lunedì 29 giugno 2009

Corleone. Il Presidente della Provincia verrà ad illustrare il suo faraonico piano per la grande viabilità. Un altro bluff per le nostre popolazioni?

di DINO PATERNOSTRO
Domani mattina sarà personalmente Giovanni Avanti, presidente della Provincia Regionale di Palermo, a “scomodarsi” per venire a Corleone nei locali del Centro Multimediale "S. Lucia" ed illustrare le mirabilie del suo “Piano per la Grande Viabilità”, che prevede sei grandi cantieri ed investimenti per 1 miliardo e 700 milioni di euro. Roba da far girare la testa, se non fossero solo chiacchiere. In particolare, il Presidente della Provincia illustrerà il progetto della “Corleone–Mare”, che interessa 14 comuni, per un tracciato di 38,700 Km ed un costo di 252 milioni e 200 mila euro. Che l’ammodernamento della strada provinciale Corleone-S.Cipirello-Partinico (la cosiddetta Corleone-Mare) sia di vitale importanza per la zona interna del Corleonese non ci sono dubbi. Di una viabilità capace di collegare velocemente ed in sicurezza la “zona frumentaria” del Corleonese con la fascia costiera e i più importanti centri della Sicilia occidentale se ne parla dai tempi di Garibaldi, ma si ottenne solo una piccola ferrovia a scartamento ridotto, inaugurata nel 1900 e “tagliata” come “ramo secco” alla fine degli anni ’50. Dagli anni ’60 in poi, tanti politici politicanti (di diversi colori) ci hanno fatto toccare con mano “autostrade” e “scorrimento veloci”, col solo misero risultato di avere (adesso) i lavori in corso di un lotto (circa 5 Km) della SS 118 Corleone-Marineo, mentre non si sa se saranno appaltati (con le dovute correzioni eco-compatibili) gli altri 4 lotti.
La “Corleone-Mare”, fu progettata e posta in gara per la prima negli anni ’80, ma a gara in corso fu assassinato Luigi Ranieri, uno degli imprenditori partecipanti, e l’iter dell’appalto venne sospeso, fino ad essere poi revocato. Rimasero nelle casse della Provincia, nonostante si fosse detto il contrario, i 40 miliardi delle vecchie lire che avrebbero dovuto finanziare l’opera. E la giunta Musotto nel 2005 fece rimodulare il vecchio progetto per destinare i circa 20 milioni di euro ad una manutenzione straordinaria di tutto il tracciato Corleone-S.Cipirello-Partinico. Ma questa impostazione (forse “minimalista” ma concreta, perché finanziariamente sostenibile) adesso è stata accantonata dall’Amministrazione provinciale di Giovanni Avanti, che si è dotato di questo mega-piano della grande viabilità, che pensa di impiegare per la Corleone-Mare 252 milioni e 200 mila euro. Una somma che contiene 12,6 volte i 20 milioni di euro disponibili. Il progetto sarà sicuramente migliore dalla Corleone-Mare originaria e dalla soluzione “minimalista” di Musotto. Anche se «la nuova idea progettuale della Corleone-Mare – dice lo stesso Presidente