mercoledì 26 settembre 2007

Russia. La ballata del soldato italiano sul fronte del Don, che non voleva fare la guerra

di Viktor Borzenko
Sessantacinquea famiglia ricevette per l’ultima volta una breve notiziola dal fronte:
“I russi sono persone buone, proprio come noi...e voglio che tutti vivano”. Da allora i suoi partenti raccolgono qualsiasi informazione sugli ultimi giorni del soldato italiano Rosario Perrino, che ha vissuto sul fronte del Don nel 1942. Egli è caduto vicino Čertkovo, nella regione di Rostov. Questo è tutto quello che la famiglia italiana ha saputo. Poco tempo fa, però, hanno potuto accertare nuovi fatti. Un Tupolev 134 atterra all’aeroporto di Rostov a mezzanotte. Sul Don è giunto Giovanni Perrino, nipote di quello stesso soldato, di cui è venuto a cercare la tomba, preparandosi a questo avvenimento già da molti anni.

«Rosario è morto perché non voleva sparare sulle persone».

Con Giovanni provo disagio a parlare di quella terribile guerra. Obiettivamente, il soldato italiano combatteva contro i russi, ma per lui quel soldato era uno zio germano, che non aveva mai sparato sui russi e che si era innamorato della Russia. Egli è andato al fronte solo per non farsi lunghi anni di galera per renitenza alla leva. Giovanni sorride in continuazione. Non ha niente di cui vergognarsi: “Quanti anni di abisso ci sono stati tra la mia famiglia e il vostro popolo, ma so con esattezza che Rosario è morto perché non voleva sparare sulle persone. Al nostro ospite italiano portano un calice di vino georgiano. “Buonissimo!”, esclama Giovanni, che da tempo preferisce i vini del Don. In molti negozi italiani si può comperare il vino “Taganrog”, e con la stessa denominazione fabbricano della pasta, per la preparazione della quale si usa una farina che viene dal Don. Tale tradizione ha avuto inizio ben 250 anni fa, quando Italia cominciarono ad arrivare le navi che dal porto di Taganrog esportavano grano e vino
Giovanni ricorda con molto calore questa pasta. “E’ come se quel grano nascesse proprio nelle stesse vallate dove era rimasto per sempre Rosario. E ancora ricorda il nostro amico come la nonna, di notte si svegliasse di soprassalto, chiedendo di aprire la porta. Nel suo dolore di madre era convinta che fosse tornato il figlio.
“Io sono cresciuto e, per così dire, il suo nome per me è divenuto la cifra della fede nel suo ritorno”, dice Giovanni. Vedendo come crescevo, i miei cari paragonavano di continuo me con lui, trovando una somiglianza sempre maggiore, e nella forma delle mani, e nell’altezza, e nel corpo, nel modo di sorridere....e anche nella stessa maniera di stare a tavola! Spesso le mie zie mi imponevano di tanto di tanto di misurare i suoi vestiti e le sue scarpe, e ogni volta, sottolineavano il suo gusto impeccabile nello scegliere i vestiti. E ogni volta dopo queste misurazioni. riponevano tutto nell’armadio, nell’attesa che tornasse. Loro desideravano che egli trovasse le proprie cose così come le aveva lasciate. In Italia capitavano casi che i parenti ogni tanto ricevessero le bare con i resti ma anche, piu’ raramente, capitava che dopo molti anni i soldati tornavano a casa vivi.

«Vedendo uno straniero, i contadini hanno lasciato il loro orto»

Ci siamo avvicinati ad Alekseevo – Lozovskij, al villaggio dove nel novembre del 1942 sotto il bombardamento dell’artiglieria cadde Rosario. Nel distretto di Čertkovo la macchina svolta dalla strada asfaltata in una stradella di campagna. Giovanni, di solito ciarliero, tace improvvisamente. Saltando sui piccoli rilievi che là si trovano, si sforza di vedere quei luoghi di cui ha tanto letto nelle memorie di guerra. Anche per questo motivo ha imparato il russo. ...Vedendo uno straniero, i contadini hanno lasciato il proprio orto e hanno circondato la macchina. “Forse, riconoscete questo volto”, dice Giovanni, mostrando la foto dello zio ai vecchi del luogo, ma questi possono solo stringersi nelle spalle. Di soldati come Rosario nel novembre del 1942 ce n’erano 25.000. Poi Giovanni ha visto la steppa dove erano gli italiani e la collinetta dove, stando ai racconti, sono stati massacrati i soldati italiani e tedeschi. Giovanni guarda le grandi distanze del Don, e cerca dove potevano essere le trincee nelle quali Rosario nei minuti in cui infuriava la battaglia, scriveva a casa l’ultima breve lettera.

«Egli è vivo, e vive sotto falso nome»

Nel 1942 Rosario aveva 27 anni. Aveva terminato da poco gli studi e aveva vinto il concorso nelle Ferrovie ed era stato nominato capostazione a Salemi dove aveva trovato Concettina, una fidanzata che amava moltissimo e che lo ha atteso per lunghi anni dopo la fine della guerra. In una delle lettere dal fronte Rosario raccontò che viveva in un villaggio sul Don presso una famiglia molto buona che lo trattava bene e gli lavava i vestiti. “I miei genitori supponevano che in Russia si fosse trovato un nuovo amore”, dice Giovanni”, ma, dopo la guerra, la vita dei sopravvissuti era molto difficile perciò Rosario ha dovuto nascondersi. I familiari avevano anche sognato che egli potesse essere vivo e che aveva cambiato nome... e che magari viveva felice con la sua famiglia russa intorno ad un grande tavolo assieme ai figli, con una lasagna fumante e le patate con il burro fuso.

«Le ultime righe a casa»

Rosario poteva fuggire dal fronte, come avevano fatto alcuni italiani., ma egli sperava che la morte lo schivasse e durante la battaglia sparava in aria o più semplicemente aveva messo la testa al riparo in una trincea come riportano alcuni testimoni oculari, gli amici del fronte di Rosario, che erano tornati in patria. In una delle cartoline Rosario, per evitare la severa censura di guerra, ha scritto in maniera allegorica che presentiva l’avvicinarsi di una forte tempesta, dalla quale bisogna fuggire, nascondersi, ma egli reprimeva in se stesso questo senso di paura. Egli fino all’ultimo, non voleva credere nella possibilità che potesse morire, non credeva in quella morte che ormai si avvicinava a grandi passi. E non aveva preso nessuna decisione, neanche quella di fuggire in quanto il destino aveva già definito il tutto e aveva messo ogni cosa al suo posto. La tempesta cominciò all’improvviso e non lasciò tempo per riflettere, solo di pensare alla sua Concettina ed ai suoi familiari. Rosario non si ribellò al proprio destino in quel momento cruciale e la tempesta lo spazzò via e questa volta per sempre.
NELLA FOTO: Giovanni Perrino

Pubblicato sul quotidiano russo “Argumenti i Facti “, n.32/2007

Contessa Entellina: inaugurata la sede della Camera del lavoro "Francesco Di Martino"

martedì 25 settembre 2007

Intervista a Peter Gomez: "Mafia e politica una cosa sola"

Intervista a Peter Gomez. “Mafia e politica una cosa sola”

lunedì 24 settembre 2007

Viaggio nella cella dei superboss

di Francesco Bonazzi
Una piccola stanza sempre sotto controllo. Due passeggiate al giorno in un cortile. Le partite a carte di Riina. E la lettura della Bibbia per Provenzano. Ecco come vivono i padrini dietro le sbarre


Ogni mattina che Dio manda in terra, qualche minuto prima delle sette, un anziano corleonese trapiantato a Milano si alza dal suo lettino e accende il fuoco di un fornelletto a gas sotto una moka da due. Il caffè, però, lo prende solo. Da 14 anni e 8 mesi. A 55 chilometri di distanza, alla stessa ora, un compaesano ultrasettantenne aspetta in silenzio in un'ex risaia. È sveglio da più di un'ora, immobile. Non beve un caffè da almeno un anno e cinque mesi. Attende che gli portino un po' di latte tiepido. Poi si metterà anch'egli in movimento. Ma entrambi non andranno da nessuna parte. Lo Stato italiano li ha sepolti vivi sotto una valanga di ergastoli e li 'gestisce' attraverso gli uomini super-specializzati dei Gom, i reparti operativi della Polizia penitenziaria. Ma loro, i detenuti Riina Salvatore e Provenzano Bernardo, continuano a fare paura anche se sono al '41 bis', come viene chiamato il carcere duro per i mafiosi. Anzi, "stanno al 41 bis del 41 bis", come si dice in gergo carcerario, perché scontano la pena in regime d'isolamento. Non parlano con nessuno, vedono i familiari una volta al mese, sono perquisiti più volte al giorno e la loro corrispondenza viene controllata. Eppure alla fine di agosto sono bastate due cartoline in busta bianca destinate a loro, con su scritto "La pace è finita", per allarmare investigatori e polizia penitenziaria. Riina e Provenzano non sono due fantasmi del passato. È vero, hanno cominciato insieme quasi cinquant'anni fa, sparando per conto di un altro corleonese illustre, Luciano Liggio. E sono diventati i due boss di Cosa nostra più famosi del mondo, passando sui cadaveri di decine di 'colleghi'. E poi sui corpi di magistrati, poliziotti, carabinieri, giornalisti e gente comune. Adesso che sono entrambi in carcere, Provenzano a Novara e Riina a Milano Opera, le attenzioni sono concentrate nella caccia ai due probabili eredi: Matteo Messina Denaro e Salvatore Lo Piccolo. Ma loro, 'Totò u curtu' e lo 'Zu Binu', che fanno? 'L'espresso' ha potuto ricostruire in dettaglio le giornate dei due boss, parlando con le pochissime persone che ne sanno davvero qualcosa. La salute, innanzitutto. Riina ha 77 anni e tre by-pass coronarici, ricordo di una serie di infarti (gli ultimi due nel 2004, quando era nel carcere di Marino del Tronto). Per questo, dal 2003 è custodito in una cella del centro clinico del carcere di Opera: "Una soluzione giusta", come ebbe a commentare sua moglie Ninetta Bagarella.


Provenzano ha un quadro clinico meno delicato, ma è pur sempre un signore di 74 anni che ha subito due operazioni per tumore alla prostata, soffre di reni e da quando è stato trasferito nel supercarcere di Novara ha perso parecchi chili. Anche lui è isolato vicino al centro medico. A entrambi l'amministrazione penitenziaria ha assegnato una stanza di tre metri per un metro e 80 centimetri, bagnetto compreso. Per lavarsi, c'è un lavandino. La doccia, invece, si trova nel centro medico e questo è l'unico 'privilegio' dei due illustri reclusi, visto che praticamente ne hanno entrambi una a disposizione tutta per sé. Intorno alle sette vengono aperti i portoncini blindati delle celle, i cui due spioncini (uno per la stanza da letto e l'altro per il bagno) sono rimasti spalancati tutti la notte. Di fronte alle celle sono in funzione 24 ore su 24 le telecamere a circuito chiuso e almeno un agente monta la guardia. Le sbarre di metallo, invece, restano chiuse. Si aprono una prima volta per far entrare il vassoio della colazione. E una seconda per la prima ispezione della giornata: perquisizione della cella da parte degli agenti e perquisizione personale sui detenuti. Provenzano ha una cella molto poco luminosa. La luce arriva da un finestrone con infissi metallici posto sulla parte più in alto di una parete, ma il carcere novarese è costruito in un avvallamento e il reparto che ospita 'don Bernardo' è in pratica un seminterrato. Un bel problema per una persona con la vista debole e che ama tantissimo leggere. Un solo libro, però: la Bibbia. Dopo le ispezioni e la pulizia della cella, che il padrino cura personalmente con attenzione maniacale, Provenzano inforca gli occhiali da presbite e apre le sacre scritture. Legge come uno studioso attento e riempie le pagine di annotazioni. Potrebbe chiedere altri libri alla direzione del carcere, ma non lo fa. Potrebbe farsi acquistare giornali o riviste allo spaccio interno, ma non gl'interessa. Gli basta sfogliare la 'Parola di Dio'. Poi, quasi ogni giorno, sceglie le proprie parole da scrivere ai familiari: alla compagna di una vita, Saveria Palazzolo, e ai suoi figli che per loro fortuna hanno preso strade totalmente diverse dal padre. Questo fin verso le 10-11 del mattino, quando è il momento di 'uscire' per il primo passeggio. Per un'ora Provenzano può sgranchirsi le gambe in un cortiletto tanto angusto che a momenti i classici quattro passi bastano per girarlo tutto. E può guardare il colore del cielo attraverso una rete di ferro a maglie abbastanza strette.


