mercoledì 28 settembre 2011

Corleone, campi di lavoro antimafia. Pomodori & Babbaluci

Oggi giornata riposo nr 2! Causa tacchi di fanghiglia alta venti cm sotto le scarpe che ci rendeva camminatori sulla luna abbiamo abbandonato l'intento di raccogliere pomodori. Non ci siamo fatti scoraggiare e siamo partiti speranzosi alla ricerca dei "babbalusci" (=lumache) prima, e poi verso il nuovo campo di giovani vigne. Lì Salvatore si è cimentato in un excursus storico e politico sulla cooperativa e i loro futuri obiettivi. Subito dopo pranzo uno stimolante incontro con il maresciallo Coppola della Guardia di Finanza. Come riassumere questo incontro... un'ardua opera! Per questa sera ci faremo riconoscere dalla popolazione corleonese tra le vie del paese per poi coricarci dopo un sano amaro Don Corleone che concilierà il sonno e ci preparerà alla faticata di domani. La notte porterà consiglio... ce la faranno i nostri eroi a riempire finalmente un camion di rossi ruggenti pomodori? Staremo a vedere e vi terremo aggiornati!
I Volontari e gli Spioni tutti!

mercoledì 21 settembre 2011

Documento. La memoria dell’assessore alla Salute, Massimo Russo, in risposta alla mozione di censura presentata dal Pdl


Massimo Russo
 di Massimo Russo
Per la seconda volta – dopo la presentazione del febbraio scorso – il PDL chiede all’aula la discussione della mozione di censura nei confronti dell’assessore per la Salute. E’ evidente, scorrendo il testo piuttosto confuso, addirittura già superato da provvedimenti formali assunti dall’assessorato, che si tratta di un atto di accusa con fini meramente politici per tentare di delegittimare l’azione riformatrice del governo regionale impegnato a riparare i gravissimi guasti del passato nel settore della sanità. Si tenta, in realtà, di colpire frontalmente la credibilità della classe dirigente siciliana che ha fatto fino in fondo il proprio dovere nel settore più delicato ed economicamente rilevante dell’amministrazione, adottando scelte di grande responsabilità per risanare il pauroso deficit economico e organizzativo della sanità, terreno sul quale nel passato hanno proliferato interessi clientelari, affaristici e mafiosi.
Tuttavia, se i firmatari della mozione avessero voluto legittimamente criticare e contestare l’attività politico-amministrativa dell’assessorato della Salute avrebbero dovuto utilizzare lo strumento della mozione di sfiducia al Governo - e dunque al presidente Lombardo - e non quello della mozione di censura con la quale dovrebbero stigmatizzarsi comportamenti e condotte rilevanti sul piano etico e morale, come dimostra l’unico precedente della storia dell’assemblea regionale siciliana. Non sfugge certo ai cittadini che questa mozione di censura è firmata dai deputati del PDL, cioè del partito del presidente del Consiglio Berlusconi che con i suoi comportamenti ha devastato l’immagine e la credibilità del nostro Paese a livello internazionale facendo precipitare l’Italia in una drammatica situazione politica, economica e sociale proprio per la manifesta incapacità di fare le giuste e necessarie scelte di governo.
Né può sfuggire ai siciliani che molti dei deputati oggi firmatari della mozione di censura erano anche parlamentari nelle precedenti legislature, gli anni della sanità siciliana dei report giornalistici nazionali, del DVD “La Mafia è Bianca”, delle inchieste giudiziarie, dei fastosi anni di Villa Santa Teresa, dei rimborsi gonfiati, delle truffe, degli scandali negli acquisti, delle assunzioni clientelari, dei primariati elettorali, dei munifici extrabudget per tutto il comparto della sanità privata, dei rinvii a giudizio, dei processi e delle sentenze. Eppure allora nessuno si è mai sognato di presentare una mozione di censura nei confronti di chicchessia! Anzi. Il primo firmatario della mozione di censura nei miei confronti è proprio quello stesso parlamentare che dopo la prima sentenza di condanna del presidente della regione dell’epoca, con fervore, trasporto e sentimentale partecipazione, strappando l’applauso convinto ad una parte dell’Aula, ha pronunciato parole eccessive.

E’ bene che i siciliani tengano memoria di certe cose e, come ho fatto io, li invito a rivedere il filmato di quella seduta d’Aula del 24 gennaio 2008 cliccando su YOU TUBE con le parole chiave “Limoli - Cuffaro”.

E’ da questo pulpito che arriva la mozione di censura?

Ho provato come cittadino e come siciliano un senso di incredulità.

E non posso non manifestare il dubbio – che vivo da tre anni – che certe accuse, al di là del merito e della loro legittimità, siano in realtà la conseguenza di una strisciante insofferenza nei confronti del mio passato di magistrato impegnato in prima linea per vent’anni nella lotta alla mafia e di un metodo nuovo, basato sul rispetto delle regole, sulla correttezza amministrativa, sul rigore, sulla coerenza, sulla trasparenza, sulla programmazione e sul mantenimento degli impegni assunti.

E’ forse questo che fa paura a certa politica, che vuole mantenere i propri privilegi e che si oppone al cambiamento?

Da “uomo d’onore”, cioè da soggetto istituzionale che svolge le pubbliche funzioni con disciplina e onore come recita l’articolo 54 della Costituzione italiana, ho fatto tutto ciò che era possibile per onorare gli impegni assunti con il Governo nazionale con la sottoscrizione del Piano di Rientro siglato – obtorto collo - dal precedente governo regionale. Un Piano di Rientro che era stato ampiamente disatteso, tanto che i Ministeri della Salute e dell’Economia avevano sottolineato con atti formali l’incapacità di adempiere agli obblighi assunti.

C’era evidentemente negli amministratori dell’epoca la riserva mentale di poter eludere quegli impegni con la ben conosciuta tecnica - propria di una classe politica che ha depredato la Sicilia e svenduto il nostro Statuto - di recarsi a Roma con il cappello in mano per elemosinare dilazioni e finanziamenti e barattare consensi con posti di potere.

Eppure nessuno si è mai sognato di proporre una mozione di censura verso i responsabili del tempo.

Viene da sorridere, poi, a leggere nella mozione di censura che la strada del risanamento in sanità è stata tracciata sotto la gestione Lagalla.

Capisco le ragioni promozionali e forse non è un caso che adesso Lagalla – persona stimabile – sia un possibile candidato politico del PDL a sindaco di Palermo, ma è appena sufficiente rileggere cosa ha scritto il Ministero il 24 marzo 2008, appena tre mesi prima del mio insediamento: “La Regione presenta un gravissimo ritardo nell’avvio del Piano sia in termini temporali, sia con riferimento al merito delle misure adottate”.

Adesso che il Piano di Rientro è stato rispettato, che i Ministeri plaudono alla nostra azione rigorosa, che la Sicilia ha recuperato tantissimo in termini di credibilità e serietà, adesso che perfino l’Europa apprezza la nostra progettualità, adesso che il debito è stato quasi del tutto azzerato e che si è messo in moto il processo di riqualificazione della sanità, ecco, adesso arriva questa mozione di censura.

Mozione che evidentemente non tiene nemmeno in considerazione il fatto che tutte le azioni, gli atti e le decisioni assunte dall’assessorato della Salute sono monitorate e controllate trimestralmente dai rigorosi tavoli tecnici dei Ministeri della Salute e dell’Economia.

Proprio questi organismi istituzionali, che stanno accompagnando costruttivamente il nostro sistema a consolidare il percorso virtuoso già intrapreso, hanno già espresso pareri ampiamente positivi - anche sulle tematiche oggetto della mozione di censura - tanto da liberare risorse per oltre un miliardo di euro che erano state bloccate proprio in ragione delle troppe inadempienze del passato.

Viene da sorridere anche nel leggere che avrei sfruttato “sistematicamente i mezzi d'informazione per propagandare risultati inesistenti, diffondendo consapevolmente notizie false al solo fine di sfruttare l'opinione pubblica per un proprio tornaconto politico”. Basterebbe rileggere le rassegne stampa degli ultimi anni per rendersi conto che tutto ciò non è vero. Ci sono stati organi di stampa che hanno esercitato con rigore ma con altrettanta serenità il giusto e doveroso diritto di critica ma altri che con faziosità, presunzione e arroganza culturale, hanno cercato di delegittimarmi anche sul piano personale, dando dei fatti di cronaca e di tutto ciò che è stato fatto in tre anni, una rappresentazione molto parziale e mai scevra da pregiudizi politici.
Da uomo delle istituzioni voglio comunque cogliere quest’occasione, per quanto impropria e sbagliata, per entrare nel merito delle questioni che sono state poste. E l’ho fatto con questa memoria, nella maniera che più mi è propria: cioè facendo parlare i fatti, i numeri, le carte. Cosa che del resto avevo già fatto appena qualche mese fa, presentando a metà del mio mandato di assessore, il cosiddetto “Libro bianco della Sanità”, un lungo e dettagliato resoconto su tutta l’attività dell’assessorato che è stato già distribuito nelle sedi istituzionali, a tutti i parlamentari e scaricabile dal sito istituzionale dell’assessorato.
Abbiamo invertito la tendenza e intrapreso una strada irreversibile, abbiamo dimostrato e comunicato ai cittadini che è possibile un modello di sanità equo, accessibile a tutti, dignitoso, che metta al centro di tutto l’interesse del paziente, che punta all’efficienza e alla modernizzazione. Che privilegia la competenza e non l’appartenenza. Che recide gli sprechi e il malaffare. Che studia il fabbisogno e programma gli obiettivi. Che torna a parlare di piante organiche e di nuove assunzioni con concorsi pubblici.
Questo non significa, ovviamente, che siano stati risolti tutti i problemi o che non siano fatti errori o che personalmente non possegga mille limiti dei quali umilmente chiedo scusa: ci vuole tempo perché una riforma di natura epocale possa davvero dispiegare tutti i suoi effetti, sappiamo che c’è tanto lavoro da fare e che ci sono anche errori e comportamenti da correggere. Ma di fronte a fatti e risultati tanto straordinari, davanti a riconoscimenti così lusinghieri rivolti alla Sicilia da tutte le istituzioni competenti, la domanda inevitabile è questa: chi ha interesse e perchè a far fare un passo indietro alla Sicilia e ai Siciliani ? La risposta è consequenziale e i cittadini – che percepiscono al pari della buona politica il senso del nostro sforzo – sapranno riconoscere e giudicare. E’ finito il tempo di una sanità feudale, dove ognuno curava gli interessi particolari del proprio territorio, ignorando che il sistema faceva acqua da tutte le parti. E’ finito il tempo in cui la salute dei siciliani veniva considerata merce di scambio politico. Diceva Giovanni Falcone, con una semplicità disarmante: “basta non fare un passo indietro per stare un passo avanti”. Né io, né questo Governo, abbiamo intenzione di fare un passo indietro.
Palermo, 21 settembre 2011
Massimo Russo
Assessore per la Salute

lunedì 19 settembre 2011

SALVIAMO TELEJATO

Con la Legge Finanziaria 2011 (articoli 8,9,10) sono state di fatto abolite le televisioni comunitarie (250 in tutta Italia) e il Ministero dello sviluppo economico si è riservato il diritto di assegnare, a pagamento, tutte le lunghezze d’onda del digitale terrestre, eccetto che per le tre reti RAI, per La 7, per Sky e per la telefonia mobile, le cui frequenze sono state assegnate senza pagamenti. Berlusconi si è fatto l’ennesimo regalo ed ha stabilito anche il controllo governativo su tutte le emittenti del territorio nazionale. a Le altre utenze saranno assegnate dietro esborso di ingenti somme di denaro, attraverso graduatorie regionali formulate sul numero dei dipendenti e sulle proprietà immobili. E’ la fine quindi del volontariato anche in questo campo. Il tutto naturalmente con il silenzio tombale e il disinteresse dei partiti politici del centro sinistra. Di fatto pertanto Telejato è già formalmente chiusa, la banda su cui trasmette è stata venduta alle agenzie di telefonia mobile e le sue residue speranze di sopravvivenza sono assegnate alla possibilità di aggregarsi, non si sa per quale importo, ad una delle cinque bande di cui potranno disporre le emittenti che otterranno l’assegnazione della frequenza. Se si voleva chiudere la bocca ad ogni voce di dissenso non si poteva far di meglio. Prima che si arrivi alla chiusura coatta o a provvedimenti penali e pecuniari , è il momento di stringersi attorno a Telejato per salvare questa voce unica nel documentare le battaglie civili del nostro territorio.
Salvo Vitale

domenica 18 settembre 2011

Corleone si spegne e l'amministrazione comunale non la riaccende...