Avanti, nel comunicato dello scorso 10 febbraio - prevede di utilizzare strade provinciali esistenti ammodernandole e valorizzandole, realizzando così un collegamento diretto con lo svincolo di Partinico sulla A-29 e quindi con la zona costiera, che si va ad intersecare con la Palermo-Sciacca e con la tangenziale esterna». Stranamente, è quanto prevedeva lo stesso vecchio progetto. Ci chiediamo, quindi, dove saranno i vantaggi e se (come al solito) l’ottimo non sia il nemico del bene. Sempre nel comunicato stampa dello scorso 10 febbraio, il Presidente Avanti sostieneva che «il ricorso all’utilizzo di fonti di finanziamento esterne è un percorso che abbiamo intrapreso predisponendo progetti importanti che potranno trovare copertura nelle pieghe dei fondi statali e regionali e nel pieno rispetto delle esigenze del territorio». L’affermazione ci lascia perplessi, perché pensare di trovare copertura ad una spesa così importante, cercando “nelle pieghe dei fondi statali e regionali” o è da ingenui, oppure da venditori di fumo. Un dubbio che sarà passato nella testa dell’assessore provinciale alla viabilità, Gigi Tomasino, il quale si è reso conto (e lo dice nello stesso comunicato stampa) che «un investimento di oltre 850 milioni di euro che riguarda la progettualità della Provincia Regionale di Palermo potrebbe sembrare ambizioso o eccessivo». «Ma così non deve apparire – cerca di rassicurarci (e di rassicurarsi) l’assessore - se si considera che nell’area del nord est dell’Italia si prevedono spese per più di un miliardo di euro per migliorare la viabilità di pochi chilometri». Quindi, tranquilli tutti, che i soldi li avremo! E tanto possiamo stare tranquilli che, per cominciare, la Provincia ha revocato i 20 milioni di euro ancora disponibili per la “Corleone-Mare” destinandoli ad altro. Un modo davvero originale di trovare i finanziamenti per la nuova strada: piuttosto che cercare i 232 milioni e 200 mila euro che mancano, si “cancellano” i 20 milioni che abbiamo/avevamo! E pensare che della giunta provinciale fa parte il “corleonese” Gigi Tomasino (è originario di Giuliana) e nella maggioranza consiliare di centrodestra fanno parte il corleonese-doc (?!) Mauro Di Vita, il prizzese (che a Corleone ha avuto oltre 1.000 voti) Luigi Vallone, e il “sangiuseppese” (si dice così?) Francesco Miceli (votato anche a Corleone, vero consigliere Di Miceli?). E, perchè no, anche il bisacquinese-roccamenese Tommaso Calamia, del Pd, la cui voce di opposizione è stata (purtroppo) molto flebile (non l'abbiamo quasi sentita...) nel difendere i legittimi interessi della zona.
Ma le nostre sono soltanto basse insinuazioni e diffidenza per partito preso. Domattina Giovanni Avanti e il suo staff polverizzeranno i nostri dubbi e la zona del Corleonese avrà la sua strada bella, moderna, sicura, veloce…

