lunedì 30 novembre 2009

"Figlio mio, lascia questo Paese"

di PIER LUIGI CELLI
SCUOLA & GIOVANI. LA LETTERA. Il direttore generale della Luiss: "Avremmo voluto che l'Italia fosse diversa e abbiamo fallito". Riproponiamo ai lettori questa lettera di Pier Luigi Celli, uscita su "La Repubblica", che tanti padri (onesti) sarebbero tentati di scrivere ai loro figli

Figlio mio, stai per finire la tua Università; sei stato bravo. Non ho rimproveri da farti. Finisci in tempo e bene: molto più di quello che tua madre e io ci aspettassimo. È per questo che ti parlo con amarezza, pensando a quello che ora ti aspetta. Questo Paese, il tuo Paese, non è più un posto in cui sia possibile stare con orgoglio. Puoi solo immaginare la sofferenza con cui ti dico queste cose e la preoccupazione per un futuro che finirà con lo spezzare le dolci consuetudini del nostro vivere uniti, come è avvenuto per tutti questi lunghi anni. Ma non posso, onestamente, nascondere quello che ho lungamente meditato. Ti conosco abbastanza per sapere quanto sia forte il tuo senso di giustizia, la voglia di arrivare ai risultati, il sentimento degli amici da tenere insieme, buoni e meno buoni che siano. E, ancora, l'idea che lo studio duro sia la sola strada per renderti credibile e affidabile nel lavoro che incontrerai. Ecco, guardati attorno. Quello che puoi vedere è che tutto questo ha sempre meno valore in una Società divisa, rissosa, fortemente individualista, pronta a svendere i minimi valori di solidarietà e di onestà, in cambio di un riconoscimento degli interessi personali, di prebende discutibili; di carriere feroci fatte su meriti inesistenti. A meno che non sia un merito l'affiliazione, politica, di clan, familistica: poco fa la differenza. Questo è un Paese in cui, se ti va bene, comincerai guadagnando un decimo di un portaborse qualunque; un centesimo di una velina o di un tronista; forse poco più di un millesimo di un grande manager che ha all'attivo disavventure e fallimenti che non pagherà mai. E' anche un Paese in cui, per viaggiare, devi augurarti che l'Alitalia non si metta in testa di fare l'azienda seria chiedendo ai suoi dipendenti il rispetto dell'orario, perché allora ti potrebbe capitare di vederti annullare ogni volo per giorni interi, passando il tuo tempo in attesa di una informazione (o di una scusa) che non arriverà. E d'altra parte, come potrebbe essere diversamente, se questo è l'unico Paese in cui una compagnia aerea di Stato, tecnicamente fallita per non aver saputo stare sul mercato, è stata privatizzata regalandole il Monopolio, e così costringendo i suoi vertici alla paralisi di fronte a dipendenti che non crederanno mai più di essere a rischio.
Credimi, se ti guardi intorno e se giri un po', non troverai molte ragioni per rincuorarti. Incapperai nei destini gloriosi di chi, avendo fatto magari il taxista, si vede premiato - per ragioni intuibili - con un Consiglio di Amministrazione, o non sapendo nulla di elettricità, gas ed energie varie, accede imperterrito al vertice di una Multiutility. Non varrà nulla avere la fedina immacolata, se ci sono ragioni sufficienti che lavorano su altri terreni, in grado di spingerti a incarichi delicati, magari critici per i destini industriali del Paese. Questo è un Paese in cui nessuno sembra destinato a pagare per gli errori fatti; figurarsi se si vorrà tirare indietro pensando che non gli tocchi un posto superiore, una volta officiato, per raccomandazione, a qualsiasi incarico. Potrei continuare all'infinito, annoiandoti e deprimendomi. Per questo, col cuore che soffre più che mai, il mio consiglio è che tu, finiti i tuoi studi, prenda la strada dell'estero. Scegli di andare dove ha ancora un valore la lealtà, il rispetto, il riconoscimento del merito e dei risultati. Probabilmente non sarà tutto oro, questo no. Capiterà anche che, spesso, ti prenderà la nostalgia del tuo Paese e, mi auguro, anche dei tuoi vecchi. E tu cercherai di venirci a patti, per fare quello per cui ti sei preparato per anni. Dammi retta, questo è un Paese che non ti merita. Avremmo voluto che fosse diverso e abbiamo fallito. Anche noi. Tu hai diritto di vivere diversamente, senza chiederti, ad esempio, se quello che dici o scrivi può disturbare qualcuno di questi mediocri che contano, col rischio di essere messo nel mirino, magari subdolamente, e trovarti emarginato senza capire perché. Adesso che ti ho detto quanto avrei voluto evitare con tutte le mie forze, io lo so, lo prevedo, quello che vorresti rispondermi. Ti conosco e ti voglio bene anche per questo. Mi dirai che è tutto vero, che le cose stanno proprio così, che anche a te fanno schifo, ma che tu, proprio per questo, non gliela darai vinta. Tutto qui. E non so, credimi, se preoccuparmi di più per questa tua ostinazione, o rallegrarmi per aver trovato il modo di non deludermi, assecondando le mie amarezze. Preparati comunque a soffrire. Con affetto, tuo padre
(La Repubblica, 30 novembre 2009)

L'autore è stato direttore generale della Rai. Attualmente è direttore generale della Libera Università internazionale degli studi sociali, Luiss Guido Carli.

Sicilia. "L'assessore agevola i privati. I sindacati accusano l'assessore Massimo Russo

Palermo - È rottura tra l'assessore regionale alla Sanità, Massimo Russo, e i sindacati. Cgil, Cisl e Uil ma anche Anaao, Cimo, Emsped, Anpo, Fials e Fvm accusano l'ex pm «di andare avanti nell'attuazione della riforma sanitaria a colpi di decreti, senza tenere conto dei contratti di lavoro e della concertazione». In più, l'assessore starebbe «smantellando il settore pubblico agevolando i privati». Questi i contenuti dell'assemblea generale che si è svolta nell'aula magna dell'ospedale Cervello.Lunga la lista delle accuse all'assessore, la più recente riguarda il decreto che offre alle strutture private la possibilità di avviare prevenzione e screening dei tumori, grazie a un finanziamento aggiuntivo di 28,5 milioni di euro. «Russo taglia al pubblico, riducendo i posti letto senza avviare quanto previsto dalla riforma, cioè la realizzazione dei presidi territoriali, e nello stesso tempo continua a sostenere i privati che non solo hanno avuto congelato il taglio dei posti letto, che in realtà sarà solo una rimodulazione, ma adesso hanno anche nuove fonti», attacca il segretario regionale della Cisl medici, Massimo Farinella.Anche la Cgil, che ha sostenuto a lungo il lavoro dell'assessore Russo, è sul piede di guerra: «La riforma va bene, noi da sempre siamo stati d'accordo, ma la sua applicazione ci lascia a dir poco perplessi», afferma il segretario regionale dei medici Renato Costa. La Cgil si oppone alla dismissione dell'ospedale oncologico Maurizio Ascoli che, «come ha confermato il direttore sanitario, sta per essere accorpato a una struttura privata, quella Villa Santa Teresa già dell'ingegnere Michele Aiello», osserva Costa. «Una scelta - aggiunge - che ci pare folle e che agevola ancora i privati che sono rimasti soci di questa struttura». Altri privati che saranno agevolati, secondo la Cgil, «sono quelli dell'Ismett, che avrà in dote la cardiochirurgia del Civico». Il sindacato contesta anche il fatto che «l'assessore sta spingendo molto per l'accorpamento dei piccoli laboratori privati, a vantaggio dei grandi». «Russo è un uomo solo al comando che non si confronta con alcun soggetto sia esso politico, sociale o sindacale», attacca Angelo Collodoro della Fials. I sindacati sono preoccupati per il futuro di diverse strutture pubbliche, che stanno per essere accorpate o ridimensionate. A partire dell'ospedale Cervello, che ha ospitato l'assemblea, dove ci sono 30 contratti di medici e infermieri in scadenza.All'assemblea erano presenti numerosi politici di partiti differenti: Antonello Antinoro e Nino Dina dell'Udc, l'ex direttore dell'Ausl 6 oggi eurodeputato del Pdl Salvatore Iacolino e per il Pd il segretario regionale Giuseppe Lupo e il deputato dell'Ars Pino Apprendi.
Da "La Repubblica" - Palermo

venerdì 27 novembre 2009

Mafia, perché i pentiti accusano Berlusconi?