Corleone va spegnendosi e l’amministrazione comunale non fa niente per “riaccenderla”. È una metafora, ma non solo. È una metafora perché in paese aumenta in maniera drammatica la disoccupazione (specie quella giovanile e femminile), le aziende agricole vivono una situazione di estrema precarietà, come le aziende artigiane e le aziende commerciali. E tutto ciò a fronte di un assoluto immobilismo del sindaco Iannazzo e della sua giunta, che come alternativa sanno solo offrire “feste, farina e… forca”.
Ma Corleone che va spegnendosi è anche una realtà visibile ad occhio nudo. Alcuni mesi fa, a seguito di un’apposita gara d’appalto, l’amministrazione Iannazzo ha affidato la manutenzione della rete di pubblica illuminazione alla Ditta EBM di Corleone. Con un capitolato che – fra l’altro - fa carico alla ditta di provvedere alla sostituzione di lampadine e plafoniere rotte, e al comune di fornire quelle nuove. Col risultato che la ditta è pronta ad effettuare le sostituzioni, ma il comune non ha fornito il materiale. «Solo all’inizio – dicono gli Uffici – abbiamo avuto assegnati dall’amministrazione comunale 5.000 euro per acquistare materiale di consumo, ma si sono esauriti in pochi giorni, perché da anni a Corleone non si faceva più manutenzione alla rete elettrica. Abbiamo allora chiesto l’assegnazione di altri 50.000 euro, ma non ne abbiamo avuto assegnato nemmeno uno…». Ma per l'Estate Corleonese e la Notte Bianca la "lungimirante" amministrazione Iannazzo i soldi li ha trovati (ed anche abbondanti!). Il risultato adesso è che tutto è fermo, paralizzato; le lampade vanno spegnendosi (in contrada Chiosi il fenomeno è molto evidente) e nessuno le sostituisce. Una metafora e non solo della Corleone di oggi, amministrata (?) dalla giunta Iannazzo. (d.p.)

Corleone, ancora sugli sprechi della "notte bianca": soltanto Renga è costato 48 mila euro del bilancio comunale!

Adesso lo sappiamo: lo scherzetto del concerto di Francesco Renga per la “notte bianca” di Corleone ci è costato 48.000 euro, di cui 47.060 euro impegnati sul bilancio comunale, cioè con le tasche dei cittadini. Vergognandosi di questa (e di altre spese folli), diversi assessori comunali – con gli occhi bassi – si sono giustificati davanti ai cittadini inferociti, dicendo che il concerto di Renga era stato pagato dalla Regione. A parte che anche i soldi della Regione sono soldi dei cittadini, si tratta comunque di una menzogna: la copia del certificato di impegno di spesa che pubblichiamo dimostra che 12.060 + 35.000 euro sono stati impegnati sul bilancio comunale, con delibera di giunta n. 275 dell’1.9.2011 (a cui tutti e sette i nostri “eroi” erano presenti!).

Passata la festa, gabbato lo santo...
A questa somma ci sono da aggiungere almeno altre 50 mila euro per tutte le altre iniziative della “notte bianca”, che portano la spesa a circa 100 mila euro (per i più anziani, 200 milioni delle vecchie lire!). E a questa spesa c’è d’aggiungere ancora l’altra di quasi 60 mila euro per l’Estate Corleonese. E siamo a 160 mila euro. Uno spreco incredibile, che grida vendetta, in un momento di drammatica crisi finanziaria, di tagli ai bilanci dei comuni e di sofferenze per tante famiglie, specie nel Mezzogiorno e in Sicilia. Ma tanto i “nostri eroi” non spendono dalle loro tasche, ma dalle tasche del comune, dalle tasche dei cittadini. Salvo (continuando così) a lasciare un comune sul lastrico per il prossimo anno, sull’orlo (oppure oltre) del dissesto finanziario.

In cambio di cosa? Di qualche bar e di qualche ristorante che ha guadagnato qualcosa in più? Ma è giusto che questo lo paghino i cittadini con una somma così elevata. Per le migliaia di “tozzi” di salsiccia (di pessima qualità, dice chi l’ha assaggiata) buttati per strada e nei cestini? Per le fette di pizza sprecate? Per la pasta a forno, che non voleva quasi nessuno? D’altra parte, la gente normale dalle due alle quattro di notte di solito mangia? Evidentemente, no. Allora che senso ha avuto distribuire (sprecare vergognosamente) quintali e quintali di cibo?

Promozione dei prodotti locali? Nemmeno per sogno. I prodotti locali si promuovono rendendoli “riconoscibili” dal marchio delle aziende che li producono. Chi ha prodotto la salsiccia? Chi lo sfincione? Chi la pasta a forno? Non si sa, nessuno lo sa. Genericamente “le ditte corleonesi”. Ma se un visitatore nei prossimi giorni vorrebbe comprare salsiccia, sfincione o pasta a forno, non saprebbe a chi rivolgersi. L’abbiamo suggerito: dovevano essere le singole aziende, col loro marchio, a pubblicizzare i propri prodotti. A pagamento, mediante un ticket, come fanno nei paesi seri e civili, anche siciliani. Tutto il resto è incompetenza, pressapochismo, spreco, clientelismo stupido e miserabile, vergogna… (d.p.)

I Carabinieri rievocano la rivoluzione del "sette e mezzo" del settembre 1866

Settembre 1866 - I rivoltosi in via Maqueda a Palermo
In questi giorno ricorre il 145° anniversario della “Rivoluzione del sette e mezzo” in cui rimasero uccisi 42 Carabinieri. Dal 16 al 22 settembre 1866, a Palermo e in Provincia, vi fu una sollevazione popolare che passò alla storia per la sua durata di sette giorni e mezzo. Fu una violenta dimostrazione e battaglia antisabauda, avvenuta al termine della Terza guerra d’Indipendenza, organizzata da partigiani borbonici, garibaldini delusi, réduci dell'esercito meridionale. Tra le cause vi fu la crescente miseria della popolazione, la vessazione dei funzionari statali sabaudi, che consideravano quasi barbari i siciliani e vessatorie tasse introdotte. Quasi 4.000 rivoltosi assalirono Prefettura, Caserma e altri palazzi pubblici. La città restò in mano agli insorti e la rivolta si estese nei giorni seguenti anche nei paesi limitrofi, come Monreale e Misilmeri: fu stimato che in totale i rivoluzionari armati fossero circa 35.000 in provincia di Palermo. Dovettero intervenire le forze armate mentre le navi della Marina Militare bombardarono la città: intervenner\-o oltre 40.000 militari. Alla fine furono oltre 200 le perdite da parte dello Stato, tra cui 42 Carabinieri, mentre non si conosce il numero dei civili uccisi o giustiziati. Nel 1866 il Corpo dei Carabinieri nell’Isola era costituito in unica Legione, con competenza territoriale che si estendeva per tutta la Sicilia - comandata dal Colonnello dei Carabinieri Reali Edoardo Sannazzaro di Giarolle - ed era suddivisa nelle Divisioni di Palermo, Caltanissetta e Messina. La Divisione di Palermo aveva in organico 793 uomini ripartiti nelle compagnie di “Palermo-Interna”, “Palermo-Esterna”, Trapani e in 87 Stazioni. Nei primi mesi del 1866, la sconfitta di Custoza e il disastro di Lissa avevano scosso l’opinione pubblica e in Sicilia si aggiungeva un certo sentimento di delusione verso il Governo di Torino. Di tale malcontento ne approfittarono alcuni sobillatori e gruppi di malavitosi che si fecero promotori dei moti popolari di Palermo, con la speranza che l’insurrezione si sarebbe estesa nelle altre province siciliane. Nella notte del 15 settembre 1866 i rivoltosi iniziarono ad affluire a Palermo con l’intenzione di impossessarsi della città e travolgere le poche truppe di Presidio e di annientare i Carabinieri che, come sempre, si distinsero per coraggio e zelo.

Il "Giornale di Sicilia" del 24 settembre 1866 scriveva: "A Misilmeri si commisero atrocità senza esempio e senza riscontro negli annali della più efferata barbaria". Il 20 settembre, diffusasi la notizia della rivolta a Palermo, i contadini di Misilmeri, guidati dai banditi Domenico Giordano e Giovanbattista Plescia insorsero, assaltando la Caserma dei Carabinieri i quali si rifiutarono di trattare con i ribelli, allora iniziò un combattimento che durò 24 ore . I carabinieri, bloccati da tutte le parte ed avendo consumato le munizioni, issarono – in segno di resa – una bandiera bianca. Ma gli insorti abbattuto il portone della Caserma di Via La Masa cominciarono a sparare uccidendo alcuni Carabinieri. Quelli che riuscirono a fuggire furono intercettati e barbaramente massacrati. Gli altri che erano in servizio di pattuglia esterna riuscirono a ripiegare su Palermo. Dei 29 Carabinieri della Caserma di Misilmeri se ne salvarono appena 8. Gli altri furono barbaramente trucidati dal popolo in rivolta. Un Carabiniere, intercettato e riconosciuto dalle donne, fu ucciso barbaramente a colpi di pietre e a morsi, all'interno dei lavatoi pubblici. I corpi di due Carabinieri furono squartati, le membra appesa ai ganci di un macellaio. Le teste di alcune delle vittime furono fatte rotolare in piazza, altre montate su bastoni, portate in processione per le vie principali di Misilmeri. Morirono i Carabinieri : AMENTA Sebastiano, ARMANO Giovanni, BOZZANGA Orazio, BRIA Giovanbattista, CARIA Francesco, CASTAGNA Luigi, CIACCI Tommaso, DI SALVO Carmelo, CALIPÒ Rosario, LA GRECA Ferdinando, TRECCANI Santo, LAZZARINI Giovanni, MACCIA Luigi, MAMELI Salvatore, MORALE Sebastiano, PRAGA Stefano, RAPPIERI Florio, SANNA Antonio, SESSINI Antonio, SASSELLA Giuseppe, TARULLI Giuseppe. A questi Carabinieri ed a tutti i Carabinieri caduti per adempiere al proprio dovere durante la Rivoluzione del Sette e Mezzo, va rivolto un pensiero di ringraziamento per aver immolato la propria vita per la crescita sociale e legale della terra di Sicilia. Il comportamento dei Carabinieri durante la Rivoluzione, costituisce una pagina di eroismo dell’Arma, poco nota agli italiani.
A otto anni di distanza da quel tragico giorno, il Sindaco di Misilmeri, Cav. Vincenzo Sparti, chiese l’autorizzazione al Prefetto di potere esumare le salme dei caduti per dare loro una degna sepoltura al cimitero, dove il 22 dicembre 1874 fu innalzato un cippo in memoria dei caduti nel camposanto di Misilmeri.
In un difficile contesto socio-politico come quello dei primi anni dell’unità d’Italia, con la popolazione siciliana troppo spesso oppressa dell’azione dello Stato e, così, facilmente condizionata da gente di malaffare che sfruttava la disperazione delle classi più deboli, i Carabinieri comunque mantennero alti i valori del dovere e della legalità, fino all’estremo sacrificio della vita. Anche grazie al fulgido esempio di questi ragazzi, dimenticati da molti, che oggi vive in Sicilia la cultura della democrazia. A queste vittime va rivolto un affettuoso, doveroso pensiero.
L'Ufficio Stampa dei Carabinieri di Palermo

22 Settembre: l'Italia riconosca lo Stato Palestinese

Yasser Arafat con Agostino Spataro, allora deputato Pci
di Agostino Spataro
1. Mentre ri-esplodono gli scandali delle frequentazioni notturne e diurne di Silvio Berlusconi, permettetemi di ricordare che il suo governo si è assunto la grave responsabilità di votare contro la richiesta, avanzata all’Onu da Abu Mazen, per il riconoscimento pieno dello Stato del popolo martire di Palestina entro i territori del 1967 assegnati dall’Onu del 1947 e confermati dalla risoluzione n. 242/1967 del CdS dell’Onu che chiedeva l’immediato ritiro dai territori palestinesi delle forze d’occupazione israeliane. Credo che il “no” detto da Berlusconi ai palestinesi sia molto più grave di quello che egli avrebbe ricevuto da Emanuela Arcuri. Perciò, parliamone e soprattutto agiscano i responsabili politici e parlamentari per evitare questo nuovo errore che sbilancia, pesantemente, la posizione dell’Italia a favore della parte occupante. Chiarendo che l’errore non è quello che - secondo il ministro Frattini - commetterebbero i rappresentanti dell’Autorità nazionale palestinese nel chiedere per il loro Paese il riconoscimento quale 194° membro della Nazioni Unite, ma quello commesso dal governo italiano di negare tale riconoscimento, senza portare motivazioni convincenti. Il governo, infatti, non può rifiutare, in nome del popolo italiano, una richiesta legittima e dolorosamente motivata da 63 anni (sì, sessantatre anni, avete letto bene!) di spoliazioni di beni, espulsioni, diaspore, massacri, occupazioni militari, distruzioni di abitazioni, repressione, incarceramenti, sfruttamento della forza lavoro,miseria, privazioni di ogni sorta e persino tentativi di distruzione della identità culturale ed etnica.