sabato 27 giugno 2009

Lettera di don Paolo Farinella al cardinal Bagnasco: "Perchè assolvete Berlusconi da ogni immoralità?"

di don PAOLO FARINELLA
Questa lettera, scritta da don Paolo Farinella, prete e biblista della diocesi di Genova al suo vescovo e cardinale Angelo Bagnasco, è stata inviata qualche settimana fa e circola da giorni su internet. Riguarda la vicenda Berlusconi, vista con gli occhi di un sacerdote. Alla luce degli ultimi fatti e della presa di posizione di Famiglia Cristiana che ha chiesto alla Chiesa di parlare, i suoi contenuti diventano attualissimi.

Egregio sig. Cardinale,
viviamo nella stessa città e apparteniamo alla stessa Chiesa: lei vescovo, io prete. Lei è anche capo dei vescovi italiani, dividendosi al 50% tra Genova e Roma. A Genova si dice che lei è poco presente alla vita della diocesi e probabilmente a Roma diranno lo stesso in senso inverso. E' il destino dei commessi viaggiatori e dei cardinali a percentuale. Con questo documento pubblico, mi rivolgo al 50% del cardinale che fa il Presidente della Cei, ma anche al 50% del cardinale che fa il vescovo di Genova perché le scelte del primo interessano per caduta diretta il popolo della sua città.
Ho letto la sua prolusione alla 59a assemblea generale della Cei (24-29 maggio 2009) e anche la sua conferenza stampa del 29 maggio 2009. Mi ha colpito la delicatezza, quasi il fastidio con cui ha trattato - o meglio non ha trattato - la questione morale (o immorale?) che investe il nostro Paese a causa dei comportamenti del presidente del consiglio, ormai dimostrati in modo inequivocabile: frequentazione abituale di minorenni, spergiuro sui figli, uso della falsità come strumento di governo, pianificazione della bugia sui mass media sotto controllo, calunnia come lotta politica.
Lei e il segretario della Cei avete stemperato le parole fino a diluirle in brodino bevibile anche dalle novizie di un convento. Eppure le accuse sono gravi e le fonti certe: la moglie accusa pubblicamente il marito presidente del consiglio di "frequentare minorenni", dichiara che deve essere trattato "come un malato", lo descrive come il "drago al quale vanno offerte vergini in sacrificio". Le interviste pubblicate da un solo (sic!) quotidiano italiano nel deserto dell'omertà di tutti gli altri e da quasi tutta la stampa estera, hanno confermato, oltre ogni dubbio, che il pre-sidente del consiglio ha mentito spudoratamente alla Nazione e continua a mentire sui suoi processi giudiziari, sull'inazione del suo governo. Una sentenza di tribunale di 1° grado ha certi-ficato che egli è corruttore di testimoni chiamati in giudizio e usa la bugia come strumento ordinario di vita e di governo. Eppure si fa vanto della morale cattolica: Dio, Patria, Famiglia. In una tv compiacente ha trasformato in suo privato in un affaire pubblico per utilizzarlo a scopi elettorali, senza alcun ritegno etico e istituzionale. Lei, sig. Cardinale, presenta il magistero dei vescovi (e del papa) come garante della Morale, centrata sulla persona e sui valori della famiglia, eppure né lei né i vescovi avete detto una parola inequivocabile su un uomo, capo del governo, che ha portato il nostro popolo al livello più basso del degrado morale, valorizzando gli istinti di seduzione, di forza/furbizia e di ego-ismo individuale. I vescovi assistono allo sfacelo morale del Paese ciechi e muti, afoni, sepolti in una cortina di incenso che impedisce loro di vedere la "verità" che è la nuda "realtà". Il vo-stro atteggiamento è recidivo perché avete usato lo stesso inno-cuo linguaggio con i respingimenti degli immigrati in violazione di tutti i dettami del diritto e dell'Etica e della Dottrina sociale della Chiesa cattolica, con cui il governo è solito fare i garga-rismi a vostro compiacimento e per vostra presa in giro. Avete fatto il diavolo a quattro contro le convivenze (Dico) e le tutele annesse, avete fatto fallire un referendum in nome dei supremi "principi non negoziabili" e ora non avete altro da dire se non che le vostre paroline sono "per tutti", cioè per nessuno. Il popolo credente e diversamente credente si divide in due categorie: i disorientati e i rassegnati. I primi non capiscono per-ché non avete lesinato bacchettate all'integerrimo e cattolico praticante, Prof. Romano Prodi, mentre assolvete ogni immo-ralità di Berlusconi.
