venerdì 30 novembre 2007

Capo dei capi: Riina appassionato, ma la moglie Ninetta Bagarella ha citato per danni autori

CATANIA - Se Ninetta Bagarella, moglie del capomafia Totò Riina, ha citato per danni gli autori della fiction di Mediaset Il capo dei capi per danno d'immagine, il marito Totò invece ha apprezzato, "gli occhi gli brillavano". Il commento viene dagli avvocati del boss, Luca Cianferoni e Riccardo Donzelli, ospiti di Terra!, il programma del Tg5, a cura di Toni Capuozzo e Sandro Provvisionato in onda domenica in seconda serata su Canale 5. L'intervista ai due legali è stata anticipata oggi.Riina "ha visto appassionatamente, volentieri questo sceneggiato", dicono ed ha definito "molto bravo, portentoso", l'attore che lo ha interpretato, ossia Claudio Gioè, "sicuramente ha apprezzato l'impegno che l'attore ha messo nel raffigurare la sua vita, gli anni della sua infanzia, della sua giovinezza a Corleone, li ha ricordato con piacere! In alcuni frangenti addirittura gli occhi brillavano", proseguono gli avvocati Cianferoni e Donzelli.Riina, "non si è lamentato del fatto che sia stata fatta una fiction in corso di processo o mentre lui è detenuto, anzi. Si è notato assieme che è una delle poche persone per le quali è stato fatto uno sceneggiato così lungo mentre è ancora in vita...Lui ha espresso un pò di amarezza sulla questione della moglie, cioè non si deve inserire qualcosa riguardante la vita privata in vicende così dolorose per tutti". Entrando nel dettaglio, l'avv. Riccardo Donzelli: "...Il signor Riina ha commentato come se fosse una "mascalzonata" il tratto della fiction in cui vi è un aborto quasi indotto dal comportamento che mai, nè storicamente nè processualmente, si è verificato. Mi riferisco alla misura di prevenzione che era stata notificata alla signora Riina e la fiction rappresenta questa situazione come se la condotta della signora avesse cagionato un dolore così forte a una figura in realtà inesistente. Questo lo ha infastidito moltissimo!". Cianferoni conclude: "La signora Bagarella ha dato incarico a me di studiare e quindi poi promuovere un'azione risarcitoria a tutela della sua immagine perchè ritiene di essere stata lesa da questo tipo di prospettazione come anche ritiene che sarebbe stato corretto precisare che non era stata interpellata e soprattutto che non ha avuto alcun tipo di tornaconto da questo sceneggiato".
La Sicilia, 30/11/2007
FOTO: Ninetta Bagarella da giovane.

Corleone, alla presenza del procuratore Grasso, una palazzina conifiscata alla mafia è stata consegnata alla coop "Lavoro e non Solo"

CORLEONE – Ieri mattina, alla consegna della palazzina confiscata alla mafia ai giovani della coop “Lavoro e non Solo” c’era anche il Procuratore nazionale antimafia Piero Grasso. L’immobile, confiscato ai fratelli Grizzaffi, nipoti dell’ex “capo dei capi” di Cosa Nostra Totò Riina, si trova in via Crispi, a poche decine di metri in linea d’aria della villa confiscata anni fa al “padrino”. Ha tre elevazioni fuori terra di circa 150 metri quadrati ciascuna, per un totale di quasi 500 metri quadrati. Il Consorzio “Sviluppo e Legalità” ha voluto assegnarlo alla cooperativa che lavora sui terreni confiscati alla mafia, che lo destinerà a foresteria per i giovani toscani che ogni anno vengono a fare esperienza antimafia a Corleone. «Con l’affidamento di questo immobile – ha detto, soddisfatto, il sindaco Nino Iannazzo, dando la chiave al presidente della coop Calogero Parisi – il comune di Corleone ha consegnato tutti i beni confiscati di cui disponeva». «Sicuramente un bel risultato – gli ha fatto eco il procuratore Grasso – di cui tutti possiamo essere soddisfatti». «Era dal 2000, da quando il presidente della Repubblica inaugurò il Centro Antimafia, che non venivo a Corleone – ha proseguito Grasso – ma ho sempre seguito con attenzione i passi avanti fatti dal vostro comune. Recentemente ho anche partecipato in Toscana ad alcune cene della legalità per raccogliere fondi a favore della vostra cooperativa. L’ho fatto con piacere, perché so che per battere la mafia c’è bisogno di tanta antimafia sociale. Bravi, continuate così…».
Alla cerimonia di consegna della palazzina alla coop “Lavoro e non solo” erano presenti anche il presidente del Tribunale di Termini Leonardo Guarnotta, il procuratore generale di Termini Di Pisa, una delegazione di Arci-Toscana guidata da Maurizio Pascucci, il presidente di Arci-Sicilia Anna Bucca, l’assessore Pino Colca, in rappresentanza della Provincia Regionale di Palermo, e i rappresentanti della Polizia dei Carabinieri e della Guardia di Finanza.
30 novembre 2006

giovedì 29 novembre 2007

Grasso e Fava difendono la fiction di Canale 5 "Il capo dei capi"

PALERMO - Ancora discussioni sulla fiction di Canale 5 "Il capo dei capi". Con una lettera pubblicata stamani da due quotidiani la vedova del funzionario di polizia Giorgio Boris Giuliano, Ines Maria Leotta, punta il dito sulla figura che emerge del marito, "che non corrisponde alla realtà". "Pur apprezzando il risalto dato alla figura di mio marito - scrive - deploro che gli autori o gli sceneggiatori non abbiano pensato di rivolgersi alla famiglia o alle persone più vicine per delinearne meglio la personalità. Mio marito era infatti molto diverso sin dai caratteri esteriori. Emerge dalla fiction un personaggio che segue lo stereotipo del siciliano: scuro, con folti baffi neri, che parla in dialetto e che usa il turpiloquio, un uomo dal temperamento passivo".La vedova di Boris Giuliano così prosegue: "mio marito non era per nulla così. Non era un uomo di mezza età, non parlava in dialetto stretto (non ci sarebbe stato nulla di male, ma semplicemente non era così). Inoltre non usava abitualmente il turpiloquio e non fumava. Era un uomo giovane (nel 1969 aveva 38 anni)". Secondo Ines Maria Leotta Giuliano suo marito "non aveva bisogno, come appare nel lavoro televisivo, di un inesistente Schirò" che lo spronasse a combattere la mafia". "Ben altro - scrive la vedova - se si fosse voluto rendere giustizia alla sua figura, poteva essere raccontato nella fiction: si poteva fare riferimento all'isolamento in cui fu lasciato, o ai rapporti che presentava e che restavano lettera morta nei cassetti della Procura"."Pur comprendendo che si tratta di una fiction - conclude la vedova Giuliano - è pertanto non necessariamente fedele alla realtà, penso che nel trattare un argomento così delicato andrebbe fatta una scelta: o utilizzare nomi e situazioni di pura fantasia, oppure, se si decidesse di riferirsi a personaggi realmente esistiti (usando il loro nome) e che, come in questo caso, hanno perduto la vita per lo Stato, ci si dovrebbe attenere alla realtà dei fatti sottoponendo la sceneggiatura ai familiari. Non mi sembra di chiedere troppo".Di parere diverso Pietro Grasso, procuratore nazionale antimafia: "Non si può nascondere la realtà. E' giusto che si conosca e che, magari, a corredo ci sia un modo per commentarla. Non sono d'accordo con la proposta di sospenderla, la fiction va trasmessa, e, contemporaneamente, dovrebbe essere discussa in famiglia, nelle scuole e ovunque si possa mettere in evidenza come la realtà della mafia porta solo sangue, morte e distruzione"."Non dobbiamo avere paura - ha proseguito - del rischio emulazione ma andare al cuore del problema. Se ha un difetto è che è stata trasmessa a puntate e in alcune potrebbe venire fuori il lato accattivante del personaggio. Se, invece, fosse stata raccolta in due ore si sarebbe arrivati subito alla morale che, secondo me, è più educativa di tutto il resto della fiction".Alle osservazioni del presidente dell'Osservatorio sui diritti dei minori, Antonio Marziale, secondo il quale "è meglio la pornografia di un fiction su Cosa nostra", risponde l'eurodeputato Claudio Fava, co-sceneggiatore de "Il capo dei capi": "Un'affermazione da codice penale. Rivela un disprezzo grossolano verso chi si è battuto in questi anni in nome del diritto di non tacere mai sulla mafia e sulle ragioni della sua impunità"."La mafia è violenza, ferocia, viltà; ma è anche potere, collusione, contiguità - aggiunge Fava -. Il torto de Il capo dei capi, secondo taluni benpensanti, è quello di avere restituito a Cosa nostra tutta la sua drammatica complessità. Il ministro Mastella avrebbe preferito un bel western, buoni e cattivi, saraceni e paladini, come in un'opera dei pupi. Ma la mafia è altra cosa. L'errore non è mai raccontare Cosa nostra ma non averla mai raccontata abbastanza"."L'errore - prosegue Fava - non è parlare dei mafiosi, ma parlare con i mafiosi o far loro da testimoni di nozze. L'errore è far credere che a Cosa nostra si possa opporre solo la rassegnazione. La nostra fiction è invece la storia di una scelta: sbirro o mafioso, macellaio o uomo libero, siamo noi che decidiamo da che parte stare. Forse è proprio questo senso di responsabilità che fa paura a qualcuno".
La Sicilia, 29/11/2007

Rivelazione di un pentito al processo per la strage di viale Lazio: "Volevo uccidere Riina"

FIRENZE - E' iniziata, nell'aula bunker di Santa Verdiana a Firenze, l'udienza a carico di Totò Riina e Bernardo Provenzano accusati di essere rispettivamente il mandante e uno degli esecutori materiali della strage di via Lazio, avvenuta a Palermo il 10 dicembre 1969. Quella strage è considerata uno degli episodi più cruenti della prima guerra di mafia che si scatenò negli anni 60 e che - a causa della morte del boss Michele Cavataio - portò a una ridefinizione delle sfere di competenza della varie famiglie mafiose.All'udienza, che si tiene davanti alla Corte d'assise di Palermo presieduta da Giancarlo Trizzino (a latere Angelo Pellino), e il pm è Michele Prestipino, sono presenti in videoconferenza gli unici due imputati: dal carcere di Novara Bernardo Provenzano e dal carcere di Milano Totò Riina. L'udienza è incentrata sull'audizione di Gaetano Grado, il collaboratore di giustizia (e cugino di Salvatore Contorno) che indicò in Bernardo Provenzano il killer di Michele Cavataio, trucidato brutalmente da 'Binnu 'u tratturi'."Dissi a Stefano Bontade: cerchiamo di ammazzare Totò Riina, che fa troppa strategia, ma Bontade mi disse di lasciarlo fare, 'sto viddanu". Lo ha detto il collaboratore di giustizia Gaetano Grado, cugino di Salvatore Contorno e 'custode' negli anni '60 di Totò Riina, nella sua deposizione davanti alla corte d' assise di Palermo per il processo sulla strage di viale Lazio, a Palermo. "Riina faceva troppa strategia - ha detto Grado - perchè dovunque andasse cercava di ingraziarsi i piu furbi e questo non mi piaceva. Per questo lo raccontai a Stefano Bontade", boss di Santa Maria di Gesù. "Un giorno in macchina gli dissi, dammi retta cerchiamo di ammazzarlo a questo, ma Bontade disse di no: 'è viddanu', mi disse, 'lascialo correre a questo cavallo, che tanto deve passare sempre da qui". Grado, coimputato nel processo per la strage di Viale Lazio, era stato combinato giovanissimo nella famiglia di Villagrazia che poi venne assorbita dalla famiglia di Santa Maria del Gesù."Io non volevo morire vestito da poliziotto. Per questo la divisa della polizia usata per la strage di viale Lazio la indossarono soltanto Bernardo Provenzano, Calogero Bagarella, Damiano Caruso e Manuele D' Agostino", ha detto Grado alla Corte d'assise di Palermo durante la ricostruzione dell'organizzazione della strage di viale Lazio. "Cavataio - ha detto Grado - doveva morire perchè non rispettava le regole di Cosa nostra, perché uccideva innocenti e non aveva onore".Dopo la strage di viale Lazio, negli uffici dei fratelli Moncada, "portammo via il corpo di Calogero Bagarella" rimasto ucciso nella strage "e dovevamo decidere di seppellirlo perchè era morto con onore. Ma Totò Riina disse che il corpo di suo cognato doveva essere bruciato. Comunque se ne occupò lui", ha raccontato Grado. "Mettemmo il corpo di Bagarella in un sacco - ha detto Grado - e io dissi che doveva essere sepolto vicino alla sua famiglia. Ma Riina mi disse che ero pazzo, che avremmo attirato i carabinieri e che quindi il corpo andava bruciato. Ci avrebbe pensato lui. Non so come andò a finire perchè io me ne andai".