2. Esagerazioni? Faziosità? Per una verifica di tali affermazioni, rimando agli scritti di diversi pacifisti israeliani che le documentano. Per tutti cito “Sacred Landscape” opera di Meron Benvenisti, esponente israeliano della prima ora, a lungo amministratore di Gerusalemme, ampiamente richiamato da Riccardo Cristiano nel suo “La speranza svanita” (Editori Riuniti, 2002). In questo testo, scritto non da un arabo facinoroso, fazioso, ma da uno “dei più grandi figli d’Israele”, troverete quello che mai nessun giornalista e commentatore occidentale ha detto sui metodi adottati dagli israeliani per cacciare dai loro villaggi, dalle loro terre gli arabi palestinesi e privarli di ogni diritto. Dopo è venuto il “terrorismo” palestinese, che personalmente condanno, ossia la risposta disperata di alcuni gruppi al permanere dell’occupazione israeliana. Per altro, non bisognerebbe dimenticare che il terrorismo in Palestina l'hanno introdotto e, sanguinosamente sperimentato, le bande armate di Begin (che diventerà primo ministro d’Israele) ai danni degli arabi e delle forze di garanzia inglesi che esercitavano il mandato internazionale.

3. Ho accennato a questi gravissimi precedenti solo per ricordare a certi “benpensanti”, che enfatizzano i “limiti” dell’Autorità palestinese, com'è nato e si è affermato lo Stato d’Israele che, nel prosieguo, ha realizzato anche tanti fatti positivi; quanto è stato lungo il “calvario” del popolo palestinese al quale, dopo 63 anni, non si può chiedere di aspettare ancora, magari altri 40, per vedere riconosciuto il diritto ad avere uno Stato. Da notare che tale iniquo trattamento è stato applicato soltanto ai danni dei palestinesi. Mentre, cioè, l’intero terzo mondo si liberava dal giogo coloniale, nascevano nuovi Stati (l’ultimo, il Sud Sudan, è nato un mese fa) e confederazioni di stati, soltanto il popolo palestinese è rimasto senza Stato. Perché? Che cosa ha fatto di male? In realtà, i palestinesi il male lo hanno subito, nell’indifferenza generale del mondo, hanno perfino rischiato di essere cancellati dalla faccia della terra, di perdere la loro dignità di popolo che solo grazie all’opera di Yasser Arafat e dell’Olp è stata salvaguardata e rilanciata come una “questione” primaria della politica internazionale. Se tutto ciò è vero, ognuno si chiede: perché questo popolo, al quale è stata sottratta metà della sua terra sulla quale viveva da millenni per insediarvi lo stato d’Israele, che da oltre 40 è sotto occupazione militare israeliana, non debba avere il diritto a creare uno Stato nei territori assegnati dall’Onu? Domanda semplice e al contempo tremenda, ineludibile, alla quale l’Italia, l’Europa e il mondo intero sono chiamati a rispondere il 22 settembre a New York.

4. Votare "no" vuol dire negare ai palestinesi, solo a loro nel mondo, il sacrosanto diritto alla libertà e alla sovranità statuale. Di fronte a questo diritto, non reggono gli speciosi argomenti per aggirarlo e tanto meno le minacce di taluni esponenti israeliani che dimenticano che Israele è uno Stato creato dall’Onu per un risarcimento da altri dovuto, che ovviamente ha diritto di esistere e di vivere in pace con i suoi vicini, ma non di occuparli. Quanto è difficile fare capire le ragioni dei deboli! Soprattutto, a certi esponenti politici ed analisti, che, spesso, sbagliano l’analisi come l’ultima sulla “primavera araba” che per cacciare il tiranno ha, forse, aperto la porta del dragone. Forse, per fargliele capire servirebbero più spirito di comprensione e anche uno sforzo d’immaginazione magari - in questo caso - provando a mettersi nei panni dei palestinesi. Non può esserci confronto fra chi oggi è vittima di un’occupazione e chi paventa di poterlo diventare domani. Perciò, spiace che gli Stati Uniti di Obama, invece di dare corso alle speranze che egli stesso aveva acceso anche riguardo alla questione palestinese, continuano a minacciare incomprensibili veti. L’Italia e l’Europa sono altra cosa; non possono consentire il perdurare di questa grave ingiustizia. Il "no" pregiudicherebbe le possibilità di una ripresa, su basi di equità e di solidarietà (non con la petropolitica e con i bombardamenti della Nato, per intenderci), delle relazioni euro-arabe che costituiscono il baricentro, il punto di snodo della prospettiva di pace e di progresso nel Mediterraneo, nel Medio Oriente, in Africa e in Europa.

5. In particolare, il voto contrario dell’Italia andrebbe contro il sentimento della maggioranza degli italiani che, da sempre, hanno perorato i diritti d’Israele e quelli (purtroppo disattesi) del popolo palestinese: due Stati per due popoli che potrebbero convivere in pace e in cooperazione. Su questa scia è andata avanti la politica estera del nostro Paese. Se oggi una piccola, ibrida minoranza di deputati chiede al governo di votare "no", ricordo che nel 1982 presentammo al governo una richiesta unitaria, sottoscritta dalla stragrande maggioranza dei deputati (450, fra i quali i tre segretari di Dc, Pci, Psi: Zaccagnini, Berlinguer e Craxi ossia i rappresentanti di circa il 90% dell’elettorato italiano), con la quale si chiedeva il riconoscimento dei diritti nazionali del popolo palestinese. La mozione sarà approvata dalla Camera, ma il governo, allora presieduto dal troppo filo atlantico Spadolini, non volle dare seguito alla decisione parlamentare. Non so se si possa fare un confronto fra la maggioranza parlamentare di allora e la minoranza attuale. So di sicuro che il no annunciato dal governo Berlusconi è il vero errore che bisognerebbe evitare.
Agostino Spataro
16 settembre 2011

P.S. Mi dispiace tediarvi, ma poiché nel nostro Paese, fra pensiero unico e pulsioni sanfediste, la libertà di pensiero pericolosamente si assottiglia, sono costretto a ribadire che questa presa di posizione non scaturisce da un sentimento antiebraico o anti-israeliano, ma solo dalla solidarietà dovuta al popolo palestinese vittima di una lunga ed assurda occupazione straniera. Sono stato, sono, a favore della giusta causa palestinese, ieri in Parlamento oggi da cittadino comune, ma non per ciò avversario degli israeliani, tanto più degli ebrei. A noi piace stare dalla parte delle vittime. Come lo siamo stati, sempre, con gli ebrei perseguitati, massacrati dal nazismo tedesco e dal fascismo italiano. Quindi, per favore, non si rispolveri l’abusata accusa di antisemitismo, per altro imprecisa poiché – secondo il racconto biblico- semiti dovrebbero essere anche gli arabi. In ogni caso, la nostra cultura politica marxista ci rende immuni da ogni tentazione razzistica e sciovinista. Non so se chi lancia anatemi possa vantare la medesima immunizzazione. Se questa precisazione non basta, aggiungo che sono figlio di un operaio siciliano (Pietro Spataro) che è stato deportato e per due anni rinchiuso in un lager nazista in Germania e per questo è stato insignito (purtroppo post- mortem) di una medaglia d’onore del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano.

Crociata “umanitaria” USA in Corno d’Africa

di Antonio Mazzeo In Somalia sono decine di migliaia i morti per la grave carestia che ha colpito buona parte del paese, mentre 750.000 persone potrebbero morire di fame nei prossimi quattro mesi se la comunità internazionale non garantirà sufficienti aiuti alimentari alle popolazioni del Corno d’Africa. Secondo le Nazioni Unite, dodici milioni e mezzo di persone hanno urgente bisogno di cibo, acqua e medicinali, mentre sta crescendo giorno dopo giorno il numero dei disperati in fuga dalle sei macroregioni somale duramente colpite dalla siccità. Oltre 600.000 somali hanno attraversato il confine per raggiungere i campi profughi sorti nei paesi confinanti. Nella tendopoli di fortuna di Dadaab, Kenya orientale, il più affollato centro per rifugiati al mondo, sono stipati oggi più di 420.000 persone. In Etiopia, le agenzie internazionali hanno installato quattro grandi campi di accoglienza, dove affluiscono oltre un migliaio di sfollati al giorno. Una crisi umanitaria imponente ma con radici lontane, che le grandi reti mediatiche stanno rendendo visibile internazionalmente sulla scia della campagna interventista lanciata dal Dipartimento di Stato e da USAID, l’agenzia per gli aiuti allo sviluppo degli Stati Uniti d’America. Per Washington è indispensabile aprire manu militari corridoi “umanitari” che consentano il flusso degli aiuti alle popolazioni colpite. Un’occasione da non perdere per chiudere di rimessa e definitivamente, la partita in Africa orientale contro le organizzazioni combattenti nemiche.

“Abbiamo contribuito con quasi 600 milioni di dollari nei primi otto mesi del 2011 fornendo aiuti a più di 4,6 milioni di abitanti del Corno d’Africa e confermando il ruolo degli Stati Uniti come il maggiore dei donatori mondiali nella regione”, affermano i funzionari di USAID. “Il nostro governo ha inoltre annunciato che finanzierà la fornitura di aiuti umanitari addizionali al popolo somalo e sta lavorando con le agenzie internazionali per portare alla popolazione i bisogni basici”. A metà agosto, il presidente Obama ha approvato uno stanziamento straordinario di 105 milioni di dollari per l’acquisto di “cibo, farmaci, shelter e acqua potabile per coloro che hanno disperatamente bisogno di aiuto in tutta la regione”, come recita un dispaccio del Dipartimento di Stato. Troppo poco. Per le Nazioni Unite, infatti, c’è bisogno di un miliardo di dollari in più per rispondere a tutte le necessità alimentari e sanitarie in Corno d’Africa. Gli ha risposto solo l’Unione europea annunciando fondi per 100 milioni di dollari e, bontà sua, la Banca mondiale, disponibile a stanziare sino a 500 milioni di dollari, 8 milioni appena per affrontare l’emergenza, il resto per chissà quali progetti “a lungo termine” a favore degli “agricoltori della regione”. Washington però avverte: sino a quando opereranno impunemente in Corno d’Africa le milizie degli Shebab, le formazioni integraliste somale ritenute vicine alla costellazione di al-Qaeda, “per le organizzazioni umanitarie sarà impossibile raggiungere e prestare assistenza alle popolazioni”.