Nella cella di Riina arriva più luce. Il finestrone è lo stesso, ma Opera è un penitenziario che non sorge su un'ex risaia, ma tra le autostrade che arrivano a Milano da Sud, ed è di costruzione molto più recente. Leggere, però, non è proprio tra le passioni del super-boss. Libri non ne ha e non ne chiede. E da qualche anno non acquista neppure i giornali sportivi, come faceva nei primi tempi. Quando ha finito di dedicarsi all'igiene personale e alla pulizia della propria cella, Riina prende carta e penna per scrivere a Ninetta. Poi, intorno alle 10, va a farsi l'ora d'aria in un cortile con i muri di cemento armato e una doppia rete di ferro al posto del tetto. Così fitta che se proprio non diluvia, il detenuto Riina può uscire a passeggiare praticamente con qualsiasi condizione climatica. In realtà, più che passeggiare, fa ginnastica. Dieci minuti di esercizi che potrebbero essere definiti di 'corpo libero', se l'espressione non fosse drammaticamente fuori luogo, e una ventina di minuti sulla cyclette. Come gli hanno consigliato i medici.Tra le 11 e 45 e mezzogiorno, arriva il vassoio del pranzo.

A Provenzano viene consegnato seguendo una serie incredibile di cautele, sulle quali vige il riserbo più assoluto. L'unico particolare che filtra è che il pasto non viene preparato dagli uomini della polizia penitenziaria che lo hanno in carico, leggenda circolata in passato, ma esce dalle stesse cucine dove si confezionano gli altri 400 vassoi del carcere novarese. Il menù è quello di tipo ospedaliero (la qualità pare che sia però un po' inferiore) che vige nella gran parte dei penitenziari italiani: primo, secondo e frutta. Carne una o due volte a settimana. Il dolce giusto la domenica, quando c'è anche la messa. Alla quale né Riina né Provenzano, pur religiosissimi, possono partecipare. Se stessero con gli altri '41 bis', potrebbero affacciarsi dalle sbarre quando il cappellano dice messa in corridoio. Ma stanno in isolamento e da loro il prete non passa (e neppure lo chiedono).


Provenzano mangia pochissimo e neppure integra il vitto carcerario con alimenti acquistati allo spaccio interno. Una scelta, quella di mangiare solo ed esclusivamente ciò che passa lo Stato, assai poco praticata dai boss mafiosi, eppure singolarmente identica a quella operata da Riina. Il capomafia rinchiuso a Opera sarebbe più goloso e, anzi, tende facilmente a ingrassare. Ma non chiede di comprarsi neppure una scatola di biscotti. Sulle motivazioni di questa scelta, nel circuito del '41 bis' ci sono almeno due scuole di pensiero. Alcuni la spiegano con un fattore anagrafico-culturale: Provenzano e Riina sono due uomini all'antica, abituati a essere serviti e non potranno mai considerare la cucina come un passatempo maschile. Altri vi leggono l'identico messaggio: anche se lo Stato ci tortura con il carcere duro, noi siamo più forti e non facciamo niente per ammorbidirci il trattamento. Un'interpretazione asseverata da un altro dato più generale e comune a entrambi: non chiedono mai nulla e non protestano mai.


Dopo pranzo, Riina a volte schiaccia un pisolino o guarda un po' di televisione. L'apparecchio è un piccolo Mivar a colori saldato al muro, come in certi alberghetti. Adora lo sport. Tutto lo sport, con una preferenza spiccata per la Formula uno, i Gran premi di motociclismo e il calcio. Tifa Milan e raccontano che quando i rossoneri vincono, poi la sera va a dormire più tranquillo. Chissà quanto maledice l'esistenza di Sky e del digitale terrestre, che hanno impoverito di molto l'offerta calcistica delle reti generaliste. In ogni caso, se sulla Rai passano un po' di ciclismo, Riina si guarda anche quello. Provenzano, invece, o dormicchia o si rilegge la sua Bibbia, in attesa del secondo passeggio di metà pomeriggio. Anche Riina esce per un'ora una seconda volta e vi aggiunge, come da regolamento, un'ora di cosiddetta socialità. Si tratta di andare a rinchiudersi in una stanzetta con le pareti verdoline, due sedie da vecchia scuola media e un tavolino di compensato inchiodato al pavimento. Riina non può andarci con gli altri '41 bis' e men che mai con un altro esponente della sua stessa organizzazione mafiosa. Così, la scelta del compagno di giochi è caduta su un sessantenne boss calabrese di medio livello. Il siciliano e il collega calabrese hanno in dotazione un semplice mazzo di carte da gioco napoletane con le quali sfidarsi a scopa e briscola. Scambiano qualche parola e nulla più, ma entrambi ci tengono tantissimo. Provenzano, neanche questo. Dicono che sia un atteggiamento tipico di chi è dentro da relativamente poco e che anche Raffaele Cutolo, i primi anni, rinunciasse volentieri alla 'socializzazione'. Lo 'Zu Binu' si fa la seconda ora di passeggio, al rientro si sottopone all'ennesima ispezione e poi attende la cena. Il pasto serale viene preparato e consegnato (intorno alle 19) secondo le stesse modalità del pranzo. Dopo, c'è tutto il tempo per guardarsi i principali telegiornali, facendo zapping tra Rai e Mediaset. Provenzano, che per il resto della giornata viene in larga parte descritto come apatico, ha una vera passione per l'informazione televisiva. E chissà quanto apprezzerebbe gli approfondimenti in seconda serata, se solo ci arrivasse sveglio. Invece alle nove spegne tutto e si mette a letto. Un'ora dopo, al massimo, già dorme. Alla stessa ora, le dieci in punto, anche Riina s'infila sotto le coperte a Novara. E cade addormentato in pochi minuti. Fuori, si alternano governi e nuovi superlatitanti. Dentro, a Riina e Provenzano, non è dato sapere se e quanto gliene importi qualcosa.
Da "L'Espresso"

campagna choc di Oliviero Toscani: Se questa è una donna...

Il famoso fotografo torna con una campagna choc. Per dire "No" all'anoressia e pubblicizzare un marchio di moda
Un pugno nello stomaco, uno di quelli ai quali Oliviero Toscani ci ha abituato negli anni. Lei è una ragazza francese ammalata di anoressia fotografata completamente nuda per la campagna pubblicitaria di un marchio di streetwear in ascesa. Ad accompagnare la foto l’assunto “No anorexia”, e fin qui… L’immagine campeggia, enorme, per le strade di Milano proprio nelle giornate che la città dedica alle sfilate e alla moda: quella moda che è sempre la prima accusata quando si parla di disturbi alimentari. Ma non tutti apprezzano la provocazione. Racconta Panenutella: «Il nuovo progetto-choc di Oliviero Toscani, da oggi in doppia pagina su Repubblica, con affissioni enormi in giro per l’Italia, maxi affissione in corso Venezia a Milano proprio durante la Settimana della Moda, non è stato gradito dal Corriere della Sera. Paolino Mieli ha censurato la campagna (appoggiata da Livia Turco con tanto di lettera d’apprezzamento e d’appoggio etc etc ), che quindi non sarà pubblicata sul “candido” Corriere. Il Corriere è stato l’unico giornale italiano a rifiutare la pagina che, tra oggi e domani e dopodomani, uscirà in varie testate: Il Giornale, Sole 24, Libero, Vanity Fair, etc. Questo per l’Italia. Per il mondo anche Elle France non ha voluto pubblicarlo». La perplessità non è soltanto di Mieli. «La reazione di pancia è immediata: ci mancava solo questo a rafforzare le anoressiche che giàsi sentono invincibili e assolutamente certe di essere nel giusto tanto da poter dominare uno degli istinti primordiali della vita: la fame, la sopravvivenza. Adesso sono state scelte come "musa" di un grande fotografo di moda, ingaggiato da una sigla fashion. A chi farà bene questo? Davvero alle ragazze che si lasciano morire d'inedia con lucida determinazione o ad attirare i riflettori su una assai poco nota casa di moda? Poi mi obbligo a guidare la mente in un percorso meno istintivo: forse vale comunque la pena di esporre tanto dolore, qualunque sia il suo fine. Se anche servirà a salvare una sola donna, e le persone che la amano, dal cadere nell'abisso dell'anoressia, allora ne vara' la pena.... anche se i benefici più cospicui dovessero andare al conto economico di quella quasi sconosciuta maison», si riflette su Kttbblog. E voi cosa ne pensate? Queste "provocazioni" servono davvero? O sono utili soltanto a... Oliviero Toscani?

24 settembre 2007 - 17:37

Il Papa: "Condivisione, non profitto. E' come Dio contro Satana"

Messa del Pontefice a Velletri: "Incrementa la sproporzione tra poveri e ricchi, come pure un rovinoso sfruttamento del pianeta"
CITTA' DEL VATICANO - "La logica del profitto, se prevalente, - ammonisce il Papa - incrementa la sproporzione tra poveri e ricchi, come pure un rovinoso sfruttamento del pianeta". "Quando invece - commenta - prevale la logica della condivisione e della solidarietà, è possibile correggere la rotta e orientarla verso uno sviluppo equo, per il bene comune di tutti". "In fondo - per il Papa - si tratta della decisione tra egoismo e amore, tra giustizia e disonestà, in definitiva tra Dio e Satana". Benedetto XVI lo ha detto nell'omelia della messa celebrata a Velletri, sua sede titolare prima di essere eletto Papa, dove si trova per una breve visita. "Mi sento a casa tra voi - ha detto prima di cominciare la messa". "Se amare Cristo e i fratelli non va considerato come qualcosa di accessorio e di superficiale, ma piuttosto lo scopo vero e ultimo di tutta la nostra esistenza, - ha aggiunto - occorre saper operare scelte di fondo, essere disposti a radicali rinunce, se necessario al martirio. Oggi, come ieri, la vita del cristiano esige il coraggio di andare contro corrente, di amare come Gesù". E se d'altra parte "si trova gente pronta ad ogni tipo di disonestà pur di assicurarsi un benessere materiale pur sempre aleatorio quanto più noi cristiani dovremmo preoccuparci di provvedere alla nostra eterna felicità con i beni di questa terra" ha osservato ancora papa Ratzinger, rilevando che "l'unica maniera di far fruttificare per l'eternità le nostre doti e capacità personali come pure le ricchezze che possediamo è di condividerle con i fratelli".
Il Papa ha poi ricordato che la Bibbia "stigmatizza uno stile di vita tipico di chi si lascia assorbire da una egoistica ricerca del profitto in tutti i modi possibili e che si traduce in una sete di guadagno, in un disprezzo dei poveri e in uno sfruttamento della loro situazione a proprio vantaggio". "Il cristiano - ha rimarcato - deve respingere con energia tutto questo, aprendo il cuore, al contrario, a sentimenti di autentica generosità". Per giungere a questo, il Papa ha invitato alla preghiera e ha ricordato che già san Paolo nella prima lettera a Timoteo "invita in primo luogo a pregare per quelli che rivestono compiti di responsabilità nella comunità civile, perchè, egli spiega, dalle loro decisioni, se tese al bene comune, derivano conseguenze positive, assicurando la pace e 'una vita calma e tranquilla con tutta pieta' e dignita" per tutti". (La Repubblica, 23 settembre 2007)

Corleone, le polemiche per il Rally "Conca d'Oro". E' TUTTA UNA QUESTIONE DI STILE...