di ATTILIO BOLZONI e GIUSEPPE D'AVANZO
Ad una svolta l'indagine di Firenze sulle stragi del 1993. Il nome del presidente del Consiglio nei verbali degli uomini della cosca di Brancaccio
NELL'INCHIESTA sui mandanti delle stragi del 1993 estranei a Cosa Nostra entrano Autore 1 e Autore 2. Gli ultimi interrogatori della procura di Firenze hanno una particolarità. Tecnica, ma comprensibilissima. I primi testimoni sono stati ascoltati in un'inchiesta a "modello 44", "notizie di reato relative a ignoti". Gli ultimi, a "modello 21", dunque "a carico di noti". I pubblici ministeri, nei documenti, non svelano i nomi dei nuovi indagati. Chi sono Autore 1 e 2? Secondo le indiscrezioni pubblicate già nei giorni scorsi dai quotidiani vicini al governo, sono Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri, la cui posizione era stata già archiviata il 3 maggio del 2002. Se così fosse, l'atto è dovuto. Non è un mistero (un migliaio di pagine sono state depositate, tre giorni fa, al processo di appello a Dell'Utri che si celebra a Palermo) che un nuovo testimone dell'accusa - Gaspare Spatuzza - indica nel presidente del consiglio e nel suo braccio destro i suggeritori della campagna stragista di sedici anni fa. Queste sono le "nuove" dai palazzi di giustizia, ma quel che si scorge è molto altro. L'intero fronte mafioso è minacciosamente in movimento. "La Cosa Nostra siciliana" si prepara a chiedere il conto a un Berlusconi che appare, a ragione, in tensione e sicuro che il peggio debba ancora venire. Accade che, nella convinzione di "essere stata venduta" dopo "le trattative" degli anni Novanta, la famiglia di Brancaccio ha deciso di aggredire - in pubblico e servendosi di un processo - chi "non ha mantenuto gli impegni". Ci sono anche i messaggi di morte. Al presidente del Senato, Renato Schifani, siciliano di Palermo. O, come raccontano le "voci di dentro" di Cosa Nostra, avvertimenti che sarebbero piovuti su Marcello Dell'Utri. Un'intimidazione che ha - pare - molto impaurito il senatore e patron di Publitalia. Sono sintomi che devono essere considerati oggi un corollario della resa dei conti tra Cosa Nostra e il capo del governo. È il modo più semplice per dirlo. Perché di questo si tratta, del rendiconto finale e traumatico tra chi (Berlusconi) ha avuto troppo e chi (Cosa Nostra) ritiene di avere nelle mani soltanto polvere dopo molte promesse e infinita pazienza. Questo scorcio di 2009 finisce così per avere molti punti di contatto con il 1993 quando la Penisola è stata insanguinata dalle stragi: Roma, via Fauro (14 maggio); Firenze, via Georgofili (27 maggio); Milano, via Palestro (27 luglio); Roma, S. Giorgio al Velabro e S. Giovanni in Laterano (28 luglio); Roma, stadio Olimpico (23 gennaio 1994), attentato per fortuna fallito. Nel nostro tempo, non c'è tritolo e devastazione, ma l'annuncio di una "verità" che può essere più distruttiva di una bomba. Per lo Stato, per chi governa il Paese.
Per capire quel che accade, bisogna sapere un paio di cose. La famiglia mafiosa dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano di Brancaccio a Palermo è il nocciolo irriducibile - con i Corleonesi di Riina e Bagarella, con i Trapanesi di Matteo Messina Denaro (latitante) - di una Cosa nostra siciliana che oggi ha il suo "stato maggiore" in carcere e in libertà soltanto mischini senza risorse, senza influenza, senza affari, incapace anche di concludere uno sbarco di cocaina perché priva del denaro per acquistare un gommone. La seconda cosa che occorre ricordare è che gli "uomini d'onore" non hanno mai ammesso di essere un'"associazione" (Giovanni Bontate che, in un'aula di tribunale, usò con leggerezza il noi fu fatto secco appena libero). I mafiosi non hanno mai accettato di discutere i fatti loro, anche soltanto di prendere in considerazione l'ipotesi di lasciar entrare uno sguardo estraneo negli affari della casa, figurarsi poi se gli occhi erano di magistrato. Apprezzati questi due requisiti "storici", si può comprendere meglio l'originalità di quanto accade, ora in questo momento, dentro Cosa Nostra. Tra Cosa Nostra e lo Stato (i pubblici ministeri). Tra Cosa Nostra e gli uomini (Berlusconi, Dell'Utri) che - a diritto o a torto, è tutto da dimostrare - i mafiosi hanno considerato, dal 1992/1993 e per quindici anni, gli interlocutori di un progetto che, dopo le stragi, avrebbe rimesso le cose a posto: i piccioli, il denaro, al sicuro; i "carcerati" o fuori o dentro, ma in condizioni di tenere il filo del loro business; mediocri e distratte politiche della sicurezza; lavoro giudiziario indebolito per legge; ceto politico disponibile, come nel passato, al dialogo e al compromesso con gli interessi mafiosi. Sono novità che preparano una stagione nuova, incubano conflitti dolorosi e pericolosi. La campana suona per Silvio Berlusconi perché, nelle tortuosità che sempre accompagnano le cose di mafia, è evidente che il 4 dicembre - quando Gaspare Spatuzza, mafioso di Brancaccio, testimonierà nel processo di appello contro Marcello Dell'Utri - avrà inizio la resa dei conti della famiglia dei fratelli Graviano contro il capo del governo che, in agosto, ha detto di voler "passare alla storia come il presidente del Consiglio che ha sconfitto la mafia". È un fatto sorprendente che i mafiosi abbiano deciso di parlare con i pubblici ministeri di quattro procure (Firenze, Caltanissetta, Palermo, Milano). Vogliono contribuire "alla verità". Lo dice, con le opportune prudenze, anche Giuseppe Graviano, "muto" da quindici anni. Quattro uomini della famiglia offrono una collaborazione piena. Sono Gaspare Spatuzza, Pietro Romeo, Giuseppe Ciaramitaro, Salvatore Grigoli. Spiegano, ricordano. Chiariscono come nacque, e da chi, l'idea delle stragi che non "avevano il dna di Cosa Nostra" e che "si portarono dietro quei morti innocenti". Indicano l'"accordo politico" che le giustificò e le rese necessarie "per il bene della Cosa Nostra". I nomi di Berlusconi e Dell'Utri saltano fuori in questo snodo. Gaspare Spatuzza, 18 giugno 2009, ricostruisce la vigilia dell'attentato all'Olimpico: "Giuseppe Graviano mi ha detto "che tutto si è chiuso bene, abbiamo ottenuto quello che cercavamo; le persone che hanno portato avanti la cosa non sono come quei quattro crasti dei socialisti che prima ci hanno chiesto i voti e poi ci hanno venduti. Si tratta di persone affidabili". A quel punto mi fa il nome di Berlusconi e mi conferma, a mia domanda, che si tratta di quello di Canale 5; poi mi dice che c'è anche un paesano nostro e mi fa il nome di Dell'Utri (...) Giuseppe Graviano mi dice [ancora] che comunque bisogna fare l'attentato all'Olimpico perché serve a dare il "colpo di grazia" e afferma: ormai "abbiamo il Paese nelle mani"". Pietro Romeo, 30 settembre 2009: "... In quel momento stavamo parlando di armi e di altri argomenti seri. [Fu chiesto a Spatuzza] se il politico dietro le stragi fosse Andreotti o Berlusconi. Spatuzza rispose: Berlusconi. La motivazione stragista di Cosa Nostra era quella di far togliere il 41 bis. Non ho mai saputo quali motivazioni ci fossero nella parte politica. Noi eravamo [soltanto degli] esecutori". Salvatore Grigoli, interrogatorio 5 novembre 2009: "Dalle informazioni datemi (...), le stragi erano fatte per costringere lo Stato a scendere a patti (...) Dell'Utri è il nome da me conosciuto (...), quale contatto politico dei Graviano (...) Quello di Dell'Utri, per me, in quel momento era un nome conosciuto ma neppure particolarmente importante. Quel che è certo è [che me ne parlarono] come [del nostro] contatto politico". E' una scena che trova conferme anche in parole già dette, nel tempo. I ricordi di Giuseppe Ciaramitaro li si può scovare in un verbale d'interrogatorio del 23 luglio 1996: "Mi [fu] detto che bisognava portare questo attacco allo Stato e che c'era un politico che indicava gli obiettivi, quando questo politico avrebbe vinto le elezioni, si sarebbe quindi interessato a far abolire il 41 bis (...). Quando Berlusconi [è] stato presidente del Consiglio per la prima volta, nell'organizzazione erano tutti contenti, perché si stava muovendo nel senso desiderato e [si disse] che la proroga del 41 bis era stata solo per 'fintà in modo da eliminarlo del tutto alla scadenza". Ci sarà, certo, chi dirà che non c'è nulla di nuovo. "Pentiti di mafia" che confermano testimonianza di altri "pentiti di mafia" ci sono stati ieri, ci sono oggi. La differenza, in questo caso, è come questi uomini che hanno saltato il fosso sono trattati dagli altri, da chi - in apparenza - resta ben saldo nelle sue convinzioni di mafioso, nel suo giuramento d'omertà. Li rispettano, sorprendentemente. Non era mai capitato. Non li considerano degli "infami". Accettano il dialogo con loro. Anche i più ostinati come Cosimo Lo Nigro e Vittorio Tutino. Cosimo Lo Nigro, il 10 settembre del 2009, è seduto di fronte a Gaspare Spatuzza. Spatuzza gli dice che "ha gioito - oggi me ne vergogno - , ma ho gioito per Capaci perché quello [Falcone] rappresentava un nemico per Cosa Nostra... ma il nostro malessere inizia nel momento in cui ci spingiamo oltre (...) su Firenze, Roma, Milano...". Lo Nigro lo ascolta, senza contraddirlo. Spatuzza ricostruisce come andarono le cose durante la preparazione della strage all'Olimpico. Lo Nigro lo lascia concludere e gli dice: "Rispetto le tue scelte, ma ancora ti chiedo: sei sicuro di ciò che dici e delle tue scelte?". Vittorio Tutino accetta di essere interrogato dai Pm di Caltanissetta. Non fa scena muta. Parla. Il suo verbale d'interrogatorio deve essere interessante perché viene secretato. Già queste mosse annunciano la nuova stagione, ma la dirompente novità è nei cauti passi dei due boss di Brancaccio, i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano. Sono i più vicini a Salvatore Riina. Hanno guidato con mano ferma la loro "batteria" fino a progettare la strage - per fortuna evitata per un inghippo nell'innesco dell'esplosivo - di un centinaio di carabinieri all'Olimpico il 23 gennaio del 1994. Sono in galera da quindici anni. Hanno studiato (economia, matematica) in carcere. Dal carcere si sono curati dell'educazione dei loro figli affidati ai migliori collegi di Roma e di Palermo e ora sembrano stufi, stanchi di attendere quel che per troppo tempo hanno atteso. Spatuzza racconta che, alla fine del 2004, Filippo Graviano, 48 anni, sbottò: "Bisogna far sapere a mio fratello Giuseppe che se non arriva niente da dove deve arrivare, è bene che anche noi cominciamo a parlare con i magistrati". La frase è eloquente. C'è un accordo. Chi lo ha sottoscritto, non ha rispettato l'impegno. Per cavarsi dall'angolo, c'è un solo modo: dissociarsi, collaborare con la giustizia, svelare le responsabilità di chi - estraneo all'organizzazione - si è tirato indietro. Accusarlo può essere considerato "un'infamia"? Filippo Graviano, il 20 agosto 2009, accetta il confronto con Gaspare Spatuzza. C'è una sola questione da discutere. Quella frase. Ha detto che "se non arriva niente da dove deve arrivare, è bene che anche noi cominciamo a parlare con i magistrati"? La smentita di Filippo Graviano è ambigua. In Sicilia dicono: a entri ed esci. Dice Filippo a Gaspare: "Io non ho mai parlato con ostilità nei tuoi riguardi. I discorsi che facevamo erano per migliorare noi stessi. Già noi avevamo allora un atteggiamento diverso, già volevamo agire nella legalità. Noi parlavamo di un nostro futuro in un'altra parte d'Italia". La premessa è utile al boss per negare ma con garbo: "Mi dispiace contraddire Spatuzza, ma devo dire che non mi aspetto niente adesso e nemmeno nel passato, nel 2004. Mi sembra molto remoto che possa avere detto una frase simile perché, come ho detto, non mi aspetto niente da nessuno. Avrei cercato un magistrato in tutti questi anni, se qualcuno non avesse onorato un presunto impegno". Filippo non ha timore di pronunciare per un boss parole tradizionalmente vietate, "legalità", "cercare magistrati". Si spinge anche a pronunciarne una, indicibile: "dissociazione". Dice, il 28 luglio 2009: "Da parte mia è una dissociazione verso le scelte del passato (...). Oggi sono una persona diversa. Faccio un esempio. Nel mio passato, al primo posto, c'era il denaro. Oggi c'è la cultura, la conoscenza. (...) Io non rifarei le scelte che ho fatto". Anche Giuseppe Graviano, 46 anni, il più duro, il più autorevole (i suoi lo chiamano "Madre natura" o "Mio padre"), incontra i magistrati, il 28 luglio 2008. E' la prima volta che risponde a una domanda dal tempo del suo arresto, il 27 gennaio 1993. Dice: "Io sono disposto a fare i confronti, con coloro che indico io e che ritengo sappiano la verità. Sono disposto a un confronto con Spatuzza ma cosa volete che sappia Spatuzza che non sa niente, faceva l'imbianchino, sarà ricattato da qualcuno". Sembra che alzi un muro e che il muro sia insuperabile, ma non è così. Quando gli tocca parlare delle stragi del 1993, ragiona: "Perché non mi avete fatto fare il confronto con i pentiti in aula, quando l'ho chiesto? Così una versione io, una versione loro e poi c'è il magistrato [che giudica]: voi ascoltavate e potevate decidere chi stava dicendo la verità. La verità, [soltanto] la verità di come sono andati i fatti.. . io vi volevo portare alla verità. E speriamo che esca la verità veramente. Ve ne accorgerete del danno che avete fatto. Se noi dobbiamo scoprire [la verità], io posso dare una mano d'aiuto. Io dico che uscirà fuori la verità delle cose. Trovate i veri colpevoli, i veri colpevoli. Si parla sempre di colletti bianchi, colletti grigi, colletti e sono sempre innocenti [questi, mentre] i poveri disgraziati...". Gli chiedono i magistrati: "Lei sa che ci sono colletti bianchi implicati in queste storie?". Risponde: "Io non lo so. Poi stiamo a vedere se... qualcuno ha il desiderio di dirlo che lo sa benissimo... Ma io non posso dire la mia verità così. Perché non serve a niente. Invece, ve la faccio dire, io, [da] chi sa la verità". Ora bisogna mettere in ordine quel che si intuisce nelle mosse di Cosa Nostra. I "pentiti" non sono maledetti da chi, in teoria, stanno tradendo. Al contrario, ricevono attestati di solidarietà, segnali di rispetto, addirittura cenni di condivisione per una scelta che alcuni non hanno ancora la forza di decidere. E' più che un'impressione: è come se chi offre piena collaborazione alla magistratura (Spatuzza, Romeo, Grigoli) abbia l'approvazione di chi governa la famiglia (Giuseppe e Filippo Graviano) e ancora oggi può essere considerato al vertice di un'organizzazione che, in carcere, custodisce l'intera memoria della sua storia, delle sue connessioni, degli intrecci indicibili e finora non detti, degli interessi segreti e protetti. In una formula, il peso di un ricatto che viene offerto con le parole e i ricordi delle "seconde file" in attesa che le "prime" possano valutare quel che accade, chi e come si muove. Ecco perché ha paura Berlusconi. Quegli uomini della mafia non conoscono soltanto "la verità" delle stragi (che sarà molto arduo rappresentare in un racconto processuale ben motivato), ma soprattutto le origini oscure della sua avventura imprenditoriale, già emerse e documentate dal processo di primo grado contro Marcello Dell'Utri (condannato a 9 anni per concorso esterno in associazione mafiosa). Di denaro, di piccioli minacciano allora di parlare i Graviano e gli uomini della famiglia di Brancaccio. Dice Spatuzza: "I Graviano sono ricchissimi e il loro patrimonio non è stato intaccato di un centesimo. Hanno investito al Nord e in Sardegna e solo così mi spiego perché durante la latitanza sono stati a Milano e non a Brancaccio. È anomalo, anomalissimo". Se a Milano - dice il testimone - Filippo e Giuseppe si sentivano più protetti che nella loro borgata di Palermo vuol dire che chi li proteggeva a Milano era più potente e affidabile della famiglia.
(La Repubblica, 27 novembre 2009)