“La mancanza di sicurezza e di vie di accesso alle aree colpite limita significativamente gli sforzi assistenziali in Somalia”, ha dichiarato il vicesegretario di Stato per gli affari africani, Don Yamamoto, in una sua audizione al Senato. “Esistono difficoltà a portare cibo dove c’è più necessità a causa della presenza dell’organizzazione terroristica degli Shebab. Le sue minacce hanno costretto le Nazioni Unite a ritirarsi dai programmi di assistenza in diverse parti della Somalia sin dall’inizio di quest’anno”. Secondo Yamamoto, “i più colpiti dall’odierna siccità sono gli oltre due milioni di somali intrappolati nelle aree meridionali e centrali della Somalia sotto il controllo degli Shebab”. Secondo il vicesegretario, gli Stati Uniti si stanno attivando insieme ai principali partner internazionali “per contrastare gli Shebab e impedire che minaccino i nostri interessi nell’area o continuino a tenere come ostaggio la popolazione somala”. In che modo ci ha pensato lo staff di USAFRICOM, il Comando degli Stati Uniti per le operazioni militari nel continente africano, riunitosi a fine luglio a Stoccarda (Germania).

“La grave carestia in Corno d’Africa è una delle priorità del Comando USA congiuntamente alla crescita nella regione dei gruppi estremisti violenti”, ha spiegato il generale Carter F. Ham, comandante di AFRICOM. “La situazione attuale non richiede un significativo ruolo militare, ma il governo USA potrebbe chiederci qualche forma di supporto per il futuro. Se vado aldilà dell’aspetto umanitario e guardo a quello militare, posso affermare che il rischio più grave in Africa orientale è oggi rappresentato dagli estremisti di Shebab”. Per il generale Ham, il primo passo per “indebolire” le milizie è quello di accrescere l’assistenza USA nel campo della “sicurezza e della stabilità interna” al Governo federale di transizione della Somalia e agli altri paesi della regione. “L’organizzazione di esercitazioni e scambi militari multinazionali è un mezzo importante per sviluppare la cooperazione tra le nazioni africane”, ha dichiarato Ham. “Più saranno i paesi che si uniranno per partecipare simultaneamente alle esercitazioni e meglio sarà per noi”. Per il comandante di AFRICOM, l’esempio migliore di cooperazione è rappresentato dalla recente esercitazione Africa Endeavor 2011 “per lo sviluppo delle tecniche di comando, controllo e comunicazione”, a cui hanno partecipato trenta paesi africani, cinque europei, gli Stati Uniti e quattro organizzazioni internazionali. “Dobbiamo poi sostenere l’Unione Africana nelle sue missioni di peacekeeping in Corno d’Africa”, ha aggiunto Ham. “I rappresentanti UA sono molto interessati a stabilire in tutta l’Africa standard militari elevati nel settore addestrativo, nelle comunicazioni, nei regolamenti medici, nei sistemi d’arma per il personale e nella logistica. Ciò potrebbe richiedere molto tempo, ma noi possiamo aiutarli”.

Grazie ad AFRICOM è stata costituita la East Africa’s Standby Force (EASF), una forza di pronto intervento a cui i paesi dell’Africa orientale hanno assegnato i propri reparti d’élite. La formazione del personale EASF e l’addestramento operativo è curato dai marines della Combined Joint Task Force-Horn of Africa (CJTF-HOA), la task force USA creata a Gibuti nel 2002 per “combattere le cellule terroristiche in Africa orientale” e che, dopo la creazione di AFRICOM nel 2008, è divenuta la struttura chiave per la proiezione avanzata delle forze armate statunitensi nel continente. Oltre a formare i reparti militari africani, CJT-HOA ricopre un variegato ventaglio di missioni, compresi la pianificazione delle operazioni multinazionali in Africa, la negoziazione di accordi legali per futuri interventi e/o installazioni in loco, il sostegno alle operazioni anti-pirateria delle flotte USA, NATO ed UE nelle acque del Mar Rosso. “Tra gli eventi più importanti verificatisi nell’ultimo biennio in Corno d’Africa bisogna annoverare l’espansione e l’entrata in funzione a tempo pieno di Camp Lemonnier, la prima ed unica installazione militare USA nel continente, che sovrintende alle operazioni portuali a Gibuti, a quelle aeree e terrestri di diversi Comandi di guerra USA e delle nazioni partner”, ricorda David Melson, portavoce di CJTF-HOA. “A Camp Lemonnier è pure giunta la Forza di autodifesa giapponese, con componenti navali e terrestri, la prima presenza di questo paese asiatico fuori dai confini nazionali dalla fine della Seconda guerra mondiale”.

La task force dei marines a Gibuti supera le 2.000 unità, ma in occasione della sua recente visita al quartier generale CJTF-HOA, il generale Carter F. Ham ha annunciato che chiederà al Pentagono “forze speciali più numerose entro due anni” per rispondere alla “crescente domanda operativa contro al-Qaeda ed altri gruppi terroristici e per aiutare i militari africani a migliorare la propria efficienza”. Queste unità si affiancheranno ai due corpi d’élite attivati negli ultimi mesi dalle forze armate USA ed assegnati ad AFRICOM per addestrare le truppe africane di peacekeeping in Somalia e quelle in guerra contro le milizie anti-governative in Africa settentrionale e orientale. Il primo di essi è la Special Purpose Marine Air Ground Task Force, forza di pronto d’intervento del Corpo dei Marines nel continente in caso di crisi politiche e “umanitarie” e per le immancabili operazioni “anti-terrorismo”. Secondo quanto annunciato dal generale Paul Brier (vicecomandante di MARFOR Africa), l’unità include componenti aeree e terrestri, potrebbe crescere entro due anni da 123 a 364 uomini e sarà ospitata in una delle principali basi USA in Sud Europa (Napoli, Sigonella o Rota).

La seconda task force divenuta operativa è la Naval Special Warfare Unit-10 (NSWU-10), a cui sono stati assegnati marines, personale SEAL e specialisti in intelligence di US Navy in grado di scatenare assalti contro obiettivi “nemici” da unità navali, sottomarini ed aerei. “L’unità è l’unica forza dello Special Operations Command Africa che può essere utilizzata per rispondere rapidamente alle crisi o alle contingenze continentali”, spiegano al comando USAFRICOM di Stoccarda. Come ad esempio quella “umanitaria” che ha colpito le popolazioni del Corno d’Africa.

Il Comando USA per le operazioni speciali in Africa è lo stesso che dal mese di giugno pianifica e dirige le operazioni in Somalia di bombardamento missilistico con l’utilizzo di velivoli UAV senza pilota (i droni del tipo Predator) contro obiettivi top secret, come rivelato dai maggiori quotidiani statunitensi. Il Pentagono sta inoltre preparando il trasferimento di quattro UAV alle forze armate di Uganda e Burundi, che hanno messo a disposizione 9.000 uomini per la forza multinazionale dell’Unione Africana presente a Mogadiscio e in altre città somale. Ai due stati africani Washington ha fornito nei mesi scorsi equipaggiamenti militari (camion di trasporto, blindati, giubbotti antiproiettile, visori notturni, ecc.), per un valore di 45 milioni di dollari.

Attivissima nella formazione dei militari somali nell’individuazione e smascheramento dei miliziani Shabab è anche la famigerata CIA - Central Intelligence Agency degli Stati Uniti d’America. Oltre a finanziare ed armare la neo costituita agenzia di spionaggio nazionale (la Somali National Security Agency), la CIA ha collaborato alla realizzazione di una grande stazione d’intelligence all’interno dell’aeroporto di Mogadiscio, nota localmente come “the Pink House” o più semplicemente “Guantanamo”, perché utilizzata per gli interrogatori sotto tortura dei prigionieri sospettati di terrorismo. Come rivelato da un lungo reportage del New York Times (11 agosto 2011), per l’addestramento delle unità africane in lotta contro gli Shebab, il Dipartimento di Stato e la CIA si sarebbero pure affidati ai mercenari di origine sudafricana, francese e scandinava contrattati dalla Bancroft Global Development, una società di sicurezza privata statunitense con uffici alla periferia di Mogadiscio. Secondo il quotidiano USA, Bancroft Global Development verrebbe utilizzata ufficialmente in ambito Unione Africana dalle forze armate di Uganda e Burundi, successivamente rimborsate per le loro spese da Washington. Dal 2010, la compagnia privata avrebbe conseguito in Somalia utili per circa 7 milioni di dollari.

Il New York Times ha inoltre citato un report delle Nazioni Unite che documenta il crescente impiego di contractor privati internazionali per la “protezione dei politici somali, l’addestramento delle truppe africane e la costituzione di una forza di combattimento contro i pirati somali”. In particolare il rapporto si sofferma sull’operazione condotta dalla società sudafricana Saracen International per creare una milizia di oltre mille uomini per il governo del Puntland, la regione settentrionale della Somalia autoproclamatasi indipendente. “Si tratta della forza militare indigena meglio equipaggiata di tutta la Somalia”, commenta il quotidiano. “Grazie a società di copertura, alcune della quali - secondo le Nazioni Unite - legate ad Erik Prince, il fondatore della nota compagnia di sicurezza Blackwater Worldwide, la Saracen ha trasportato segretamente equipaggiamento militare nel nord della Somalia, utilizzando aerei cargo partiti dall’Uganda e dagli Emirati Arabi”.

Con meno clamore, alla crociata “umanitaria” in Corno d’Africa sta dando un contributo l’Aeronautica militare italiana. Il 12 settembre è stato inviato in Kenya un C-13J della 46^ brigata aerea di Pisa con a bordo un veicolo Iveco Icarus per il trasporto di uomini e mezzi che, secondo lo Stato maggiore AMI, è stato “messo a disposizione della Croce Rossa italiana che lo userà nel quadro delle operazioni di soccorso alla popolazione del nord Turkana (Kenya), un’area tipicamente desertica di difficile accesso situata al confine con l’Etiopia e il Sudan, colpita dalla siccità in questi ultimi anni”. L’Italia prevede inoltre di riaprire entro la fine dell’anno l’ambasciata a Mogadiscio. “Il nostro sostegno alla Somalia non sarà solo un aiuto economico ma diverrà sempre più un aiuto per migliorare le capacità di amministrazione del governo, un aiuto umanitario e un sostegno alle forze armate e alla sicurezza”, ha annunciato il sottosegretario agli Esteri, Alfredo Mantica, a conclusione della sua visita nel paese africano. L’Africa orientale, devastata dalla fame e dalla siccità, tornerà ad essere l’eldorado per i piazzisti d’armi e i contractor italiani.
Antonio Mazzeo

venerdì 16 settembre 2011

Sodano vince contro D'Alì

L'ex prefetto di Trapani, Fulvio Sodano
Mafia: il prefetto Sodano vince contro chi lo mandò via da Trapani. Il Tribunale respinge la richiesta di risarcimento danni avanzata dal senatore D’Alì

Nell’ottobre del 2005, il 5 ottobre per l’esattezza, Anno Zero di Michele Santoro mandò in onda un reportage firmato da Stefano Maria Bianchi su Trapani a poche settimane dalla conclusione degli atti preliminari della Coppa America. Qualcuno scrisse su un giornale locale che Trapani avrebbe fatto bene a cambiare canale perché non c’era nulla di vero e di buono in quel reportage, a scrivere così era un sacerdote, don Ninni Treppiedi, oggi finito in mezzo a mille guai col Vaticano quanto con la Giustizia a sentire alcune indiscrezioni. In quel reportage sotto accusa era finito l’allora sottosegretario all’Interno senatore D’Alì, assieme all’odierno sindaco di Trapani, Girolamo Fazio, e lo scandalo sfiorava anche il prefetto dell’epoca Giovanni Finazzo. Si parlava in quel reportage di appalti combinati, della mafia che aveva messo le mani sui lavori di allestimento per rendere il porto perfetto ad accogliere le barche a vela della Coppa America, c’era anche l’immagine malata dell’ex prefetto di Trapani Fulvio Sodano che a gesti raccontò al giornalista Stefano Maria Bianchi che lui nel 2003 da Trapani era stato mandato via nel giro di 24 ore, un giorno prima dal Viminale gli era stato assicurato che non era nella lista dei movimenti dei prefetti, l’indomani si ritrovò “sbattuto” ad Agrigento, per volere, disse del senatore Tonino D’Alì, oggi presidente della commissione Ambiente del Senato e indagato a Palermo per concorso esterno in associazione mafiosa. Agli atti di questa indagine c’è anche il trasferimento da Trapani di Sodano col quale era entrato in contrasto a proposito della gestione dei beni confiscati alla mafia.