Un po’ goffi ed impacciati lo erano, ieri sera sul palco delle premiazioni del Rally “Conca d’Oro”, gli assessori Carlo Vintaloro, Francesco Vizzini e Lea Cortimiglia, e il consigliere Giuseppe Giandalone. Poi, stimolato dalla “intelligentissima” performance di Leo Di Puma (Italia Grandi Eventi), l’assessore Vintaloro è riuscito anche ad essere ridicolo. Aggrappato al microfono, si è lasciato andare in una filippica contro quei consiglieri “cattivi” che non volevano il Rally ed a favore degli otto eroi (i consiglieri del Polo) che l’hanno voluto, insieme al sindaco e agli assessori comunali, che – poverini! – rinunceranno persino alle loro indennità di carica, pur di finanziare la manifestazione sportiva. Forse a Vintaloro è sfuggito che la giunta municipale, per legge, può solo PROPORRE come ripartire le somme del bilancio e le sue variazioni. Mentre, sempre per legge, a DECIDERE è il consiglio comunale. E 11 consiglieri comunali (cioè, la maggioranza assoluta), col voto contrario di 8 consiglieri del Polo, venerdì sera hanno deciso di destinare al Rally “Conca d’Oro” 25 mila euro. Pochi o molti che siano, la manifestazione rallistica si è potuta svolgere fondamentalmente per la scelta di questi 11 consiglieri comunali, non per qualche indennità di carica (finora solo promessa) degli assessori e del sindaco. E poi – diciamocelo chiaramente – dal palco delle premiazioni era proprio il caso di mostrare tanta caduta di stile? Certo, lo stile non lo si compra al supermercato: chi non lo ha, non lo ha. E Vintaloro & Company hanno mostrato ampiamente di non avercelo. Ma, su quel palco, montato in villa comunale, non sono stati i soli. Anzi, a dare il “là” è stato il Leo Di Puma di “Italia Grandi Eventi”, che ha lodato l’amministrazione comunale e gli otto consiglieri del Polo per l’impegno profuso a favore del Rally, chiamando Giuseppe Giandalone (che si è prestato alla farsa) a rappresentare il consiglio comunale, piuttosto che il suo presidente Mario Lanza. Appunto, questione di stile…
A noi confortano le attestazioni di stima di tanti cittadini, che hanno condiviso la scelta di destinare parte dei fondi disponibili al Rally e parte alle scuole dell’obbligo per l’attivazione del servizio di bus-navetta, necessario al trasporto degli alunni in palestra, e per l’acquisto di giocattoli da destinare ai bambini delle scuole materne. «Il vostro è stato puro buonsenso!», ci hanno detto in tanti, anche nel recente sondaggio di Città Nuove.
d.p.
24 settembre 2007
NELLA FOTO, DA SX: Leo Di Puma, Lea Cortimiglia, Giuseppe Giandalone, Francesco Vizzini, Carlo Vintaloro.

Falleri-Farnocchia (Mitsubishi) vincono sugli sterrati di Corleone il 27°Rally Conca d’Oro

Nella penultima prova dello Challenge Rally di zona netta vittoria dell’equipaggio toscano. Già 2° nel 2005 il pilota di Massa Carrara ha condotto la gara fina dalla prima prova speciale. Secondo posto per il veneto Trentin, davanti a Vintaloro, primo dei siciliani. Ritirate le Subaru di Vita, “Dedo” e Mogavero. Siragusano nuovo leader nello Callenge

Corleone (Palermo) 23 settembre 2007 – Netta e sicura affermazione della coppia toscana Falleri-Farnocchia sulle strade sterrate del 27° Rally Conca d’Oro-Trofeo Franco Vintaloro, penultima prova dello Challenge Rally 8a Zona. Con la Mitsubishi Lancer Evo IX della Pentathlon Autosport, Manrico Falleri ha preso il comando fin dalla prima delle nove prove speciali disputate, vincendone quattro. Alle sue spalle per tutta la gara l’altra Mitsubishi del trevigiano Mauro Trentin (Rubiconde Corse) coadiuvato da Flavio Zanella, che, aggiudicandosi cinque prove, riuscivano a rintuzzare l’assalto portato dal toscano Gianluca Vita (Subaru), poi costretto al ritiro, così come le altre vetture gemelle di “Dedo” e Mogavero. Al terzo posto concludeva così brillantemente il corleonese Franco Vintaloro Junior, figlio dello scomparso ideatore della gara, in coppia con Vincenzo Mannina.
Di tutto rispetto anche il quarto posto del locale Governali che precedeva il messinese Caranna e la Ford Fiesta STI di Matteo Di Sclafani, primo tra “2 Ruote Motrici”. Tra i primi 10 anche il rientrante Di Palermo, Salvatore Bellini, primo tra le Vetture di Scaduta Omologazione, e Di Galbo.
Dei protagonisti dello Challenge siciliano buone prestazioni nelle rispettive classi di Beccarla, Cintolo, mentre il messinese Siragusano, vincendo la propria classe è il nuovo leader della serie davanti a Cintolo, all’assente Burruano ed a Briguglio, undicesimo assoluto. e Filippo Bellini, quest’ultimo costretto al ritiro.
La manifestazione organizzata da Italia Grandi Eventi con la collaborazione dell’Automobile Club Palermo e patrocinata dal Comune di Corleone si è svolta in una giornata decisamente estiva sul selettivo percorso di gara lungo 195 chilometri, 76 dei quali costituiti dalle 9 prove speciali su sterrato, che è stato portato a termine da 22 dei 42 equipaggi partiti.

Classifica: 1. Falleri-Farnocchia (Mitsubishi Lancer Evo IX) in 51’39”7; 2. Trentin-Zanella (Mitsubishi Lancer Evo IX) a 41”3; 3. Vintaloro-Mannina (Mitsubishi Lancer Evo IX) a 1’10”5; 4. Governali-Puccio (Mitsubishi Lancer Evo VIII) a 3’05”4; 5. Caranna-Merendino (Mitsubishi Lancer Evo IX) a 6’33”4; 6. Di Sclafani-Di Marco (Ford Fiesta STI) a 7’11”1; 7. Di Palermo-Felicetti (Opel Astra OPC) a 7’47”7; 8. Bellini S.-Bellini G. (Ford Escort Cosworth) a 10’15”6; 9. Di Galbo-Sabatino (Ford Fiesta STI) a 11’34”9; 10. Giacopello-Scalisi (Peugeot 205 Rally) a 14’44”0.

Classifiche Challenge 8° Zona dopo il rally Conca d’Oro: 1. Siragusano (Peugeot 106) punti 43,5; 2. Cintolo 39; 3. Burruano 36,5; 4. Briguglio 35.

Gianfranco Mavaro
NELLA FOTO: La Mitsubishi del duo Falleri-Farnocchia

Corleone, parcheggio pubblico o area per la caserma della Guardia di Finanza?

La discussione sulle variazioni di bilancio di venerdì scorso, ha consentito di accendere i riflettori su due vicende “oscure” del comune di Corleone. La prima riguarda la previsione di spesa di 168 mila euro per la realizzazione – stando alle indicazioni dell’amministrazione comunale – di un parcheggio pubblico sul terreno di contrada S. Giovanni confiscato a prestanomi di Totò Riina (quello adiacente all’immobile assegnato alla Guardia di Finanza). Ma come sarà possibile realizzare un parcheggio pubblico su un terreno per il quale – ha scritto il prefetto di Palermo Giosuè Marino, in una lettera dello scorso 29 agosto, «il comune di Corleone ha manifestato la propria disponibilità a cedere al Comando della Guardia di Finanza»? A meno che la disponibilità del comune non venga ritirata, quel terreno potrà essere adibito solo ad area di pertinenza della Caserma della Guardia di Finanza. O no? Secondo l’assessore Stefano Gambino, un’intesa con le Fiamme Gialle è possibile raggiungerla. Bene, raggiungetela e ci si regolerà di conseguenza. Altrimenti si corre il rischio di avviare un progetto che poi sarà stoppato. D’altra parte, nell’area super congestionata di contrada S. Giovanni un bel parcheggio pubblico è davvero necessario. Ma perché non utilizzare il grande spiazzale di proprietà comunale tra il mobilificio Marsalasi e l’officina meccanica Rigoglioso? Misteri di Corleone…
La seconda vicenda riguarda i metodi di gestione della cooperativa sociale “Spazio Libero”, a cui da anni l’amministrazione ha affidato la pulizia dei locali comunali. Nelle variazioni di bilancio erano previste 28 mila euro in più per il pagamento dei salari ai soci lavoratori. Una scelta obbligata, ma con una precisazione. Pare che nella cooperativa siano stati ammessi recentemente tre nuovi soci, che prima curavano la pulizia dei locali del tribunale per conto di un’agenzia di lavoro interinale pagata dal comune. Questi lavoratori svolgevano 24 ore di servizio settimanale, che continuano a svolgere anche adesso che lavorano per conto della cooperativa. Peccato, però, che gli altri 19 soci lavoratori svolgano appena 13 ore di servizio settimanale. Una palese ingiustizia, a cui mettere fine. «Vanno bene i 28 mila euro in più alla cooperativa, ma con l’impegno che essa faccia svolgere a tutti i soci lavoratori lo stesso numero di ore di servizio», hanno sostenuto i consiglieri delle liste civile dell’ex sindaco Nicolosi, i consiglieri dei Ds e della Margherita e i consiglieri della lista civica “Liberi e Democratici”.
24 settembre 2007
NELLA FOTO: La consegna di "Villa Riina" alla Guardia di Finanza nel 2006

Giallo De Mauro: nella fossa due teschi". E' possibile che ci siano i resti del giornalista"

Su indicazioni di un pentito riesumato in un cimitero vicino Catanzaro il corpo di un pregiudicato. Resta il mistero sulla scomparsa del giornalista: accanto ai resti anche un lungo coltello a serramanico