giovedì 26 novembre 2009

C'era una volta... e c'è ancora adesso!

di MIRIAM DI PERI
C'era una volta Bernardino Verro, sindaco di Corleone nei primi '900, che organizzò i contadini perché riteneva che fosse un'ingiustizia che loro dovessero solamente coltivare le terre dei grandi latifondisti mafiosi in cambio di un tozzo di pane. Con quei contadini, Bernardino Verro costruì la prima casa del popolo di Corleone. Ogni notte ciascuno di loro trasportava un balatòne, col mulo. Quella diventò la sede della prima cooperativa agricola corleonese. Bernardino Verro fu ucciso a Corleone il 3 novembre 1915.
C'era una volta Placido Rizzotto. Tornò dalla guerra e pensò che le lotte per la terra fossero una buona causa per spendere la propria vita. Aveva 34 anni quando venne ucciso barbaramente e buttato in una foiba a Roccabusambra. Era il 10 marzo del 1948.
C'era una volta Pio La Torre. Ebbe una buona intuizione. E capì che sequestrare i beni ai mafiosi poteva essere uno di quegli strumenti concreti dei quali lo Stato avrebbe potuto dotarsi nella lotta alla criminalità organizzata. Anche lui fu fatto fuori. Il 30 aprile 1982.
C'era una volta Carlo Alberto Dalla Chiesa. Non era siciliano. Non glielo portava nessuno. Non era affare suo. Fu necessario che ammazzassero anche lui, il 3 settembre 1982, perché la legge sulla confisca dei beni ai mafiosi, la Rognoni-La Torre, fosse votata in Parlamento da lor signori deputati a rappresentarci.
C'erano una volta Falcone e Borsellino. Era il 1995 quando è nata l'associazione Libera. C'era una volta una buona intuizione. Che raccolse un milione di consensi e portò, nel 1996 a una legge d'iniziativa popolare sul riutilizzo sociale dei beni confiscati ai mafiosi. Qualche anno dopo, c'è stato un buon sindaco, uno di quelli che lasciano il segno. Si chiama Pippo Cipriani. Lui per primo ebbe il coraggio di prendere la casa di Totò Riina a Corleone. La consegnò agli studenti dell'istituto agrario del paese, che non avevano una sede per la loro scuola. Li fece studiare lì. Perché quei mattoni erano intrisi del sangue di Bernardino Verro, di Placido Rizzotto, di Pio La Torre, di Carlo Alberto Dalla Chiesa, di Falcone e Borsellino. E quel gesto rendeva meno vane le loro morti.
Nel 2000 Pippo Cipriani assegnò il primo ettaro di terra confiscata alla cooperativa Lavoro e non solo. I contadini corleonesi che per primi portarono le loro mietitrebbie su quelle terre, si misero contro mezzo paese. Da quella prima esperienza, oggi esistono 4 cooperative che gestiscono i beni confiscati alle mafie nell'alto belice corleonese. Da quella prima esperienza, migliaia di giovani, ogni anno, siamo stati accanto ai contadini corleonesi, con la schiena curva, a raccogliere il pomodoro che diventerà passata. L'uva che diventerà vino. Il grano che diventerà pasta.Oggi Corleone è l'unico comune a non avere più beni confiscati da assegnare. Sono tutti stati restituiti alla società civile. E sono tutti riutilizzati. Danno lavoro, costruiscono futuro.
GIU' LE MANI DALLA LEGGE SULLA CONFISCA DEI BENI ALLA MAFIA.

mercoledì 25 novembre 2009

Sicilia. La rivolta dei sindaci, delle associazioni e dei cittadini per l'acqua pubblica

PALERMO - Sindaci, assessori e consiglieri comunali in rappresentanza di circa 100 comuni siciliani hanno manifestato di fronte l'Assemblea regionale siciliana per dire "no" alla privatizzazione delle reti idriche. Insieme a loro anche i rappresentanti di alcuni comitati cittadini. Tutti chiedono l'approvazione di un disegno di legge all'Ars per la "ripubblicizzazione" delle reti, e chiedono al presidente della Regione di ricorrere contro il decreto Ronchi, recentemente approvato dal Parlamento nazionale, che di fatto facilita la privatizzazione dell'acqua, permettendo di conferire a ditte esterne tutti i servizi pubblici locali. Il prossimo 4 dicembre i consigli comunali delle amministrazioni che si oppongono alla privatizzazione delle reti idriche si riuniranno in contemporanea per avviare la procedura di presentazione di un disegno di legge di iniziativa popolare all'Ars, che prevede il ritorno alla gestione pubblica delle reti idriche in Sicilia.
LA LEGGE E' FERMA ALL'ARS. Attualmente all'Ars è depositato un disegno di legge che chiede il ritorno alla gestione pubblica delle risorse. Il ddl, che su iniziativa delle amministrazioni comunali dovrebbe essere 'trasformato' in testo di iniziativa popolare, parte dal presupposto che sebbene l'acqua continui ad essere considerata bene pubblico, "la privatizzazione della gestione e delle reti idriche, di fatto, la trasforma in una risorsa sulla quale i privati possono lucrare". Altra questione di attualità è legata alla recente approvazione da parte del parlamento nazionale del 'decreto Ronchi', che prevede la liberalizzazione dei servizi pubblici locali da parte dei comuni, fra questi anche l'acqua. Chi si oppone alla privatizzazione chiede che la Regione, forte oltretutto della propria autonomia legislativa, debba ricorrere presso la Corte Costituzionale contro il decreto, come hanno già annunciato altre regioni.
IL PRETE CON LA PISTOLA. In prima linea nella lotta contro la privatizzazione dell'acqua anche padre Saverio Catanzaro, parroco della Chiesa Madre a Menfi che ha sfilato con una pistola ad acqua. "Lo dice il Vangelo, non è giusto fare affari sulla povera gente: fedeli, cittadini, munitevi di una pistola ad acqua e resistete a questo sopruso". "La pistola ad acqua è una provocazione - prosegue - ma anche un simbolo per chi vuol resistere pacificamente di fronte ad una ingiustizia. L'acqua è un bene per la vita e sulla vita nessuno deve metter le mani. La privatizzazione, dove c'è stata, ha portato arricchimento per pochi e disagi per tanti. Qualcuno dice che è l'affare del secolo, forse è vero. Io ascolto la gente, e la gente è contraria alla privatizzazione". Quando al comune di Menfi, nei mesi scorsi, è arrivata la richiesta di consegna delle reti idriche, le campane della Chiesa Madre hanno suonato a morte. "Era la morte della democrazia", conclude padre Catanzaro.
I SINDACI. "Il nostro obiettivo - dice Rosario Gallo, sindaco di Palma di Montechiaro (Ag) - è fare arrivare al parlamento regionale un testo forte, supportato da una decisa e chiara volontà popolare. Serve l'approvazione di almeno 40 consigli comunali che rappresentino una popolazione di 400 mila persone. Ma parallelamente intendiamo avviare anche la raccolta di firme, servono 10 mila adesioni".Il disegno di legge, intanto, è già stato depositato all'Ars dal deputato regionale del Pd Giovanni Panepinto, che è anche sindaco di Bivona. "In questo modo - aggiunge Gallo - abbiamo anticipato i tempi". "Portiamo avanti questa battaglia - dice Michele Botta, sindaco di Menfi - perché ce lo chiedono i cittadini. Basta andare nei comuni vicini, dove il servizio è già stato privatizzato, per rendersi conto che la realtà è sconfortante. Le tariffe sono aumentate e i servizi sono peggiorati, se c'è un guasto gli interventi sono effettuati in media dopo 10 o 15 giorni".
La Sicilia, 25.11.2009