La Sicilia, 29/11/2007

In edicola col Giornale di Sicilia "Oltre il buio della mafia"

Sarà in edicola domani con il Giornale di Sicilia, a soli 2 euro, "Oltre il buio della mafia", il nuovo libro del giornalista Alfonso Bugea. Prefazione di Andrea Camilleri, con un riflessione del Vescovo di Agrigento Monsignor Carmelo Ferraro. Ecco, per gentile concessione dell'autore, un'anticipazione del libro che racconta la storia di Alfonso Falzone, un pentito di Cosa Nostra agrigentino. Nel brano che segue un'anteprima del libro, un dialogo tra il giornalista e il mafioso di Porto Empedocle che indica il pentimento come la "terza via" per uscire dalla mafia.

-Dicono che solo la morte e la galera possono liberare dall'appartenenza mafiosa?
«È la verità, ma per fortuna ora c'è il pentimento. È la terza via d'uscita! Difficile da percorrere, ma almeno ti tiri fuori da certi ingranaggi. Salvi te stesso e la famiglia».
-Se potessi mandare un messaggio al latitante Gerlandino Messina cosa gli diresti?
«Gli direi di costituirsi e collaborare con la giustizia. Ormai so che hanno arrestato diversi della sua famiglia. Gerlandino pentiti! Non rovinare e far piangere altre persone!»
-Quanti omicidi hai commesso.
«Commessi da me e compiuti insieme ad altri circa una ventina. Oggi sono il mio incubo è come se li avessi portati a termine ieri. Quelle scene, certi sguardi delle vittime, le urla, il rumore dello sparo, il sangue... non potrò dimenticarli mai».
-Hai mai provato pietà per qualcuna delle tue vittime?
«Per diversi di loro. In special modo per quelli che conoscevo. Salvatore Dalli Cardillo, per esempio, veniva a comprare da me il pesce per il suo ristorante. Quando ho saputo che doveva essere ucciso non potevo certo dire che era un mio caro amico. Tristezza e pena anche per la sorte di Salvatore Giugno, abitava nel mio stesso palazzo e le nostre mogli erano amiche. Io quella donna non riuscivo a guardarla negli occhi quando chiedeva notizie del marito scomparso. Il suo corpo venne trovato dopo un paio di giorni in un canneto».-Se incontrassi le mogli delle vittime, i figli orfani, chiederesti perdono...«Senza pensarci due volte».
-E pensi che loro accetterebbero? Credi che loro ti potranno perdonare o senti pesare sulla tua testa una sorta di maledizione?
«Io non posso dirlo. Spetta a loro decidere di essere capaci di perdonare. Io so che oggi, grazie anche all'aiuto dello Stato, sono diverso. Allora agivo preso dall'impulso e dall'obbligo di portare avanti ogni decisione del clan. Io oggi sono pentito e chiedo perdono. So che non è facile riuscire ad averlo. Ma io sento l'obbligo di chiederlo e sperare di riceverlo».
-La moglie di Pasquale Di Lorenzo ha augurato ai killer del marito "che le grida di dolore, soprattutto dei figli delle povere vittime colpevoli solo di fare il loro lavoro, diventino il loro incubo per il resto della loro misera vita".
«Non si può darle torto. Ha ragione, quello che ha scritto è giusto. Ma io sono fermo nella mia convinzione: ho sbagliato e chiedo perdono».
-Qual è l'episodio criminale che turba ancora i tuoi sonni e la tua coscienza?
«Il sequestro del piccolo Di Matteo. Sono stato il suo carceriere, ma non sapevo che doveva essere ammazzato. Se lo avessi saputo mi sarei ribellato».-Come?«Avrei fatto in modo che le forze dell'ordine lo trovassero».
-Prima di pentirti che giudizio davi dei collaboratori?
«Ti lascio immaginare! Gli aggettivi e gli insulti si sprecavano».
-E quando si è saputo di Pasquale Salemi qual è stata la tua reazione?
«Di disappunto, specialmente davanti alle altre persone del clan. Essendo io uno degli accusati non potevo certo parlarne bene. Su Salemi si disse di tutto e di più. Cercammo anche di ammazzarlo. Del resto successivamente hanno cercato di fare altrettanto con me».
-A Salemi avete anche fatto lo scherzo dei manifesti funebri con la scritta: «È morto al Policlinico Gemelli di Roma il signor Pasquale Salemi...».
«No, non è vero. Noi non ne sapevamo nulla. Quando è successo siamo rimasti contenti dell'iniziativa, ma non immaginavamo neanche chi avesse potuto organizzare questa bravata. Noi volevamo uccidere Salemi, lui e nessun altro. Cercavamo lui e non i parenti, che non c'entrano nulla in queste storie».
-Quanti figli hai?
«Una».
-Quando ti sei pentito tua figlia quanti anni aveva?
«Due anni e mezzo, ora ne ha quasi 12».
-Le hai detto la verità quando ti ha chiesto perché ha dovuto lasciare il paese?
«No, me lo ha chiesto più volte e io rispondo sempre per motivi di lavoro».
-Ha accettato di vivere con un cognome e un nome nuovi?
«Lei era troppo piccola e non aveva ancora imparato il suo cognome. Crescendo ha memorizzato quello nuovo e non pensa minimamente che possa averne un altro. Per garanzia le abbiamo cambiato anche il nome».
-E quando glielo avete detto qual è stata la sua reazione?
«Per la verità non glielo abbiamo stravolto. Ora ha un diminutivo di quello registrato all'anagrafe di Porto Empedocle. Glielo abbiamo modificato leggermente. Ma è bastato a darle una nuova identità».
-Le è venuto mai un dubbio, un sospetto?
«No, mai».
-Ma come si spiega che tu stai sempre a casa e non lavori?
«Lei la mattina va a scuola e io ho il permesso per accompagnarla. Quando le lezioni finiscono è già pomeriggio e io vado a riprenderla come fa ogni papà all'uscita dall'ufficio. E insieme torniamo a casa».
-Prima o poi questa situazione, però, non potrà reggere. Arriverà il momento in cui le risposte di oggi non basteranno e vorrà sapere...
«Lo so. So che la sua ricerca della verità mi metterà con le spalle a muro. Quello sarà il momento più difficile della mia nuova vita. Io spero di trovare le parole giuste. Spero di trovare in lei comprensione e aiuto. Non sarà facile! Spero che possa non solo capire i miei errori, ma soprattutto lo sforzo che ho fatto per allontanare lei e tutta la famiglia dalla mafia».
Calogero Giuffrida

29 novembre 2007

mercoledì 28 novembre 2007

CONTROVENTO. FERMATE IL MINISTRO!

di Claudio Fava
Clemente Mastella chiede la sospensione della messa in onda dell'ultima puntata del Capo dei capi.
Non l'ha mai visto, spiega ai giornalisti, ma gli hanno detto che quella fiction va fermata. Proviamo a spiegare perchè chi va fermato è lui: il signor ministro.
Insomma: questo “Capo dei Capi” fa paura. Inquieta, seduce, confonde. Posso provare a capirne le ragioni. Soprattutto se mi spoglio dei panni facili di sceneggiatore e torno a rivestire quelli affaticati di siciliano. Quando ammazzarono mio padre, mi sforzai di pensare che quegli assassini appartenevano a un altro mondo, a un’altra vita. Macellai, pensai. Gente capace solo di spararti alle spalle. Per un po’ quella visione da giardino zoologico mi consolò: noi e loro. Noi, i giusti; loro, i carnefici. Era un modo per restare in vita, per dare un senso al dolore, per non affogare nell’autocommiserazione.
Poi, con il tempo, cercai di capire. Mi dedicai a ricostruire tutto quello che c’era da sapere: il killer che spara i suoi cinque colpi con una 7,65; il finestrino dell’auto che vola in frantumi; il tramestio osceno di quelle pallottole nella testa di mio padre… Volli sapere anche quello che accadde dopo. Perché c’è sempre un dopo, anche se ci piace pensare che tutto finisca con l’oltraggio della morte. Per esempio quello che s’erano detti gli assassini dopo l’ammazzatina. La bottiglia di champagne nel retrobottega di un benzinaio, il brindisi ai “due piccioni con una fava”, poi la fine della festa. Disse dieci anni dopo uno di loro al giudice: “S’era fatto tardi. Mi feci accompagnare alla macchina e me ne tornai a casa”.
Per anni quella frase mi ha perseguitato: “S’era fatto tardi”. Quell’uomo aveva appena ucciso un altro uomo, aveva brindato alla sua morte. E poi era tornato a casa sua. Dalla moglie, dai figli. S’era fatto tardi… E' stato allora che ho imparato a pensare ai mafiosi non come animali da circo ma come uomini tra gli uomini. Capaci di ferocia e di abitudini, di famiglia e di morte. Era un’immagine della mafia che non indulgeva alla caricatura ma che si misurava con la banalità del male. Con il suo fascino, perfino: perché negarlo? Per i picciotti della mia città, quelle cinque pallottole ficcate nella nuca di un uomo inerme saranno sembrate un atto epico, una cosa da dire e da vantare.
Ci fa paura raccontarla così la mafia? Preferiremmo immaginare uno come Riina soltanto come una caricatura quando agita parole sgrammaticate dal fondo di una gabbia in corte d’Assise? Ci fa paura raccontare questo criminale per ciò che davvero è stato? Il figlio di un bracciante con la fame incrostata sullo stomaco, uno che da quella fame da miserabile è partito alla conquista del mondo, senza regole che non fossero le sue regole, senza principio che non fosse la propria impunità, con l’istinto animale di chi sa colpire sempre per primo…
Insomma, che cosa si cerca in una fiction che racconta cinquant’anni di storia italiana, e dentro questa storia disperata e violenta cerca di spiegarci perché quell’ometto da niente è diventato il Capo dei capi: parole consolanti? Prediche? I buoni sentimenti? Forse a dar fastidio a taluni non è Riina quanto il racconto della sua impunità, la mafia che si fa potere, collusione, tolleranza. Colpa di questa fiction è aver mostrato chi ha permesso a quell'ometto di diventare il capo dei capi: i suoi sodali politici, gli amici degli amici... Dice uno dei protagonisti dello sceneggiato, raccontando la Sicilia di quegli anni: “Qui se tocchi la mafia tocchi la Dc, e se tocchi la Dc tocchi la chiesa: ecco perché nessuno vuole fare la guerra contro Cosa Nostra”. Una verità storica: eppure io, una frase così, in uno sceneggiato televisivo non l'avevo mai sentita pronunciare. Mai! Magari Mastella vorrebbe fermarla proprio per questo, la sesta puntata: per non dover sapere e vedere chi ammazzò Falcone in vita, prima che lo faccessero i corleonesi a Capaci.
Siamo abituati a tagliare la vita a colpi d’accetta. Buoni e cattivi, come in una parodia da film western. Non ci piace immaginare la normalità del male, la sua prossimità. Vorremmo che tra noi e loro ci fossero non cento passi ma oceani, continenti, distanze siderali. Peccato che la realtà si nutra di penombre, contiguità, zone grigie. Ho letto che qualche ragazzino gioca a scuola a fare Totò Riina, che gli piace identificarsi nella figura di un uomo che comanda la morte degli altri uomini: di chi è la colpa, di chi racconta la storia di Riina o di chi non riesce a offrire a quei ragazzini altri modelli? E per far contento il ministro Mastella, che dovremmo fare: volgere in farsa questo mezzo secolo di storia? Ridurre tutto a un gioco di pupi siciliani? I saraceni, i paladini, la bella Angelica…
“Il capo dei capi” non è un romanzo d’appendice sulla famiglia Riina: è una fiction sul potere. Potere mafioso. Con le sue ambiguità, i suoi linguaggi, le sue seduzioni. E’ la storia di un contadino di Corleone che per trent’anni ha tenuto sul palmo della mano il destino delle cose e degli uomini. Ma è anche il racconto di un libero arbitrio: perché in quei cento passi che ci separano da loro, spetta a ciascuno di noi decidere cosa fare della nostra vita. Sbirro o mafioso, macellaio o uomo libero. Chissà che a infastidire qualche benpensante non sia proprio questo cocciuto, onesto richiamo al nostro senso di responsabilità.
Itacanews, 27.11.2007