Non date forse un'assoluzione previa, quando vi sforzate di precisare che in campo etico voi "parlate per tutti"? Questa espressione vuota vi permette di non nominare individualmente alcuno e di salvare la capra della morale generica (cioè l'im-moralità) e i cavoli degli interessi cospicui in cui siete coinvolti: nella stessa intervista lei ha avanzato la richiesta di maggiori finanziamenti per le scuole private, ponendo da sé in relazione i due fatti. E' forse un avvertimento che se non arrivano i finan-ziamenti, voi siete già pronti a scaricare il governo e l'attuale maggioranza che sta in piedi in forza del voto dei cattolici atei? Molti cominciano a lasciare la Chiesa e a devolvere l'8xmille ad altre confessioni religiose: lei sicuramente sa che le offerte alla Chiesa cattolica continuano a diminuire; deve, però, sapere che è una conseguenza diretta dell'inesistente magistero della Cei che ha mutato la profezia in diplomazia e la verità in servilismo.
I cattolici rassegnati stanno ancora peggio perché concludono che se i vescovi non condannano Berlusconi e il berlusconismo, significa che non è grave e passano sopra a stili di vita sessuale con harem incorporato, metodo di governo fondato sulla falsità, sulla bugia e sull'odio dell'avversario pur di vincere a tutti i costi. I cattolici lo votano e le donne cattoliche stravedono per un modello di corruttela, le cui tv e giornali senza scrupoli deformano moralmente il nostro popolo con "modelli televisivi" ignobili, rissosi e immorali.
Agli occhi della nostra gente voi, vescovi taciturni, siete corre-sponsabili e complici, sia che tacciate sia che, ancora più grave, tentiate di sminuire la portata delle responsabilità personali. Il popolo ha codificato questo reato con il detto: è tanto ladro chi ruba quanto chi para il sacco. Perché parate il sacco a Berlu-sconi e alla sua sconcia maggioranza? Perché non alzate la voce per dire che il nostro popolo è un popolo drogato dalla tv, al 50% di proprietà personale e per l'altro 50% sotto l'influenza diretta del presidente del consiglio? Perché non dite una parola sul conflitto d'interessi che sta schiacciando la legalità e i fondamentali etici del nostro Paese? Perché con-tinuate a fornicare con un uomo immorale che predica i valori cattolici della famiglia e poi divorzia, si risposa, divorzia ancora e si circonda di minorenni per sollazzare la sua senile svirilità? Perché non dite che con uomini simili non avete nulla da spar-tire come credenti, come pastori e come garanti della morale cattolica? Perché non lo avete sconfessato quando ha respinto gli immigrati, consegnandoli a morte certa?
Non è lo stesso uomo che ha fatto un decreto per salvare ad ogni costo la vita vegetale di Eluana Englaro? Non siete voi gli stessi che difendete la vita "dal suo sorgere fino al suo conclu-dersi naturale"? La vita dei neri vale meno di quella di una bianca? Fino a questo punto siete stati contaminati dall'eresia della Lega e del berlusconismo? Perché non dite che i cattolici che lo sostengono in qualsiasi modo, sono corresponsabili e complici dei suoi delitti che anche l'etica naturale condanna? Come sono lontani i tempi di Sant'Ambrogio che nel 390 impedì a Teodosio di entrare nel duomo di Milano perché "anche l'imperatore é nella Chiesa, non al disopra della Chiesa". Voi onorate un vitello d'oro.
Io e, mi creda, molti altri credenti pensiamo che lei e i vescovi avete perduto la vostra autorità e avete rinnegato il vostro magi-stero perché agite per interesse e non per verità. Per oppor-tunismo, non per vangelo. Un governo dissipatore e una mag-gioranza, schiavi di un padrone che dispone di ingenti capitali provenienti da "mammona iniquitatis", si è reso disposto a sal-darvi qualsiasi richiesta economica in base al principio che ogni uomo e istituzione hanno il loro prezzo. La promessa prevede il vostro silenzio che - è il caso di dirlo - è un silenzio d'oro? Quando il vostro silenzio non regge l'evidenza dell'ignominia dei fatti, voi, da esperti, pesate le parole e parlate a suocera perché nuora intenda, ma senza disturbarla troppo: "troncare, sopire ... sopire, troncare".