Trapani non cambiò canale quel giorno ma non ha mai premiato il prefetto Sodano rimasto in attesa di avere consegnata la cittadinanza onoraria della città deliberata nel dicembre 2005 dal Consiglio comunale all’indomani di una operazione antimafia della Polizia che dimostrò come Sodano da prefetto aveva respinto l’attacco diretto che i mafiosi insospettabili avevano portato fin dentro il suo ufficio quando volevano convincerlo a vendere la Calcestruzzi Ericina una azienda confiscata a Cosa Nostra trapanese e la cui presenza sul mercato, con la gestione dello Stato, faceva concorrenza alle imprese rimaste sotto il controllo degli imprenditori mafiosi. Il prefetto Sodano per quella intervista è stato citato in giudizio civile dal senatore D’Alì davanti al Tribunale di Roma, assieme alla Rai e ai giornalisti Michele Santoro e Stefano Maria Bianchi. Il Tribunale Civile ha respinto la richiesta di risarcimento dei danni, il senatore D’Alì non l’ha spuntata contro Sodano. Il prefetto Sodano difeso dall’avv. Giuseppe Gandolfo oggi ha ricevuto giusta ragione: “è un risultato importante per il prefetto – dice l’avv. Gandolfo – ma per tutti quelli che hanno sempre creduto nel lavoro onesto e coraggioso di Sodano, non meno rilevante è la circostanza che il fatto è incluso tra gli episodi contestati dalla Procura di Palermo al senatore D’Al’, indagato per concorso esterno in associazione mafiosa”. Agli atti di questa indagine ci sono cinque pagine fitte fitte, il verbale di un interrogatorio su carta intestata della Procura della Repubblica di Trapani. In fondo, alla fine di quel verbale che reca la data del 22 luglio 2004, le firme di un magistrato, il pm Andrea Tarondo e quella del prefetto, Fulvio Sodano. Dentro c’è scritto il racconto di una storia, di un compito che è stato impedito di assolvere in pieno, fino in fondo, ossia la gestione e l’utilizzo dei beni confiscati, cosa che in provincia di Trapani forse non doveva andare come è andata, e dove alla fine quando era impossibile tornare indietro, qualcuno doveva pagare.

Fulvio Sodano fu “cacciato” via da Trapani nell’estate del 2003 dall’allora Governo Berlusconi, ministro dell’Interno Beppe Pisanu oggi presidente della commissione nazionale antimafia. La commissione che ha pure tentato nella passata legislatura e in quella prima ancora di affrontare la questione, ma non trovò unanimi visioni. “Signor prefetto ma lei sta favorendo troppo la Calcestruzzi Ericina”. Quella non era una impresa qualsiasi, era una ditta confiscata alla mafia, che era diventata patrimonio dello Stato. Favorire perciò la Calcestruzzi Ericina significava appoggiare lo Stato. E quella era la cosa che stava facendo a Trapani il prefetto Fulvio Sodano, massima espressione dello Stato non poteva fare altro. Chi gli si rivolse a lui dandogli del “favoreggiatore”, secondo il racconto di Fulvio Sodano al magistrato che andò a sentirlo, fu l’allora sottosegretario all’Interno senatore Antonio D’Alì.

Non è una storia nuova quella che si sta scrivendo. La faccenda è conosciuta. Un paio di processi sono stati celebrati, le sentenze hanno accertato una serie di cose accadute a Trapani tra il 2001 e il 2005. A 20 anni è stato condannato il capo mafia di Trapani “don” Ciccio Pace, 8 anni di carcere ha avuto inflitti il suo braccio destro l’imprenditore Vincenzo Mannina. Pace era quello che voleva togliere di mezzo la Calcestruzzi Ericina in un periodo in cui a Trapani stavano arrivando milioni di euro di finanziamenti per fare bello e moderno il porto e gli imprenditori mafiosi si vantavano di potere controllare quelle opere pubbliche in corso di appalto perché possedevano bandi e capitolati di gara ancora prima che venissero pubblicati. Non c’era bisogno sotto la “regia” di “don” Ciccio Pace che gli appalti venissero pilotati tutti, le imprese che se li aggiudicavano sapevano che prima di cominciare i lavori dovevano andare a bussare a certe porte, e che i materiali per i cantieri, gli inerti, sabbia e pietrisco, il ferro, il cemento solo da certe imprese doveva essere comprato. “Don” Ciccio Pace aveva la sua impresa, la Sicilcalcestruzzi, le quote le aveva comprate, ufficializzando così la sua presenza che esisteva già da anni sottobanco, con i soldi ottenuti per un risarcimento per ingiusta detenzione. Per vendere gli inerti c’era l’impresa di Vincenzo Mannina, per gli asfalti quella di un altro imprenditore che faceva parte della cupola, Tommaso Coppola. Il ferro lo vendeva in esclusiva Nino Birrittella, l’uomo che dopo l’arresto ha deciso di uscire da Cosa Nostra raccontando ogni segreto di quella cupola fatta di imprenditori: non ha accettato alcun programma di protezione, ha chiesto di rimettersi sulla corretta via rimettendosi a lavorare, pronto a saldare i suoi conti con la giustizia quando arriverà questo momento. Una storia del tutto diversa da quella per esempio seguita da Tommaso Coppola che, come di recente ha svelato l’operazione antimafia “Cosa Nostra resorts”, dal carcere ha cercato di continuare a gestire in modo truffaldino le sue imprese, ha cercato di continuare a colloquiare con i politici, a parlare attraverso intermediari col prefetto Giovanni Finazzo successore di Sodano a Trapani, perché le commesse alle sue aziende non venissero fermate.

Ma torniamo agli appalti e al cemento. Dopo la confisca la Calcestruzzi Ericina, era il 2000 cominciò a registrare un calo nelle commesse. Magicamente gli imprenditori che costruivano palazzi e realizzavano opere pubbliche non andavano più in quell’impianto a comprare cemento. Nessuno è mai venuto a dire che ci fu un ordine, un passaparola, ma è quello che avvenne senza suscitare tanto scandalo. Ecco il racconto al magistrato da parte del prefetto Fulvio Sodano comincia proprio da questo punto.

“Non appena assunte le funzioni di prefetto di Trapani mi resi conto che la situazione dell’amministrazione dei beni confiscati alla mafia era estremamente grave, nel senso che erano numerosissimi i beni confiscati ma mai assegnati e che molti di tali beni erano ancora nella materiale disponibilità dei soggetti mafiosi cui erano stati confiscati. Immediatamente mi attivai per promuovere incontri con tutti gli enti interessati per tentare di fare attivare le procedure burocratiche di assegnazione incontrando difficoltà ed inerzie, per asserita mancanza di personale”.

Il prefetto Sodano a quel punto cominciò ad incontrare gli amministratori dei beni confiscati. Fu quello il momento in cui ebbe a conoscere gli amministratori della Calcestruzzi Ericina, il dott. Luigi Miserendino e l’avv. Carmelo Castelli: “Mi rappresentarono l’immobilismo del Demanio rispetto alle loro richieste e mi dissero che nonostante l’ottima qualità di calcestruzzo prodotto, venduto ad un prezzo più basso degli altri concorrenti, incontravano fortissime difficoltà di mercato e il fatturato ogni giorno scendeva sempre di più. Mi dissero che l’azienda rischiava di chiudere”. Il prefetto Sodano comprese subito le conseguenze: “Decisi che un bene acquisito dallo Stato che aveva sia un forte valore simbolico sul territorio sia una incidenza importante in un settore strategico per la mafia quale quello del calcestruzzo, doveva essere salvato e diventare l’emblema della rivincita dello Stato sull’antistato”.

La prima persona con la quale il prefetto Sodano affrontò l’argomento fu con l’allora presidente dell’Associazione degli Industriali Marzio Bresciani: “Gli dissi che non capivo come mai a fronte di un prezzo e qualità migliori i suoi associati preferissero rifornirsi altrove, lasciai intendere che paventavo una possibile interferenza mafiosa. Quindi lo pregai anche in considerazione dell’economicità e della qualità del prodotto, di farsi portavoce presso i suoi associati, magari quelli che più gli erano vicini, di valutare la possibilità di rifornirsi anche presso la Calcestruzzi Ericina……Dopo alcuni giorni saputo che presso il porto erano in corso consistenti lavori contattati con le stesse motivazioni addotte nel colloquio con Bresciani il comandante del Porto Agate perché si facesse presente alla ditta appaltatrice la convenienza a comprare cemento dalla Calcestruzzi Ericina….Tempo dopo seppi che gli interventi avevano sortito un certo effetto gli amministratori della Calcestruzzi Ericina mi dissero che si era allontanato il rischio della chiusura”.

Il prefetto Fulvio Sodano però ancora non sa che quei suoi interventi avevano cominciato a sortire fastidio dentro Cosa Nostra trapanese, lui era diventato “tinto” e don Ciccio Pace cominciava a dire che quel prefetto doveva andare via. Nel giugno del 2002 l’editore di una emittente locale, Giuseppe Bologna, manager di Tele Scirocco, incontrandolo gli disse che giravano certe voci sul suo conto circa un possibile trasferimento: “Confidenzialmente mi disse di avere saputo che i principali referenti di Forza Italia nella provincia di Trapani avevano chiesto nel corso di un incontro l’allontanamento da Trapani del prefetto, del procuratore e del dirigente della squadra Mobile. Alla cosa non diedi peso”.

Il prefetto Sodano continuò la sua attività sui beni confiscati e a favore della Calcestruzzi Ericina. Nelle riunioni ufficiali però cominciarono ad emergere faccende strane: “Fu quando discutemmo con Comune di Favignana e Soprintendenza delle sorti dell’impianto di calcestruzzo che l’Ericina possedeva a Favignana. Quello era l’unico impianto. Mi colpì l’affermazione del rappresentante comunale che mi disse che una volta terminati i lavori di costruzione di una galleria non c’era più necessità di avere un impianto sull’isola”. Come se a Favignana nessuno avrebbe più costruito e usato cemento che a quel punto se l’impianto avesse chiuso doveva arrivare da Trapani con gli inevitabili costi maggiorati per il trasporto.

Il prefetto avvertì che c’era qualcosa di strano che si muoveva attorno alla Calcestruzzi Ericina. A porre ostacoli non erano malavitosi, mafiosi, imprenditori poco raccomandabili, si fanno avanti le istituzioni. Gli uomini potenti della politica: “Durante una manifestazione ufficiale in prefettura fui avvicinato dal senatore D’Alì Antonio, sottosegretario all’Interno, il quale mi chiese spiegazioni in ordine al mio comportamento relativamente al “favoreggiamento” operato nei confronti della Calcestruzzi Ericina che in base a notizie che aveva avuto da altri avrebbe alterato il libero mercato del calcestruzzo, determinando una sleale concorrenza alle altre aziende del comparto. Gli spiegai quali fossero le motivazioni del mio comportamento e anzi mi meravigliai di quelle doglianze perché in realtà il mio atteggiamento tendeva esclusivamente a contrapporre una azione forte dello Stato ai poteri mafiosi. In sostanza avrei voluto che un bene ormai di proprietà dello Stato potesse sopravvivere in maniera emblematica contro tutti i tentativi della mafia di riappropriarsene o di distruggerlo. Subito dopo il sottosegretario mi disse che se le cose stavano così non aveva altro da dirmi se non che per l’avvenire questi interventi li dovevo fare esclusivamente in prima persona (era successo che per i lavori al porto aveva delegato il suo vicario dott Sciara a colloquiare col comandante Agate ndr)”.