IL CURRICULUM. Il problema è il traffico

di Marco Travaglio
Onore al sindaco Walter Veltroni per aver licenziato in tronco il comandante dei vigili di Roma, che parcheggiava la fuoriserie in divieto di sosta usando un permesso per disabili altrui, per giunta scaduto. I piagnistei dell’interessato lasciano il tempo che trovano: quando viene meno il rapporto fiduciario tra l’azienda e il manager, questi se ne va su due piedi, e se qualche legge gli consente di restare o di tornare al suo posto va cambiata subito. Soprattutto per ruoli di enorme responsabilità come quello del capo della polizia urbana di una metropoli. Si spera che il caso di Roma diventi un precedente per tutta la Pubblica amministrazione, infestata di pregiudicati per concussione, corruzione, abuso, peculato, molestie, pedofilia, che non si riescono a cacciare perché il procedimento disciplinare è fatto apposta per garantire la prescrizione (per avviarlo bisogna attendere i 4-5 gradi di giudizio della giustizia ordinaria). Ora il ministro Nicolais ha pronta una riforma che consente il licenziamento immediato e automatico dei condannati o di chi ha patteggiato, ma solo se la pena supera i 2 anni: ed è noto che, per i delitti contro la PA, basta lo sconto del rito abbreviato per assicurare scendere sotto i 2 anni. Il ministro spiega che le pene basse corrispondono a «reati minori»: non è così, ma, anche se lo fosse, perché mai un amministratore dovrebbe avere licenza di commettere reati minori? Perché dobbiamo stipendiare qualcuno che ruba, ma solo un po’? La cacciata - sacrosanta - del comandante dei vigili di Roma evidenzia lo sconvolgimento della scala di valori che il berlusconismo (di destra e di una certa sinistra) ha prodotto in questi ultimi 15 anni. Cosimo Mele, quand’era vicesindaco al suo paese, fu arrestato per concussione per aver intascato mazzette ed essersele poi giocate al casinò: l’Udc lo candidò al Parlamento. Poi fu sorpreso in un coca party con due squillo, e fu espulso dal partito. Morale: rubare fa curriculum per la carriera parlamentare, andare a prostitute e farsi una sniffata è peccato mortale. E allora: se, invece di parcheggiare in divieto fingendosi disabile, il comandante dei vigili fosse rinviato a giudizio per il sequestro di Abu Omar, come l’ex capo del Sismi Niccolò Pollari e il suo fedelissimo Pio Pompa, che ne sarebbe di lui? L’avrebbero promosso consulente di Palazzo Chigi e giudice del Consiglio di Stato (come Pollari), o dirigente del ministero della Difesa e commentatore del Foglio (come Pompa). E se, arrestando Totò Riina, si fosse dimenticato di perquisirne il covo lasciandolo a Cosa Nostra, come il generale Mario Mori, oggi sarebbe comandante del Sisde e vigilerebbe sugli appalti nella piana di Gioia Tauro. Se fosse sotto inchiesta per la mattanza del G8 di Genova, come l’ex capo della Polizia Gianni De Gennaro, sarebbe capogabinetto del ministro dell’Interno Amato. O, se proprio fosse sfortunato, capo del Dipartimento analisi dell’Aisi (l’ex Sisde), com’è appena accaduto a Giovanni Luperi, ex vicedirettore dell’Ucigos, imputato per il sanguinoso blitz alla scuola Diaz. E se il comandante del vigili avesse fatto il testimone di nozze al mafioso Campanella, fedelissimo di Provenzano? Sarebbe ministro della Giustizia dell’Unione o governatore della Sicilia per la Cdl. Se fosse stato filmato dai carabinieri, come Mirello Crisafulli, ad abbracciare e baciare sulle guance il boss della sua città, sarebbe senatore Ds. Se avesse pagato mazzette alla Finanza, come il manager Fininvest Salvatore Sciascia, sarebbe socio di Michela Vittoria Brambilla. Se avesse patteggiato condanne per corruzione, come Pomicino e Vito, sarebbe membro della commissione Antimafia. Se avesse collezionato una prescrizione per mafia fino al 1980, come Andreotti, sarebbe senatore a vita. Se avesse totalizzato una ventina di processi per corruzione (semplice e giudiziaria), falso in bilancio, frode fiscale etc. e una mezza dozzina di prescrizioni come Berlusconi, sarebbe considerato dal Pd un interlocutore adatto a riscrivere la legge elettorale e un pezzo della Costituzione. Invece il comandante dei vigili di Roma ha fatto di peggio: ha parcheggiato in divieto con un permesso altri, per giunta scaduto. Dunque se ne deve andare. Come diceva Johnny Stecchino a Palermo, «il problema è il traffico».
da l'Unità

martedì 27 novembre 2007

I ragazzi di Corleone contro la mafia

CORLEONE (PALERMO) - "Riina o Schirò?" ha chiesto, da una panchina trasformata in un improvvisato palco, il sindaco di Corleone, Antonino Iannazzo. E le centinaia di studenti, scesi in strada questa mattina per dire che "i corleonesi non sono tutti uguali", non hanno avuto dubbi. In coro, più volte, hanno risposto: "Schirò", dimostrando che, tra la prepotenza e la violenza del capomafia, e il coraggio e l'onestà del poliziotto Biagio Schirò, personaggio positivo della fiction di Mediaset su Riina, 'Il capo dei capi', loro scelgono il bene. "Questa è la risposta che Corleone dà a chi dice che i giovani qui si riconoscono in Riina", commenta Iannazzo, che non nega, però, che la presenza di tanti adolescenti, nella piazza intitolata ai giudici Falcone e Borsellino, sia dovuta anche alla presenza di Daniele Liotti, l'attore che nella fiction interpreta appunto Schirò, unico personaggio inventato del telefilm. "Ciò non toglie nulla al successo della nostra manifestazione - spiega - I ragazzi hanno accolto Liotti con entusiasmo, dimostrando di avere ben chiara la positività del ruolo che interpreta. Se, anche in futuro, uniremo la forza della tv e il sentire comune dei corleonesi, davvero, arriveremo a grandi risultati".Travolto da decine di ragazzi, l'attore fa fatica a parlare. "Non mi aspettavo una cosa simile: mi tremano le gambe", dice, strattonato dai fans che gli scattano foto con i cellulari. E difende con forza la fiction, accusata di evocare nei giovani un'immagine positiva del capomafia. "Il regista - spiega - ha scelto di raccontare Cosa nostra dal punto di vista dei 'cattivì: per questo i personaggi negativi sono più approfonditi. Il messaggio, però, è chiaro: tutti insieme contro la mafia". E al ministro della Giustizia, Mastella, che ieri aveva giudicato la trasmissione prodotta da Mediaset "diseducativa" e ne aveva sollecitato la sospensione, l'attore risponde: "Spegnere la tv non serve. Mastella dia risposte più serie e intelligenti, ad esempio, inserendo nelle scuole materie che spieghino cos'è la mafia e chi sono gli eroi che l'hanno combattuta".Ma gli studenti di Corleone cosa è la mafia sembrano saperlo. "Riina è cattivo" - dice Antonino, 11 anni, alunno della V elementare che esibisce fiero la maglietta distribuita ai ragazzi con la scritta 'Non voglio essere mafioso". "È un uomo che ha fatto cose cattive - continua -, che ha ammazzato persone buone". Del rischio che la fiction possa condizionare negativamente i più piccoli parla, invece, Giovanni, 17 anni, studente dell'istituto Agrario. "Noi 'grandi' - spiega - conosciamo la storia e sappiamo dove sta il bene, ma i ragazzini potrebbero essere attratti dal potere e dal denaro conquistati da Riina". "Ciò non vuol dire che la tv sia da censurare - conclude - Magari, in questo caso, dovrebbero essere le famiglie ad aiutare i bambini a dare la giusta interpretazione a ciò che vedono".
La Sicilia, 27/11/2007

domenica 25 novembre 2007

Partito Democratico. Ninni Terminelli coordinatore della città di Palermo, Leonardo Passarello coordinatore della Provincia

Da segretario provinciale dell'ex Ds Ninni Terminelli diventa coordinatore cittadino del Pd. E' stato eletto ieri nel corso di una farraginosa votazione. Assieme a lui è stato eletto anche il coordinatore provinciale, di area ex Margherita. E' il vice sindaco di Bagheria Leonardo Passarello. Insomma i due partiti che hanno dato vita al Pd si sono equamente divisi le cariche. Resta fuori, perché con molta probabilità destinato ad altro incarico, Pino Toro che, prima della nascita del nuovo soggetto politico, era segretario cittadino della Margherita. Abbastanza farraginosa, dicevamo, l'elezione dei due coordinatori ad opera delle assemblee provinciali. Per la città gli aventi diritto al voto erano 67, in lizza erano Mahadeavar Siva Tarsan (area Letta), che ha ottenuto 26 voti e il consigliere comunale Terminelli, che è stato eletto coordinatore con 34 preferenze. Per la provincia gli aventi diritto al voto erano 63. L'ha spuntata Passarello, con 31 voti, appena quattro in più dell'altro candidato Davide Faraone, che si è fermato a 27 preferenze. Improntate a frasi di circostanza le dichiarazioni dei neo eletti. «Sono molto soddisfatto del risultato – ha detto Passarello – e dell'entusiasmo sempre crescente che suscita tra la gente il nuovo partito. Da oggi comincerà il mio impegno nel segno dell'unità e soprattutto inizierà il vero lavoro in vista delle prossime amministrative». Dal canto suo Terminelli ha sottolineato che «adesso si dovrà passare dalla fase organizzativa a quella del programma. Il nostro primo obiettivo – ha aggiunto – sarà quello di tenere al più presto una conferenza programmatica, che lanci il nuovo modello di partito, coinvolgendo i giovani e le donne e quanti si vogliono impegnare a dare un nuovo volto ad una città drammaticamente amministrata da Cammarata e dal centrodestra».

Come raccontare Cosa nostra senza celebrarla?