Sig. Cardinale, ricorda il conte zio dei Promessi Sposi? "Veda vostra paternità; son cose, come io le dicevo, da finirsi tra di noi, da seppellirsi qui, cose che a rimestarle troppo ... si fa peggio. Lei sa cosa segue: quest'urti, queste picche, principiano talvolta da una bagattella, e vanno avanti, vanno avanti... A vo-ler trovarne il fondo, o non se ne viene a capo, o vengon fuori cent'altri imbrogli. Sopire, troncare, padre molto reverendo: troncare, sopire" (A. Manzoni, Promessi Sposi, cap. IX). Dob-biamo pensare che le accuse di pedofilia al presidente del consiglio e le bugie provate al Paese siano una "bagatella" per il cui perdono bastano "cinque Pater, Ave e Gloria"? La situa-zione è stata descritta in modo feroce e offensivo per voi dall'ex presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, che voi non avete smentito: "Alla Chiesa molto importa dei comportamenti privati. Ma tra un devoto monogamo [leggi: Prodi] che contesta certe sue direttive e uno sciupa femmine che invece dà una mano concreta, la Chiesa dice bravo allo sciupa femmine. Ecclesia casta et meretrix" (La Stampa, 8-5-2009).
Mi permetta di richiamare alla sua memoria, un passo di un Padre della Chiesa, l'integerrimo sant'Ilario di Poitier, che già nel sec. IV metteva in guardia dalle lusinghe e dai regali dell'imperatore Costanzo, il Berlusconi cesarista di turno: "Noi non abbiamo più un imperatore anticristiano che ci perseguita, ma dobbiamo lottare contro un persecutore ancora più insidioso, un nemico che lusinga; non ci flagella la schiena ma ci accarezza il ventre; non ci confisca i beni (dandoci così la vita), ma ci arricchisce per darci la morte; non ci spinge verso la libertà mettendoci in carcere, ma verso la schiavitù invitandoci e onorandoci nel palazzo; non ci colpisce il corpo, ma prende possesso del cuore; non ci taglia la testa con la spada, ma ci uccide l'anima con il denaro" (Ilario di Poitiers, Contro l'im-peratore Costanzo 5).
Egregio sig. Cardinale, in nome di quel Dio che lei dice di rappresentare, ci dia un saggio di profezia, un sussurro di vangelo, un lampo estivo di coerenza di fede e di credibilità. Se non può farlo il 50% di pertinenza del presidente della Cei "per interessi superiori", lo faccia almeno il 50% di competenza del vescovo di una città dove tanta, tantissima gente si sta allontanando dalla vita della Chiesa a motivo della morale elastica dei vescovi italiani, basata sul principio di opportunismo che è la negazione della verità e del tessuto connettivo della convivenza civile.
Lei ha parlato di "emergenza educativa" che è anche il tema proposto per il prossimo decennio e si è lamentato dei "modelli negativi della tv". Suppongo che lei sappia che le tv non nascono sotto l'arco di Tito, ma hanno un proprietario che è capo del governo e nella duplice veste condiziona programmi, pubblicità, economia, modelli e stili di vita, etica e compor-tamenti dei giovani ai quali non sa offrire altro che la prospettiva del "velinismo" o in subordine di parlamentare alle dirette dipen-denze del capo che elargisce posti al parlamento come premi di fedeltà a chi si dimostra più servizievole, specialmente se donne. Dicono le cronache che il sultano abbia gongolato di fronte alla sua reazione perché temeva peggio e, se lo dice lui che è un esperto, possiamo credergli. Ora con la benedizione del vostro solletico, può continuare nella sua lasciva intra-prendenza e nella tratta delle minorenni da immolare sull'altare del tempio del suo narcisismo paranoico, a beneficio del paese di Berlusconistan, come la stampa inglese ha definito l'Italia.
Egregio sig. Cardinale, possiamo sperare ancora che i vescovi esercitino il servizio della loro autorità con autorevolezza, senza alchimie a copertura dei ricchi potenti e a danno della limpidezza delle verità come insegna Giovanni Battista che all'Erode di turno grida senza paura per la sua stessa vita: "Non licet"? Al Precursore la sua parola di condanna costò la vita, mentre a voi il vostro "tacere" porta fortuna.
In attesa di un suo riscontro porgo distinti saluti.
Genova 31 maggio 2009
Paolo Farinella, prete
FOTO: In alto: don Paolo Farinella; sotto: il cardinal Angelo Bagnasco.
(Paolo Farinella è prete della diocesi di Genova, biblista, scrittore e saggista, collabora con MicroMega, con Missioni Consolata di Torino e con l’Editore Gabrielli, Impegnato nel cammino di Impegno per la Pace ed i Diritti, ha pubblicato: “Bibbia, parole, segreti, misteri”; “Ritorno all’Antica Messa”; “Crocifsso …Dio e la civiltà occidentale”. NdR)