CATANZARO - Due teschi e ossa di altre persone in una tomba
nel piccolo cimitero di Conflenti, nel Catanzarese, infittiscono il caso della scomparsa di Mauro De Mauro, 37 anni fa. In quello che ora comincia ad apparire un cimitero usato dalla 'ndrangheta per far scomparire i morti scomodi, è stata riesumata stamattina la salma di un pregiudicato ucciso e sepolto all'epoca della sparizione del cronista de L'Ora di Palermo. La Direzione distrettuale antimafia ha voluto verificare le indicazioni di un pentito, e il caso è riaperto. Domani saranno riesumate altre due salme sulla cui lapide non è inciso alcun nome. Il cadavere sotterrato fu identificato all'epoca per quello di Salvatore Belvedere, un pregiudicato di Lamezia Terme. Secondo il pentito di mafia Massimo De Stefano, un tempo affiliato alla cosca Torcasio, quello sarebbe stato invece il corpo del giornalista. Il collaboratore ha riferito del piano che sarebbe stato organizzato nel 1971 per fare credere morto Belvedere, esponente di spicco della 'ndrangheta, evasonel 1970 dal carcere di Lamezia Terme insieme ad altri tre pregiudicati. Il suo scopo era quello di potersi allontanare dalla Calabria e rifugiarsi in Corsica, dove si sarebbe rifatto una nuova vita. Ed al suo posto, nel cimitero di Conflenti, sempre secondo il racconto del pentito, sarebbe stato sepolto proprio Mauro De Mauro.
Ma i necrofori oggi hanno trovato i resti di più persone nella fossa del cimitero. Oltre ad una bara, c'erano due teschi e anche un lungo coltello a serramanico, forse interrato accanto ai cadaveri secondo il rituale della vecchia 'ndrangheta. Per chiarire se quei resti sono appartenuti al giornalista, servirà una comparazione del Dna, ma i medici hanno messo le mani avanti: "Serviranno sessanta giorni ma il buon esito dell'esame - ha detto il professor Giulio Di Mizio, il medico legale incaricato di effettuare l'esame - dipende dalle condizioni in cui si trovano le ossa. Per questo non abbiamo la certezza che l'esame possa andare a buon fine". Gli inquirenti sono più ottimisti e parlano di "ipotesi credibile": "Che Mauro De Mauro sia sepolto a Conflenti - ha detto il dirigente della squadra mobile di Catanzaro Francesco Rattà - è credibile perchè l'ipotesi è fondata su ipotesi investigative attendibili. Certezze, comunque, non possiamo averne". "Andremo avanti nelle indagini", spiega il capo della Mobile. "Procedendo un passo per volta. Comunque, prendiamo in seria considerazione la testimonianza di Salvatore Mirante, il poliziotto in pensione che ha raccolto nei primi anni '90 la confidenza del collaborare di giustizia. A quei tempi la polizia giudiziaria non aveva ancora a disposizione i mezzi tecnici per svolgere seri accertamenti. Oggi abbiamo l'esame del Dna e possiamo valutare con maggiore sicurezza se l'informazione è vera".
(La Repubblica, 23 settembre 2007)

domenica 23 settembre 2007

Corleone, "Guerra" in consiglio comunale per il finanziamento del Rally

Nella lunga notte tra il 21 e il 22 settembre, gli assessori della giunta Iannazzo e gli otto consiglieri del Polo che li sostengono le hanno provate tutte per imporre all’intero consiglio comunale di destinare un contributo di 35 mila al Rally “Conca d’Oro”. Ma gli 11 consiglieri della coalizione civica dell’ex sindaco Nicolosi, della Margherita, dei Ds e della lista civica “Liberi e Democratici” non si sono fatti mettere all’angolo. «I 35 mila euro che voi volete destinare per intero al Rally sono le uniche risorse disponibili per dare qualche risposta concreta ai tanti problemi di Corleone – hanno detto in aula – ed è giusto, serio e responsabile consentire che si possa svolgere il Rally e che si possa dare un aiuto alle scuole dell’obbligo di Corleone per attivare importanti servizi». Hanno, quindi, presentato un emendamento per destinare 25 mila euro allo svolgimento del Rally e 10 mila euro alle scuole per consentire loro il trasporto degli alunni (in primo luogo, i disabili) alla palestra comunale e l’acquisto di giochi per i bambini delle scuole materne. «E’ assurdo - hanno sottolineato i firmatari dell’emendamento - che abbiamo una palestra comunale, ma gli alunni delle scuole dell’obbligo non la possono utilizzare per l’educazione motoria, perché il comune non ha mai attivato un bus-navetta che ce li porti. Come è assurdo tenere tanti classi di bambini delle materne con giocattoli vecchi e rotti».
E quando, a notte fonda, quando si è passati al voto, gli otto consiglieri del Polo non ci hanno pensato due volte a votare contro l’aiuto alle scuole. «Bisogna dare tutti e 35 mila euro al Rally, alle scuole ci penseremo col bilancio di previsione del 2008!», hanno sostenuto il vice-sindaco Pio Siragusa (che pure è assessore alla pubblica istruzione), gli altri componenti della giunta e i loro amici consiglieri. «Ma se davvero avete così a cuore il Rally – ha replicato il consigliere Calogero Di Miceli – perché, tra luglio ed agosto, avete speso tutte le somme previste in bilancio per tale scopo, aspettando di utilizzare l’avanzo di amministrazione? E se l’avanzo non ci fosse stato, avreste fatto saltare il Rally?».
Ma da quest’orecchio Siragusa & C. non ci hanno sentito. Avevano puntato tutto sulla “pressione della piazza”, che nei giorni scorsi avevano aizzato contro “i consiglieri che non volevano il Rally”, per imporre il loro punto di vista. Ed hanno perso, perché il Rally si sta svolgendo lo stesso, ma le scuole potranno avere una boccata d’ossigeno per funzionare meglio.
Di pessimo gusto la trovata di affiggere sabato mattina un manifesto col logo del Comune, citando per nome e cognome i consiglieri «che non hanno voluto il Rally» e quelli (loro) che l’hanno voluto. Un atto d’accusa gravissimo perché falso, consumato per di più usando lo stemma del comune, che bisoCorleone, "guerra" in consiglio comunale gnerebbe tirare fuori solo per comunicazioni istituzionali. Ma loro le istituzioni sono abituati solamente ad “occuparle” e a piegarle ai loro interessi.
Al manifesto della menzogna hanno replicato gli 11 undici consiglieri sott’accusa, con un altro manifesto dal titolo “Ecco la verità!”. Una “guerra” di manifesti, dunque, dati in pasto all’opinione pubblica.
23 settembre 2007

Corleone, prende il via oggi la 27° edizione del Rally "Conca d'Oro"

A Corleone si corre l’unica gara su terra di tutto il centro-sud. Sfida Subaru-Mitsubishi sulle prove sterrate del 27°Rally Conca d’Oro. De Dominicis, Vita e Mogavero con l’Impreza STI e Trentin, Falleri e Vintaloro con le Lancer Evo IX si contenderanno la vittoria. Nello Challenge 8a Zona testa a testata Bellini e Briguglio. La partenza da Corleone alle 8.31. Nove le Prove Speciali in programma

Corleone (Palermo), 22 settembre 2007 – E’ una sfida tutta giapponese quella che domani animerà gli sterrati intorno a Corleone in occasione della 27a edizione del Rally Conca d’Oro-Trofeo Franco Vintaloro, penultima prova, con il massimo coefficiente 1,5, dello Challenge Rally 8° Zona. Tra i quarantasette equipaggi verificati su 50 iscritti spiccano infatti le Subaru Impreza STI del teramano Alfredo De Dominicis (Ateneo), vincitore del rally nel 2005, del toscano. Gianluca Vita (Maverick), primo alla Targa Florio del 2001, e dei madoniti Mogavero-Arcidiacono (Island Motorsport) e le Mitsubishi Lancer Evo IX dei veneti Trentin-Zanella (Rubicone Corse), che domattina alle ore 8.31 apriranno le partenze in piazza Falcone e Borsellino, dei toscani Falleri-Farnocchia (Zero 4 più), secondi nel 2005, dei, corleonesi Franco Vintaloro junior (Gemme Sport), terzo quest’anno al Rally del Sosio, Di Lorenzo e Governali, del messinese Caranna e del ragusano Marchese.
Al via della manifestazione indetta dall’Automobile Club Palermo ed organizzata da Italia Grandi Eventi con l’indispensabile patrocinio del Comune di Corleone, ci saranno, ovviamente, anche tutti i protagonisti dello Challenge di Zona che si giocano la qualificazione alle tre finali della Coppa Italia 2007, una delle quali si svolgerà proprio sullo sterrato. Ci saranno i capofila messinesi Briguglio (Clio RS) e Bellini (Clio Williams) e gli altri protagonisti Trupiano, La Rosa, Cintolo, Mirabile, Leo, Alibrando, Beccaria, Leo e Siragusano. Tra gli outsider il locale Di Palermo (Opel Astra) e la Ford Fiesta STI di Matteo Di Sclafani.
Il percorso di gara, che sarà imperniato sulle classiche tre prove di “Rocche di Rao” di 8,3 km, “Ponte Arancio” (8,5 km) e “Pietralonga” (8,4 km), tutte da ripetersi tre volte, misura 194 chilometri, 75 dei quali costituiti dalle 9 prove speciali. Due i Parchi Assistenza, che saranno ospitati nella Zona Industriale di Corleone, ed altrettanti i Riordinamenti, tutti a Corleone. L’arrivo è fissato per le ore 17.00 sempre in piazza Falcone e Borsellino a Corleone.
La cartina del percorso, gli orari della gara e tutte le altre informazioni sono già in rete sul sito www.palermoaci.it.
Gianfranco Mavaro

venerdì 21 settembre 2007

Calabria, cadavere riesumato: potrebbe essere quello del giornalista Mauro De Mauro

Nuove rivelazioni sul giornalista de l'Ora di Palermo scomparso nel 1970. Sospetti degli investigatori sulla vera identità di un corpo sepolto nel Lametino. Aperta nel cimitero di Conflenti la tomba del pregiudicato Salvatore Belvedere. Il corpo venne ritrovato in avanzato stato di decomposizione e fu identificato dal figlio

CATANZARO - Potrebbe essere di Mauro De Mauro, il giornalista de l'Ora di Palermo scomparso nel 1970, il cadavere di una persona sepolta nel cimitero di Conflenti, nel Lametino. È l'ipotesi che la Dda di Catanzaro sta verificando sulla base della segnalazione di una fonte definita attendibile.Il cadavere, la cui sepoltura risale al 1971, fu identificato all'epoca per quello di Salvatore Belvedere, trovato in avanzato stato di decomposizione in una buca scavata in una zona di campagna. Il riconoscimento venne fatto da uno dei figli di Belvedere, che riconobbe nella cintura indossata dalla vittima quella del padre. La rivelazioni della fonte, la cui identità non è stata svelata dagli investigatori, hanno indotto il sostituto procuratore della Dda, Gerardo Dominijanni, a disporre la riesumazione del cadavere e l'effettuazione dell'esame del Dna. La riesumazione è avvenuta intorno alle 10 di questa mattina. Le operazioni si sono concluse intorno alle 12 con i resti mortali che sono stati rinchiusi in una cassa di zinco e trasportati per ulteriori accertamenti tecnico-scientifico presso l'Istituto di medicina legale dell'Università Magna Grecia di Catanzaro a disposizione della Dda competente e del medico legale che riceverà l'incarico tra il pomeriggio di oggi e la mattinata di domani. Dopodiché ci vorranno presumibilmente almeno 60 giorni prima che si possa risalire con esattezza all'identità dell'uomo."Non so nulla. Di questa storia nessuno ci ha mai comunicato ufficialmente nulla". Ha spiegato il sostituto procuratore Antonio Ingroia, pm nel processo per l'omicidio del giornalista Mauro De Mauro, commentando la notizia."A noi non è arrivata alcuna comunicazione dalla Procura di Catanzaro - ha spiegato il procuratore di Palermo, Francesco Messineo -. Abbiamo saputo della riesumazione di un cadavere ieri sera tramite l'avvocato di parte civile Crescimanno che ci ha informato. Stiamo intraprendendo necessari contatti per valutare se e quanto il fatto sia di rilievo nel processo di Palermo"."Ieri sera ho ricevuto una nota della famiglia De Mauro che m'informava di avere ricevuto un avviso di accertamenti tecnici da parte della procura di Catanzaro e mi avvertiva della riesumazione, prevista per il 22 settembre del cadavere di Salvatore Belvedere per prelevare materiale genetico e procedere al confronto con quello dei suoi familiari. Se non coincidesse, la stessa operazione sarà fatta con i familiari di De Mauro". Ha detto Francesco Crescimanno, legale di parte civile della famiglia del giornalista Mauro De Mauro. "Questo pomeriggio incontrerò - aggiunge - la figlia di De Mauro, Franca, e decideremo cosa fare".