Chiusa Sclafani (Palermo). Preside non espone il crocifisso e il sindaco è pronto a multarla

di Salvo Intravaia
Palermo - Cinquecento euro di multa perché manca il crocifisso nel suo ufficio. E´ quello che rischia la preside dell´istituto comprensivo Reina di Chiusa Sclafani, dopo il blitz della polizia municipale di ieri mattina. Tutto inizia venerdì scorso, quando il sindaco del paese Francesco Di Giorgio (Pdl) fa notificare alla preside dell´istituto, Francesca Accardo, un insolito provvedimento in netta contrapposizione con la recente sentenza della Corte suprema di Strasburgo.
Il sindaco ordina di «mantenere il crocifisso nelle aule scolastiche e negli uffici pubblici del comune di Chiusa Sclafani, come espressione dei fondamentali valori civili e culturali dello Stato italiano». «Il personale della polizia municipale - continua l´ordinanza - controllerà entro 15 giorni l´osservanza dell´ordinanza» e «ai trasgressori sarà applicata la sanzione di 500 euro». Ieri mattina, parecchi giorni prima dei 15 ipotizzati nel provvedimento, al portone della scuola si presentano due vigili urbani. «Avrei anche potuto non farli entrare - dichiara la preside - ma come rappresentante delle istituzioni ho pensato che non fosse corretto». I due hanno fatto un rapido sopralluogo in tutte le classi e negli uffici amministrativi trovando il crocifisso al proprio posto.«Ma quando sono entrati nella mia stanza mi hanno fatto notare che il crocifisso mancava», spiega la Accardo, che non riesce a darsi pace per «l´assurda ordinanza» e la celerità della visita. «Non riesco a spiegarmi - continua - i motivi del provvedimento e penso che adesso possano anche farmi la multa: nessuno ha toccato i crocifissi nelle aule e nelle altre stanze e, francamente, non mi ero neppure accorta che nel mio ufficio mancava». Il capo d´istituto è letteralmente furibonda mentre racconta una storia che ha del surreale. «Penso di vivere in un paese democratico, non in una dittatura: vorrei continuare a lavorare serenamente come ho fatto in questi anni», conclude. E non intende darsi per vinta. Denuncerà l´accaduto al ministro dell´Istruzione Mariastella Gelmini e al direttore dell´Ufficio scolastico regionale, Guido Di Stefano, sperando che prendano le sue difese. Intanto, si sta consultando con un legale. L´istituto del piccolo paese in provincia di Palermo ospita 284 alunni di scuola dell´infanzia, primaria e secondaria di primo grado, trovandosi a fare i conti giornalmente con un bilancio sempre più magro. Anche perché dal Comune non arrivano i fondi che tutti gli enti locali dovrebbero erogare alle scuole: da due anni, il Comune non provvede ad erogare i fondi per il funzionamento e la manutenzione.
(La Repubblica, 25 novembre 2009)

L'Assessorato alla Famiglia ha approvato il Piano di zona del Distretto D40 di Corleone: il primo in Sicilia

di Cosmo Di Carlo
Approvato dall’assessorato regionale della Famiglia il Piano di Zona del Distretto socio-sanitario D40 per il triennio 2010-2012. Saranno realizzati 4 progetti per una spesa complessiva di 200.000 euro., Del Distretto fanno parte oltre a Corleone i comuni di Bisacquino, Campofiorito, Chiusa Sclafani, Contessa Entellina, Giuliana e Roccamena.
«E’ il primo Piano di Zona approvato in Sicilia - afferma con grande soddisfazione Pio Siragusa presidente del Comitato dei Sindaci -. Ci siamo adoperati affinché questo strumento di programmazione possa dare risposte concrete alle fasce sociali più deboli; puntando non soltanto a garantire i servizi di base (assistenza a domicilio agli anziani e ai disabili, servizi in favore dei minori), ma anche all’integrazione delle persone che vivono situazioni di marginalità sociale (disoccupati, vedove, ragazze madri, ex detenuti). Presto sarà anche attivato lo sportello unico di accesso ai servizi sociali. E’ un percorso complesso, ma lo realizzeremo. Il personale addetto al settore ha acquisito competenza e professionalità in tutti i comuni del distretto ed ha saputo creare un clima di fattiva sinergia tra i sindaci e gli assessori dei comuni. Questo è uno dei fattori che ci ha consentito di raggiungere questo importante risultato». “Quello approvato – afferma Caterina Chinnici, assessore regionale della Famiglia, delle Politiche sociali e delle Autonomie locali – è il primo Piano in Sicilia relativo alla programmazione 2010-2012. Uno strumento che, se usato in maniera virtuosa, potrà dare risposte concrete alle categorie sociali più deboli e bisognose». Compiacimento esprime anche il sindaco Nino Iannazzo: «Le politiche sociali costituiscono un settore chiave di un’attenta e mirata azione amministrativa. Non ci può essere sviluppo economico se non c’è quello sociale. L’integrazione delle politiche sociali con quelle sanitarie, del lavoro, della scuola e la collaborazione di tutti gli attori coinvolti nella gestione dei servizi sociali, sono strumenti indispensabili nella costruzione del welfare delle nostre comunità». Sono 4 i progetti che partiranno dal prossimo primo gennaio e per i quali è stata stanziata la cifra di 200mila euro. Saranno rivolti a vedove, ragazze madri disoccupate e con figli a carico, anziani, diversamente abili e persone che necessitano, per condizioni socio-economiche, dell’assegno per il servizio civico. I bandi si possono consultare sul sito Internet del Comune http://www.comune.corleone.pa.it/. (*co.di*)
NELLA FOTO: L'assessore Caterina Chinnici

Corleone. La Fondazione "Angelo Badami" ha consegnato 10 borse di studio ad alunni meritevoli

di Cosmo Di Carlo
Consegnate dieci borse di studio intitolate ad Angelo Badami, che morendo nel 1998 ha lasciato 560.000 euro, un miliardo delle vecchie lire, per costituire una fondazione che ha come finalità quella di dare sostegno economico ai ragazzi corleonesi meritevoli che vogliono progredire negli studi. Era il 28 novembre del 1998 quando il cuore di Angelo Badami smise di battere ponendo fine alla sua parentesi terrena.
Angelo (nella foto in basso) era nato a Corleone il 23 maggio del 1923. La madre Vincenzina Inganni era casalinga, il padre Leonardo Badami era maestro delle elementari. Oltre ad Angelo la famiglia era composta da tre sorelle: Lucia, Angelina, e Maria e dal fratello Vincenzo. La loro abitazione è ancora in Via Misericordia al civico numero 9, in pieno centro storico nel quartiere di Sant’Elena. Angelo visse qui la sua fanciullezza. Frequentò il liceo classico Guido Baccelli conseguendo il diploma di maturità con il massimo dei voti. Il suo sogno era quello di laurearsi in medicina ma, dopo il primo anno dovette rinunciare agli studi a seguito della morte del padre. Era l’ottobre del 1944. Angelo, che aveva superato tutti gli esami del primo anno del corso di laurea, fu costretto per motivi economici a lasciare medicina dove la frequenza era obbligatoria, e si iscrisse a giurisprudenza. Con l’aiuto di alcuni amici che gli prestavano i testi universitari, anche allora molto costosi, riuscì a conseguire la laurea in quattro anni e con il massimo dei voti. Superò il concorso per procuratore delle imposte ed ebbe il primo incarico a Salò dove rimase per due anni. Ma Angelo continuò a studiare per progredire nella carriera. Superò il concorso per funzionario al Ministero delle Finanze classificandosi sesto su cinquemila concorrenti provenienti da tutte le regioni d’Italia. A Roma rimarrà 18 anni ricoprendo il ruolo di Ispettore Generale di Divisione, lavorò per anni fianco a fianco con i vari Ministri delle Finanze che si succedettero nel tempo. Uomo dal carattere mite, sobrio e sincero, Angelo amava molto la lettura, l’arte, la musica. Alla morte prematura del fratello Vincenzo fece ritorno a Corleone per stare vicino alle sorelle. Mamma Enza e papà Leonardo erano infatti mancati anche loro nel tempo . E così Angelo all’apice della carriera e nonostante i pressanti inviti del Ministro delle Finanze, rassegnò le dimissioni dal prestigioso incarico e fece ritorno a Corleone per stare vicino alle sorelle. Ad Angelina, Maria e Lucia manifestò l’intenzione di destinare parte del suo patrimonio a sostegno dei ragazzi di Corleone appartenenti alle fasce più deboli della società per sostenerli negli studi. Nasce così la Fondazione Angelo Badami che ogni anno eroga 10 borse di studio agli studenti corleonesi più meritevoli per sostenerli negli studi. Quest’anno sono state assegnate a: Maria Orlando, Calogero Profita,Marilena Saporito, Maria Elisa Cortimiglia, Veronica Virga, Melania La Macchia, Giovanna Piranio, Gina Di Puma, Giuseppina Badami, Salvatore Gagliano (nella foto in alto). Il grande cuore del loro Angelo non si è fermato il 28 novembre del 1998, ma continua a pulsare e ad incoraggiare i ragazzi corleonesi ad intraprendere le vie del sapere e della cultura; le stesse vie che portarono negli anni 60 un giovane corleonese a Roma per raggiungere in pochi anni i vertici dirigenziali del Ministero delle Finanze

martedì 24 novembre 2009

CI SCRIVONO. Biagio Cutropia: "Corleone è sofferente...agonizzante..."

Io non conosco il contenuto della relazione semestrale (annuale) del sindacoIannazzo, ma sicuramente contiene cose buone e belle, come è normale facciano gli amministratori. Si è mai letta una relazione di attuazione di un programma politico che dica che non è stato fatto nulla o poco o male? No!Allora il problema non è la relazione, nè Iannazzo, nè Corleone. Il problema, secondo me, sta nella indifferenza dei Cittadini, di Corleone e della Sicilia in genere. Non vi è dubbio che lo stato delle cose a Corleone è preoccupante. Vi è probabilmente una normale gestione amministrativa dell'ordinario, molto vicina al moto di inerzia. Ma tutto il resto non c'è. Non c'è progetto politico (sia della maggioranza che dell'opposizione),non c'è coinvolgimento dei settori produttivi,professionali ed intellettuali. Diciamo che Corleone vista dalla platea dei comuni Cittadini è sofferente, e forse agonizzante. Ma del resto se nessuno si lamenta, nessuno(forze politiche)propone qualcosa che non sia interessa di bottega e/o personale e/o clientelare,vuol dire che le cose vanno bene. In realtà così non è. Non c'è vitalità, non c'è progetto,non c'è partecipazione,non c'è politica. Ci sono soltanto gestioni del potere (per quello che c'è e per quello che vale),prevaricazioni più o meno forti, clientelismi più o meno intensi, pressapochismo ed assenza di progetto. Pur non essendo un tifoso dell'attuale amministrazione,non può essere considerata immune da colpe l'opposizione,incapace anch'essa di qualunqueproposta politica. Credo che il governo di una città sia nelle mani di una buona amministrazione e di una buona opposizione. A Corleone (e non solo) mancano l'una e l'altra. Ma il fatto è poco importante.
Biagio Cutropia

lunedì 23 novembre 2009

CI SCRIVONO. Il Presidente dell'Avis: "Dal mese di aprile il Policlinico non ci paga i rimborsi. Così saremo costretti a sospendere l'attività"