giovedì 25 giugno 2009

Piaghe italiche o piaghe mortali

di Vincenzo Consolo
«Italia mia, benché ’l parlar sia indarno / a le piaghe mortali / che nel corpo tuo sì spesse veggio...». Così lamentava Petrarca per le discordie dei signori di allora. E quelle piaghe italiche sembra che d’epoca in epoca si aprano nel bel corpo, che forse bello più non è, piaghe mortali oggi in questo paese governato da un signore-padrone che non ha avuto bisogno di olio di ricino e manganello, ma ha usato quell’arma del video (video della morte e non «della vita», come l’ha chiamato Quasimodo) per conquistare il potere.
Potere politico su un paese da anni telestupefatto, alienato dai messaggi di volgarità e di stupidità. Da quindici anni il paese ha vissuto sotto questo potere. Ma oggi, quell’arma in mano a quell’uomo, imprevedibilmente e paradossalmente si è rivoltata contro di lui, fino a ferirlo e forse a stenderlo. Le cronache di giovani fanciulle, aspiranti veline o aspiranti parlamentari, fanciulle che a pagamento frequentano le maggiori urbane e vacanziere del Capo, fanciulle che hanno cominciato a parlare, a rivelare, e le foto poi, le foto che fissavano le immagini di quelle allegre squadre che entravano e dimoravano in quelle magioni, stanno facendo traballare la poltrona suprema di quel Capo. E bisogna ricorrere alle citazioni dei grandi per capire questo nostro paese. Gadda in «Eros e Priapo» dice: «Una lubido, una foja pittorica e teatrale ha condotto l’Italia al sacrificio..». E prosegue: «...lui bellone, lui mascellone, lui fezzone, lui buccone, stivalone, provolone, maschio maschione generalone di greca tripla». Per finire: «E la moltitudine delle dame gli tarantellò e gli trillò d’attorno, pazze o, altre callidamente ridenti: Kù-cè, Kù-cè, Kù-cè...».Sono azzardate queste citazioni gaddiane, di un libro in cui parla di un altro tempo e di un altro Kùcè? Crediamo di no.Sì, dal dopo guerra abbiamo avuto la democrazia, ma ora un capo di Governo come questo di oggi non lo immaginavamo. La stampa internazionale parla di lui con meraviglia e ironia. Sì, ma sembra che ora forse la sua poltrona traballi. Che ne sarà di questo paese? I cittadini appaiono smarriti. Le percentuali di astensioni alle elezioni comunali, provinciali e soprattutto al referendum sono un segno di questo smarrimento. E il segno, ci dice Renato Mannheimer sul «Corriere della Sera» che, domandando a un campione rappresentativo degli elettori «qual è la prima cosa che viene in mente parlando di politica?», il segno è questo: «disgusto», oppure «rabbia». Certo, sono insorte, e non da ora, in questo paese i localismi, le nuove vandee, la Lega Nord e il siciliano MPA, c’è molta corruzione nel paese, ma c’è una sinistra che per fortuna ancora resiste, una sinistra che dovrebbe però tutta unirsi per ridare dignità democratica a questa nostra Italia.
L'Unità, 25 giugno 2009