di Antonio Ingroia
Il dibattito, che si è recentemente riacceso anche su queste pagine a margine della fiction “Il capo dei capi”, può essere forse l’occasione per avviare una seria riflessione sul tema della rappresentazione della mafia attraverso i mass media. Non si tratta, ovviamente, di accodarsi all’antica, stupida e non del tutto disinteressata, posizione polemica che vorrebbe censurare ogni forma di rappresentazione della mafia accusata di fare cattiva pubblicità della Sicilia. Ma altrettanto sbagliata mi pare ogni sottovalutazione che ne trascuri l’impatto sulle chance di successo dell’antimafia. In una società profondamente dominata dai media come la nostra, in un’opinione pubblica così decisivamente condizionata dai clichè veicolati da una cultura televisuale come la nostra, sarebbero fatali atteggiamenti autoreferenziali di sufficienza, dell’uomo delle istituzioni come dell’uomo di cultura. Anche perché il tema ha a che fare con complesse relazioni col pubblico che meriterebbero attenzione. E’ un paradosso solo apparente, ad esempio, quello apprezzato da alcuni studiosi che hanno evidenziato che le più rozze banalizzazioni, come certe storie truculente e le più inautentiche farse di costume, sono i film sulla mafia che in passato hanno ottenuto un maggiore successo popolare in Sicilia, ove maggiormente dovrebbe essere percepito il divario fra fiction e realtà. Paradosso in parte spiegabile col fatto che lo spettatore medio percepisce ed apprezza il cinema come finzione, una finzione che genera miti e vicende favolistiche che, seppure ispirate dalla realtà più cruda, emanano fascinazione. Sicché, è accaduto, accade ed accadrà che certe rappresentazioni finiscano per propagare, spesso al di là delle migliori intenzioni dei suoi autori, il fascino negativo dell’eroe del male. Personaggi di mafiosi apprezzati dagli spettatori, che riconoscono nello schermo uomini e situazioni da loro conosciuti nella realtà. E’ così che il siciliano vede i mafiosi “celebrati” sullo schermo. Ed è così che si arriva al paradosso di un sorta di senso di orgoglio regionalista rovesciato, che può indurre lo spettatore medio siciliano ad applaudire certe celebrazioni di violenze, ingiustizie e mali dominanti nella vita reale. Ancor più oggi non possiamo non porci una domanda, forse un po’ eccentrica ma cruciale: ai mafiosi piacciono le fiction sulla mafia? Le immagini filmate dell’arresto di Lo Piccolo, così diverse da quelle di Bernardo Provenzano (potenza della rappresentazione visuale…), ci rivelano una Cosa nostra in trasformazione. Cambia il modo di pensare e di essere dei mafiosi, sempre meno rozzi e analfabeti. Uno dei punti di forza di Cosa nostra è sempre stata la sua subcultura arcaica, tendenzialmente immutabile perché la sua segretezza e compattezza interna ne hanno fatto un mondo a parte, impermeabile alle culture ad essa estranee. Ma la società è cambiata e la mafia pure, e nel processo di alfabetizzazione diffusa un ruolo centrale è stato certamente svolto dal mezzo televisivo. La generazione dei capi mafia ottuagenari, immuni dal “contagio” della cultura televisiva, la generazione dei viddani corleonesi, simbolicamente rappresentata da Provenzano che scrive pizzini in un casolare di campagna, è al tramonto. Avanza invece la generazione televisiva. Quando Giovanni Brusca viene arrestato, si scopre che l’assassino di Capaci teneva sul comodino la videocassetta di un film-documentario sulla strage ed il suo italiano è abissalmente lontano dalla lingua contadina del vecchio padre Bernardo. Roberto Saviano in “Gomorra” racconta di camorristi che imitano personaggi di cinema e TV, così come i mafiosi americani fanatici telespettatori del serial “I Soprano”. Insomma, l’omogeneizzazione delle culture e delle lingue, agevolata dalla TV, coinvolge anche l’universo mafioso. Il che, lungi dal costituire sintomo dell’inarrestabile declino della mafia, è invece indice di un nuovo modo d’essere dei mafiosi, sempre meno diversi dagli altri, sempre più mimetizzati nella società. A maggior ragione allora, se la TV è penetrata anche nelle case dei mafiosi, che con i loro figli seguono le stesse fiction che vediamo noi, è doppiamente importante verificarne l’impatto. Francesco Rosi nell’indimenticabile “Salvatore Giuliano” riuscì a costruire una storia drammaturgicamente valida, ma con la secchezza del cronachismo documentaristico, senza indulgenze celebrative e riuscendo a raccontare l’oscuro potere della mafia senza rappresentare il personaggio di Giuliano, che infatti nel film è un corpo che si vede più da morto che da vivo. Una dimostrazione del fatto che è possibile “raccontare Cosa nostra” senza celebrarla. Le fiction televisive di oggi, tranne rarissime eccezioni, sono monodimensionali, senza spessore, ed i suoi protagonisti sono o santini dell’antimafia, perdenti destinati al martirio, e perciò sempre più distanti dal pubblico (con enfatizzazione retorica che arriva al punto di eliminare dalla storia i “sopravissuti dell’antimafia”), ovvero sono mafiosi rappresentati come eroi negativi, non privi di fascino, che perciò alimentano una certa mitologia della mafia. Le eccezioni? Poche, quasi tutte a cinema e non in TV.
E torniamo allora alla fiction di Canale 5 “Il capo dei capi”, emblematica perché alla sua realizzazione hanno contribuito anche attenti conoscitori del fenomeno mafioso: proprio certi che gli italiani avessero bisogno di una biografia del c.d. “genio del male”? Le video-biografie sono sempre pericolose come dimostra la gran parte di quelle finora dedicate ai martiri della mafia ove finisce per prevalere lo sguardo celebrativo, pieno di sentimenti retorici e clichè, e che veicolano una certa idea dell’immutabilità e dell’eternità della mafia, difficile da vincere in una terra incline al fatalismo come la Sicilia. Gli ultimi avvenimenti confermano invece che Cosa Nostra non né immutabile, né invincibile, come dimostra la parabola discendente dei corleonesi. È il caso allora di tenere ben presenti, senza demonizzazioni, i rischi insiti in certe fiction, come ha recentemente evidenziato un giornalista coraggioso come Dino Paternostro, che a Corleone vive ed opera, e che ha raccontato come il paese, anche raccogliendosi attorno alla TV per ogni puntata de “Il capo dei capi”, perpetua e diffonde i sinistri influssi della fascinazione del boss…

POLITICA. La miscela esplosiva che incendia il Cavaliere

di EUGENIO SCALFARI
L'ACCUSA che da sempre e ora più che mai viene lanciata contro Silvio Berlusconi è di essere populista.
Non dico che non corrisponda a verità, ma dico che è soltanto una parte della verità anche perché c'è populismo e populismo. Mazzini - in ben altro modo - era un populista. Anche Garibaldi. Anche Bakunin. Ma a nessuno verrebbe in mente di paragonare Berlusconi a queste figure del passato. Per meglio definire il signore di Arcore è preferibile rifarsi a due grandi poeti romaneschi, Belli e Trilussa. Il primo, nel sonetto sull'"Editto" esordisce: "Io sò io, e vvoi nun zete un cazzo / sori vassalli bbuggiaroni, e zzitto". L'altro, ne "L'incontro de li sovrani" pone una domanda e dà una risposta del re: "E er popolo? Se gratta. E er resto? Va da sé". Il populismo del re (o del demagogo aspirante dittatore, affetto da bulimia del potere) è cosa del tutto diversa dal populismo del rivoluzionario. Berlusconi appartiene a questa categoria. Vellica gli istinti peggiori che ci sono in tutti gli esseri umani. Impastando insieme illusorie promesse, munificenza, bugie elette a sistema, tentazioni corruttrici, potere mediatico. Una miscela esplosiva, capace di manipolare e modificare in peggio l'antropologia d'un intero paese. Ottant'anni fa Mussolini fece altrettanto; non a caso il suo giornale, affidato alla direzione di suo fratello Arnaldo, fu chiamato "Il popolo d'Italia". Il popolo?: "Se gratta e guarda la fregata che sul mare scintilla" scrisse Trilussa. E purtroppo di quel suo grattarsi non pare abbia conservato sufficiente memoria.
Quest'atteggiamento del "boss" spiega tante cose, a cominciare da quel suo "vibrare" davanti alla platea radunata da Storace che lo accolse con le braccia levate nel saluto romano scandendo il "duce duce" d'infausta memoria. La sua operazione politica del nuovo partito è da questo punto di vista perfetta: lo sottrae ad una cocente sconfitta, realizza i bagni di folla di cui ha perenne bisogno come dell'aria che respira, aggancia la sua demagogia e il suo populismo alla destra fascista e alle sue pulsioni; infine scatena la sua vendetta contro i "traditori" che lui (sono parole sue) "ha tirato fuori dalle fogne e nelle fogne li rimanderà". Ineccepibile, non c'è che dire. * * * Veltroni lo incontrerà venerdì dopo aver visto domani Fini, poi Casini e per ultimi, lunedì 3 dicembre, quelli della Lega. Tema: una nuova legge elettorale, ma anche modifiche istituzionali e costituzionali, riforme dei regolamenti parlamentari, Senato federale. Berlusconi ha posto una condizione: la trattativa dovrà riguardare soltanto la legge elettorale, votata la quale la legislatura si chiude e il popolo è chiamato al voto che dovrà avvenire entro la primavera del 2008. Veltroni ha già risposto che questa condizione è inaccettabile, abbinare il negoziato alla caduta del governo Prodi non è nelle sue intenzioni oltre ad essere un accordo di natura anticostituzionale, quindi nessuna elezione politica fino a quando il governo sarà legittimamente in carica. Con queste premesse i due si incontreranno. Berlusconi punta ad una legge proporzionale (alla tedesca) come del resto vorrebbe anche Casini; Veltroni preferisce un proporzionale corretto in senso maggioritario, come vorrebbe anche Fini. Come finirà? Penso che Berlusconi accetterà di negoziare abbandonando la pregiudiziale della caduta del governo Prodi. Negoziato lungo. Tanto - pensa lui - Prodi cadrà egualmente, pugnalato da Bruto, cioè da Lamberto Dini. Questione di giorni. * * * Però, a pensarci bene, mandare Prodi a gambe levate non conviene al signore di Arcore. Il Quirinale a quel punto ha l'obbligo di cercare una nuova maggioranza. Ebbene, la nuova maggioranza per un governo "di scopo" che porti avanti la legislatura fino a quando le riforme istituzionali ed elettorali siano state realizzate ed attui la Finanziaria e i suoi collegati, è sulla carta disponibile: la maggioranza attuale più An e Udc. Per un governo "di scopo". Maggioranza di emergenza. Conviene a Berlusconi? Sarebbe di fatto una sua piena sconfitta. Se non ha del tutto perso la ragione, a lui conviene tenersi Prodi e andare avanti nella trattativa rinunciando all'appuntamento elettorale. Sarebbe una sconfitta anche questa ma almeno senza l'onta di vedere i suoi ex delfini traditori riprender confidenza con il potere. Dalla padella alla brace. Scelta difficile ma obbligata: la padella è meglio. Quanto a Dini, se il governo non gli offre un pretesto valido non può esser così scriteriato da fare la parte di Bruto che non ha mai portato fortuna a nessuno. Ma poi quale Bruto? Quali ideali? Quale prospettiva politica? Andrebbe a far compagnia a Schifani e a Cicchitto, a Dell'Utri e alla Brambilla; una compagnia già troppo numerosa per lasciare spazio ad un nuovo venuto, ex traditore anche lui. Non sembra credibile. Andrebbe forse con Casini mentre Casini tratta a sua volta con Veltroni? Sarebbe imbarazzante. Per un piatto, anzi un piattino di lenticchie e senza primogenitura. Dini può condizionare soltanto Prodi. Col risultato di rafforzarlo. Oppure di farlo cadere se la sinistra dovesse votargli contro sul voto di fiducia. Bertinotti, Diliberto, Pecoraro Scanio come Bruto? Mentre anche loro sono chiamati a negoziare sulle riforme? Tutto questo per ottenere qualche briciola sui lavori usuranti e sullo "staff leasing"? Ma siamo seri! * * * Quale legge elettorale? Alla fin fine sarà la proporzionale tedesca con qualche (modesta) correzione maggioritaria che favorisca i partiti di maggiori dimensioni. Entreranno in Parlamento sei partiti: il partito del popolo berlusconiano, il partito democratico, An, Udc, Lega, Sinistra radicale (Cosa rossa). Verdi, socialisti, radicali, dipietrini dovranno accasarsi a sinistra in qualche modo. A guardare le cose così - e non vedo in quale altro modo guardarle - non esisterebbe una maggioranza. A meno che i berlusconiani e/o il Pd non riescano a sfondare portandosi in vista del 40 per cento dei voti. È possibile un esito elettorale del genere? Possibile sì, probabile non direi. I berlusconiani al 40 per cento dovrebbero aver risucchiato almeno metà dei voti di An costringendo Fini a rientrare nei ranghi insieme alla Lega. E il Pd? * * * Qui si apre un discorso molto serio che va oltre le contingenze emergenziali dettate dall'attualità. Riguarda i tanti lavoratori e pensionati che hanno votato Berlusconi, i tanti giovani che non votano, i tanti delusi di sinistra che non votano più. I tanti imprenditori di piccola e media dimensione che stanno tra il leghismo e il riformismo. Le tante "casalinghe" che pensano al futuro dei loro figli. Insomma il paese spaesato che vuole onestà ed efficienza, innovazione e laicità religiosa. Che vuole fare da sé ma in un quadro politico che lo orienti e lo aiuti a fare da sé. Il Partito democratico ha la potenzialità per compiere questo miracolo se saprà esprimere, interpretare e dare concrete risposte ai bisogni, ai desideri e ai sogni di questo settore maggioritario del paese. Politologi e sondaggisti travestiti da politologi pensano che i voti fluttuanti capaci di cambiare partito tra un'elezione e l'altra siano un piccolo settore del corpo elettorale e questo è vero quando si fronteggino due solidi blocchi con solide appartenenze in mezzo ai quali si interponga uno strato sottile di elettori "centrali" che di volta in volta si muovano verso destra o verso sinistra. Ma non è più vero quando il quadro è frammentato, i blocchi e le appartenenze sono fragili e la politica cosiddetta dei due forni non è possibile. Non concordo con quanti sostengono che un ritorno al proporzionale significhi ritorno alla Prima Repubblica. Allora c'era un partito di centro - la Democrazia cristiana - largamente dominante. La politica dei due forni era lei a farla, scegliendo di volta in volta i suoi alleati. Il sistema proporzionale (come ha scritto giustamente Giovanni Sartori) funzionava di fatto come un sistema bipolare: Dc da una parte, Pci dall'altra. Bipolare ma senza alternanza. Oggi il problema è quello di costruire un partito di maggioranza sul quale convergano riformisti seri e liberali altrettanto seri. Ceti che abbiano capito il valore democratico delle istituzioni, il valore di agire in un quadro europeo, il valore di collocare l'Italia nel processo di globalizzazione cogliendone i vantaggi e limitandone i danni. Riconquistando la fiducia del Nord e rilanciando il Sud come investimento nazionale e internazionale. Questa mi sembra essere la vocazione del Partito democratico e ad essa dovranno dedicarsi quelli che l'hanno voluto e i tanti che hanno compreso e partecipato al progetto. Berlusconi ha detto l'altro ieri ai suoi ex alleati "Voi tenetevi il progetto, io mi prenderò i voti". Sembra una battuta più o meno felice, ma il dramma dell'ex centrodestra è che quella battuta corrisponde esattamente al pensiero e alla personalità del suo autore. Il quale vede gli italiani come un popolo da accalappiare a forza di battutacce, barzellette grevi e carisma personal-mediatico. Con questi ingredienti non si va da nessuna parte, il paese resta fermo o regredisce, come di fatto è avvenuto. Il centrosinistra ha anch'esso rilevanti responsabilità nello stallo in cui ci troviamo da anni. Ma - non scordiamolo mai - ha compiuto una riforma di inestimabile valore portando l'Italia in Europa e nell'area della moneta europea, senza la quale a quest'ora saremmo rimbalzati in una condizione da Terzo Mondo. Ora ci vuole uno scatto di qualità e di quantità, al quale sono chiamati tutti gli italiani. Riguarda infatti il Partito democratico ma anche la sinistra e i cittadini che sentono con maggiore sensibilità tradizioni liberali e moderate. Tutti sono interessati a far emergere le potenzialità delle quali l'Italia dispone. Questa è la vera maggioranza e questo dev'essere il progetto comune delle persone di buona volontà. I voti, quali che siano le battute della demagogia berlusconiana, verranno insieme al progetto, motivate dal progetto e con la volontà di attuarlo. * * * Non ho nulla da aggiungere a quanto ha già scritto il direttore di "Repubblica" sullo scandalo Rai-Mediaset, sull'operazione "Delta", sulla sua eccezionale gravità e sulla necessità di affrontarlo con appropriate terapie. Affrontarlo subito, perché è in gioco il mercato dell'informazione, la sua qualità e i suoi effetti sulla formazione della coscienza nazionale. Aggiungo a quanto hanno scritto Giovanni Valentini, Michele Serra e Giuseppe D'Avanzo due considerazioni. La prima riguarda la cosiddetta "fuga di notizie" a proposito delle intercettazioni telefoniche nel processo per bancarotta della società controllata dall'ex sondaggista di Berlusconi. La fase istruttoria è chiusa da tempo, tutti gli atti relativi sono stati depositati nella cancelleria del Tribunale di Milano a disposizione delle parti e quindi sono pubblici. La cosa stupefacente è che vi siano ancora recriminazioni sulla "fuga" di queste notizie che non sono più soggette ad alcun obbligo di secretazione. La seconda osservazione riguarda la terapia affinché la Rai cessi di essere un corpaccione dominato dai partiti e dalle camarille interne e divenga invece un'azienda indipendente, incaricata di compiere il servizio pubblico dell'informazione. Non parlo ovviamente della necessità di accertare i fatti e sanzionarne severamente gli autori: è un atto dovuto. Parlo della necessità di trasformare l'azienda scrostandola dalle camarille interne e dalla pressione esterna-interna dei partiti. C'è un solo modo per farlo: trasferire la proprietà dell'azienda dal governo ad una Fondazione i cui dirigenti siano designati dal Presidente della Repubblica e da altre Autorità indipendenti. La Commissione di vigilanza dev'essere a mio avviso abolita perché ha la sola funzione, non più accettabile, di tutelare i partiti. La Fondazione avrà il potere di nominare l'organo di amministrazione dell'azienda e questo nominerà i direttori delle reti e dei telegiornali oltre che gestire le risorse e gli investimenti. Non è cosa difficile e non richiede molto tempo ma soltanto volontà politica. E urgenza. Una volta che la Rai sia di proprietà d'una Fondazione indipendente dalla politica, anche il problema del conflitto d'interessi sarà risolto, almeno per questa parte che è poi quella essenziale. Non aspettate, per favore, neppure un minuto di più.
(La Repubblica, 25 novembre 2007)