di GIUSEPPE COPPOLA*
In qualità di Presidente Provinciale dell’Avis di Palermo, mi corre l’obbligo, dopo la sollecitazione (pubblicata dalla carta stampata e dai social network), della sezione Avis comunale di Corleone alla raccolta di sangue, dal tema “io dono, tu doni, noi salviamo” in favore di Antonino Gendusa coinvolto in un grave incidente stradale, di fornire, seppur brevemente, i risultati dell’attività svolta.
I dati della raccolta sono significativi: nr. 39 unità conferite e nr. 22 richieste di adesione in qualità di socio, alla struttura associativa, tramite l’esame di pre-donazione. Tale risultato di solidarietà verso il prossimo bisognoso è stato ottenuto grazie all’infaticabile lavoro dello staff dirigenziale locale, dalla preziosa ed insostituibile presenza del personale sanitario, ma, fondamentalmente, dalla incondizionata disponibilità dei donatori, i quali pazientemente hanno aspettato il momento per compiere il nobile gesto di altruismo. Con semplicità esprimo a tutti il mio più vivo, sentito e sincero ringraziamento.
A questo punto, mi corre un altro obbligo quello di evidenziare che, alla data odierna, il Policlinico Universitario “P. Giaccone” di Palermo, struttura presso la quale convogliamo la quasi totalità delle unità prelevate, non provvede alla retrocessione dei rimborsi, dal mese di aprile, delle unità donate, secondo quanto disposto dallo schema di convenzione stipulato tra le parti in data 02 gennaio 2009. L’inosservanza di tale accordo, da parte della struttura predetta, sta provocando evidenti e notevoli difficoltà nella gestione ordinaria dell’Avis Provinciale di Palermo. Sono proventi che vanno distribuiti alle maestranze tecnico/amministrative, al personale sanitario ed ai fornitori aziendali. Del resto sono loro i reali ed unici soggetti penalizzati! Occorre, necessariamente, dare risposte alle famiglie dei collaboratori associativi! E’ vero che si fa volontariato, ma occorre, inevitabilmente, coprire i costi di gestione! Non di minore importanza, seppure annoverati per ultimo, vanno ricordate le sezioni di base alle prese con le dovute e pertinenti difficoltà del caso; nonostante le innumerevoli problematicità economiche, certamente non causate dalla struttura superiore, puntualmente ed incessantemente, organizzano i momenti inerenti le raccolte. La conseguenza naturale delle predette inadempienze, da parte della struttura sanitaria, indurrà la nostra associazione a sospendere, improrogabilmente ed illimitatamente, ogni attività di raccolta programmata, in tutta la provincia di Palermo, a far data del 01 dicembre coran, per mancanza delle imprescindibili risorse economiche legittimamente spettanti, ad oggi regolarmente richieste e non retrocesse.
Nel caso in specie si è presa una posizione molto "seria", debitamente comunicata alle Autorità competenti, che si rende necessaria, affinché non vengano mortificate le opere messe in atto in favore di coloro che soffrono; molto spesso questi sfortunati servono da paravento per alcuni personaggi che si fregiano di nobili ed encomiabili principi, ma che, in effetti, tirano dritto per la propria strada. Rimango fiducioso e speranzoso che qualcosa di buono possa nascere nell'interesse di tutti, con l’augurio che si auspici non rimangano solo parole.
* presidente provinciale Avis di Palermo (nella foto)

Da gennaio, in Sicilia, la più grande fabbrica di pannelli fotovoltaici in thin film di silicio

Palermo, 23 novembre 2009 – Sarà inaugurata a gennaio a Campofranco, in provincia di Agrigento, la prima e più grande fabbrica italiana di pannelli fotovoltaici in thin film di silicio, e la terza in Europa, realizzata senza contributi pubblici dal gruppo Moncada Energy di Agrigento.
Produrrà i pannelli, da 6 metri quadri ciascuno, per le centrali fotovoltaiche progettate dalla Moncada in Sicilia. Sotto gli impianti saranno ospitati allevamenti biologici di polli, dal cui concime sarà ricavata altra energia. Uno di questi impianti, da 7 Mw, sta già sorgendo a livello sperimentale, all’interno di una delle fattorie eoliche del gruppo siciliano. Il principale ruolo del sito produttivo ipertecnologico sarà, nell’ambito del mercato delle energie alternative, quello di rendere nel tempo il fotovoltaico più conveniente rispetto all’eolico.
Infatti, questa tecnologia, che non impiega celle al silicio, ma il gas silano, rende indipendenti dalle speculazioni sulle materie prime e già oggi abbatte notevolmente i costi di produzione rispetto ai pannelli tradizionali. Grazie alla ricerca che sarà sviluppata dalla Moncada, entro il 2010 la combinazione fra raddoppio dell’efficienza dei pannelli e della loro produzione (obiettivo a regime è installare 100 Mw all’anno) farà raggiungere l’ambizioso traguardo della possibilità di produrre energie alternative ricavando utili anche senza incentivi. La fabbrica di Campofranco, estesa 25 mila metri quadri, è costata 85 milioni di euro (24 investiti dall’azienda, 5 dal gruppo Mps quale socio di minoranza e il resto dal gruppo Intesa Sanpaolo assistito dalla Sace). Contiene il massimo della tecnologia disponibile ad oggi al mondo, ma anche un centro di ricerca. L’iniziativa genera l’occupazione diretta di 130 fra ingegneri e tecnici e di 70 addetti dell’indotto, oltre a 40 di una ditta che produce le strutture di supporto dei pannelli: si aggiungono ai 220 dipendenti delle altre linee della Moncada (eolico, geotermico e biomasse).
Il gruppo Moncada negli ultimi due anni è passato da un fatturato di 40 milioni di euro agli attuali 80, e il traguardo per il 2010 è di 180 milioni. Si sta, infatti, completando l’ingente sforzo finanziario che ha messo in campo fattorie eoliche che a regime produrranno 350 Mw, generatori a biomasse per 44 Mw, impianti di produzione di olio vegetale, centrali fotovoltaiche e geotermiche: impianti e progetti che riguardano l’Italia, la Bulgaria, l’Albania, la Tunisia, gli Usa e il Mozambico, oltre ad una nuova fabbrica di turbine eoliche a Porto Empedocle e una distilleria a Sciacca. “Noi siamo fra i pochi in linea con l’indicazione del Piano energetico regionale – dice l’amministratore del gruppo, Salvatore Moncada – che stabilisce iter agevolati per le autorizzazioni a quegli impianti progettati da aziende dotate in Sicilia della ‘filiera’ completa. Infatti, noi progettiamo, costruiamo e installiamo direttamente le nostre centrali, producendo tutto in proprio. Eppure, a noi la Regione non riconosce questo iter agevolato, che invece riconosce ad altri operatori, che hanno solo annunciato un protocollo e che non hanno ancora realizzato la filiera”. “Chiederò al governatore Raffaele Lombardo – conclude Moncada – cosa ho sbagliato. E se la Regione continuerà a ritardare le autorizzazioni, installerò questi pannelli negli altri Paesi dove operiamo. Per la Sicilia sarebbe l’ennesima occasione perduta”.

L'INTERVISTA. Vendere i beni? Un errore. Andrebbe perso il valore simbolico del riscatto

di Stefano Fantino
Carlo Lucarelli, scrittore, da anni impegnato a divulgare sul grande schermo le tematiche riguardanti la mafia in Italia, ci concede una intervista sul tema caldo di questi giorni: i beni confiscati, che un emendamento alla finanziaria, già passato in Senato, mette a rischio. La possibile vendita sarebbe infatti la fine di una legge, la 109/96, che prevede il riuso sociale dei beni immobili confiscati alla mafia facendone un simbolo di rinascita per tutto un territorio.

Cosa pensa dell'emendamento votato al Senato?
Penso che sia sbagliato, naturalmente. Penso che con tutta la buona fede possibile, fatto così sia un errore e i motivi sono lampanti per tutti.
Cerchiamo di rivederli insieme...
I motivi sono essenzialmente questi: se uno mette in vendita, dall'alto, pur con controlli elevati, un bene della mafia, il primo problema è che la mafia, quel bene, se lo può ricomprare. Perché la mafia ha due cose in abbondanza: uno una disponibilità infinita di soldi liquidi, che derivano dalle attività illecite e questo significa soldi senza interesse, soldi che non sono stati prestati dalle banche, che non hanno i “problemi” che hanno i soldi dei normali imprenditori. In secondo luogo la mafia ha a disposizione un esercito di colletti bianchi e prestanomi che riescono facilmente ad eludere dei semplici controlli. Da un lato la mafia si ricompra il bene, cosa negativa che da, se vogliamo, un messaggio ancora peggiore che viene ben compreso da chi vive in territori “occupati”: la mafia non solo tiene testa allo Stato dal punto di vista militare, cioè non facendosi arrestare e controllando il territorio, ma anche dal punto di vista economico.
Come ne escono da questo scenario la legge Rognoni La Torre e la legge 109/96 ?
Non bene. Quando si parla di mafia non si parla solo di soldi, ma anche del fatto che i beni confiscati potessero produrre ricchezza in un altro modo.
Uno dei motivi alla base dell'emendamento è quello di fornire più soldi alla sicurezza, cosa ne pensa?
Da un punto di vista squisitamente di principio, i soldi servono; so benissimo che servono soldi per la benzina delle auto di polizia e magistrati, ma attenzione non è che dobbiamo fare un danno più grosso. Una volta si diceva che la lotta alla mafia costava 10 mila miliardi, dando 5 mila miliardi alla mafia si risolveva il problema. Era una provocazione assurda, speriamo che non sia così: vendiamo i beni, che vengono ricomprati dalla mafia, così avremo i soldi per dare la benzina ai carabinieri per arrestare i mafiosi. Così non funziona. C'è un altro modo di agire, oltre ai beni che devono diventare produttivi, ci sono anche i soldi liquidi.
Sono questi i soldi che, con un appello lanciato lo scorso anno, lei e la Casa della Cultura del Comune di Casalecchio, volevate riservare a una rinascita culturale del Paese?
Si, certamente. Non sono un esperto, ci saranno molte difficoltà e bisogna stare molto attenti, ma penso che i soldi liquidi debbano andare dentro le macchine dei carabinieri e dentro le attività culturali. Bisogna trattare la liquidità perchè di soldi bloccati nei conti correnti e sequestrati ce ne sono tanti. Prendiamoli lì piuttosto che vendere una calcestruzzi in Sicilia che verrebbe comprata dalla mafia. Per loro sarebbe come dire: eccoci, siamo tornati, abbiamo ricomprato.
Eppure Maroni aveva parlato di costituzione di un agenzia dei beni confiscati...
Da fuori sicuramente c'è la percezione di un qualcosa di contraddittorio. Una sensazione però riservata a chi se ne intende un po' di queste cose; è chiaro che per la gente non è facile mettere in relazione lo scudo fiscale con la lotta alla mafia. Tutti gli arresti effettuati in questi mesi si notano e sono frutto di una attività antimafia che una volta non vedevamo. Benissimo. Ma è anche vero che molti di questi arresti sono ai danni delle cosche perdenti, e servono fino a un certo punto. Non dobbiamo cantare vittoria, bisogna guardare anche al peso dei latitanti che non sono tutti “uguali”. Quando leggiamo arresti nel clan dei Nuvoletta, sarebbe ben diverso leggere dell'arresto di Zagaria.
Libera sta organizzando una raccolta firma e alcune iniziative prima che l'emendamento passi alla Camera, cosa ne pensa?
La battaglia sarà dura anche se qualcuno in questo governo ha orecchie sensibili a questo argomento. Non sarà una battaglia partitica anche se chi muove contro è comunque presente, perchè la criminalità organizzata ha i suoi referenti politici. A me pare che queste tematiche siano un po' uscite ultimamente, credo che dobbiamo continuare, con questa battaglia di Libera e con iniziative che spieghino il valore dei beni, anche alla presenza di persone trasversali che nel governo portano l'interesse per queste tematiche.
Che valore ha il bene confiscato e come spiegarlo alle persone che magari non ne hanno percezione?
Il valore è duplice: da un lato il valore simbolico, dall'altro il valore materiale ed economico. Il valore simbolico è quello di un pezzo di territorio che era proprietà della mafia che ce l'aveva rubato ed è ritornato di proprietà degli italiani. Il valore è ance materiale: se in un luogo non c'è lavoro e i ragazzi stanno seduti tutto il giorno in piazza, ora con il bene confiscato abbiamo una possibilità lavorativa anche per quei ragazzi: il bene produce lavoro che prima non produceva, era solo un attività per fare altri soldi per portarci via un altro pezzo d'Italia. Ora a gente disoccupata, onesta, pulita è permesso di lavorare e produrre ricchezza. Così facendo dimostri alla gente che c'è una alternativa a lavorare per la mafia, lavorare per se stessi. Al Sud come al Nord.
Andiamo al Nord, recentemente lei ha parlato della situazione dell'Emilia Romagna, anche in riferimento ai beni confiscati a Parma, la sua città natale...
Ormai è una realtà palese il fatto che la mafia sia un problema italiano e non meridionale. La mafia si è estesa lungo tutta la penisola da tempo, soprattutto se partiamo dall'idea che il controllo militare del territorio sia affiancato da un ragionamento di tipo economico. Molto più normale che la mafia investa al Nord e ne abbiamo la dimostrazione lampante. Si continua dire che al Settentrione la mafia non esiste, anche alla luce di indagini giudiziarie. I beni al Nord sono molti, anche un pezzettino di Nord era in mano della mafia. Lupo, nel suo ultimo libro, parla di mafiosi che a Milano trattano stupefacenti con gli Usa già nel 1940, settantanni fa. Un problema italiano. Da sempre.
LiberaInformazione, 23.11.2009