domenica 21 giugno 2009

Arrestato in Venezuela il boss Salvatore Miceli

Il capomafia di Salemi Salvatore Miceli, inserito nell'elenco dei 30 latitanti più pericolosi, è stato arrestato a Caracas, in Venezuela, dai carabinieri del comando provinciale di Trapani in collaborazione con l'Interpol. Il boss, considerato un elemento di spicco del narcotraffico internazionale, era ricercato dal 2001, in seguito a una condanna per associazione mafiosa e traffico internazionale di stupefacenti divenuta definitiva. L'indagine che ha portato all'individuazione e alla cattura di Miceli è stata coordinata dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo. Nel maggio del 2003 la polizia aveva arrestato, nell'ambito di un'operazione antidroga, anche la moglie di Miceli, Veronica Dudzinski, e i figli Ivano e Mario. Il boss di Salemi era stato inoltre intercettato nel 2000 con Pino Lipari, il 'consigliori' di Bernardo Provenzano, che lo 'investiva' ufficialmente per gestire un traffico internazionale di stupefacenti. Salvatore Miceli è stato bloccato - quando in Italia erano le 4 del mattino - all'uscita del lussuoso albergo Hotel Caracas Cumberland. Agli investigatori, parlando in spagnolo, ha fornito un nominativo falso. Quando il boss ha però capito che, tra i gendarmi che lo avevano circondato, c'erano pure due carabinieri (due marescialli del reparto operativo del comando provinciale di Trapani) è sbiancato in volto.Non appena giunto nel più vicino posto di polizia, ancor prima di sottoporsi alla prova delle impronte digitali, Miceli ha ammesso la propria identità.I carabinieri ritenevano di avere individuato il superlatitante da quattro giorni. Sono però entrati in azione, assieme all'interpol e alla polizia venezuelana, solo quando hanno avuto la certezza che si trattasse proprio del boss. L'ultima foto segnaletica risaliva infatti al 1993 ed oggi il suo aspetto fisico è molto cambiato. Il boss, anche se non sospettava di essere braccato, aveva adottato una serie di tattiche per contrastare i possibili pedinamenti: "cambiava look più volte al giorno - racconta uno degli ufficiali dell'Arma che ha coordinato l'operazione - e cambiava di frequente anche gli alberghi, dai quali entrava ed usciva di continuo".
Salvatore Miceli, 63 anni, è nipote del defunto boss Salvatore Zizzo, il capomafia di Salemi, morto nel 1981. Arrestato a Palermo, assieme ad altre 22 persone, nel marzo del 1983, nell'ambito di un'operazione congiunta tra carabinieri, polizia e finanza, Miceli, già all'epoca, era destinatario di un provvedimento restrittivo emesso dalla magistratura statunitense. Finì nuovamente in carcere nell'ottobre del '90, su provvedimento dell'allora procuratore di Marsala, Paolo Borsellino, che si avvalse delle dichiarazioni della collaboratrice di giustizia Giacoma Filippello. Quest'ultima indicò Miceli come un narcotrafficante di Cosa Nostra. Il boss trapanese è considerato dagli investigatori come uno dei più fidati referenti del boss latitante Matteo Messina Denaro, nonchè intermediario tra i clan di Cosa Nostra e della 'Ndrangheta ed i cartelli colombiani della cocaina. Un altro referente del capomafia, Francesco Termine, pure lui narcotrafficante, fu arrestato, sempre in Venezuela, dalla squadra mobile di Trapani nell'ottobre di due anni fa
(La Repubblica, 21 giugno 2009)