Ai mafiosi a fine 2002 balena l’idea di sollecitare la vendita della Calcestruzzi Ericina. Nel gennaio 2003 il prefetto Sodano racconta di avere ricevuto una visita. “Mi fu chiesto un incontro da parte del presidente di Assindustria Marzio Bresciani e del direttore Francesco Bianco. All’incontro si presentò anche l’imprenditore Vito Mannina. Mi fu consegnata la proposta per la nomina a cavaliere dello stesso Mannina. Durante la riunione incidentalmente fu avanzata la proposta di acquisizione da parte dell’impresa Mannina della Calcestruzzi Ericina con assorbimento da parte dell’impresa Mannina di manodopera e acquisizione dei beni aziendali. Feci presente che in questo interlocutore principale era l’Agenzia del Demanio, uno degli interlocutori, forse Bianco, mi fece presente che loro avevano già sentito il geometra Nasca che aveva già dato il suo assenso. Poiché ero a conoscenza che da alcuni mesi Nasca era stato sollevato dai suoi incarichi in materia di beni confiscati mi meravigliai con loro per essersi rivolti a tale soggetto, comunque rinviai ogni altra discussione ad altra seduta successiva, Per me portare avanti quella richiesta significava abdicare alle mie iniziali decisioni che andavo perseguendo, incarica il capo di gabinetto di contattare l’associazione degli industriali per dire che della loro proposta non se ne faceva nulla. Con l’Assindustria ebbi comunque un altro incontro, erano stati molto insistenti nel chiederlo, stavolta c’era presente il figlio di Vito Mannina, Vincenzo, fu l’occasione per manifestare di persona tutte le mie perplessità, ma feci presente che siccome la titolarità era del Demanio, potevano rivolgersi a quell’ente, feci loro capire che se fosse stato chiesto il mio parere sarebbe stato negativo”.

La Calcestruzzi Ericina non fu venduta. Gli imprenditori non ci provarono nemmeno a parlare con i funzionari dell’Agenzia del Demanio e con chi aveva tolto l’ex funzionario Nasca da quella poltrona. Il prefetto Sodano nel luglio del 2003 presiede in prefettura la sua ultima riunione da prefetto di Trapani. E’ una riunione che mette le basi perché i beni confiscati mai più restino inutilizzati. Al suo fianco c’è seduto il presidente di Libera Luigi Ciotti. Personalmente a me confidò: “Vado via per questa riunione”.

E’ a conoscenza dei motivi del suo trasferimento da Trapani ad Agrigento? Si trattava di un trasferimento già programmato? E’ questa l’ultima domanda rivolta al prefetto Sodano dal pm Tarondo durante quell’interrogatorio del luglio 2004. Sodano così risponde: “Ho avuto conoscenza del mio trasferimento nel tardo pomeriggio del giorno precedente la seduta del Consiglio dei Ministri. Mi telefonò il capo di gabinetto del ministro facendomi presente che l’indomani sarei stato nominato prefetto di Agrigento. Alle mie rimostranze basate sul mio momento non facile di salute, noto al ministero, e per il quale avevo chiesto di rimanere a Trapani almeno altri sei mesi, ebbe a dirmi che la distanza che rispetto ad Agrigento c’era con Palermo era identica a quella con Trapani, mi invitò a prendere servizio ad Agrigento perché l’amministrazione mi sarebbe stata vicina. Tutto questo avveniva mentre non molto tempo prima aveva avuto garanzia che per un po’ di tempo non sarei stato trasferito. All’epoca di quel mio trasferimento molti altri colleghi che avevano raggiunto le loro sedi in concomitanza con la mia assegnazione a Trapani erano ancora in quelle stessi sedi”.

Una sentenza quella che ha condannato “don” Ciccio Pace a 20 anni di carcere scrive che l’azione dei mafiosi fu rivolta contro un uomo valoroso e coraggioso, il prefetto Fulvio Sodano. Condannato a sette anni è stato anche l’ex funzionario del Demanio, Francesco Nasca. Adesso a favore del prefetto Sodano questo pronunciamento del Tribunale Civile. Che fa salvo anche il lavoro giornalistico di Stefano Maria Bianchi che fu oggetto di una dura contestazione in Consiglio provinciale quando presidente della Provincia era proprio il senatore d’Alì ed il prefetto Finazzo andava dicendo pubblicamente che lui non contestava i giornalisti venuti da Roma ma quelli che a Trapani erano stati le loro fonti. Anni dopo si dimostrò che quelle fonti avevano visto giusto, dietro gli appalti del porto e della Coppa America, sotto il controllo di Protezione civile, prefettura e Comune di Trapani, ad operare c’era una “cricca” del malaffare.

Narcomafie, settembre 2011

Sodano vince contro D’Alì

La strage di Via D'Amelio
di Rino Giacalone Mafia: il prefetto Sodano vince contro chi lo mandò via da Trapani. Il Tribunale respinge la richiesta di risarcimento danni avanzata dal senatore D’Alì Nell’ottobre del 2005, il 5 ottobre per l’esattezza, Anno Zero di Michele Santoro mandò in onda un reportage firmato da Stefano Maria Bianchi su Trapani a poche settimane dalla conclusione degli atti preliminari della Coppa America. Qualcuno scrisse su un giornale locale che Trapani avrebbe fatto bene a cambiare canale perché non c’era nulla di vero e di buono in quel reportage, a scrivere così era un sacerdote, don Ninni Treppiedi, oggi finito in mezzo a mille guai col Vaticano quanto con la Giustizia a sentire alcune indiscrezioni. In quel reportage sotto accusa era finito l’allora sottosegretario all’Interno senatore D’Alì, assieme all’odierno sindaco di Trapani, Girolamo Fazio, e lo scandalo sfiorava anche il prefetto dell’epoca Giovanni Finazzo. Si parlava in quel reportage di appalti combinati, della mafia che aveva messo le mani sui lavori di allestimento per rendere il porto perfetto ad accogliere le barche a vela della Coppa America, c’era anche l’immagine malata dell’ex prefetto di Trapani Fulvio Sodano che a gesti raccontò al giornalista Stefano Maria Bianchi che lui nel 2003 da Trapani era stato mandato via nel giro di 24 ore, un giorno prima dal Viminale gli era stato assicurato che non era nella lista dei movimenti dei prefetti, l’indomani si ritrovò “sbattuto” ad Agrigento, per volere, disse del senatore Tonino D’Alì, oggi presidente della commissione Ambiente del Senato e indagato a Palermo per concorso esterno in associazione mafiosa. Agli atti di questa indagine c’è anche il trasferimento da Trapani di Sodano col quale era entrato in contrasto a proposito della gestione dei beni confiscati alla mafia.
Trapani non cambiò canale quel giorno ma non ha mai premiato il prefetto Sodano rimasto in attesa di avere consegnata la cittadinanza onoraria della città deliberata nel dicembre 2005 dal Consiglio comunale all’indomani di una operazione antimafia della Polizia che dimostrò come Sodano da prefetto aveva respinto l’attacco diretto che i mafiosi insospettabili avevano portato fin dentro il suo ufficio quando volevano convincerlo a vendere la Calcestruzzi Ericina una azienda confiscata a Cosa Nostra trapanese e la cui presenza sul mercato, con la gestione dello Stato, faceva concorrenza alle imprese rimaste sotto il controllo degli imprenditori mafiosi. Il prefetto Sodano per quella intervista è stato citato in giudizio civile dal senatore D’Alì davanti al Tribunale di Roma, assieme alla Rai e ai giornalisti Michele Santoro e Stefano Maria Bianchi. Il Tribunale Civile ha respinto la richiesta di risarcimento dei danni, il senatore D’Alì non l’ha spuntata contro Sodano. Il prefetto Sodano difeso dall’avv. Giuseppe Gandolfo oggi ha ricevuto giusta ragione: “è un risultato importante per il prefetto – dice l’avv. Gandolfo – ma per tutti quelli che hanno sempre creduto nel lavoro onesto e coraggioso di Sodano, non meno rilevante è la circostanza che il fatto è incluso tra gli episodi contestati dalla Procura di Palermo al senatore D’Al’, indagato per concorso esterno in associazione mafiosa”. Agli atti di questa indagine ci sono cinque pagine fitte fitte, il verbale di un interrogatorio su carta intestata della Procura della Repubblica di Trapani. In fondo, alla fine di quel verbale che reca la data del 22 luglio 2004, le firme di un magistrato, il pm Andrea Tarondo e quella del prefetto, Fulvio Sodano. Dentro c’è scritto il racconto di una storia, di un compito che è stato impedito di assolvere in pieno, fino in fondo, ossia la gestione e l’utilizzo dei beni confiscati, cosa che in provincia di Trapani forse non doveva andare come è andata, e dove alla fine quando era impossibile tornare indietro, qualcuno doveva pagare.

Fulvio Sodano fu “cacciato” via da Trapani nell’estate del 2003 dall’allora Governo Berlusconi, ministro dell’Interno Beppe Pisanu oggi presidente della commissione nazionale antimafia. La commissione che ha pure tentato nella passata legislatura e in quella prima ancora di affrontare la questione, ma non trovò unanimi visioni. “Signor prefetto ma lei sta favorendo troppo la Calcestruzzi Ericina”. Quella non era una impresa qualsiasi, era una ditta confiscata alla mafia, che era diventata patrimonio dello Stato. Favorire perciò la Calcestruzzi Ericina significava appoggiare lo Stato. E quella era la cosa che stava facendo a Trapani il prefetto Fulvio Sodano, massima espressione dello Stato non poteva fare altro. Chi gli si rivolse a lui dandogli del “favoreggiatore”, secondo il racconto di Fulvio Sodano al magistrato che andò a sentirlo, fu l’allora sottosegretario all’Interno senatore Antonio D’Alì.

