due sponde.La pervasività delle ‘ndrine, oggi, è conseguenza della loro forza economica. Se non si centra questo punto di analisi non si mette a fuoco la strategia di contrasto.In queste ore i riflettori sono sulla Germania, ma basta pensare che il controllo della piazza della droga più importante di Milano, Quarto Oggiaro, passa dalle famiglie mafiose di Petilia Policastro e della Piana, che molte mega-attività commerciali in Emilia Romagna passano da Cutro, che grandi partite di droga con i paesi latinoamericani incrociano le ‘ndrine reggine o le famiglie vibonesi, che grandi investimenti in Europa, dall'Atlantico alla Romania partono dalla Calabria. Sono note anche le forme di controllo del territorio e le attività preferite dalle ‘ndrine: dai grandi centri commerciali, con il doppio interesse mafioso per la destinazione delle aree edificabili e la possibilità di ripulire il denaro con attività lecite, ai grandi investimenti turistici. E ancora il racket e il pizzo o il controllo dei comuni e della burocrazia che uccidono le istituzioni al livello più diretto del rapporto con i cittadini. Occorrono scelte di rottura, segnali inequivoci.Ho detto della politica. Ma dove sono le denunce degli imprenditori? E di quanti contributi alle imprese, nelle diverse aree industriali della Calabria, sono rimasti solo capannoni vuoti e arrugginiti, nei quali non si è avviata alcuna attività produttiva? Quanti milioni di euro della legge 488 hanno prodotto un solo posto di lavoro? In quanti processi le associazioni professionali si sono costituite parte civile e quanti imprenditori condannati per mafia sono stati espulsi dalla Confindustria?Non sono domande retoriche. Serve un nuovo spirito pubblico.Se vogliamo essere credibili dobbiamo mettere a nudo tutti i santuari nei quali mafia e potere saldano i loro interessi. La prima volta di una Commissione antimafia nel porto di Gioia Tauro, a fine luglio, è stata una scelta precisa e consapevole, per indicare le strade possibili del destino di questa terra: quella dello sviluppo trasparente, in un Mediterraneo di pace, cooperazione e relazioni commerciali tra diversi paesi e diversi popoli o quello di un’area fuori controllo dello Stato per alimentare profitti e ricchezze criminali.E così insisteremo per adeguare leggi, apparati investigativi e uffici giudiziari, per fare dell'aggressione ai patrimoni, alle ricchezze e ai flussi finanziari del riciclaggio, il cuore di una nuova stagione della lotta alla ‘ndrangheta. Non c’è un destino predeterminato per la Calabria, fuori dalla volontà che si vuole costruire. Occorre ripartire. Serve una stagione di indignazione di massa. Ci sono i morti di Duisburg e la sfiorata strage di pochi giorni fa in un ristorante di Cirò Marina, con un assalto da Chicago anni 30, ma anche i ragazzi di Locri, la serrata dei commercianti di Lamezia, i giovani che lavorano le terre confiscate ai boss nella Piana di Gioia Tauro, i tanti amministratori che ogni giorno, tra minacce e attentati, sfidano gli interessi delle cosche. E tanti sono i lavoratori, le associazioni, i rappresentanti politici e istituzionali che rifiutano la pratica e la logica dello scambio mafioso. Occorre una nuova forza morale ed un nuovo blocco sociale dei diritti e della legalità per contrastare un'egemonia mafiosa che tiene assieme disagio e precarietà sociale, ma anche ceti professionali, imprenditoriali e quella borghesia mafiosa senza la quale i tanti miliardi della ‘ndrangheta non potrebbero essere reinvestiti. È una battaglia dura e difficile, ma è l’unica possibile. Non è detto che si vinca ma, altrettanto, non è detto che si perda.
*Presidente Commissione Antimafia
L'Unità, 17.08.07

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