Un enigma lungo 37 anni

PALERMO - C'è vento di scirocco a Palermo la sera del 16 settembre del 1970. Mauro De Mauro, giornalista di razza del quotidiano 'L'Ora' sta tornando dalla redazione a casa a bordo della sua Bmw nera, ma prima decide di fermarsi in un bar per comprare una bottiglia di vino rosso. Il suo preferito. Davanti alla sua abitazione, in via delle Magnolie, ci sono la figlia Franca con il fidanzato. La ragazza, che si deve sposare tra pochi giorni, lo vuole aspettare, ma si accorge che sull'auto ci sono degli uomini. Uno, prima di salire, sbatte lo sportello e dice con tono imperioso: "Amuninni" (andiamocene ndr). Da allora il nulla. Sono trascorsi esattamente 37 anni e di Mauro De Mauro non si hanno più notizie. Il mistero potrebbe essere svelato proprio adesso con il corpo che verrà riesumato sabato prossimo in Calabria, come disposto dalla Dda di Catanzaro per verificare se si tratta davvero cadavere del boss della 'ndrangheta Salvatore Belvedere, come c'è scritto sulla tomba, oppure di De Mauro. Un mistero fitto, fittissimo. Diversi collaboratori di giustizia hanno affermato che è stato un omicidio di Cosa nostra, qualcun altro parla invece di piste diverse. Ci sono voluti 36 anni per l'apertura del processo per l'omicidio del giornalista. Alla sbarra c'è un solo imputato: il boss mafioso Salvatore Riina, considerato dall'accusa uno dei mandanti dell'assassinio di De Mauro. Insieme con il triumvirato che allora reggeva Cosa nostra a Palermo: Tano Badalamenti e Stefano Bontade, ma questi ultimi sono morti da tempo. Così l'unico imputato resta il boss Riina. L'unico collaboratore di giustizia a raccontare con dovizie di particolari la morte di Mauro De Mauro è Francesco Marino Mannoia. "De Mauro - aveva detto in aula - è stato ucciso dalla mafia dopo essere stato 'interrogatò sulla natura delle notizie che aveva scoperto. Il corpo venne seppellito sul greto del fiume Oreto", il corso d'acqua che attraversa il territorio dov'è sorta la circonvallazione di Palermo. "ll corpo - aveva aggiunto - fu spostato, insieme con altri cadaveri seppelliti nelle vicinanze, perchè Cosa nostra temeva che potessero essere trovati nel corso dei lavori che di lì a poco sarebbero iniziati. Tutti furono sciolti nell'acido, ecco perchè non è stato mai trovato nulla". Mannoia aveva indicato anche il posto dove la mafia aveva improvvisato un cimitero clandestino: "Sotto la Circonvallazione, nei pressi del bar Baby Luna". E la riesumazione sarebbe stata seguita dallo stesso pentito, allora luogotenente del boss Stefano Bontade. Ad uccidere De Mauro, soffocandolo, sarebbero stati in tre: Mimmo Teresi, Emanuele D'Agostino e Stefano Giaconia, tutti 'picciottì del mandamento di Santa Maria di Gesù, a Palermo. Tutti uccisi nella guerra di mafia degli anni Ottanta. L'inchiesta sulla morte di De Mauro è rimasta un mistero fitto fino al 1992, quando dopo le stragi di mafia alcuni pentiti di mafia iniziarono a parlare della morte di De Mauro. Il primo era stato Gaspare Mutolo, pentito storico, che fece i nomi di Stefano Giaconia ed Emanuele D'Agostino. In seguito, ne parlò anche Tommaso Buscetta, altro collaboratore storico, ma anche Antonino Calderone, Francesco Marino Mannoia e Gaetano Grado. E poi Francesco Di Carlo. Sempre secondo i racconti dei pentiti di mafia, la sera del 16 settembre De Mauro sarebbe stato trascinato in un casolare per essere "interrogato" per tirargli fuori quello che sapeva su una notizia che avrebbe voluto scrivere da lì a poco. Poi lo avrebbero ucciso, strangolato. Ma non c'è solo la pista mafiosa. De Mauro, prima di morire, aveva appreso dalle sue fonti che il principe Junio Valerio Borghese stava preparando un golpe e che Cosa nostra complottava con i generali. Adesso, a distanza di 37 anni dalla sua sparizione, il mistero è ancora fitto.

In un libro di Badolati il mistero dello scambio

Il libro del giornalista Arcangelo Badolati. È un intero capitolo quello che Arcangelo Badolati dedica nel suo libro al mistero dei resti su cui oggi si è aperta una nuovo scenario. Badolati scrive che in una sala riservata della Questura di Catanzaro, nell'agosto del 1971, si legge del ritrovamento e del riconoscimento di resti umani, identificati come appartenenti ad un pregiudicato di Sambiase (oggi Lamezia Terme) di cui gli investigatori indicano nome e cognome: Salvatore Belvedere, nato il 18 gennaio del 1914. Il corpo dell'uomo fu ritrovato in una buca scavata sulle montagne di Conflenti (Catanzaro).Il latitante Belvedere e i dubbi dell Questura di Catanzaro. L'anno prima del rinvenimento, esattamente la notte tra il 2 e il 3 giugno del 1970, Belvedere, all'epoca cinquantaseienne, era evaso dal carcere di Lamezia insieme con tre pregiudicati: Michele Montalto, 23 anni, di Siderno; Carmelo Filleti, 28, di Sinopoli, e Giuseppe Scriva, di 24, di Rosarno. Un componente del quartetto aveva finto, in piena notte, un attacco di cuore in cella determinando l'immediato intervento di una guardia e dell'appuntato responsabile del braccio carcerario. I due poliziotti penitenziari erano stati subito presi prigionieri, legati e imbavagliati. Scriva, Filleti, Montalto e Belvedere avevano aperto, usando le chiavi delle guardie, i cancelli e, dopo aver scavalcato il muro di cinta interno, si erano avventurati sul tetto della vicina chiesa di San Francesco da dove, usando delle lenzuola annodate, si erano poi calati nel cortile della canonica guadagnando così la libertà.Il cadavere ritrovato, l'anno successivo, sfigurato e ormai quasi scheletrito tra i boschi di Conflenti, venne riconosciuto - prosegue il giornalista calabrese nel suo libro - da Federico Belvedere, figlio di Salvatore. L'evaso fu identificato perchè aveva un alluce sovrapposto alle altre dita del piede destro. Il 7 aprile del 1978, però, la Procura generale catanzarese inviò alle Questure di tutta Italia una comunicazione che avanzava dubbi sull'affidabilità di quella identificazione, accompagnata da una foto segnaletica del ricercato. E ripartì così la caccia a Belvedere, ufficialmente morto ma, di fatto, ancora latitante. L'uomo, comunicarono i giudici, "deve scontare una condanna definitiva per sequestro di persona".Le rivelazioni del boss Antonio De Sensi. Ancora qualche anno ed ecco - scrive Badolati - la bomba. Un boss della 'ndrangheta, probabilmente Antonio De Sensi, poi ucciso a Lamezia Terme nel 1984, rivelò ad un investigatore che il corpo ritrovato a Conflenti, contrariamente a quanto risultava dagli atti, non era quello dello 'ndranghetista lametino ma, invece, quello del giornalista palermitano Mauro De Mauro. La sostituzione del cadavere - secondo il confidente - aveva avuto una doppia finalità: da una parte era stata sfruttata dal fuggiasco per confondere le acque e rifugiarsi tranquillamente all'estero, dall'altra aveva risolto il problema della definitiva sparizione del corpo di De Mauro. Una doppia operazione decisa dai vertici di 'ndrangheta e Cosa nostra. Una tesi tutt'altro che campata in aria se è vero che nel 1995 è stata addirittura accreditata dalla Squadra mobile di Catanzaro, con una nota ufficiale inviata alla magistratura.