Non è una storia nuova quella che si sta scrivendo. La faccenda è conosciuta. Un paio di processi sono stati celebrati, le sentenze hanno accertato una serie di cose accadute a Trapani tra il 2001 e il 2005. A 20 anni è stato condannato il capo mafia di Trapani “don” Ciccio Pace, 8 anni di carcere ha avuto inflitti il suo braccio destro l’imprenditore Vincenzo Mannina. Pace era quello che voleva togliere di mezzo la Calcestruzzi Ericina in un periodo in cui a Trapani stavano arrivando milioni di euro di finanziamenti per fare bello e moderno il porto e gli imprenditori mafiosi si vantavano di potere controllare quelle opere pubbliche in corso di appalto perché possedevano bandi e capitolati di gara ancora prima che venissero pubblicati. Non c’era bisogno sotto la “regia” di “don” Ciccio Pace che gli appalti venissero pilotati tutti, le imprese che se li aggiudicavano sapevano che prima di cominciare i lavori dovevano andare a bussare a certe porte, e che i materiali per i cantieri, gli inerti, sabbia e pietrisco, il ferro, il cemento solo da certe imprese doveva essere comprato. “Don” Ciccio Pace aveva la sua impresa, la Sicilcalcestruzzi, le quote le aveva comprate, ufficializzando così la sua presenza che esisteva già da anni sottobanco, con i soldi ottenuti per un risarcimento per ingiusta detenzione. Per vendere gli inerti c’era l’impresa di Vincenzo Mannina, per gli asfalti quella di un altro imprenditore che faceva parte della cupola, Tommaso Coppola. Il ferro lo vendeva in esclusiva Nino Birrittella, l’uomo che dopo l’arresto ha deciso di uscire da Cosa Nostra raccontando ogni segreto di quella cupola fatta di imprenditori: non ha accettato alcun programma di protezione, ha chiesto di rimettersi sulla corretta via rimettendosi a lavorare, pronto a saldare i suoi conti con la giustizia quando arriverà questo momento. Una storia del tutto diversa da quella per esempio seguita da Tommaso Coppola che, come di recente ha svelato l’operazione antimafia “Cosa Nostra resorts”, dal carcere ha cercato di continuare a gestire in modo truffaldino le sue imprese, ha cercato di continuare a colloquiare con i politici, a parlare attraverso intermediari col prefetto Giovanni Finazzo successore di Sodano a Trapani, perché le commesse alle sue aziende non venissero fermate.
Ma torniamo agli appalti e al cemento. Dopo la confisca la Calcestruzzi Ericina, era il 2000 cominciò a registrare un calo nelle commesse. Magicamente gli imprenditori che costruivano palazzi e realizzavano opere pubbliche non andavano più in quell’impianto a comprare cemento. Nessuno è mai venuto a dire che ci fu un ordine, un passaparola, ma è quello che avvenne senza suscitare tanto scandalo. Ecco il racconto al magistrato da parte del prefetto Fulvio Sodano comincia proprio da questo punto.
“Non appena assunte le funzioni di prefetto di Trapani mi resi conto che la situazione dell’amministrazione dei beni confiscati alla mafia era estremamente grave, nel senso che erano numerosissimi i beni confiscati ma mai assegnati e che molti di tali beni erano ancora nella materiale disponibilità dei soggetti mafiosi cui erano stati confiscati. Immediatamente mi attivai per promuovere incontri con tutti gli enti interessati per tentare di fare attivare le procedure burocratiche di assegnazione incontrando difficoltà ed inerzie, per asserita mancanza di personale”.
Il prefetto Sodano a quel punto cominciò ad incontrare gli amministratori dei beni confiscati. Fu quello il momento in cui ebbe a conoscere gli amministratori della Calcestruzzi Ericina, il dott. Luigi Miserendino e l’avv. Carmelo Castelli: “Mi rappresentarono l’immobilismo del Demanio rispetto alle loro richieste e mi dissero che nonostante l’ottima qualità di calcestruzzo prodotto, venduto ad un prezzo più basso degli altri concorrenti, incontravano fortissime difficoltà di mercato e il fatturato ogni giorno scendeva sempre di più. Mi dissero che l’azienda rischiava di chiudere”. Il prefetto Sodano comprese subito le conseguenze: “Decisi che un bene acquisito dallo Stato che aveva sia un forte valore simbolico sul territorio sia una incidenza importante in un settore strategico per la mafia quale quello del calcestruzzo, doveva essere salvato e diventare l’emblema della rivincita dello Stato sull’antistato”.
La prima persona con la quale il prefetto Sodano affrontò l’argomento fu con l’allora presidente dell’Associazione degli Industriali Marzio Bresciani: “Gli dissi che non capivo come mai a fronte di un prezzo e qualità migliori i suoi associati preferissero rifornirsi altrove, lasciai intendere che paventavo una possibile interferenza mafiosa. Quindi lo pregai anche in considerazione dell’economicità e della qualità del prodotto, di farsi portavoce presso i suoi associati, magari quelli che più gli erano vicini, di valutare la possibilità di rifornirsi anche presso la Calcestruzzi Ericina……Dopo alcuni giorni saputo che presso il porto erano in corso consistenti lavori contattati con le stesse motivazioni addotte nel colloquio con Bresciani il comandante del Porto Agate perché si facesse presente alla ditta appaltatrice la convenienza a comprare cemento dalla Calcestruzzi Ericina….Tempo dopo seppi che gli interventi avevano sortito un certo effetto gli amministratori della Calcestruzzi Ericina mi dissero che si era allontanato il rischio della chiusura”.
Il prefetto Fulvio Sodano però ancora non sa che quei suoi interventi avevano cominciato a sortire fastidio dentro Cosa Nostra trapanese, lui era diventato “tinto” e don Ciccio Pace cominciava a dire che quel prefetto doveva andare via. Nel giugno del 2002 l’editore di una emittente locale, Giuseppe Bologna, manager di Tele Scirocco, incontrandolo gli disse che giravano certe voci sul suo conto circa un possibile trasferimento: “Confidenzialmente mi disse di avere saputo che i principali referenti di Forza Italia nella provincia di Trapani avevano chiesto nel corso di un incontro l’allontanamento da Trapani del prefetto, del procuratore e del dirigente della squadra Mobile. Alla cosa non diedi peso”.
Il prefetto Sodano continuò la sua attività sui beni confiscati e a favore della Calcestruzzi Ericina. Nelle riunioni ufficiali però cominciarono ad emergere faccende strane: “Fu quando discutemmo con Comune di Favignana e Soprintendenza delle sorti dell’impianto di calcestruzzo che l’Ericina possedeva a Favignana. Quello era l’unico impianto. Mi colpì l’affermazione del rappresentante comunale che mi disse che una volta terminati i lavori di costruzione di una galleria non c’era più necessità di avere un impianto sull’isola”. Come se a Favignana nessuno avrebbe più costruito e usato cemento che a quel punto se l’impianto avesse chiuso doveva arrivare da Trapani con gli inevitabili costi maggiorati per il trasporto.
Il prefetto avvertì che c’era qualcosa di strano che si muoveva attorno alla Calcestruzzi Ericina. A porre ostacoli non erano malavitosi, mafiosi, imprenditori poco raccomandabili, si fanno avanti le istituzioni. Gli uomini potenti della politica: “Durante una manifestazione ufficiale in prefettura fui avvicinato dal senatore D’Alì Antonio, sottosegretario all’Interno, il quale mi chiese spiegazioni in ordine al mio comportamento relativamente al “favoreggiamento” operato nei confronti della Calcestruzzi Ericina che in base a notizie che aveva avuto da altri avrebbe alterato il libero mercato del calcestruzzo, determinando una sleale concorrenza alle altre aziende del comparto. Gli spiegai quali fossero le motivazioni del mio comportamento e anzi mi meravigliai di quelle doglianze perché in realtà il mio atteggiamento tendeva esclusivamente a contrapporre una azione forte dello Stato ai poteri mafiosi. In sostanza avrei voluto che un bene ormai di proprietà dello Stato potesse sopravvivere in maniera emblematica contro tutti i tentativi della mafia di riappropriarsene o di distruggerlo. Subito dopo il sottosegretario mi disse che se le cose stavano così non aveva altro da dirmi se non che per l’avvenire questi interventi li dovevo fare esclusivamente in prima persona (era successo che per i lavori al porto aveva delegato il suo vicario dott Sciara a colloquiare col comandante Agate ndr)”.
Ai mafiosi a fine 2002 balena l’idea di sollecitare la vendita della Calcestruzzi Ericina. Nel gennaio 2003 il prefetto Sodano racconta di avere ricevuto una visita. “Mi fu chiesto un incontro da parte del presidente di Assindustria Marzio Bresciani e del direttore Francesco Bianco. All’incontro si presentò anche l’imprenditore Vito Mannina. Mi fu consegnata la proposta per la nomina a cavaliere dello stesso Mannina. Durante la riunione incidentalmente fu avanzata la proposta di acquisizione da parte dell’impresa Mannina della Calcestruzzi Ericina con assorbimento da parte dell’impresa Mannina di manodopera e acquisizione dei beni aziendali. Feci presente che in questo interlocutore principale era l’Agenzia del Demanio, uno degli interlocutori, forse Bianco, mi fece presente che loro avevano già sentito il geometra Nasca che aveva già dato il suo assenso. Poiché ero a conoscenza che da alcuni mesi Nasca era stato sollevato dai suoi incarichi in materia di beni confiscati mi meravigliai con loro per essersi rivolti a tale soggetto, comunque rinviai ogni altra discussione ad altra seduta successiva, Per me portare avanti quella richiesta significava abdicare alle mie iniziali decisioni che andavo perseguendo, incarica il capo di gabinetto di contattare l’associazione degli industriali per dire che della loro proposta non se ne faceva nulla. Con l’Assindustria ebbi comunque un altro incontro, erano stati molto insistenti nel chiederlo, stavolta c’era presente il figlio di Vito Mannina, Vincenzo, fu l’occasione per manifestare di persona tutte le mie perplessità, ma feci presente che siccome la titolarità era del Demanio, potevano rivolgersi a quell’ente, feci loro capire che se fosse stato chiesto il mio parere sarebbe stato negativo”.
La Calcestruzzi Ericina non fu venduta. Gli imprenditori non ci provarono nemmeno a parlare con i funzionari dell’Agenzia del Demanio e con chi aveva tolto l’ex funzionario Nasca da quella poltrona. Il prefetto Sodano nel luglio del 2003 presiede in prefettura la sua ultima riunione da prefetto di Trapani. E’ una riunione che mette le basi perché i beni confiscati mai più restino inutilizzati. Al suo fianco c’è seduto il presidente di Libera Luigi Ciotti. Personalmente a me confidò: “Vado via per questa riunione”.
E’ a conoscenza dei motivi del suo trasferimento da Trapani ad Agrigento? Si trattava di un trasferimento già programmato? E’ questa l’ultima domanda rivolta al prefetto Sodano dal pm Tarondo durante quell’interrogatorio del luglio 2004. Sodano così risponde: “Ho avuto conoscenza del mio trasferimento nel tardo pomeriggio del giorno precedente la seduta del Consiglio dei Ministri. Mi telefonò il capo di gabinetto del ministro facendomi presente che l’indomani sarei stato nominato prefetto di Agrigento. Alle mie rimostranze basate sul mio momento non facile di salute, noto al ministero, e per il quale avevo chiesto di rimanere a Trapani almeno altri sei mesi, ebbe a dirmi che la distanza che rispetto ad Agrigento c’era con Palermo era identica a quella con Trapani, mi invitò a prendere servizio ad Agrigento perché l’amministrazione mi sarebbe stata vicina. Tutto questo avveniva mentre non molto tempo prima aveva avuto garanzia che per un po’ di tempo non sarei stato trasferito. All’epoca di quel mio trasferimento molti altri colleghi che avevano raggiunto le loro sedi in concomitanza con la mia assegnazione a Trapani erano ancora in quelle stessi sedi”.
Una sentenza quella che ha condannato “don” Ciccio Pace a 20 anni di carcere scrive che l’azione dei mafiosi fu rivolta contro un uomo valoroso e coraggioso, il prefetto Fulvio Sodano. Condannato a sette anni è stato anche l’ex funzionario del Demanio, Francesco Nasca. Adesso a favore del prefetto Sodano questo pronunciamento del Tribunale Civile. Che fa salvo anche il lavoro giornalistico di Stefano Maria Bianchi che fu oggetto di una dura contestazione in Consiglio provinciale quando presidente della Provincia era proprio il senatore d’Alì ed il prefetto Finazzo andava dicendo pubblicamente che lui non contestava i giornalisti venuti da Roma ma quelli che a Trapani erano stati le loro fonti. Anni dopo si dimostrò che quelle fonti avevano visto giusto, dietro gli appalti del porto e della Coppa America, sotto il controllo di Protezione civile, prefettura e Comune di Trapani, ad operare c’era una “cricca” del malaffare.
Narcomafie, settembre 2011

mercoledì 7 settembre 2011

Chi era Vito Ievolella?