domenica 22 novembre 2009

Dalla CGIL netta contrarietà all'emendamento che consente la vendita dei beni confiscati alle mafie

La maggioranza di Governo ha approvato al Senato un emendamento alla Legge Finanziaria che rende possibile la vendita dei beni sequestrati alle mafie, che fino ad oggi potevano essere utilizzati solo a fini sociali. Questa modifica della Legge Rognoni-La Torre e della legge 109/96, l'unica legge antimafia d'iniziativa popolare e approvata alla unanimità dal Parlamento nel 1996, mette in discussione profondamente la scelta e lo spirito della legge 109/96, sui beni sequestrati alle mafie, che completava la legge Rognoni-La Torre, e impediva alle mafie di tornare in possesso dei beni a loro confiscati, assegnandoli a Enti locali e cooperative per fini sociali e non di lucro, con l'intento di avere un forte impatto sulle popolazioni e di costruire un circuito di una economia legale, fortemente alternativa a quella illegale mafiosa. Decidere oggi la vendita dei beni confiscati, se entro 90 giorni non verranno assegnati, significa non avere nessuna certezza che i beni non torneranno alle mafie, basterà avere un prestanome incensurato che acquisti oggi, per poi gestire per nome e per conto della mafia il bene o rivenderlo senza alcun controllo dopo qualche tempo. La CGIL aveva da tempo richiesto la costituzione di una autonoma Agenzia di gestione dei beni confiscati e di una banca che certamente avrebbero accelerato la assegnazione e gestione a fini sociali e produttivi dei beni confiscati, ma questo non si è fatto, nemmeno nel pacchetto sicurezza, e oggi con la impellente necessità di reperire risorse per la Giustizia e la Sicurezza, a cui si sceglie di assegnare le risorse ricavate, si propone la vendita dei beni confiscati alle mafie.Senza l'Agenzia per i beni confiscati, e la gestione e le eventuali vendite nelle mani del Demanio, i tempi di assegnazione rimangono lentissimi, e molto superiori ai 90 giorni previsti, e si arriverà perciò sicuramente alla vendita di tutti i beni. Con questo ulteriore provvedimento, dopo lo scudo fiscale che già consente a mafiosi e narcotrafficanti di ripulire nell'anonimato i propri capitali all'estero, si conferma la linea ambigua e bivalente, di questo Governo che da una parte vuole affievolire sempre più la lotta alla azione economica e finanziaria delle mafie, mentre, con le catture dei boss latitanti, celebra successi innegabili e di grande impatto mediatico ed emotivo, contro l'azione mafiosa militare e di controllo del territorio. Per questi successi anche la CGIL esprime il proprio indiscusso apprezzamento per le forze di Polizia e della magistratura. La CGIL chiede che la Camera dei Deputati riesca a far ritirare del tutto l'emendamento del Governo, e lanci l'approvazione di una legge per la istituzione di una Autonoma Agenzia per la gestione e l'assegnazione dei beni confiscati.
NELLA FOTO: Villa Riina a Palermo

La «meglio gioventù» contro Cosa nostra

di Norma Ferrara
A Calatafimi i ragazzi sostengono la polizia e insultano il boss Mimmo Raccuglia
"Altri latitanti mafiosi, in passato, si sono nascosti nelle campagne limitrofe al nostro paese e, in verità, non hanno fatto scalpore.
Oggi, sapere che un latitante te lo puoi trovare vicino di casa, ci turba, incute una certa paura”. Così Giuliana Doria, ventiduenne volontaria del presidio di Libera a Calatafimi, racconta quello che è avvenuto dopo la cattura del boss Raccuglia, a Calatafimi Segesta, il 15 novembre scorso. Il boss numero due di Cosa nostra era li a pochi passi dalle loro case, vicino al centro storico, coperto dal silenzio e dalla complicità dei coniugi Calamusa. Hanno gli occhi lucidi di gioia e di rabbia di fronte al passaggio delle auto blu delle forze dell'ordine, i ragazzi del presidio di Libera, nato solo un anno fa e dedicato al politico e giornalista Peppino Impastato. Accanto a loro molti coetanei si sono radunati e hanno rivolto frasi pesanti al boss di Altofonte e a sostegno delle forze dell'ordine che hanno ottenuto un altro importante risultato sul territorio trapanese. Questi giovani hanno detto spontaneamente e in maniera chiara da che parte stanno; lo hanno fatto senza paura, a volto scoperto, con i flash dei fotografi e le telecamere dei giornalisti di tutta Italia, puntati contro. Sono adolescenti, studenti universitari, lavoratori, animatori di battaglie silenziose e quotidiane su territori in cui un tempo comandavano solo i boss, anche sui giovani. Anche Giuliana è una di loro, fa l'impiegata e partecipa da un anno al lavoro di Libera sul territorio, crede nello Stato e dichiara "non credo che sia finita qui, penso che nei prossimi tempi, voi giornalisti, avrete ancora molto da scrivere in merito ad arresti e a latitanti..."Molti anni fa in Sicilia gli arresti dei latitanti avvenivano nel silenzio generale dei cittadini e dei giovani che non osavano inveire contro il mafioso di turno, persino ammanettato. Adesso le carte in tavola sono decisamente cambiate. Quello che si percepisce, ascoltandoli, è il più totale disprezzo per la mafia, per i suoi fiancheggiatori e per chi rimane impassibile di fronte a quello che accade. Dietro le mani alzate ad applaudire questo risultato dello Stato, non c'è solo una reazione emotiva condivisibile e comprensibile, c'è progetto che dura tutto l'anno: nelle scuole, nei dibattiti pubblici, nelle iniziative concrete dai beni confiscati alla richiesta di maggiore attenzione ai diritti delle persone. Quella folla spontanea ha scritto una pagina senza precedenti, lo ha sottolineato anche il questore di Trapani, Giuseppe Gualtieri. "Gli uomini delle forze dell'ordine sono per noi sono "eroi dentro" - commenta Giuliana Doria - e a loro abbiamo voluto fare sentire che non sono soli. Alla fine abbiamo gridato un "grazie" e che "la mafia deve solo morire" mentre tutt'intorno un lungo appaluso li accompagnava via. L'arresto è un risultato importante nella lotta a Cosa nostra. Domenico Raccuglia è condannato a tre ergastoli, di cui uno anche per l'omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo, e a 20 anni di reclusione per altri reati connessi all'associazione mafiosa. Gestiva racket e affari nel territorio che va da Palermo a Trapani. Anche il coordinamento di Libera Trapani ha inviato una nota per esprimere la sua vicinanza al lavoro delle forze dell'ordine molti dei quali, si verrà a sapere nei giorni successivi, "hanno anticipato di tasca loro i costi economici, straordinari compresi, di questa missione". Il coordinamento sottolinea come a questa reazione dei giovani sul territorio debba seguire al più presto una risposta chiara da parte della politica. "La politica dovrebbe essere la prima agenzia sociale e dare l’esempio applicando al proprio interno il codice etico - si legge nella nota. Oggi la gente si raduna davanti ai covi per festeggiare la cattura dei mafiosi, i giovani siciliani urlano di gioia ad ogni arresto - continuano nella nota. La politica deve rendere conto anche a loro delle scelte dei candidati e degli amministratori sia a livello locale che nazionale!" Sulla strada fra Trapani e Calatafimi stavolta sono i mafiosi a trovarsi disarmati da questi giovani che rappresentano oggi una buona parte della "meglio gioventù" contro Cosa nostra.
Libera Informazione, 20.11.2009

venerdì 20 novembre 2009

Corleone-Dialogos fa un appello contro la svendita dei beni confiscati alle mafie