La Sicilia, 20/09/2007

La Bibbia del boss Bernardo Provenzano, un «codice» per i mafiosi

PALERMO — Il mistero religioso di Bernardo Provenzano è tutt'altro che sciolto. Resta intatto l'enigma composto e alimentato da frasi, sottolineature e bigliettini raccolti nell'ormai famosa Bibbia sequestrata nel covo di Montagna dei Cavalli, dove il padrino di Corleone fu arrestato l'11 aprile 2006. E' un testo delle edizioni Paoline, anno di stampa 1968, 1.425 pagine compresa l'introduzione. Su quei fogli ingialliti, che per la prima volta si possono vedere, il capomafia pluriergastolano ha studiato, ragionato, scritto con la sua calligrafia malferma e ortografia infantile, preso appunti, copiato interi brani. A quale scopo? Mistero insoluto. Due relazioni «investigative» del Servizio centrale operativo della polizia e dell'Fbi statunitense hanno concluso che non c'erano indicazioni su codici cifrati. Ma ora sulle scrivanie dei pubblici ministeri Pignatone, Prestipino e Sabella è arrivata l'analisi di un sacerdote, teologo, studioso di testi sacri, secondo il quale c'è ancora molto da scavare nei segreti del volume così a lungo «lavorato» da Provenzano. E che «esclude un utilizzo unicamente personale» del libro: «Le segnature, in genere a matita, analogie, correlazioni, rimandi, cancellature pure leggibili, rendono evidente la volontà di trasmettere messaggi», ha comunicato il religioso al termine delle sue «osservazioni preliminari » sulla Bibbia del Corleonese. Secondo questa analisi, il boss «ha voluto conferire a segni e segnature una precisa connotazione: ciò indica un lungo e affinato lavoro e messa a punto di un sistema». E avanza un'ipotesi: «Che il soggetto (cioè Provenzano, ndr) utilizzasse tale strumento attraverso il linguaggio biblico-simbolico. Tale modalità comunicativa si rivolgerebbe però ad affiliati privilegiati all'interno di un gruppo ristretto e selettivo». Non sembra sbagliato insomma, per il sacerdote nominato ausiliario di polizia giudiziaria, «ritenere che il soggetto abbia semplicemente adottato il linguaggio biblicosimbolico formando un suo codice personalizzato, senza riferimenti a complicati codici preesistenti». Lo studio della Bibbia da parte di Provenzano sarebbe quindi stato necessario al Padrino per imbastire messaggi o comunicazioni attraverso i riferimenti a specifici brani del testo. Una modalità che sembra perfino esplicitata in un biglietto dattiloscritto trovato all'interno del libro che il boss aveva con sé, e che ha chiesto di poter tenere dopo l'arresto. Richiesta negata. «In qualsiasi posto o parte del mondo mi trovo — si legge in quella sorta di "pizzino" — in qualsiasi Ora io abbia a comunicare con T... Sia parole, Opinione, fatti scritti. Chiedere a Dio il sugerimento, la sua guida, la sua esistenza affinche con il suo volere Possano giungere Ordine per lui eseguirlo affin di Bene». Una specie di promemoria — secondo l'ipotesi della relazione — per stabilire (e comunicare) che dovunque (anche nella cella di un carcere) si può ricorrere a risposte desunte dalla Sacra Scrittura, che diventa «lo strumento più immediato ed inequivocabile per suggerimenti, guida e assistenza». La Bibbia di Montagna dei Cavalli risulta sottolineata in vario modo— a volte con linee unite, altre con piccoli tratti sotto ogni parola — per il 90 per cento del testo. Quasi tutta. Ma solo in alcune parti compaiono dei frammenti di post-it gialli, ritagliati con cura, divisi a scacchi e arricchiti da frecce colorate. Altre frecce, quasi sempre a gruppi di tre, sono disegnate in rosso su alcune pagine. E di tanto in tanto ci sono annotazioni scritte a matita dal Padrino, a indicare la sintesi di un pensiero, o perfino un destinatario. Come si capisce da un biglietto trovato a pagina 502, con l'annotazione «Esdra, pg 503 Per mio figlio Angelo»; le ultime due parole sono cancellate ma ugualmente leggibili. A pagine 503, tra tante parole del libro di Esdra sottolineato o evidenziate con un adesivo azzurro, la frase di apertura recita: «anzi, i capi e i magistrati sono stati i primi a compiere questa trasgressione». Un altro brano indicato con le freccette parla più direttamente di «figli e figlie», e l'indicazione di «Angelo» compare anche in cima a un passaggio del libro di Tobia. Su una pagina delle profezie di Isaia, invece, in cima alla pagina 862, l'annotazione di Provenzano dice: «47 v 13 ogni mese»; sottolineato, nel testo, il versetto 13 del capitolo 47 nella parte: «Si levino ora a salvarti quelli che misurano il cielo, che osservano le stelle e ti fanno sapere ogni mese quello che accadrà». Le ultime parole sono cerchiate una dopo l'altra, come se la cosa più importante del brano fosse il riferimento alla scadenza mensile, che potrebbe avere un senso preciso all'interno di una comunicazione. E il versetto 7 del capitolo 24 del Deuteronomio è evidenziato sia dalle sottolineature che dai post-it con le freccette. Si citano rapiti trattati da schiavi e rapitori che devono morire; sopra, Provenzano ha scritto «E Guiseppe», probabile errore ortografico per «Giuseppe». Può essere una mera suggestione, ma il figlio del pentito di mafia Santino Di Matteo, rapito e assassinato a 14 anni da futuri pentiti che hanno avuto forti sconti di pena, si chiamava Giuseppe. Si riferiva a quella vicenda, il capomafia? Alcune frasi scritte a mano dal boss di Corleone ora rinchiuso nel carcere di Novara sembrano commenti personalizzati. Oppure giudizi riportati da altri, come si legge nel biglietto applicato alla fine del libro di Giobbe: « TT. a detto a M. che nella Bibbia c'è scritto prostituirsi none Peccato ». E in testa al capitolo 59 del libro di Isaia, intitolato «I peccati ostacolano la salvezza », Provenzano ha annotato: «Copiare fino al v. 8»; si parla di «mani imbrattate di sangue» e di «dita macchiate d'iniquità», situazioni che ricorrevano spesso nell'ambiente in cui il boss ha vissuto e comandato fino all'aprile del 2006. Chissà se quelle frasi erano destinate a qualche uomo d'onore. Magari uno di quelli che gli scrivevano i «pizzini» in cui chiedevano lumi o davano spiegazioni su estorsioni e omicidi. Come fece il latitante Salvatore Lo Piccolo, che scriveva al religiosissimo Padrino per dargli conto dei motivi per i quali aveva dovuto ammazzare una persona, probabilmente Giovanni Bonanno, mafioso di Resuttana, vittima di «lupara bianca» appena tre mesi prima dell'arresto di Provenzano. Il boss di Corleone inviava e riceveva messaggi come questi, che trattavano di ricatti e di morte, mentre della Bibbia sottolineava quasi ogni pagina. Anche l'introduzione dove si spiega che i testi sacri sono «utili per insegnare, per convincere, per correggere, per educare alla giustizia, affinché l'uomo sia perfetto».
Giovanni Bianconi
Il Corriere della Sera, 20 settembre 2007

Un monumento a Garibaldi nella fredda Russia

dall’inviato Giò Barbera

Adesso si chiama Albatros, un raffinato ristorante che si affaccia sul mare.
Si mangia buon pesce e si beve vino anche italiano. Nel 1830 qui a Taganrog a 80 chilometri da Rostov, nel Caucaso, c’era un’osteria quella frequentata da Giuseppe Garibaldi. Arrivato a bordo del suo “Clorinda” incontrò i mazziniani per realizzare il suo sogno: unire l’Italia. A soli venti metri di distanza sfoggia ora la nuova stele dedicata all’Eroe dei due Mondi appena inaugurata dalla pronipote Annita Garibaldi (qui sopra), membro della commissione del bicentenario garibaldino arrivata sin qui per scoprire le origini del Garibaldi ”russo”. Qui, nella città che diventò famosa per aver dato i natali all’illustre scrittore Anton Pavlovic Chechov e che nel 2010 sarà ricordato con una grande festa, c’è spazio anche per la figura storica di Giuseppe Garibaldi. L’inaugurazione del monumento è stata accompagnata da una festosa partecipazione di alunni delle scuole locali.
Un evento reso possibile grazie a Natalia Chigridova, presidente dell’Associazione Dante Alighieri di Rostov, quindi dal ministero dei beni culturali e dell’ambiente in Italia. ”Garibaldi - ha spiegato Natalia Chigridova - vivrà per sempre nei ricordi della gente di Taganrog e di Rostov. Un personaggio molto conosciuto per aver arricchito il patrimonio storico e culturale anche del nostro paese. Ed è per questo motivo che siamo onorati e orgogliosi di aver dedicato a questo eroe un monumento in una delle zone più belle della città direttamente sul mare”.

Taganrog, fondata da Pietro I il Grande, è un porto sul Mare d’Azov, distante circa 50 chilometri dal capoluogo (Rostov) e con quasi 200.000 di abitanti. Taganrog oggi può essere considerata una delle città più ”italiane” in Russia. Gia nel 1247 negozianti genovesi esportavano dal porto di Tana (futuro Taganrog) grano saraceno, frumento, pesce salato, caviale. Nel Quattrocento, negozianti veneziani portavano dalla regione del Don frumento, pane, pesce dell’acqua dolce, cera. Il primo negoziante straniero che ha ricevuto diritto di commerciare a Taganrog fu un italiano di origine serba Savva di Ragusa, beniamino di Pietro il Grande. Nell’Ottocento attraverso i porti di Rostov, Taganrog ed Azov venivano esportati grandissimi volumi di grano nei paesi del Mediterraneo, specialmente in Italia. Una varietà di grano duro era particolarmente richiesta dagli importatori italiani ed e’ diventata cosi’ piu’ conosciuta sul mercato mondiale dei cereali.

Dato che veniva esportata principalmente dal porto di Taganrog gli italiani l’hanno chiamata ”Taganrog”. Si pensa che addirittura il grano ”Taganrog” venisse usato per la produzione delle paste dell’azienda ”Barilla”. Oggi in Italia esiste un antico vitigno, usato per fare un ottimo vino, che si chiama ”Taganrog” appunto perchè è stato portato da questa città nell’Ottocento. All’inizio del Novecento a Taganrog vivevano moltissimi italiani tanto è vero che vi era il Consolato d’Italia. Nel periodo sovietico, una via a Taganrog ha ottenuto il nome Italianskaja e un’altra il nome di Garibaldi.
A distanza di 170 anni gli italiani sono tornati a Taganrog, una bellissima cittadina sul mare dove ha ancora si possono notare sui muri delle piccole casette variopinte che tanto assomigliano alla vecchia Nizza le indicazioni stradali nella nostra lingua. Ora c’e’ la volontà da parte dell’ambasciata italiana, attraverso il dottor Giovanni Perrino, capo del dipartimento dell’educazione di lanciare un progetto: ”Coltivare tra i giovani la passione per la storia di Giuseppe che qui aveva trascorso la sua giovinezza sognando già un’Italia unita e senza oppressori. Non parlo solo di interscambi culturali tra i popoli, ma anche di rapporti ancora più proficui dal punto di vista economico.

L’Ambasciata Italiana ha aperto una porta e sta sviluppando alcune idee che potranno essere realizzate anche con l’importante collaborazione delle associazioni e enti come la Dante Alighieri o l’Istituto di cultura italiana di Mosca, e soprattutto con l’impegno delle amministrazioni locali di Rostov sul Don e di Taganrog”. Qualcosa si sta già muovendo. Non a caso alle celebrazioni per Garibaldi in questa città a 14 ore di treno da Mosca ha partecipato anche il dottor Giovanni Forelli, direttore di Italia in Russia, marchio di una società di consulenza globale alle imprese. “Ci sono già i primi contatti, le prime volontà da parte di alcune piccole e medie imprese italiane di sviluppare qui la propria attività e di altrettante aziende russe che vorrebbero avviare un’attività nel nostro Paese.
L’appoggio dell’Ambasciata e degli enti locali russi (come è già stato confermato dal presidente del consiglio comunale di Taganrog) è questo indispensabile. Noi abbiamo già aperto un sito internet http://www.italiainrussia.it/ e http://www.italiainrussia.com/ dove è già possibile avviare contatti e un monitoraggio direttamente sul territorio delle regioni caucasiche”. Tra le produzioni collegate all’Italia nella regione di Rostov si possono citare il grande stabilimento ceramico ”Strojfarfor” (Shakhtinskaja Plitka) e la fabbrica tessile ”Gloria Jeans” attrezzati con linee di produzione italiane, nonchè grandissimi esportatori di metalli ferrosi e di semi di girasoli, fabbriche e importatori delle industrie leggere e alimentari.