Vito Ievolella
Vito Ievolella è nato a Benevento il 4 dicembre 1929 ed è morto a Palermo il 10 settembre 1981, dopo essersi arruolato nell’Arma dei Carabinieri, venne destinato alla Legione di Alessandria. Nel 1958 frequentò la scuola allievi sottoufficiali di Firenze per poi essere trasferito a Palermo. A partire dal 1965 fu in servizio presso il Nucleo Investigativo del Comando Provinciale di Palermo, dove si distinse per serietà, dedizione e coraggio. Partecipò a molte delicate indagini che, grazie alle sue tecniche investigative, lo resero meritevole di sette encomi solenni e di ben 27 apprezzamenti del Comandante Generale dell’Arma. Fu ucciso in un agguato mafioso in piazza Principe di Camporeale, mentre con la moglie aspettava la figlia Lucia impegnata in una lezione di guida. Nel 2000 gli è stata intitolata la nuova sede della stazione Carabinieri “Falde” sita nel quartiere Montepellegrino, e una strada cittadina; è ricordato dai colleghi per la sua capacità di conciliare la qualità di rapporti familiari con il peso ed i vincoli delle responsabilità professionali.
Al Maresciallo Maggiore Vito IEVOLELLA è stata concessa la Medaglia d’Oro al Valor Civile alla Memoria con D.P.R. del 26 aprile 1983, con la seguente motivazione:
“Addetto a nucleo operativo di gruppo, pur consapevole dei pericoli cui si esponeva, si impegnava con infaticabile slancio ed assoluta dedizione al dovere in prolungate e difficili indagini - rese ancora più ardue dall'ambiente caratterizzato da tradizionale omertà - che portavano alla individuazione ed all'arresto di numerosi e pericolosi aderenti ad organizzazioni mafiose. Proditoriamente fatto segno a colpi d'arma da fuoco in un vile agguato tesogli da quattro malfattori, immolava la vita ai più nobili ideali di giustizia e di grande eroismo.”

domenica 4 settembre 2011

Le tre effe di Corleone, tra estati e notti bianche

di DINO PATERNOSTRO
Che i cittadini vogliano divertirsi, con le “estati” e con le “notti bianche”, è normale e giusto. Ed è altrettanto normale e giusto che gli amministratori comunali offrano ai cittadini l’opportunità di stare insieme e socializzare. Anzi, chi amministra una città ha il dovere di farlo. Insieme a questo, però, ha pure altri doveri: quello di garantire l’efficienza e la funzionalità dei servizi, quello di promuovere le risorse economiche e culturali del territorio, quello di aiutare la crescita civile dei cittadini. Le stesse “estati”, “notti bianche” ed eventi simili, adeguatamente organizzati, possono essere utili anche per raggiungere questi obiettivi. Per esempio, il “Cous-Cous Fest” che si svolge da 14 anni a San Vito Lo Capo, in provincia di Trapani, si pone (e raggiunge insieme) tutti questi obiettivi: i cittadini (non solo di San Vito) escono, socializzano, stanno insieme, si divertono; ma il comune (con la Provincia, la Regione e le Aziende private) promuove i luoghi naturalistici e culturali del territorio e un prodotto come il cous-cous, fondamentale per l’economia della cittadina trapanese. E gli assaggi dei prodotti non sono gratis: ogni cittadino paga un ticket di 10 euro, col quale può assaggiare il cous-cous, può bere una bevanda e consumare un dolce tipico.
Ma c’è un esempio ancora più vicino a noi, che riguarda Campofiorito, proprio a due passi da Corleone. Da anni gli amministratori comunali hanno inventato la “Festa della Fava”, che ogni prima domenica di agosto ormai riesce a coinvolgere migliaia di cittadini dell’intera provincia di Palermo. Lungo corso Antonio Gramsci, si ride, si scherza, ci si diverte, ma ci sono anche gli stand utilizzati da alcune aziende, che promuovono i loro prodotti, vendendoli. L’unico comune che nemmeno ci prova a coniugare il divertimento con la promozione dei prodotti del territorio è Corleone. Da noi il sindaco e gli assessori – degni eredi dei dominatori spagnoli di un tempo – al popolo sanno dare solo le tre effe: “feste, farina e… forca”. Come hanno fatto per la “notte bianca” di ieri, comprano (con i nostri soldi) centinaia di chili di panini, salsiccia, sfincione, pasta a forno, anguria, cornetti; comprano (sempre con i nostri soldi) centinaia di litri di vino; e poi offrono tutto gratuitamente ai visitatori, per l’abbuffata notturna. Nessuna promozione di prodotti tipici, solo bevute e abbuffate. Solo spreco di denaro pubblico, che non possiamo più permetterci.
Sappiamo che la recente “Estate Corleonese” (assolutamente sciatta e povera di qualità, tranne per qualche associazione “amica”, che ha fatto l’abbuffata di incarichi retribuiti) è costata quasi 60 mila euro. Una somma spropositata! Ancora non sappiamo di preciso quanto è costata la “notte bianca”: fino a venerdì mattina non lo sapeva neanche la segretaria-direttrice generale del Comune, da noi interpellata. Si sussurra, non meno di 100 mila euro. Forse di più. Sempre pagati da noi cittadini. Per avere in cambio solo un po’ di divertimento, ma nessun investimento produttivo. Davvero un reato politico, di fronte alla drammatica crisi economico-finanziaria che attraversano l’Italia, l’Europa e il Mondo. Dopo anni di sottovalutazione, per farvi fronte, il governo Berlusconi – tra le altre cose – ha ridotto drasticamente i trasferimenti agli Enti Locali. Lo stesso sarà costretta a fare la Regione. I comuni, quindi, compreso (ovviamente) il comune di Corleone, avranno meno soldi dallo Stato e dalla Regione. Come pensano Iannazzo e la sua giunta di fronteggiare le minori entrate: aumenteranno le tasse per i cittadini (Ici, Tarsu, etc.) o taglieranno i servizi per i cittadini? E lo spreco dei 60 mila euro dell’estate e degli oltre 100 mila per la notte bianca come si concilia con queste ristrettezze finanziarie? Siamo di fronte all’irresponsabilità di amministratori, che rischiano di portare il comune al dissesto finanziario, pur di raccattare una manciata di consensi elettorali. Tutto il contrario di ciò che servirebbe alla nostra città.
Dino Paternostro

Attualità di un libro: "Processo all'articolo 4"

Danilo Dolci fa lo sciopero della fame 
di Franco Virga
L’editore Sellerio, proseguendo la sua encomiabile opera di recupero di testi ormai introvabili, ha ristampato uno dei libri più belli ed attuali di Danilo Dolci: Processo all’articolo 4. La prima edizione del libro vide la luce nel lontano agosto del 1956, pochi mesi dopo l’arresto ed il processo subiti da Danilo, ed altri, per avere organizzato tra Partinico e Trappeto uno sciopero alla rovescia. Su questo libro scrive adesso Roberto Saviano:
«Danilo Dolci nel 1956 a Partinico stava ristrutturando una strada dissestata come forma di protesta. Una sorta di sciopero attivo, una rivolta rovesciata. Se a Sud si doveva marcire nella disoccupazione, Dolci proponeva di attivarsi, iniziare a fare, rendere accessibile ciò che non lo era. Iniziare a farlo ristrutturando strade, quelle che avrebbe dovuto mettere a posto il comune. Lo faceva lui assieme ai suoi disoccupati. La polizia arrivò sul luogo e arrestò tutti. Si racconta che un poliziotto gli si avvicinò dicendogli: “Signor Dolci, ma perché non torna a casa a scrivere i suoi libri invece di farsi arrestare?”. Come dire, torni alla sua più innocua attività e tutti vivremo più tranquilli. Dopo aver perquisito molti disoccupati-lavoratori, i poliziotti videro che tanti avevano nelle tasche e a casa gli scritti di Dolci. Lo stesso poliziotto, dopo averlo arrestato, lo avvicinò ancora in manette dicendogli: “Signor Dolci le troveremo un lavoro duro, così finalmente smetterà di scrivere questi libri che ci creano solo guai!”. Quel poliziotto aveva in una manciata di ore cambiato idea perché aveva esperito il peso specifico della parola».
Più esattamente, qualche anno fa, avevo già rilevato che il 2 febbraio del 1956 Danilo Dolci insieme al segretario della Camera del Lavoro di Partinico, Totò Termini, ed altri cinque “attivisti comunisti” - così come vengono qualificati nel Verbale del locale Commissariato di P.S. - sono arrestati, con l’accusa di “abusiva occupazione di suolo pubblico”, per avere condotto un gruppo di contadini disoccupati a lavorare su una vecchia strada interpoderale, detta “trazzera vecchia”, divenuta impraticabile per via dell’incuria degli uomini e delle Istituzioni.
Una dettagliata cronaca dei fatti accaduti quel giorno è stata fatta dal giovane Goffredo Fofi che ne fu testimone diretto e che ha opportunamente riproposto di recente in un suo bellissimo libro di memorie; mentre l’intera documentazione relativa al memorabile sciopero, all’arresto dei protagonisti e al successivo processo venne tempestivamente pubblicata da Einaudi , nell’agosto 1956, col titolo “Processo all’articolo 4”. Il titolo scelto era un polemico riferimento ad uno degli articoli fondamentali della Costituzione, più volte invocato da Danilo e dal suo principale difensore, che afferma: «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto».
Quando vide la luce la prima edizione del libro si temeva il sequestro delle copie. «Se lo avessi pubblicato solo con il mio nome – racconta Dolci – saremmo rimasti schiacciati tanto io che l’editore. A questo punto intervenne Piero Calamandrei. Gli chiesi consiglio. “Dobbiamo irrobustire questo fronte”. In pochi giorni al nome di Calamandrei vennero ad aggiungersi il nome di Bobbio, quello di Vittorini, di Carlo Levi e di altri». Il libro – grazie soprattutto alle testimonianze di Carlo Levi ed Elio Vittorini e all’arringa finale di Piero Calamandrei - contribuì in modo decisivo a creare il “caso Dolci”: vecchi e nuovi amici scrissero lettere ai giornali, manifesti di protesta, appelli; gruppi di intellettuali costituirono comitati di solidarietà; al Parlamento vennero presentate diverse interrogazioni.
Il senso dell’ originale forma di sciopero venne molto efficacemente colto da Aldo Capitini:
“In sostanza che cosa aveva fatto Dolci? Si era buttato a studiare le ragioni del banditismo, della violenza, della miseria, della disgregazione fisica, dell’ignoranza e aveva trovato che la mancanza di lavoro, nei disoccupati e nei sottoccupati, era la ragione dominante di quei mali. Ed allora aveva preparato per mesi, con la sua meticolosità di architetto, lo sciopero a rovescio (…). Le parole più gravi che Danilo disse, rimproverategli come diffamazione, NON ASSICURARE UN LAVORO A QUESTA GENTE E’ UN ASSASSINIO, erano verissime, perché espresse da chi era risalito alle cause”.
Per Dolci l’esperienza del carcere è stata di fondamentale importanza per capire la realtà siciliana e per guadagnarsi la fiducia dei tanti poveri cristi, dei “banditi” cui aveva già dedicato un libro un anno prima. E, non a caso, “PROCESSO ALL’ART.4” si apre e si chiude con le parole di due giovani incontrati all’Ucciardone. Non si dimentichi che dopo venti giorni di carcere al Nostro venne negata la libertà provvisoria perché la sua condotta era “un indizio manifesto di una spiccata capacità a delinquere”. E Danilo stesso, circa vent’anni dopo, nel ricordare quei giorni dirà:
“lo stesso giorno dell’arrivo mi fu mandato dagli altri carcerati pane, tante olive e tanto formaggio che potevano bastare per tre mesi. Una solidarietà così immediata nasceva dal fatto che lì sapevano che avevo fatto da padre ai loro figli. E mi offrivano quello che avevano. Non ho mai lavorato tanto come durante quel periodo: le mie giornate erano pienissime, perché volevo documentarmi su tutto quanto accadeva nel carcere, soprattutto sulle torture che molti carcerati avevano subito”. ( Spagnoletti G., Conversazioni con Danilo Dolci, Mondatori 1977, p.66)
Dell’arringa finale di Piero Calamandrei mi sembra opportuno ricordare un passo:
“Nelle democrazie europee(…) il popolo rispetta le leggi perchè ne è partecipe e fiero: ogni cittadino le osserva perché sa che tutti le osservano: non c’è una doppia interpretazione della legge, una per i ricchi e una per i poveri! Ma questa è, appunto, la maledizione secolare che grava sull’Italia: il popolo non ha fiducia nelle leggi perché non è convinto che siano le SUE leggi. Ha sempre sentito lo Stato come un nemico. (…). Da secoli i poveri hanno il sentimento che le leggi siano per loro una beffa dei ricchi: hanno della legalità e della giustizia una idea terrificante, come di un mostruoso meccanismo ostile fatto per schiacciarli, come di un labirinto di tranelli burocratici predisposti per gabbare il povero e per soffocare sotto le carte incomprensibili tutti i suoi giusti reclami”. ( AA.VV. , Processo all’art. 4, Einaudi 1956, p. 307).
Per concludere non si può non rilevare che, se le forze politiche di Sinistra, invece di dividersi, fossero rimaste più legate ai bisogni reali del popolo e più attente alla persistente corrispondenza delle parole di Calamandrei alla realtà odierna, ci saremmo risparmiati alcuni abbagli ed i giovani indignati d’oggi non si limiterebbero a rompere le forchette.
Recensione di Francesco Virga
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Danilo Dolci, Processo all’articolo 4, La memoria, 416 pagine,15 euro, Sellerio editore Palermo 2011.