ALL’OMBRA DELLA BUROCRAZIA. Il tesoro dei boss dimenticato

di Alberto Custodero
Si può perdere la lotta alla mafia anche per burocrazia, inefficienza, inadeguatezza della macchina dello Stato. Succede da anni, e succede tutti i giorni, se si guarda ai patrimoni sequestrati ai boss mafiosi e mai entrati in possesso del Demanio. Sentenze dello Stato disattese, da un lato, rendite e benefici lasciati in possesso dei clan, dall´altro. Cioè soldi, finanziamenti e risorse di cui la mafia gode alla luce del sole. Anzi, all´ombra della burocrazia.
A Pollena Trocchia, la cittadina in provincia di Napoli che Totò usava come metafora per definire un posto sperduto, una palazzina di 27 appartamenti è stata confiscata esattamente diciassette anni fa, nel novembre del 1990, al vecchio boss della camorra Giacomo Terracciano. Ma in tutto questo tempo lo Stato non ha saputo diventarne proprietario. E l´immobile, che vale cinque milioni e mezzo di euro, ha continuato a rendere ingenti profitti ai familiari del capoclan camorrista, che, come se niente fosse, affittano ancora oggi gli alloggi, facendosi beffa dell´Agenzia del Demanio - che li gestisce per conto dello Stato - e degli amministratori giudiziari.
A Bari, una palazzina in piazza San Pietro, nel cuore della città vecchia che s´affaccia sul porto, è stata sequestrata dieci anni fa e poi confiscata definitivamente nel 2000 ai Capriati, uno dei clan che con gli Strisciuglio e i Manzari si contende il controllo della città. In quei 14 appartamenti, però, in questi sette anni hanno continuato a vivere i parenti del boss Sabino Capriati, cinquanta persone - fra loro donne e bambini alcuni dei quali estranei a attività illecite - alle quali ora il comune ha notificato un provvedimento di sgombero. Termine ultimo dello sfratto, il 25 novembre. Cioè dopodomani. Ma il sindaco barese, Michele Emiliano, neo segretario regionale del partito Democratico - temendo il peggio nel fare uso della forza pubblica per convincere quegli inquilini scomodi ad andarsene - con un atto d´umanità potrebbe concedere una proroga fino a gennaio, per non buttare in mezzo alla strada i parenti del boss proprio sotto natale.
Tutto l´imbarazzo del primo cittadino barese, ex pm della Direzione distrettuale antimafia, è emerso quando, un paio di mesi fa, l´Agenzia del Demanio gli ha lasciato in eredità, forse troppo frettolosamente, quei beni confiscati, ma ancora occupati. Allora, Emiliano si sentì in dovere di rivolgere «un pensiero particolare a quelle famiglie, invitandole a pensare che non è l´infamia della giustizia a punirle e colpirle, bensì quella dell´attività dei loro familiari».
Ma nel viaggio nel mondo dei patrimoni sequestrati ai boss, è a Pollena Trocchia - dove fu uccisa in un agguato perfino la figlia di 2 anni di un boss - che ci si imbatte nel caso più scandaloso. L´immobile sequestrato nel 1990 al boss Giacomo Terracciano - che da 17 anni frutta ancora utili al fratello Luigi - rappresenta il simbolo del fallimento della lotta dello Stato contro le ricchezze della mafia. Fa capire soprattutto l´inadeguatezza dell´Agenzia del Demanio a gestire quei patrimoni confiscati, visto che a tutt´oggi non è riuscita a entrarne pienamente in possesso. E visto che da tre anni non si preoccupa di inviare più, chissà perché, neppure l´amministratore giudiziario a riscuotere dai condomini parte degli affitti.
Questo scandalo spiega meglio di qualsiasi altro esempio perché sia stata richiesta dai questori del Sud e dalla commissione parlamentare Antimafia l´istituzione di un´Agenzia nazionale ad hoc per la gestione delle confische. E perché sia urgente la riforma parlamentare - prevista in un capitolo del «pacchetto sicurezza» del governo - della normativa sul sequestro dei beni dei boss mafiosi che sempre di più, per sfuggire ai sequestri, ricorrono a prestanome e investono nei paradisi fiscali esteri.
Ma piazza San Pietro a Bari, e Pollena Trocchia nel Napoletano non sono certo casi isolati. Lucia Rea, dirigente Aree politiche per la sicurezza della Provincia di Napoli, parla addirittura di un vero «museo dei beni confiscati: centinaia di mega ville, terreni, aziende, natanti, un tempo di proprietà di vecchi capi mafia, oggi per la maggior parte beni senza valore, diroccati, distrutti dal tempo, dalla burocrazia, e dagli atti vandalici degli ex proprietari». Fra questi spicca il caso dell´ex fortino del boss Francesco Rea in quel di Giugliano, in Campania. Si tratta di una struttura di 33 mila metri quadri (la villa del capo clan 5 mila metri quadri, intorno i locali di una ex concessionaria Mercedes e le case degli affiliati), confiscata il 26 gennaio del 1998 e passata al comune l´11 marzo del 2004. Prima di andarsene, amici e parenti del vecchio proprietario che vi avevano albergato abusivamente per sei anni - in tutto 30 nuclei familiari - hanno distrutto e saccheggiato tutto, portandosi via perfino le pareti e gli infissi. Ora su quel cumulo di macerie l´ente pubblico vuole costruirci il tribunale di Giugliano, ma - paradossalmente - per ristrutturare l´ex dimora del boss ci vogliono 30 milioni di euro. Per costruire gli uffici giudiziari ex novo, meno della metà.
Che lo stato non faccia affari, acquisendo la proprietà dei beni della mafia, del resto, è un fatto noto. Centinaia di immobili sequestrati alle famiglie malavitose non possono diventare di proprietà pubblica perché gravati da ipoteche da 200 a 500 mila euro a edificio vantate da banche che in passato, con quelle garanzie immobiliari, hanno concesso linee di credito ai boss o ai loro familiari. A puntare l´indice a tal proposito contro il sistema bancario è stato il questore di Palermo, Giuseppe Caruso. Alla commissione Antimafia, che sul problema dei patrimoni delle mafie sta per approvare una relazione, ha dichiarato: «Le banche, spesso disponibili nei confronti dei mafiosi, chiedono talvolta all´amministratore giudiziario, cioè allo Stato, garanzie più onerose di quelle chieste all´imprenditore mafioso». «Nel corso delle indagini - ha ribadito il questore Caruso - sono state rinvenute concessioni di prestiti e fideiussioni decretate per conoscenze personali, ed ipoteche iscritte sui beni immobili già ipotecati 3 o 4 volte come garanzia reale per centinaia di migliaia di euro. Posso fare i nomi dei procedimenti in corso a Palermo: Santomauro, Lo Verde, Nangano, Sansone e altri».
Non ci sono solo ombre, nel viaggio nel mondo delle confische patrimoniali. Anche luci: basti pensare che in seguito all´arresto, nell´ultimo anno, dei boss siciliani Nino Rotolo e Giovanni Carmelo Cangemi, è scattato il sequestro preventivo su un patrimonio di 45 milioni di euro. Nel 2003 sono stati sequestrati 3 milioni e mezzo di beni a Salvatore Riina, 9 milioni e mezzo a Bernardo Provenzano. E sono state fatte proposte di sequestro per 102 milioni di euro fra case, ville e terreni e società edili alle famiglie mafiose Gottuso e Cusimano di San Lorenzo. Ma quanti di quei beni entreranno nelle disponibilità dello stato? E, soprattutto, quando? La Sicilia come la Puglia. Altro esempio. A Bari, c´è un appartamento confiscato alla famiglia Catacchio, in via Grimaldi 15, di 200 metri quadri.
Peccato che una banca vanti un´ipoteca per 115 mila euro, e il curatore fallimentare della Finturismo Srl, che ha costruito l´immobile, faccia altrettanto per 200 mila euro. Morale, il comune, per ereditare - in teoria gratis - quell´appartamento che ha un valore di mercato di 200 mila euro, dovrebbe sborsarne 300 mila. Se la burocrazia e la «criticità normativa» rendono molto spesso vana e impervia l´aggressione dello stato ai patrimoni della criminalità organizzata, il questore di Napoli, Oscar Fiorolli, lancia un altro tipo di allarme. E denuncia i «limiti culturali» del Settentrione, una sorta di nota stonata in quella parte dell´Italia sempre pronta ad accusare il Sud di essere colluso con le mafie.
Ecco il j´accuse di Fiorolli alla commissione Antimafia: «A Napoli abbiamo superato il limite culturale insito nella confisca dei patrimoni della malavita. Nel Nord, invece, questo strumento è poco utilizzato perché credo che là ci sia un limite culturale non solo nostro, ma probabilmente anche dell´autorità giudiziaria. Sarebbe molto importante ricorrervi anche in quella parte del Paese».
Le conclusioni dell´inchiesta sulle confische condotta dalla commissione Antimafia presieduta da Francesco Forgione - ancora segrete - sono per certi versi scioccanti. "Repubblica" ne anticipa i contenuti principali. La prima criticità è proprio la gestione dell´Agenzia del Demanio, che viene letteralmente bocciata. «Non appare adeguato - spiega Forgione - fare rientrare la gestione e la destinazione dei beni confiscati alle mafie nell´alveo delle competenze generali dell´Agenzia del Demanio». Ed ecco alcuni motivi. «Non è stato possibile - aggiunge il presidente dell´Antimafia - conoscere i costi della gestione dei beni confiscati alla criminalità organizzata».
E inoltre: «Il procedimento di confisca, destinazione e assegnazione giunge a dare frutti concreti su meno del 10 per cento degli immobili». Ma le responsabilità accertate dalla Commissione Antimafia sono ben ripartite, alcune riguardano, a sorpresa, la stessa Giustizia. Ancora il presidente Antimafia: «Su 123 tribunali in tutta Italia, ben 65 non hanno instaurato alcun procedimento di prevenzione patrimoniale fra il 2004 e il 2006. Tra questi, i tribunali di Crotone, Salerno e Siracusa. Nell´ultimo triennio Cosenza, Catania e Trapani hanno inserito una pratica, Catanzaro due. Mentre Palermo è passata da 32 procedimenti patrimoniali nel 2003, a soli 4 negli ultimi tre anni». In totale, in Italia, si è passati da 233 procedimenti del 2001 censiti dal ministero della Giustizia, a 28 nel 2006. Per lo Stato, una sconfitta.
da la Repubblica