Corleone, da simbolo della mafia, in questi anni è diventata simbolo e modello del riutilizzo dei beni confiscati alla mafia. Consorzio Sviluppo e Legalità, Cooperative di giovani del territorio, enti locali e tanti altri soggetti hanno creato un vero e proprio distretto virtuoso, che ha dato un colpo decisivo all’organizzazione criminale di “Cosa Nostra”. Tutto ciò è stato possibile grazie proprio alla legge di iniziativa popolare qual è la 109/1996, che ha segnato la via per il riutilizzo sociale dei beni confiscati alla mafia. Da Corleone si è iniziato a raccogliere le firme per questa legge, dal corleonese è partita l’esperienza delle cooperative, delle associazioni che riutilizzano i beni confiscati alla mafia. Oggi non è più una realtà di nicchia, ma esistono realtà in tutta Italia. Parlo da testimone di eventi, perché ho vissuto e sono cresciuto con quest’esperienza, parlo da cittadino che ha visto il cambiamento culturale di Corleone, che da città Far West, nel periodo anni 60, transita a città invasa pacificamente dai volontari, che da tutta Italia vengono per dare una mano ai ragazzi delle cooperative. Parlo da uomo impegnato da sette anni in questa lotta di oppressione che la mia città porta avanti, parlo da Presidente di un Presidio di Libera e responsabile dell’informazione di Libera Palermo. Oggi Corleone è unita contro l’emendamento approvato dal Senato che permetterebbe la vendita dei beni confiscati alla mafia. Lo è perché il Sindaco di Corleone Antonino Iannazzo ha formalmente espresso il suo dissenso, scrivendo al Presidente della Camera Fini, lo è perché il Consigliere Comunale di opposizione, del PD, Dino Paternostro ha presentato un ordine del giorno in merito, lo è perché Corleone Dialogos è contraria come molte altre realtà corleonesi. Come ho detto sempre la lotta alla mafia si vince se contemporaneamente si colpisce la mafia con la repressione, con l’aggressione dei patrimoni, con il cambiamento culturale e con lo sviluppo economico. Con l’emendamento si tornerebbe indietro proprio sull’attacco ai patrimoni acquisiti illecitamente. Siamo contrari perché ci poniamo una domanda: chi comprerebbe la casa di un mafioso? Crediamo che difficilmente troverà un’acquirente, mentre la mafia attraverso prestanomi potrebbe riacquisirla. Sarebbe una doppia sconfitta per lo stato e una svendita alla mafia. Infine siamo contrari anche perché questi beni sono stati tolti a noi e non possono e non devono servire per rimpinguare le casse dello Stato centrale. Non lo accettiamo e anzi chiediamo modifiche alla normativa affinché il patrimonio finanziario confiscato alle mafie sia reinvestito per il riutilizzo dei beni confiscati alla mafia. Non possiamo permetterci di tornare indietro. Per questo il Presidio di Libera Corleone Dialogos chiede a tutte le forze politiche presenti nel Parlamento Italiano di ascoltare le voci della mobilitazione nazionale, portata avanti da Libera, da Avviso pubblico, da enti locali, da associazioni e da singoli cittadini che sono contrari alla possibilità di vendere i beni confiscati alla mafia. Corleone Dialogos utilizzerà tutti i propri mezzi per sostenere l’iniziativa di Libera e il 28 Novembre saremo alla "Bottega dei Sapori e dei Saperi della Legalità" a P.zza Castelnuovo 13 a Palermo dove "Libera Palermo" organizzerà “un'asta simbolica” dove "verranno svenduti" alcuni beni confiscati alla presenza di personalità del mondo della cultura e dell'informazione.
20 nov. 09
Il Presidente di Corleone-Dialogos
Giuseppe Crapisi
NELLA FOTO: Villa Riina a Palermo

L'ordine del giorno presentato nei consigli comunali di Corleone e di Palermo

Ordine del giorno

IL CONSIGLIO COMUNALE

Vista la legge 7 marzo 1996, n. 109, ”Disposizioni in materia di gestione di beni sequestrati o confiscati” e l’Articolo 2-undecies – Comma 2 della Legge 575/65 in materia di “Disposizioni contro la mafia”, che escludono la possibilità di vendita dei beni confiscati prevedendone l’esclusivo utilizzo a fini sociali direttamente da parte dello Stato o di soggetti del terzo settore;
VISTA la proposta di modifica n. 2.3000 testo 3 al DDL 1790 per la finanziaria 2010, approvato dal Senato il 13 novembre 2009;
VISTO, in particolare, l’Articolo 2, comma 18-sexiesvicies, che prevede l’introduzione della possibilità di vendita dei beni confiscati alle mafie;
VISTO l’elevato rischio che in tutti i territori ad alta infiltrazione mafiosa la vendita di un bene confiscato possa significare una nuova possibilità di acquisto da parte dei procedenti proprietari mafiosi;
VISTA la necessità di incrementare gli sforzi nella lotta alla criminalità organizzata e alle mafie che operano nel territorio del nostro paese;
VISTA l’importanza di sottrarre in maniera definitiva e certa alle organizzazioni criminali gli ingenti patrimoni accumulati grazie alle attività illecite;
ESPRIME la propria preoccupazione per l’introduzione di tale norma, che diventerebbe fonte di assoluta incertezza nell’utilizzo dei beni confiscati ed essere quindi un elemento di indebolimento nella lotta alla criminalità organizzata;
CONDIVIDE la richiesta dell’associazione Libera, di Avviso Pubblico, dell’Arci e dei famigliari delle vittime delle mafie di normative efficaci e scelte concrete, capaci di potenziare l’attività di coloro che quotidianamente sono impegnati nella lotta alle mafie.
ESPRIME quindi il proprio auspicio perché il Parlamento sappia trovare le modalità con cui sostenere e facilitare la trasformazione dei beni confiscati in segni tangibili di legalità e giustizia, come sta avvenendo faticosamente oggi, grazie all’applicazione della legge 109/96;
CHIEDE al Parlamento e, in particolare, alla Camera dei Deputati di ritirare il suddetto emendamento, che verrebbe a compromettere in maniera rilevante e irreparabile l’impianto legislativo di contrasto alla mafia che ha nella confisca dei beni, nella loro inalienabilità e nel loro utilizzo per finalità sociali uno degli strumenti più efficaci di lotta alla criminalità organizzata;
CHIEDE, altresì, di potenziare l’applicazione della legge 109/96, istituendo l’agenzia per i beni confiscati;
CHIEDE al Presidente del Consiglio Comunale di trasmettere il testo dell’Ordine del Giorno approvato al Presidente della Repubblica, al Presidente del Senato, al Presidente della Camera e al Presidente del Consiglio dei Ministri.

giovedì 19 novembre 2009

Dino Paternostro e Salvatore Orlando (Pd), consiglieri comunali di Corleone e Palermo: “No alla vendita dei beni confiscati alle mafie!"

I consigli comunali di Corleone e Palermo, insieme, per chiedere di fermare la scelta del governo nazionale di vendere i beni confiscati alle mafie. L’iniziativa è di due esponenti del Partito Democratico Salvatore Orlando, consigliere comunale a Palermo e Dino Paternostro, consigliere comunale a Corleone, che hanno presentato nelle rispettive assemblee elettive un ordine del giorno con cui si esprime “la forte preoccupazione per l’introduzione di questa norma, che diventerebbe fonte di assoluta incertezza nell’utilizzo dei beni confiscati, ed elemento di indebolimento nella lotta alla criminalità organizzata”. “Se questa norma entrasse in vigore si esporrebbero i sindaci a possibili pressioni mafiose per non assegnare i beni e metterli in vendita. E – aggiungono - le mafie hanno denaro sporco da ripulire, che utilizzerebbero per rientrare in possesso delle terre, delle case e delle aziende confiscate dalla magistratura e dalle forze dell’ordine”. Con l’ordine del giorno, si chiede inoltre “al governo e al parlamento di ritirare la norma, che comprometterebbe in maniera rilevante e irreparabile l’impianto legislativo di contrasto alla mafia, che ha nella confisca dei beni, nella loro inalienabilità e nel loro utilizzo per finalità sociali uno degli strumenti più efficaci di lotta alla criminalità organizzata”. “Nel 1996, proprio da Corleone e da Palermo partì la raccolta di un milione di firme per la legge di iniziativa popolare sull’uso sociale dei beni confiscati alla mafia, che divenne la Legge n. 109/96 – dicono Paternostro e Orlando -. È importante che ancora una volta queste due città facciano sentire la loro voce”. “Auspichiamo – concludono i due rappresentanti del PD – che anche negli altri comuni siciliani vi siano iniziative di questo genere, e confidiamo in una ampia convergenza capace di andare oltre le logiche degli schieramenti politici”
19 novembre 2009
FOTO: Dall'alto: Dino Paternostro, Salvatore Orlando.