mercoledì 19 settembre 2007

Mafia: arrestato Pino Lipari, "consigliori" del boss mafioso Bernardo Provenzano

La polizia di Stato ha arrestato il boss mafioso Giuseppe Lipari, 72 anni, geometra, "consigliori" del capomafia Bernardo Provenzano e amministratore dei beni dei corleonesi. In passato, il pregiudicato era stato condannato a 11 anni e due mesi di reclusione per mafia.
Lipari, dopo aver scontato la pena, era tornato da più di un anno in libertà. Adesso è stato raggiunto da un nuovo ordine di custodia cautelare in carcere emesso dal Gip su richiesta del Procuratore aggiunto Giuseppe Pignatone e dei sostituti Marzia Sabella e Michele Prestipino. È accusato di associazione mafiosa.
Questa nuova indagine condotta dalla Squadra mobile di Palermo è scaturita subito dopo l'arresto di Provenzano. Gli investigatori hanno disvelato un articolato intreccio di interessi dell'organizzazione mafiosa nel settore dei lavori pubblici e degli appalti.
Il giudice ha inoltre ordinato il sequestro di beni, considerati di provenienza illecita, per un valore di tre milioni di euro. Giuseppe Lipari è considerato l'economo e il consigliori di Bernardo Provenzano. In passato è stato anche uno dei più fedeli favoreggiatori di Totò Riina.
Per i corleonesi, il geometra Lipari è stato un «consulente» che si occupava di pilotare gli appalti pubblici in modo da affidarli a imprese vicine ai boss. Dalle inchieste emerge che Lipari avrebbe fatto da cerniera fra alcuni politici e Riina prima, e poi Provenzano.
Lipari, ben inserito nei salotti di Palermo, ha svolto pure il ruolo di prestanome per conto di Provenzano e per questo motivo in passato gli sono stati sequestrati beni per un valore di decine di milioni di euro che sarebbero riconducibili al vecchio padrino corleonese.
Il "consigliori" di Provenzano, inoltre, alla fine del 2002 dichiarò di volersi pentire, avviando una stentata collaborazione con la giustizia, che i magistrati però scoprirono subito si trattava di una messa in scena.
I giudici della Corte d'appello che lo hanno condannato l'ultima volta nel giugno 2005, ha escluso per Lipari il comma 2 dell'articolo 416 bis, e cioè l' accusa di avere ricoperto un ruolo di vertice nell'ambito di Cosa nostra.
L'inchiesta della procura, diretta all'epoca da Piero Grasso, portò all'arresto non solo di Giuseppe Lipari ma anche di una buona parte del suo nucleo familiare: i figli, Arturo e Cinzia Lipari, entrambi condannati e il marito di quest'ultima, Giuseppe Lampiasi, anche lui condannato.
Secondo l'accusa, la famiglia Lipari, tramite la rete di fedelissimi «postini», avrebbe amministrato i beni dei corleonesi.
Il geometra Pino Lipari, arrestato stamani dalla polizia di Stato per associazione mafiosa, appena uscito dal carcere si era messo in movimento per vendere una delle proprietà riconducibili a Bernardo Provenzano.
Secondo l'accusa, il consigliori del padrino, tornato in libertà il 13 aprile 2006, due giorni dopo che era stato arrestato Provenzano, stava cercando di far avere al boss corleonese la somma di denaro che avrebbe ottenuto dalla cessione di un grande appezzamento di terreno nelle campagne di Carini (Palermo), del valore di tre milioni di euro.
Il bene (sequestrato stamani dagli agenti della Squadra mobile di Palermo su richiesta della Direzione distrettuale antimafia), attraverso prestanomi era riconducibile proprio a Provenzano.
Lipari, infatti, dopo aver concluso la vendita, aveva intenzione di far arrivare i soldi al vecchio padrino. Si sarebbe trattato infatti di un «acconto» liquido derivante dalla vendita di una fetta del tesoro di Provenzano, disseminato in varie parti della Sicilia e del Paese, e che risulta intestato a prestanomi.
Nell'ambito dell'inchiesta che stamani ha portato all'arresto del geometra Giuseppe Lipari, con l'accusa di associazione mafiosa, per avere avviato la vendita di beni del valore di tre milioni di euro che sarebbero in realta di proprietà di Bernardo Provenzano, la procura ha indagato anche una dirigente della Regione.
Si tratta dell'avvocato Maria Concetta Caldara, che in passato è stata anche consigliere giuridico del ministro per gli Affari Regionali, Enrico La Loggia. La notizia emerge dagli atti dell'inchiesta.
Caldara risulta essere socia di Giuseppe Lipari nell'appezzamento di terreno che il consigliori di Provenzano stava tentando di vendere per incassare così una fetta del tesoro del padrino corleonese. L'indagata nei mesi scorsi era stata già interrogata dagli inquirenti.
Il presidente della Commissione Parlamentare Antimafia, Francesco Forgione, si è congratulato con la Dda di Palermo e la Polizia di Stato per l'operazione che ha portato al nuovo arresto di Pino Lipari, indicato come il consigliori di Bernardo Provenzano.
«L'operazione di oggi - osserva Forgione - conferma che chi è inserito nell'organizzazione di Cosa Nostra non smette mai di farne parte. È anche la conferma della grande pericolosità dei beni e dei patrimoni che la mafia cerca di ripulire costantemente».
«Per questo - aggiunge - è importante non solo aver scoperto i tentativi di Provenzano di mantenere il controllo dei propri beni attraverso Lipari, ma anche che si sia proceduto immediatamente al sequestro degli stessi. Bisogna riconoscere agli investigatori ed alla magistratura il grande merito di non aver abbassato assolutamente la guardia dopo la cattura di Provenzano e di aver continuato a monitorare con attenzione tutto ciò che intorno a lui ed alla sua latitanza si è mosso in questi anni». Per il presidente della commissione antimafia, infine, «il coinvolgimento nell'inchiesta di persone con collegamenti politico-istituzionali conferma il sistema di relazioni di cui gode il potere mafioso».
L’UNITA’, 19.09.07
NELLA FOTO: Pino Lipari

«Il dolce e l´amaro», uno sguardo dentro Cosa Nostra

di Vincenzo Vasile

Alla fine di un'estate spesa a disquisire a vuoto della pericolosità dei lavavetri, meriterebbe assai maggiore attenzione e rispetto (da parte della critica, mentre il pubblico ha già dato una buona risposta al botteghino) Il dolce e l'amaro, film di Andrea Porporati presentato alla Mostra di Venezia. È la storia di un piccolo gregario palermitano di Cosa Nostra, interpretato da Luigi Lo Cascio. È la vicenda di un ragazzino cresciuto per le strade del quartiere palermitano della Kalsa, che ha a disposizione uno smilzo repertorio di valori e di modelli, e si lascia affascinare dal mito mafioso. Si tratta delle stesse strade e delle stesse piazze dove nacquero e vissero la loro infanzia Falcone e Borsellino: e il ragazzino futuro killer protagonista di questo film vi incrocia un Fabrizio Gifuni destinato alla toga e a una simile vita (e morte) parallela.Sono gli anni Settanta e seguenti, e nell'arco di un trentennio viene raccontata la vita quotidiana di un mafioso. Si narra del come e del perché si entri in quel tipo di vita, e del come e del perché se ne possa uscire. Il fatto è che Masino-Lo Cascio un giorno «si pente», cioè inizia a «collaborare» con la giustizia, personificata proprio nel magistrato suo coetaneo interpretato da Gifuni. E ciò avviene per la spinta decisiva di una ragazza - il ruolo è di Donatella Finocchiaro, che cinque anni fa aveva esordito in un intenso ruolo analogo con Angela di Roberta Torre -, e qui pur di non condividere il destino del killer che intanto è arrivato all'apice della sua carriera criminale, ha abbandonato la città: non vuole avere più niente a che fare con un delinquente.È proprio l'incrinatura di questo rapporto sentimentale a spingere il protagonista «Saro» al «pentimento». Questo film ha una sua cruda sobrietà, ricalca episodi di cronaca dimenticati: spiazzati dagli stereotipi correnti, alcuni critici hanno considerato alla stregua di pennellate di colore quel boss detenuto, Renato Carpinteri, che si attribuisce con tanto di firma i quadri di alcuni gregari carcerati (lo faceva abitualmente Luciano Liggio con i pittori-detenuti Gaspare Mutolo e Alessandro Bronzino). E hanno ingiustamente stroncato come fantasioso e iperbuonista un percorso che, al contrario, è stato spesso praticato da «pentiti» piccoli e grandi della mafia siciliana: Nino Calderone fu letteralmente convinto dalla moglie e dalla figlia a collaborare con Falcone; Marino Mannoia fu sospinto dall'amante; Giuseppe La Barbera venne accompagnato dalla fidanzata a colloquio con l'attuale capo della polizia, Manganelli.Ci sono, insomma, nella storia della mafia, proprio come si racconta ne Il dolce e l'amaro, anche le vicende esemplari dei «pentiti per amore». O meglio, in diversi casi i mafiosi si pentirono, oltre che per convenienza, non avendo più nulla da perdere, anche «per amore». Quasi tutti sono episodi accaduti negli anni Settanta e Ottanta (durante i quali è ambientato il film). Come a volerci ricordare - controcorrente rispetto alle campagne politico-mediatiche che hanno svilito il contributo dei pentiti - che il pentitismo mafioso cominciò ancor prima della legislazione premiale, e spesso si verificò per la coincidenza di una ricorrente crisi di valori e di sentimenti (tra i pentiti «per amore») con le crisi interne all'organizzazione militare di Cosa Nostra.Ci sono in questo film padri mafiosi che mandano i figli a uccidere in trasferta, come si fa normalmente per la prima gita fuori porta; e figli mafiosi che favoriranno l'omicidio del padre; i delitti che compiono, tra loro questi ragazzi li chiamano «ammazzatine»; e il primo attentato per conto del racket del «pizzo» assomiglia a un semplice atto di bullismo contro un omosessuale, e viene festeggiato con un bagno, tutti nudi, a Mondello con le turiste scandinave. Scandalizzati dal montaggio in sequenza delle scene d'amore dei due protagonisti con la crudele esecuzione di due «scippatori» bambini, i critici si sono mostrati tanto avari di stellette per questo film di pregio, semplicemente perché non hanno capito tutto il mistero di un secolare stillicidio di crudeltà e umanità; tutta la banalità del male di una quotidiana industria della violenza, che - a differenza dei modelli più propagandati della camorra napoletana - in Cosa Nostra «programma» delitti e affari, governa e «punisce» la piccola criminalità, alterna stragi e trattative, stempera le urla di dolore nella mesta risata - «incomprensibile», come hanno scritto alcuni nostri colleghi da Venezia - di protagonisti un poco feroci, un poco umani, un poco assassini, un poco pentiti, un poco dolci e un poco amari.
L’UNITA’, 19.09.07
NELLA FOTO: Una veduta di Palermo