mercoledì 21 novembre 2007

Corleone: "Voglio essere Totò Riina"

CORLEONE (PALERMO) - C'è il ragazzino delle medie che dice "Batman? Io sono Totò Riina". Chi invece, studente di liceo, è soddisfatto che di vedere che un pugno di corleonesi soprannominati "viddani" o "cafoni" hanno, seppur in un ambito negativo, battuto i palermitani "cittadini" nella corsa alla supremazia criminale. A Corleone, dopo altri centri siciliani, la fiction di canale 5 "Il capo dei capi" comincia a suscitare preoccupazione perché, soprattutto tra i più giovani, vengono notate emulazioni della figura di Totò Riina. Nel paese dei padrini che per oltre trent'anni hanno gestito il direttorio di Cosa nostra giovedì sembra ci sia il coprifuoco: tutta la gente è in casa incollata davanti alla televisione a vedere la storia dei concittadini che hanno reso tristemente noto il nome della cittadina. Una tendenza che è anche nazionale considerato che la fiction è sempre prima negli ascolti ma che qui balza subito agli occhi. Dice il corrispondente di un quotidiano regionale: "Se cammini nudo per strada il giovedì sera e non incontri una delle pattuglie di polizia e carabinieri nessuno se ne accorge perché le strade sono deserte".Non tutti per fortuna ammirano il super boss. "E' un delinquente ancora in vita, che senso ha fare un film, per altro con tante puntate, sulla sua vita? Lo hanno fatto diventare un personaggio storico. Lo hanno santificato", dice Annalisa, 34 anni, che lavora nel centro di formazione a Corleone."Molti ragazzi e ragazzini - gli fa eco uno degli studenti del centro - guardano il film accanto ad adulti che non spiegano il contesto e che magari non sono del tutto contrari a quel tipo di mentalità: è un danno per i giovani soprattutto in questa citta. E poi nel film non sono state utilizzate comparse di qui e il film è stato girato nel ragusano e nel siracusano non a Corleone: non ha molto senso".Fuori dall'istituto "Don Giovanni Colletto", che ospita i licei scientifico e classico di Corleone, alcuni studenti si sottraggono alle domande altri dicono di "aver scoperto cose nuove dalla fiction" o che "nelle puntate finora non si è vista la presenza dello Stato" e che comunque Totò Riina è "chiaramente un criminale".
21/11/2007

Ma per il 55% dei siciliani Cosa nostra sarà sconfitta

PALERMO - Per il 55% dei siciliani Cosa nostra può essere sconfitta. E' questo uno dei dati che emerge dal sondaggio commissionato dal mensile "I love Sicilia" all'istituto Ekma di Luigi Crespi, i cui contenuti sono illustrati nel nuovo numero del magazine in uscita venerdì 23 novembre. A pochi giorni dalla cattura del boss Salvatore Lo Piccolo, il sondaggio fotografa la percezione del fenomeno mafioso da parte dei siciliani, offrendo un quadro in bilico fra ottimismo e realismo. Per il 76 per cento degli intervistati, il blitz di Giardinello ha inferto un duro colpo a Cosa nostra. Ma sull'effettivo cambiamento nella mentalità di imprenditori e commercianti, dopo le prime denunce e la nascita di un'associazione antiracket in un teatro gremito a Palermo, il campione si spacca, tra un 43 per cento che ritiene in atto una svolta e un 40 per cento che non è d'accordo con questa affermazione. Tra gli altri elementi emersi dalla rilevazione, anche una scarsa fiducia nella capacità della politica di affrontare il problema mafioso (per il 60 per cento del campione la politica non affronta la mafia in modo giusto ed efficace) e la sensazione che chi denuncia il "pizzo" non sia sufficientemente protetto dallo Stato (così la pensa il 65 per cento degli intervistati).I siciliani, inoltre, manifestano scetticismo sia sull'ipotesi dell'invio dell'esercito nell'Isola, sia sulla campagna di "consumo critico" che vorrebbe orientare gli acquisti verso quegli esercizi che non pagano il racket.Alla cattura di Salvatore e Sandro Lo Piccolo I love Sicilia dedica 16 pagine con analisi e approfondimenti. Il capo della Catturandi della Squadra mobile di Palermo, Cono Incognito, che ha stanato il boss, racconta: "Qualcosa si muove, io ho la percezione che Palermo, un pezzo importante di Palermo, stia cominciando a cambiare. Credo che i palermitani non abbiano più paura a mostrare la faccia alla mafia, i ragazzi di Addiopizzo hanno lavorato sulle coscienze, hanno instillato il dubbio, ma adesso la spallata decisiva devono darla proprio loro, commercianti e imprenditori". Il pm Antonio Antonio Ingroia, invece, analizza la frase "Ti amo papà", pronunciata da Lo Piccolo jr al momento dell'arresto, proponendo diverse chiavi di lettura. E ancora: i retroscena giudiziari che determinarono la latitanza del figlio del boss, un approfondimento sui conti del clan, tra "fatturati" milionari e stipendi degni di capitani d'industria, l'inventario degli oggetti trovati nel covo, dagli orologi ai sigari cubani, le interviste al presidente di Confindustria Sicilia Ivan Lo Bello e al vicepresidente dell'Ance Andrea Vecchio, e una giornata con lo staff del "telefono antiracket".
21/11/2007

martedì 20 novembre 2007

La mozione sulla “Strada provinciale Corleone-Sancipirello-Partinico”

IL CONSIGLIO COMUNALE DI CORLEONE

Premesso
· Che da qualche decennio, più precisamente da quando è stata completata la scorrimento veloce Palermo-Sciacca, la strada provinciale Corleone – Sancipirello costituisce una importantissima alternativa viaria che consente di raggiungere più agevolmente il Capoluogo laddove si consideri la congestione del traffico sulla Palermo-Agrigento, sul tratto autostradale Villabate-Palermo e su Via Regione Siciliana;
· Che per le ragioni sopra evidenziate tantissimi utenti utilizzano sempre più questo percorso;
· Che, adiacente alla predetta strada provinciale, è in corso di realizzazione l’area artigianale di Corleone il cui sviluppo si lega inevitabilmente ad un efficiente sistema viario;
· Che lungo tale percorso sono ubicate diverse aziende che svolgono un ruolo importante per l’economia della zona;
· Che la suddetta direttrice viene utilizzata in direzione Partinico per raggiungere l’Autostrada Palermo-Trapani-Mazara del Vallo e quindi l’Aereoporto Falcone e Borsellino scalo obbligato per chiunque ha la necessità di viaggiare in Aereo, nonché, per raggiungere le località balneari più vicine alla nostra zona;
· Che un’agevole collegamento con la “Fondovalle” garantirebbe comunque un importante sviluppo dei rapporti commerciali con tutta la Sicilia occidentale e una ricaduta economica non indifferente per tutto il circondario;
· Che Corleone è ormai diventata meta di numerosi turisti la cui presenza costituisce una importantissima prospettiva di sviluppo economico di tutta la zona che va incentivata anche attraverso un efficiente e moderno sistema viario;
· Che la strada in questione interessa diversi altri comuni vicini a Corleone;
· Che la presente mozione non si pone in antitesi al progetto di ammodernamento della statale 118 che si ritiene opera ugualmente indispensabile.

Considerato
· Che il tratto stradale in questione versa in pessime condizioni atteso che non viene sottoposto a tutti i necessari interventi di manutenzione finalizzati a garantire le condizioni minime di sicurezza. Il manto stradale si presenta in buona parte sconnesso con la presenza di numerose buche. Numerose frane alterano il piano stradale e causano avvallamenti o restringono pericolosamente la carreggiata come nel caso della frana (in piena curva) in prossimità di Pietralunga. Le cunette di raccolta delle acque piovane sono in alcuni tratti interrate sicché, in caso di pioggia la sede stradale si trasforma in un corso d’acqua.
· Che appare ormai indifferibile un efficace intervento di ammodernamento della strada provinciale più volte richiamata rendendola compatibile al ruolo importantissimo che la stessa ricopre nel territorio.
· Che il predetto intervento non comporta particolari difficoltà di realizzazione vista la prestanza del territorio in gran parte pianeggiante e la mancanza di particolari problemi di natura ambientale.
· Che da troppo tempo la politica districandosi fra promesse e ripensamenti non riesce a dare risposte concrete ai cittadini in ordine a tale problematica.


Preso atto
· Che da quanto è stato possibile verificare il piano triennale delle opere pubbliche della provincia regionale di Palermo riporta fra le varie voci : “Realizzazione Asse Viario Partinico – Sancipirello – Corleone” mediante recupero e sistemazione della SP 2 di Fellamonica e SP di Portella di Poira con l’indicazione nell’anno 2009 della somma di 120 milioni di euro.

Ravvisato
· Che la circostanza sopra rappresentata, pur inducendo ad un cauto ottimismo, rafforza ancor di più la necessità di incentivare nei comuni interessati un altissimo livello di attenzione finalizzata a dare un impulso decisivo alla soluzione del problema acquisendo, altresì, tutte le informazioni necessarie a valutare ciò che effettivamente si vorrebbe realizzare.