Indagine esplosiva

di LIRIO ABBATE
I pm pronti a riaprire l'inchiesta sul premier per le stragi. Mentre altri boss potrebbero parlare. E provocare un terremoto politico
Le rivelazioni del mafioso Gaspare Spatuzza possono portare ad una nuova inchiesta di mafia a Firenze e Caltanissetta che coinvolgerebbe il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e il suo amico Marcello Dell'Utri. Il neo pentito racconta pure nuovi risvolti giudiziari su un alto esponente politico del Pdl che in passato avrebbe incontrato i boss Giuseppe e Filippo Graviano, perché accompagnava alcuni imprenditori che erano loro prestanome. Pesano le affermazioni di Spatuzza su mafia e politica e i riscontri investigativi rischiano di condizionare il panorama politico italiano.Ma la grande paura di Berlusconi è nascosta dietro le facce dei Graviano, due capi mafia non ancora cinquantenni, che in cella indossano golfini di cachemire e leggono quotidiani di economia e finanza. Sono detenuti da 15 anni e sul ruolino del carcere è segnato: fine pena mai. Hanno un ergastolo definitivo per aver organizzato le stragi del 1993. Ma custodiscono segreti che se fossero svelati ai magistrati potrebbero provocare uno tsunami istituzionale. I loro contatti e i loro affari sono stati delineati ai pm dal collaboratori di giustizia Spatuzza, che era il loro uomo di fiducia, e poi da Salvatore Grigoli e Leonardo Messina. Pentiti che parlano di retroscena politico-mafioso fra il 1993 e il 1994: gli anni delle bombe e della nascita di Forza Italia. Le nuove rivelazioni hanno portato i magistrati di Caltanissetta e Firenze a valutare la possibilità di riaprire le inchieste su Berlusconi e Dell'Utri. Indagini che farebbero ripiombare sul presidente del Consiglio l'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, mentre per il suo amico e cofondatore di Forza Italia quella di concorso in strage aggravata da finalità mafiose e di terrorismo.Il premier lo scorso settembre pensava proprio a questa ipotesi, dopo che sono iniziati a circolare i primi boatos scaturiti dalle rivelazioni di Spatuzza, quando ha attaccato i magistrati di Firenze, Palermo e Milano. Affermava che si trattava di «follia pura» ricominciare «a guardare i fatti del '93 e del '92 e del '94. Mi fa male che queste persone pagate dal pubblico facciano queste cose cospirando contro di noi che lavoriamo per il bene del Paese». L'inchiesta è sui presunti complici a volto coperto di Cosa nostra nelle stragi di Roma, Firenze e Milano, in cui il premier e l'ex numero uno di Publitalia sono stati coinvolti dieci anni fa e la loro posizione è stata archiviata dal gip. In quel decreto, firmato il 16 novembre 1998, veniva spiegato che «l'ipotesi di indagine (su Berlusconi e Dell'Utri) aveva mantenuto e semmai incrementato la sua plausibilità». Ma in due anni di lavoro, non era stata trovata «la conferma alle chiamate de relato» di Giovanni Ciaramitaro e Pietro Romeo, due componenti del commando mafioso in azione nel nord Italia, diventati collaboratori di giustizia. Dopo 24 mesi il gip di Firenze ha archiviato tutto per decorrenza dei termini, scrivendo però che «gli elementi raccolti» dalla procura non erano pochi: era convinto che i due indagati avessero «intrattenuto rapporti non meramente episodici con i soggetti criminali cui è riferibile il programma stragista realizzato». Pensava che «tali rapporti» fossero «compatibili con il fine perseguito dal progetto» della mafia: cioè la ricerca di una nuova forza politica che si facesse carico delle istanze di Cosa nostra. Ma tutti quegli indizi non erano «idonei a sostenere l'accusa in giudizio». Per cui «solo l'emergere di nuovi elementi» avrebbe a quel punto portato alla riapertura dell'inchiesta.
È quello che potrebbe essere fatto adesso. Oggi sappiamo dal neo pentito Spatuzza che Giuseppe Graviano, già nel gennaio '94, sosteneva di aver raggiunto una sorta di accordo politico con Berlusconi, e raggiante ripeteva: «Ci siamo messi il Paese nelle mani». Ma dopo Spatuzza c'è chi ritiene si possano registrare altre defezioni di rango tra le fila dei mandanti ed esecutori delle stragi: nuove collaborazioni che diano ancora più peso alle accuse. Magari a partire proprio da Filippo Graviano. Era stato proprio lui, nel 2004, a comunicare in carcere a Spatuzza che «se non arriva niente da dove deve arrivare, è bene che anche noi cominciamo a parlare con i magistrati». Erano trascorsi dieci anni da quando suo fratello Giuseppe sosteneva di aver agganciato Berlusconi tramite Dell'Utri, e secondo il pentito la trattativa fra Stato e mafia proseguiva ancora.
Ma i detenuti, stanchi di attendere una soluzione politica a lungo promessa, ma non ancora completamente realizzata, adesso minacciano di vendicarsi raccontando cosa è davvero successo nel 1993-94. Quello che dice ai pm Spatuzza si collega ad alcuni retroscena dell'indagine della procura di Napoli sul sottosegretario Nicola Cosentino di cui è stato chiesto l'arresto per concorso esterno in associazione camorristica. Sembrano apparentemente due mondi lontani, ma a metterli in contatto sono alcuni esponenti di Forza Italia che si rivolgono fra il '94 e il '96 a boss di mafia e camorra promettendo, in caso di vittoria elettorale, «un alleggerimento nei loro confronti».E da questi discorsi emerge il progetto della dissociazione, cioè l'ammissione delle proprie responsabilità in cambio di sconti di pena, senza accusare altre persone. Spatuzza, parlando della trattativa con lo Stato, che sarebbe proseguita fino al 2004, spiega che durante la detenzione «Filippo Graviano mi dice che in quel periodo si sta parlando di dissociazione, quindi a noi interessa la dissociazione ». E dello stesso argomento aveva discusso il casalese Dario De Simone, con l'onorevole Cosentino.Adesso il premier ha paura di quegli spettri che 16 anni fa lo avrebbero accompagnato nella sua discesa in politica. Ma lo spaventa anche la ricostruzione di tutti gli spostamenti dei Graviano nel 1993. Perché gli investigatori sono in grado di accertare le persone con le quali sono stati in contatto. I tabulati di alcuni vecchi cellulari utilizzati dai fratelli stragisti sono stati analizzati dagli investigatori con l'aiuto di Spatuzza. E grazie a questi documenti è possibile dimostrare con chi hanno parlato.Su questi fatti vi sono due indagini. Una coordinata dal procuratore di Firenze Giuseppe Quattrocchi con i suoi sostituti Giuseppe Nicolosi e Alessandro Crini; l'altra condotta dal capo della Dda di Caltanissetta Sergio Lari con l'aggiunto Domenico Gozzo e i pm Nicolò Marino e Stefano Luciani.Lari ha riaperto da mesi i fascicoli sui mandanti occulti delle stragi e la scorsa estate Totò Riina ha fatto arrivare un lungo messaggio attraverso il suo avvocato. Riuscendo a bucare il carcere duro imposto dal 41 bis. Per il capo di Cosa nostra la responsabilità della morte di Borsellino era da addebitare a «istituzioni deviate». Un messaggio torbido. E così Lari e i suoi pm sono andati a interrogarlo. Nello stesso periodo, i pm di Firenze interrogavano Giuseppe Graviano.È lo stesso stragista a rivelarlo durante una deposizione a difesa dell'ex senatore Vincenzo Inzerillo nel processo d'appello di Palermo in cui è imputato di mafia. Graviano dice: «È venuta la procura di Firenze. Mi hanno detto solamente: "Siamo venuti a interrogarla per i colletti bianchi". Gli ho detto: "Mi faccia leggere i verbali" (riferendosi alle dichiarazioni di Spatuzza, ndr) e aspetto ancora...».La coincidenza vuole che poche settimane dopo questi due episodi, il deputato Renato Farina (Pdl), alias "agente betulla", entra nel carcere di Opera, nell'ambito dell'iniziativa promossa dai Radicali. L'ex informatore dei servizi segreti si ferma a parlare con Totò Riina. Poi il deputato prosegue il giro "cella per cella" degli 82 reclusi sottoposti al 41bis. Casualità vuole che in questo istituto è detenuto pure Giuseppe Graviano. I boss lanciano messaggi, e i politici che comprendono il loro linguaggio sanno come rispondere. Ma adesso un mafioso pentito è pronto a decifrare questo codice segreto.
(L’Espresso, 19 novembre 2009)

Termini, operai Fiat occupano il Comune. "Intervengano Scajola e Miccichè"

Le tute blu siciliane, nuovamente in cassa integrazione, protestano a Termini Imerese: "Vogliamo incontrare Miccichè". Il Comune: "Abbiamo già scritto al ministro Scajola"
TERMINI IMERSE (PALERMO) —
Sono circa 200 gli operai della Fiat di Termini Imerese che hanno occupato il municipio e la stanza del sindaco Salvatore Burrafato. Le tute blu sono di nuovo in cassa integrazione e temono che l'azienda possa smantellare il sito dove attualmente si produce la Lancia Y. «La nostra - spiega Roberto Mastrosimone della Fiom - è un'azione simbolica per chiedere attenzione sulla vertenza in atto. Siamo qui perché vogliamo incontrare il vicesindaco, cioè il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, con delega al Cipe, Gianfranco Miccichè».Gli operai hanno «eletto» un proprio sindaco tra le tute blu che hanno occupano la stanza del primo cittadino Burrafato. L'operaio ha indossato la striscia tricolore. «Se le istituzioni non prendono in considerazione i nostri problemi - dicono gli occupanti - cercheremo di fare da soli». Gli operai insistono affinché il visesindaco Miccichè vada in Comune per parlare con loro e chiedono di fissare un incontro con il ministro dello Sviluppo economico, Claudio Scajola, prima che la Fiat presenti ufficialmente il piano industriale. Senza questi due passaggi «staremo qui ad oltranza», annunciano.
Il sindaco. «Gli operai hanno espresso la volontà di mantenere il presidio fino a quando il ministro Scajola, al quale ho già scritto una lettera, non fisserà un incontro per discutere sul futuro dello stabilimento», afferma il primo cittadino, Salvatore Burrafato. «Ho fatto presente al ministro - aggiunge - che non si possono erogare ecoincentivi a un'azienda che chiude una fabbrica e ho rivolto un invito ai parlamentari, non solo siciliani, a votare contro il provvedimento. Vogliamo parlare col governo prima che il Lingotto presenti il suo piano».
Il ministro. «La situazione dello stabilimento non va drammatizzata: la Fiat ha infatti garantito il mantenimento dell'attività produttiva dell'impianto, anche se dopo il 2011 la produzione di auto potrebbe essere sostituita con quella di altri prodotti, sempre nel settore automotive», afferma il ministro dello Sviluppo economico Claudio Scajola. «In ogni caso - aggiunge - l'occupazione sarà salvaguardata e il governo, assieme alla Regione siciliana, è pronto a sostenere con un contratto di programma l'eventuale riconversione produttiva».
La Regione. «Al tavolo di verifica con la presidenza del Consiglio, il 21 dicembre, Fiat auto porterà un piano industriale che prevede il rilancio della produzione nello stabilimento di Termini Imerese - si legge in una nota di Palazzo d'Orleans - E' questo l'impegno del governo nazionale, concordato tra il ministro Claudio Scajola, il presidente della Regione, Raffaele Lombardo, e l'assessore all'Industria, Marco Venturi». La Regione comunque «dovrà fare la sua parte, formalizzando iniziative che garantiscano: la realizzazione nell'area di Termini di nuove infrastrutture per la intermodalità, il reperimento delle aree necessarie all'espansione dello stabilimento, la disponibilità delle risorse dell'accordo di programma quadro sulla ricerca, che potranno finanziare gli studi attivati da St e Fiat per lo sviluppo dell'auto elettrica».
Il Pd. «La scelta di chiudere la produzione di automobili a Termini Imerese dal 2012 - dice il senatore del Pd Giuseppe Lumia - stride con la strategia di espansione e apertura ai mercati internazionali. Lo stabilimento, infatti, si trova in una posizione geografica strategica nell'area di libero scambio del Mediterraneo». Secondo il deputato nazionale Tonino Russo «non si può continuare a stare con le mani in mano. Scajola ascolti l'appello delle tute blu e dimostri che la politica di Palazzo Chigi non è nordista. Purtroppo in questi mesi - sottolinea Russo - non sono arrivati segnali incoraggianti e nessuno del governo, nemmeno il sottosegretario Miccichè che è anche vicesindaco di Termini, ha lavorato per fermare il piano dell'azienda».
(La Repubblica, 18 novembre 2009)

martedì 17 novembre 2009

Paolo Beni, presidente dell'Arci: "La vendita all’asta dei beni confiscati alle mafie rischia di vanificare gli effetti della legge 109"

L'emendamento alla Finanziaria approvato in Senato, con cui si consente la vendita all'asta dei beni immobili confiscati alle mafie, rappresenta un colpo durissimo inferto alle attività di opposizione sociale e culturale alla criminalità organizzata. Si vuole calare il sipario su una stagione autenticamente rivoluzionaria della resistenza alle mafie nel nostro paese: quella avviatasi nella prima metà degli anni novanta grazie alla partecipazione democratica, al risveglio delle coscienze, all'entusiasmo e alla passione civile di tanti cittadini e cittadine, soprattutto giovani. Una stagione che ha avuto un passaggio decisivo nella mobilitazione popolare che portò all'approvazione della legge 109/96 sul riutilizzo sociale dei beni confiscati alle criminalità organizzate.Se l'emendamento votato al Senato dovesse essere confermato nel testo definitivo della Finanziaria, non solo si rischierebbe di far tornare sottobanco nelle mani delle mafie quello che è stato loro confiscato, non solo si depotenzierebbe e si svuoterebbe di significato lo strumento della confisca (uno strumento che ha consentito di colpire le criminalità organizzate là dove sono più sensibili, vale a dire nei loro interessi economici), ma verrebbe tradito il valore simbolico e culturale della legge 109: l'idea per cui la collettività si riappropria del "maltolto". Il riutilizzo sociale dei beni confiscati ha infatti finora consentito di costruire pratiche di protagonismo democratico nell'azione di contrasto alle mafie da parte del mondo dell'associazionismo, dei territori, della società civile. Quelle buone pratiche rappresentano gli anticorpi sociali all'infiltrazione e al radicamento dei poteri malavitosi nelle nostre comunità. Interrompere questo percorso significa indebolire la tela tessuta in tutti questi anni, che ha legato in una grande storia di resistenza civile cittadini, enti locali, associazioni, istituzioni. Se l'intento è quello di recuperare risorse finanziarie da mettere a disposizione delle politiche per la sicurezza, si faccia ricorso allora ad altri strumenti, come il "Fondo Unico Giustizia", alimentato dalle liquidità confiscate alle attività criminali.Auspichiamo che nel passaggio alla Camera venga ritirato questo provvedimento pericoloso e devastante, un vero e proprio tradimento nei confronti di chi si sforza, nel quotidiano, di gettare semi di speranza, di giustizia e di legalità.
Roma, 16 novembre 2009
FOTO: La masseria di contrada "Drago" confiscata a Riina e assegnata alla coop "Pio La Torre" per realizzarvi un agriturismo.