Palermo, uno stadio per Vito Schifani, eroe della scorta di Falcone

L'impianto di atletica di Palermo avrà il nome di uno degli agenti morti a Capaci. La moglie commosse l'Italia ai funerali. L'iter per l'intitolazione è stato lungo e complesso. Poliziotto, ma anche atleta: era uno dei più forti in Italia sui 400 metri

di PASQUALE NOTARGIACOMO

PALERMO - Il 23 maggio del 1992 Vito Schifani avrebbe dovuto correre i campionati regionali di atletica leggera. Smessi i panni di agente della scorta di Giovanni Falcone, avrebbe indossato gli scarpini chiodati e la canottiera della sua società per correre i 400 metri piani, la specialità che tanto amava. Quel giorno, andò diversamente: allo svincolo di Capaci, Vito Schifani saltò in aria per mano della mafia insieme al giudice che proteggeva, a sua moglie Francesca Morvillo, e ad altri due agenti della scorta, Rocco di Cillo e Antonio Montinaro. Due giorni dopo, ai funerali nella chiesa di San Domenico, la vedova dell'agente, Rosaria Costa, rivolta agli uomini della Mafia, commosse l'Italia con un appello tanto straziante quanto disatteso: "Io vi perdono, però vi dovete mettere in ginocchio, se avete il coraggio di cambiare...ma non cambiano". Il grido di dolore di un Paese ferito. Quindici anni dopo, l'ondata emotiva dello stragismo mafioso è ormai sopita. Anniversari istituzionali, tenacia investigativa degli inquirenti e dolore dei parenti e amici sono spesso i soli a "celebrare" il ricordo delle vittime. Qualcos'altro però resta, e colora di tensione morale, anche luoghi e contesti lontani dalle aule giudiziarie e dai monumenti funebri. È notizia di oggi: lo stadio delle Palme, storico tempio dell'atletica palermitana, avrà il nome di Vito Schifani. Vittima della mafia, ma anche atleta.
Si tratta dello stadio in cui si sono allenati campioni storici come Salvatore Antibo, e per restare ai giorni nostri Anna Incerti. A due passi dal parco della Favorita, sotto Monte Pellegrino. Impianto per agonisti ma anche per centinaia di appassionati, ristrutturato a tempo di record e pronto per i campionati italiani di atletica leggera del 29 e 30 settembre. Evento storico per l'isola: per la prima volta si assegna lo "scudetto" dell'atletica a Palermo. Ma qualcosa di storico, c'è anche in questa intitolazione. Un'iniziativa tanto lodevole, a lungo sostenuta da Repubblica. Ma spesso rallentata, ostacolata e per diverso tempo dimenticata. L'idea originale risale a diversi anni fa, subito dopo la strage. Ma dopo il memorial Schifani del 1993, è stato per lungo tempo tutto fermo. Gli amici di Vito, l'hanno perseguita con inusuale tenacia, scontrandosi con prevedibili lungaggini burocratiche e con i silenzi delle istituzioni. Ci sono volute tre amministrazioni comunali, prima di arrivare al nulla osta. L'ultima, quella riconfermata del sindaco Cammarata, ha dato primo parere positivo il 13 agosto, prima della delibera definitiva del 18 settembre. Una gioia a questo punto quasi inaspettata, ma fortemente voluta da quanti soprattutto in Fidal, hanno sempre portato avanti questa causa. Lontano da politici, con "la terzietà dello sport" e soprattutto come sottolinea il consigliere nazionale Bartolo Vultaggio "per unire e non per dividere". La cerimonia ufficiale avverrà in concomitanza con i campionati nazionali, previsti tra dieci giorni, per i quali lo stadio delle Palme è stato rimesso a nuovo in 4 mesi, con una spesa di 1,3 milioni di euro. Una nuova pista, un nuovo anello esterno e nuove attrezzature per l'unico impianto palermitano di atletica leggera. Sono emozionati gli amici di Vito Schifani. Ce lo racconta Bartolo Vultaggio, che lo ha conosciuto bene: "Un ragazzo spensierato, con la leggerezza dei suoi 27 anni, ma anche il senso del dovere di chi ha sacrificato la vita per lo Stato, con un figlio di quattro mesi". Amava lo sport, l'atletica prima di tutto, ma anche il paracadutismo. "Molti si sono accostati all'atletica, soprattutto nei quartieri più degradati di Palermo - racconta Vultaggio - e poi hanno scelto un percorso in polizia, grazie ai gruppi sportivi, tanti che non avrebbero voluto vederlo neanche da lontano "uno sbirro". Non è il caso di Vito Schifani, ma di tanti altri ragazzi palermitani. "Certo - continua il consigliere Fidal - per amore della verità bisogna dire che il percorso non è stato facile". Pesano e non poco i pregiudizi storici-culturali che ancora resistono sulla figura degli agenti, sempre più "sbirri" che eroi. È molto contenta anche la vedova Schifani, Rosaria Costa. Felice per tanta tenacia. Lei adesso ha una nuova vita, lontano dalla Sicilia. Ma un pensiero speciale, per tutti quei ragazzi che correranno come il suo Vito, lo avrà.

(L'Unità, 19 settembre 2007)
FOTO: Lo stadio delle Palme di Palermo

martedì 18 settembre 2007

Corleone, adesso è "emergenza legalità"

Adesso a Corleone è davvero “emergenza legalità”. Infatti, al “clientelismo trasparente” praticato dal vice-sindaco di Corleone, Pio Siragusa (Udc) nella gestione del progetto “Nelle piazze dell’indipendenza con il camper dell’indipendenza”, affidato al Centro Studi “Aurora” di Bagheria, adesso si aggiunge quello “opaco” (anzi, nero come la pece) nella gestione del progetto “Crescere giocando”. Anche questo è un progetto del Distretto Socio-Sanitario D40, di cui Corleone è comune capofila, affidato stavolta alla coop sociale “Nuova Generazione” di Trabia. Questa coop aveva pubblicato un bando, affisso all’albo per soli 6 giorni, con cui indiceva una selezione per 25 operatori, informandone però solo “gli amici”. Le proteste della Camera del lavoro di Corleone avevano portato ad una proroga dei tempi per la presentazione delle domande, ma la selezione è avvenuta senza nessun criterio prefissato, con metodi assolutamente discrezionali. Non a caso già fioccano le proteste e le denuncie da parte di candidati, che si ritengono esclusi ingiustamente. Una addirittura ci ha scritto, sottolineando che nel bando si parlava di un’unica selezione per n. 25 operatori, mentre poi sono state redatte sette graduatorie, una per ciascuno dei sette comuni del distretto. «Con l’incredibile risultato – denuncia – che in qualche graduatoria un candidato con 16 punti non viene utilmente selezionato, mentre in altre graduatorie vengono utilmente selezionati candidati con 15 o 14 punti…».
La Cgil di Corleone, a cui si sono rivolti alcuni dei candidati, ha chiesto alla coop “Nuova Generazione” l’accesso agli atti, ai sensi della legge sulla trasparenza, ma si è sentito rispondere: non possiamo, ce lo vieta la legge sulla privacy! E poi, non siamo un ente pubblico!
Una “bella” risposta, che lascia trasparire tutto l’imbarazzo dei vertici della coop, che forse non sospettavano che sul loro operato si sarebbero accesi i riflettori. Gestiscono un progetto finanziato interamente con fondi pubblici, ma pretendono di comportarsi da “padroni delle ferriere”! «Abbiamo obiettato – sostengono alla Cgil – che invocare la privacy appare specioso, perché significa calpestare la legge sulla trasparenza, che da diritto agli interessati ad una selezione (o ai loro rappresentanti) di conoscere le procedure utilizzate dall’ente gestore». «Nuova Generazione non è un ente pubblico, ma gestisce un servizio pubblico, per cui ha l’obbligo di adottare procedure da evidenza pubblica. E poi, se non ha nulla da nascondere, perché vuole nascondere le carte?», sottolineano alla Cgil.
Anche dietro questa cooperativa si nota la “longa manus” di quel campione della trasparenza che risponde al nome di Pio Siragusa, vice-sindaco di Corleone e assessore alla solidarietà sociale. E’ lui che tira le fila di tutte queste “brillanti” operazioni, che conciliano il cittadino con la pubblica amministrazione…
19 settembre 2007

Dalle terre dei "corleonesi" nasce il vino "CENTOPASSI", dedicato a Placido Rizzotto

Dalle terre liberate dalla mafia è nato il vino “Centopassi”. Sono stati dedicati a Placido Rizzotto, il sindacalista ucciso dalla mafia a Corleone nel 1948, i primi due vini prodotti dalla nuova cantina “Centopassi”, l’azienda vitivinicola delle cooperative di “Libera Terra” che gestiscono i beni confiscati alla mafia. Un “Placido Rizzotto Rosso”, frutto dell’unione di nero d’avola e syrah e un “Placido Rizzotto Bianco”, di qualità catarratto; entrambi annata 2006. L’iniziativa di presentazione si è svolta, nei giorni scorsi, nella pizzeria Impastato a Cinisi, sulla SS 113, uscita Villagrazia di Carini. Alla tavola rotonda, moderata dal giornalista del Corriere della Sera, Felice Cavallaro, hanno partecipato il magistrato Franca Maria Imbergamo, pubblico ministero al “processo Impastato”, Laura Romeo Caselli, attivista di Libera Piemonte, l’attore Luigi Lo Cascio e l’attrice Lucia Sardo del cast de “I cento passi” e i ragazzi di Addiopizzo. I vini CENTOPASSI sono l’ultima produzione delle cooperative “Placido Rizzotto - Libera Terra” e “Lavoro e non solo”, che già da qualche anno producono olio, pasta, farina, conserve e legumi. Dalle terre liberate dalla mafia dunque nascono i prodotti “Libera Terra” dal sapore di legalità, riscatto, libertà. Frutto del lavoro di giovani che, riunitisi in cooperative sociali, coltivano ettari di terra confiscati ai boss della mafia, grazie alla legge di iniziativa popolare 109/96 nata da una grande mobilitazione promossa da Libera, l’associazione antimafia guidata da Don Ciotti.
“I prodotti vengono coltivati nel rispetto delle tipicità e delle tradizioni del territorio, applicando i principi dell’agricoltura biologica, per portare sulla tavola delle famiglie italiane un prodotto genuino, buono e… giusto. Per un consumo consapevole: perché anche in questo modo è possibile sconfiggere la mafia”. Il progetto “Libera Terra” promuove, dunque, la nascita di cooperative sociali nel settore agro-biologico su beni confiscati alla criminalità organizzata dando a giovani del territorio la possibilità di investire su un’opportunità di riscatto sociale e di sviluppo economico.
Le terre confiscate ai boss mafiosi del corleonese sono coltivate da un gruppo di giovani che nel 2001 ha fondato la cooperativa “Placido Rizzotto - Libera Terra”. La cooperativa opera sulle terre del Consorzio di comuni Sviluppo e Legalità del palermitano, dove si occupa dell'inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati, creando opportunità occupazionali ispirandosi ai principi della solidarietà e della legalità. La cooperativa è nata il 22 novembre 2001 iniziando la coltivazione di oltre 155 ettari di terreni, confiscati a boss come Brusca o Riina. I giovani della cooperativa hanno rimesso in marcia anche i trattori confiscati ad alcuni mafiosi e hanno seminato i primi terreni. L’otto luglio 2002 il primo raccolto del “grano della speranza”: a Corleone, nella Valle del Gorgo del Drago, teatro delle battaglie del giovane segretario della Camera del Lavoro Placido Rizzotto, alla presenza delle massime autorità isituzionali, si è effettuata la prima trebbiatura del frumento seminato su quelle terre rese particolarmente fertili dagli anni dell’abbandono. “Libera Terra” intanto è divenuto un progetto pilota a livello europeo. In ricordo della strage di Portella della Ginestra del maggio 1947, la cooperativa “Placido Rizzotto - Libera Terra” ha dedicato un agriturismo ai martiri del massacro. Un'antica masseria confiscata al boss Bernardo Brusca, sita a poche centinaia di metri dal luogo della strage, forse anche teatro di alcuni incontri tra capimafia, è oggi diventata una struttura turistica, l’agriturismo “Portella della Ginestra”. Tutte le informazioni sul progetto su http://www.liberaterra.it/ dove è anche possibile acquistare i prodotti on-line.In questi giorni, per la vendemmia a Corleone, collabora anche un gruppo di giovani toscani, dell’associazione “Liberaci dalla spine”, in Sicilia “per un’antimafia sociale nel segno della concretezza”, scrivono sul loro blog www.intoscana.it/roller/liberarcidallespine