IMPEGNA IL SINDACO E IL PRESIDENTE

1. A farsi promotori congiuntamente e nel più breve tempo possibile, di un incontro con i vertici istituzionali degli altri Comuni interessati, con il pieno coinvolgimento delle rispettive Amministrazioni Comunali, dei rispettivi Consigli Comunali allo scopo di istituire un COORDINAMENTO degli stessi finalizzato a programmare tutte le attività conoscitive e di impulso nei confronti dell’Amministrazione Provinciale, del Governo Regionale e del Governo Nazionale, volte a garantire una soluzione definitiva per l’ammodernamento della strada di che trattasi.
2. A sollecitare l’Amministrazione Provinciale e i relativi organismi preposti a disporre, intanto, nell’immediato, gli interventi di manutenzione necessari a garantire le condizioni minime di sicurezza che un tratto viario di tale importanza non può fare a meno di garantire in considerazione fra l’altro dell’imminente approssimarsi della stagione invernale.
3. A sollecitare l’Amministrazione Provinciale affinché, contestualmente all’approvazione del Bilancio 2008, venga rivisto il Piano Triennale delle Opere Pubbliche, dando la massima priorità all’ammodernamento della strada Corleone-S.Cipirello.Partinico, utilizzando per la sua realizzazione parte dei finanziamenti statali (500 milioni di euro in tre anni) per l’ammodernamento della viabilità provinciale;
4. A trasmettere, per opportuna conoscenza, copia del presente atto ai Sindaci e ai Presidenti dei Consigli Comunali di Bisacquino, Contessa Entellina, Giuliana, Chiusa Sclafani, Campofiorito, Partinico, San Giuseppe Jato, Sancipirello, Roccamena ed eventuali altri Comuni che si ritenga possano essere interessati.

sabato 17 novembre 2007

Corleone, un cippo per fra' Rosario Pirrello, missionario in terra brasiliana

Non gli sarà stato facile, all’età di 45 anni, lasciare la sua Corleone, la Sicilia, l’Italia, per recarsi in terra di missione, nel lontano Brasile. O forse gli è stato più facile di quanto si possa immaginare. Infatti, scelte simili si fanno solamente se si portano nel cuore una grande fede e un grande coraggio, capaci di far superare le paure e le angosce umane. A fra’ Rosario Pirrello, nativo di Corleone, non mancavano evidentemente né l’una né l’altro. In Brasile arrivò alla fine di novembre del ’47, «con l’ardente desiderio di fondare in quella terra lontana una Chiesa ed un Convento per il Terzo Ordine Regolare di San Francesco», a cui apparteneva, scrive padre Giuseppe Messina, nel volume “Religiosi del T.O.R. di Sicilia, dai Vespri Siciliani alla galleria d’Arte Moderna” (Palermo, 2006). Ma fra’ Rosario, quando arriva a San Paolo del Brasile, non trova niente, neanche un tetto sotto il quale dormire. «Tanto che, per diverse notti, gli toccò addormentarsi sotto le stelle…», racconta il nipote Giusto Pirrello, che a Corleone si sta adoperando per tenere viva la memoria dello zio missionario. Di giorno fra’ Rosario iniziò una faticosa opera di evangelizzazione nei quartieri di periferia di San Paolo, nelle “favelas”, tra i “meniňos de rua”, i “bambini di strada”. Vivevano (e, purtroppo, vivono ancora) senza famiglia e senza casa, sporchi, vestiti di stracci, a piedi nudi e – quel ch’è peggio – continuamente a rovistare nelle discariche, alla ricerca di qualcosa da mettere sotto i denti, per allentare i morsi della fame. Fra’ Rosario non si perse d’animo, cercò di collegarsi con i siciliani emigrati in Brasile, cominciò a fare opera di accoglienza, conquistò la fiducia e la stima di tanta povera gente. E, a poco a poco, le cose cominciarono a cambiare. Dapprima la chiesa dove celebrava messa era una misera baracca, solo un po’ più grande delle altre, per poter accogliere i fedeli. Poi riuscì a costruire una chiesa in muratura, che volle dedicare a «Nostra Signora del Perpetuo Soccorso», e ad acquisire un vasto appezzamento di terreno, dove probabilmente pensava di realizzare un convento, che però rimase solo un suo sogno. Per realizzarlo, infatti, sarebbe stata necessaria la presenza di altri frati. Ma nemmeno allora era facile convincerli a lasciare l’opulento occidente per “sposare” davvero “Madonna Povertà”, nel Terzo Mondo. Fra’ Rosario dovette rinunciare all’idea di costruire il convento francescano, ma continuò – instancabile – la sua opera missionaria tra gli “ultimi”. Il Brasile divenne la sua seconda patria e San Paolo la sua nuova città. Non volle più tornare in Italia, tranne che per brevi periodi, convinto che di lui ci fosse più bisogno in una terra difficile come quella brasiliana. Si ammalò del “mal di Brasile”, dunque, e le rare volte che ne era lontano, veniva preso dalla “saudade”, quella nostalgia lancinante che “consuma” i brasiliani costretti ad emigrare. Morì in Brasile nel 1982, all’età di 80 anni. E giovedì scorso, a 25 anni dalla morte, la sua città d’origine, Corleone, ha voluto onorarne ancora una volta la memoria, dedicandogli un cippo, che è stato scoperto su un’area adiacente alla via che porta il suo nome. Un semplice cippo in pietra, con una scritta altrettanto semplice: «Sac. Rosario Pirrello, francescano del terzo ordine regolare, stella della solidarietà, missionario tra le favelas di San Paolo, 1947 – 1982, la città di Corleone nel ricordo pose il 15 novembre 2007». L’opera, commissionata dal Comune di Corleone, è stata realizzata da Piero Cascio, un giovane scultore corleonese, autodidatta. Giovedì scorso, all’inaugurazione, era presente una folta delegazione dei francescani del Terzo Ordine Regolare, guidata da padre Giuseppe Messina, un gruppo di alunni della scuola elementare, il sindaco Nino Iannazzo e diversi assessori, Giusto Pirrello, nipote di fra’ Rosario. Ma l’anima della manifestazione è stato fra’ Giuseppe, parroco di Maria Santissima delle Grazie. «Oggi è una giornata bellissima – ha detto fra’ Giuseppe – perché ricordiamo un nostro confratello che ha speso la sua vita per gli altri. E’ giusto che Corleone sia conosciuta perché patria di persone generose e buone come fra’ Rosario, piuttosto che per le gesta di qualche criminale».
Dino Paternostro
18 novembre 2007
FOTO. Dall'alto in basso: un primo piano di fra' Rosario Pirrello; il cippo inaugurato giovedì scorso.

Corleone, il gusto del confronto democratico

DINO PATERNOSTRO

I cittadini di Corleone, ma anche quelli dei comuni del circondario, stanno riscoprendo il gusto del dibattito e del confronto democratico. A volte usano toni un po’ aspri, ma tutti, con grande passione, ci tengono ad esprimere un’opinione sui temi dai quali si sentono maggiormente coinvolti. A tenere banco in questi giorni sono il trasferimento di don Francesco Carlino e il tentativo di sfrattare il Cidma. Questi due argomenti hanno fatto registrare decine di interventi. Ne abbiamo scelto alcuni più significativi, ripubblicandoli sul sito. Ci rammarichiamo, però, per la scelta dell’anonimato da parte di tanti cittadini. Come sarebbe bello se tutti firmassero col proprio nome e cognome le opinioni sostenute! Sarebbe il segnale di un’ulteriore crescita democratica. Chissà che nei prossimi giorni non avvenga. Dobbiamo essere fiduciosi…
Qualche considerazione sui due argomenti che stanno tenendo banco vogliamo farla. A proposito del Cidma, nessuno più di noi ha criticato le scelte dell’on. Nicolò Nicolosi nella gestione del Centro antimafia. Lo criticavamo quando l’attuale sindaco Nino Iannazzo, allora vice-sindaco e assessore alla legalità della giunta Nicolosi, non aveva nulla da dire. Adesso, però, ci sembra un accanimento auto-lesionista il tentativo di sfrattare il Cidma con la scusa dei locali per l’Ufficio Tecnico. Piuttosto che dare incarichi ai legali per sfrattarlo, perché il sindaco Iannazzo non si batte all’interno del consiglio direttivo del Cidma di cui fa parte per farlo funzionare meglio? Questo significa difendere Nicolosi? Oppure difendere il semplice buon senso?
Rispetto al trasferimento di don Francesco, comprendiamo lo stato d’animo di tante ragazze e tanti ragazzi che insieme a questo giovane sacerdote stavano facendo un percorso di fede molto interessante e ricco. In un simile contesto, il trasferimento sembra un pugno in faccia, una pugnalata alle spalle. Fanno riflettere, però, le considerazioni di don Leo Pasqua, che, da giovane prete, invita a leggere in maniera diversa tutta la vicenda. Un fatto, comunque, è certo: i vertici della Diocesi di Monreale dovrebbero avere più capacità di ascolto e più disponibilità a spiegare il proprio punto di vista. Anche perché oggi tanti fedeli – parafrasando don Milani - vanno imparando che l’obbedienza non sempre è una virtù.
(d.p.)
18 novembre 2007

P.S. Siamo contenti che Città Nuove stia diventando ogni giorno di più lo strumento di questa ripresa dello spirito di confronto democratico. Per questo ringraziamo i lettori...

Gli sprechi del Cidma gestito da Nicolosi

Che per il Cidma ci sia in atto una bega politica è inutile negarlo. Che a volere la creazione del Cidma a Corleone per fare antimafia e per far conoscere la storia negativa della mafia a livello internazionale sono stati promotori Nicolosi e Iannazzo è evidente a tutti. Che però l'ex Sindaco Nicolosi ha trasformato il Cidma in un luogo di potere dovrebbe essere noto a tutti e in particolar modo al Direttore Dino Paternostro che adesso spreca tutte le sue energie per mettere in risalto positivamente l'operato dell'ex Sindaco. E' sensato ed opportuno così come ha fatto Nicolosi sperperare circa un milione di Euro di finanziamenti ricevuti dalla Stato per altri scopi (vedi Statuto) per organizzare festicciole di vario tipo fra cui per ultima la grande abbuffata sotto la campagna elettorale per pochi corleonesi in quel di Ficuzza? Non sarebbe stato più saggio investire tutti questi soldi per comprare un immobile da mettere a disposizione dei tantissimi giovani del territorio corleonese e dei numerosi visitatori che ogni giorno si recano nella nostra cittadina per conoscere e studiare il perverso mondo della mafia che ha contributo a far conoscere negativamente il nome della città di Corleone in tutto il mondo? Con questi soldi potevamo anche permetterci di attrezzare una sala multimediale con diverse postazioni internet e con studiosi che potevano spiegare ai giovani come far antimafia......... Non capisco poi come fanno i giovani come Serena ad accontentari di così poco e di spettacoli e kermesse che durano poche ore e che nulla hanno a che fare con la vera antimafia...... Qualcuno dice che Corleone non offre nulla ma i nostri giovani cosa fanno per renderla diversa..... forse passano il loro tempo facendo atti di vandalismo e sporcando a non più non posso come ad es. all'interno della Villa Comunale. Svegliatevi ragazzi e siate propositivi perchè l'antimafia siete voi.......... e prendete atto che anche con pochi soldi si possono organizzare spettacoli e kermesse interessanti......
REX
17 novembre 2007

Caro signore, io sono un giovane e le assicuro che i giovani di Corleone non passano il tempo a compiere atti di vandalismo, certo ci sarà qualcuno che lo farà pure ma certamente non può generalizzare perchè altrimenti ci offende tutti anche coloro che all'interno della villa comunale ci vanno a passeggiare o a fare una chiaccherata con gli amici, osservando rigorosamente le leggi. I vostri giovani sono ben volenterosi e abbastanza preparati. La responsabilità delle cose che vanno male a corleone (e non solo) non è dei giovani, ma della gente che fa politica. Non cerchate di dare la colpa ai giovani ma cerchiamo, invece di creare inutili polemiche sfrattando il CIDMA, di cominciare a fare la legalità in prima persona, giornalmente, essendo di esempio ai vostri giovani. Cominciamo col dare alle persone che realmente meritano dopo anni di studi e sacrificie e non di premiare coloro che stanno attorno a questo o quel politico(così si comincia a fare legalità). Guardiamoci in faccia e non cerchiamo di buttare la colpa su coloro che proprio non ne hanno.
Anonimo

17 novembre 2007

Dopo l'arresto dei Lo Piccolo. Il pm Gaetano Paci: “Lavoriamo per smantellare la rete dei collusi”

«Le cifre sull’ammontare delle estorsioni pubblicate dai giornali? Mi sembrano sovrastimate». È una lettura diversa dei fatti raccontati in questi giorni concitati quella che arriva da Gaetano Paci, uno dei tre magistrati (gli altri sono Domenico Gozzo e Francesco del Bene coordinati da Alfredo Morvillo) che ha lavorato alle indagini scaturite nell’arresto di Salvo e Sandro Lo Piccolo (latitanti dal 1983)e di altri due boss di primo piano. Paci, 42 anni, in magistratura dal 1991, dava la caccia a Lo Piccolo dal 1996. Sa di avere in mano elementi decisivi per capire le dinamiche della cosca di San Lorenzo e dell’intera Cosa nostra palermitana al cui vertice, dopo l’arresto di Bernardo Provenzano avvenuto il 12 aprile dell’anno scorso, si era insediato Lo Piccolo.

Dottore, avete in mano il libro mastro della cosca Lo Piccolo. Cosa emerge? Ci sono i nomi dei colletti bianchi, dei professionisti di cui si parla?
Questo non lo possiamo dire. Posso dire che ci sono tantissimi nomi e tanti elementi che riguardano gli imprenditori collusi e i favoreggiatori del boss. Cresce il materiale sul reticolo di interessi di Lo Piccolo e si aggiunge al materiale già acquisito in altre operazioni giudiziarie più o meno recenti.

Il capo della sezione Catturandi della questura di Palermo Cono Incognito ha detto che sono in arrivo altre operazioni. Vi preparate al repulisti?
Stiamo analizzando tutti gli elementi che abbiamo acquisito con l’operazione di lunedì scorso. Ed è chiaro che abbiamo tutta l’intenzione di andare avanti su questa linea.

Si è detto nei mesi scorsi che alcuni attentati o addirittura omicidi potessero essere il frutto di una sorta di “marketing interno a Cosa nostra”. Insomma, in una situazione di vuoto di potere, c’è chi si fa avanti sparando. Non temete che oggi questo fenomeno si possa acuire facendo aumentare la violenza?
Il vuoto di potere determina sicuramente una corsa a prendere il posto di chi è finito in carcere. Ma è ancora un po’ presto per dire cosa succederà dopo l’arresto di Lo Piccolo.

Anche se in parecchi dicono che possa già essere Matteo Messina Denaro il successore a capo di Cosa nostra.
Ho già avuto modo di dire che non credo alla possibilità che Matteo Messina Denaro, che è della provincia di Trapani, possa arrivare al vertice di Cosa nostra.

È stato scritto in questi giorni che migliaia di persone, a libro paga della cosca, quest’anno non avranno la tredicesima. Sono vere quelle cifre?
Per usare un eufemismo direi che si tratta di cifre sovrastimate. Mi sembra un’evidente esagerazione.

Lunedì, nel corso della conferenza stampa dopo l’arresto dei boss lei ha detto che è «stato merito» di tutto l’ufficio. Un modo chiaro per chiudere le polemiche dopo le chiacchiere sul processo Cuffaro.
Ma mi sembra evidente: guai a scadere in questi personalismi inutili. La cattura di Lo Piccolo è avvenuta per merito di tutta la Procura, di tutta l’antimafia.
Novembre 14, 2007
Nino Amadore

Don Leo Pasqua: "Voglio esprimere il mio disappunto sugli atteggiamenti poco maturi a proposito del trasferimento di don Francesco..."

Ciao cari amici, sono don Leo Pasqua, corleonese doc, immamorato della mia parrocchia di origine S. Rosalia, dove sono stato educato nella fede e dove ho ricevuto i sacramenti dell'iniziazione cristiana.Incardinato nella Diocesi di Palermo, attualmente svolgo il servizio di Vice Rettore nel seminario Arcivescovile, rimanendo comunque legato a Corleone dove spesso mi ritrovo a celebrare L'Eucaristia. Volevo esprimere il mio disappunto per l'atteggiamento poco maturo, che si sta assumendo a proposito del trasferimento di don Francesco Carlino al quale mi lega una profonda e fraterna amicizia.Questa vicenda, che non mi ha lasciato certamente indifferente, bisogna leggerla con gli occhi della fede, prima di farla diventare oggetto di critica e di cortile.Credo che il Signore voglia invitare la comunità di S. Rosalia a fare un salto di qualità e a dimostrare una certa maturita nella fede come risultato di un cammino intenso e intelligente condotto grazie alla sollecitudine di Pastori saggi e prudenti quali Mons. Girolamo Liggio, don Domenico Mancuso, e per ultimo don Francesco.Pertanto sarebbe un grave errore vanificare tutto ciò che si è costruito con fatica giudicando la scelta del vescovo Di Cristina e insinuando falsità sulle motivazioni del trasferimento.Noi sacerdoti il giono dell'ordinazione abbiamo fatto una promessa di obbedienza nelle mani del nostro vescovo e don francesco in questo momento ci sta offrendo un grande esempio di umiltà e di accettazione della volontà di Dio.Per cui credo che il più bel regalo che possiamo fare a don Francesco é l'assunzione di un atteggiamnto di ascolto, di fiducia e di abbandono,che non solo dicono la maturita raggiunta da una comunità cristiana, ma costituiscono i frutti più belli di quanto don Francesco ha seminato nello svolgimento del suo ministero come parroco della nostra parrocchia.E allora bando alle critiche e con speranza e spirito di obbedienza continuiamo a lavorare nella vigna del Signore, nella consapevolezza che Dio nostro Padre non abbandona i suoi figli. don Leo Pasqua

Salvatore Borsellino: Appello per sostenere il mensile Casablanca di Riccardo Orioles

Ho ricevuto in questi giorni diversi mail e sms di giovani sinceramente disperati perche' Casablanca, un giornale che e' la continuazione ideale dei "Siciliani" di Pippo Fava, un giornale che faticosamente combatte a Catania contro l'indifferenza dei tanti e contro l'impero dei Ciancio, un giornale che combatte in trincea e non come noi dalle retrovie, sta per essere ucciso.
Ve ne riporto solo alcuni.
Il primo è un sms di una amica, appartenete a un gruppo di uomini, donne e ragazzi che non si arrenderanno mai, che ho avuto la fortuna di incontrare sulla rete nella mia incessante ricerca di persone che vogliano combattere al mio fianco la mia ultima battaglia e che, dopo di me, possano continuare a combatterla.
Mi scrive : "Amico, sono abbattuta stasera. Casablanca è in agonia. Se chiude... Pippo Fava viene ucciso di nuovo. Mi sento impotente, cosa posso fare? Dammi un consiglio perché ho solo voglia di piangere..."
Voglio molto bene a questa amica dal volto sconosciuto perché so che lotterà con me sino all'ultimo, e a questo nome è ispirato il suo gruppo, e perché spesso fa iniziare la mia giornata con un sms pieno di colori e di speranza, ma ho rimproverato anche lei perché anche a lei ho gridato che non è tempo di lacrime, è tempo solo di lotta, le lacrime dovremo conservarcele, e saranno di gioia non di disperazione, per quando andremo da Paolo a dirgli che a tutti i morti e gli oppressi dalla mafia e dalla illegalità avremo reso giustizia.La seconda è una email di cui riporto solo alcuni passi :
"... Graziella mi dice che casablanca è in edicola, e non lo compra neanche chi in teoria dovrebbe fare antimafia, non lo compra nessuno delle associazioni antimafia, non lo comprano i vecchi compagni di partito, non lo comprano nemmeno gli amici e 3000 euro al mese d'affitto e di spese continuano a uscire... aiutatemi a trovare un pubblicitario, perchè se muore casablanca, è come aver lasciato morire Graziella, indebitatasi PER NOI, perchè Casablanca non produce utili di alcun genere, ....cercasi qualcuno che vende spazi pubblicitari, con massima urgenza ... chiunque ascolti, risponda all'appello disperato... ne va della vita dell'antimafia vera, se vogliamo produrre sul serio, serve una mano, per favore, aiutateci ......"
La terza mi parla di Graziella Rapisarda, che insieme a Riccardo Orioles faceca parte della redazione dei "Siciliani" e che ora combatte insieme a lui una disperata battaglia perché Casbalanca possa continuare a vivere, e dice tra l'altro :
"... ha aperto un mutuo sulla sua casa per pagare le spese di affitto, della redazione, le bollette della luce, ma adesso non ce la fa più
a pagare le rate e la sua casa rischia di essere venduta all'asta. ......"
Ora dobbiamo decidere, se anche noi mescolarci ai tanti che fanno antimafia solo a parole, a quelli che aspettano che ci siano altri, giudici, magistrati, poliziotti, giornalisti costretti anche per colpa nostra a diventare degli eroi, o se vogliamo fare anche noi quel poco che ciascuno di noi può fare per combattere insieme a loro.
Ci sono tante altre cose che possiamo e che dovremo fare, ci saranno tante battaglie più dure e più difficili da combattere e questa che adesso vi chiedo è solo una delle più semplici.
Corriamo tutti ad aiutare chi sta per cadere, andiamo a fargli scudo con il nostro corpo.
Non materialmente, le vere guerre non si combattono più così, e neanche facendo un obolo, una donazione di cui poi ci dimenticheremmo, perché allora non avremo davvero fatto quello che potevamo e dovevamo fare.
No, quello che possiamo e che dobbiamo fare e' leggere quello che questi combattenti in trincea scrivono e, con grande fatica, riescono a pubblicare, impegniamoci.
E' dovere di ciascuno di noi comprare leggere e far leggere agli altri questo giornale, permettere che queste persone possano continuare a lottare anche per noi e insieme a noi.
Io non sono certo ricco, vivo del mio lavoro, continuo a lavorare anche se potrei già andare in pensione, e posseggo solo la casa in cui abito, ma siccome so di stare meglio di tanti altri che con il loro stipendio non arrivano alla fine del mese, non starò certo a pensare a cosa dovrò rinunziare per fare la mia parte.
Penserò invece a cosa dovrei rinunziare se non la facessi, alla mia libertà.
Io comincerò quindi per primo, perché è mio dovere farlo anche per il nome che porto, a versare sul conto che vi indico in fondo 1500 euro per trenta abbonamenti come sostenitore di Casablanca.
A ciascuno di voi chiedo di fare un semplice abbonamento per voi stessi, sono solo 30 euro, e di non pensare se per questo dovrete rinunziare ad un cinema o ad una pizza, avrete però anche voi acquistato uno spicchio di libertà.
So che ci sono anche alcuni di voi per i quali anche questo sacrificio potrebbe essere troppo, che non riescono nemmeno una volta al mese ad andare a mangiare una pizza o ad andare a cinema, scrivetemelo e vi manderò una delle copie di Casablanca che mi arriveranno con il mio abbonamento e se non basteranno cercherò di farne degli altri, ma Casablanca non deve, non può morire.Pippo Fava non può, non deve, essere ucciso ancora.
Ci sono due modalità per sostenere «Casablanca», per fare il vostro dovere, la prima e' tramite un bonifico bancario alle coordinate indicate di seguito
Abbonamento ordinario 30,00Abbonamento Sostenitore 50,00 Bonifico Bancario
Graziella Rapisarda
Banca Popolare Italiana Catania
Cc: 183088 ABI: 5164 CAB: 16903 CIN: M
La seconda, tramite carta di credito, e' quella attraverso il sito di seguito indicato
http://wpop1.libero.it/cgi-bin/vlink.cgi?Id=GdED2vykQ50wwjRE303fddraiW0gC2lGr5tbqOfO5Hk2IAh9GYGuHqjcDUUCci9RnLj8U1TkIuc%3D&Link=http%3A//www.ritaatria.it/Donazione_Casablanca.aspx Ancora un grazie a tutti voi per non avermi lasciato da solo in questa lotta per la giustizia.
Salvatore Borsellino
P.S. Per tutti quelli che ne hanno la possibilità: diffondete questo appello.
Milano, 4 Novembre 2007