Ecco chi è il boss Salvatore Miceli, "ministro degli Esteri" di Cosa Nostra

di Salvo Palazzolo
I pentiti lo chiamano il “ministro degli esteri” di Cosa nostra. Salvatore Miceli era sempre in viaggio. E quando tornava in Sicilia i padrini più in vista se lo contendevano a cena. Qualcuno l’aveva soprannominato “la gallina dalle uova d’oro”, perché le sue relazioni con i trafficanti calabresi, e per il loro tramite, con i narcos sudamericani, erano fonte di sempre nuovi affari. Eppure, qualcuno in Cosa nostra cominciava a guardarlo con sospetto. All’i nizio degli anni Novanta, Giovanni Brusca, anche lui aspirante trafficante internazionale di droga, andava dicendo in giro che Miceli aveva fatto scomparire una grossa partita di droga, e chiedeva alla Cupola che fosse ucciso. Matteo Messina Denaro, il giovane capomafia della provincia di Trapani, si oppose con forza. E Brusca finì in minoranza. Salvatore Miceli continuava a viaggiare. Quando tornava, polizia e carabinieri riuscivano per qualche giorno a intercettarlo. Lui dispensava sempre buoni consigli: “Per sfuggire ai controlli bisogna inventarsi la qualsiasi”, raccomandava ai suoi picciotti. E quando parlava con i padrini di più alto rango diceva che la Sicilia “è terra che non ha pari al mondo”. Per una ragione, soprattutto: “In Sicilia puoi piazzare roba purissima, i clienti sono disposti a pagare una cifra. Neanche a Roma si fanno questi affari”. Poi, dopo qualche giorno, la gallina dalle uova d’oro spariva nuovamente. La cena più importante a cui Miceli fu invitato si tenne a casa di Pino Lipari, il consigliere più fidato del capo di Cosa nostra Bernardo Provenzano. Anche quella volta, c’era una microspia che registrava ogni parola. Lipari svelò a Miceli quali erano le nuove strategie dopo le stragi Falcone e Borsellino. Gli spiegò che si era tenuta una riunione al massimo vertice: c’erano Bernardo Provenzano, Benedetto Spera, Salvatore Lo Piccolo e Nino Giuffrè. La nuova Cupola mafiosa. “Bisogna rimettere questo giocattolo in piedi… Gli dissi, “senti Bino, qua non è che abbiamo più due anni, non ti seccare, io me la prendo questa libertà perché ci conosciamo. Figlio mio, né tutto si può proteggere né tutto si può avallare né tutto si può condividere di quello che è stato fatto. Perché del passato ci sono cose giuste fatte e cose sbagliate, bisogna avere un po’ di pazienza”. Pronunciai questa parola – proseguiva Lipari - e Benedetto mi venne a baciare. Gli dissi: “Né tutto possiamo dire fu fatto giusto né tutto possiamo dire che è sbagliato”. Cose tinti assai se ne fecero”. Miceli condivideva le parole di Lipari. Erano arrivate anche a lui delle lamentele dal carcere, i corleonesi delle stragi chiedevano a Provenzano un aiuto più concreto. “C’è gente che si sente magari delusa, questo è il fatto”. Ma la stagione delle stragi era conclusa. Miceli sussurrò: “ Chiaramente, ci vuole il suo tempo, vossia me lo insegna, tempo ci vuole”. Lipari annuì. Era orami la stagione degli affari. Adesso, il sostituto procuratore di Palermo Pierangelo Padova e il procuratore aggiunto Teresa Principato avanzeranno richiesta di estradizione per Miceli. Sono tanti i segreti che il boss continua a conservare. Intanto, i carabinieri del Reparto Operativo di Trapani sono tornati ad esaminare le intercettazioni degli ultimi giorni a Caracas. Miceli stava organizzando un nuovo grande affare fra la Sicilia e il Sud America.
(La Repubblica, 21 giugno 2009)

mercoledì 17 giugno 2009

Ficuzza (Corleone). Al via la stagione antincendio 2009 nella provincia di Palermo

di Cosmo Di Carlo
Ficuzza (PA) - Inaugurata la stagione antincendio 2009 del Corpo Forestale dello Stato della provincia di Palermo, alla presenza del dirigente provinciale Francesco Sgueglia, dei vertici provinciali del Corpo e delle altre forze dell’ordine. Per la Tenenza della Guardia di Finanza di Corleone era presente il maresciallo Giuseppe Coppola, una folta delegazione di veterani del Corpo Forestale. Una messa in onore di San Giovanni Gualberto, patrono del Corpo Forestale, un sobrio “coffee break” e poi tutti al lavoro. Sono 14 i nuovi automezzi che andranno a potenziare i 21 distaccamenti presenti in provincia. Due sono stati assegnati al distaccamento di Ficuzza, comandato dal commissario Francesco Muratore. Ogni mezzo di pronto intervento ha 1000 litri d’acqua in dotazione e può trasportare, oltre al conducente, 6 unità di personale. Mezzi veloci ed efficienti che consentiranno interventi tempestivi per spegnere le fiamme sul nascere. Quest’anno contro i piromani anche una novità tecnologica: una rete di micro-telecamere collegate a pc portatili in dotazionie a pattuglie su auto civetta, che consentiranno di monitorare i punti più sensibili del territorio. Le telecamere saranno collegate alla sala operativa del Corpo Forestale. “L’esperienza ci porta a collegare gli eventi calamitosi alle condizioni meteo climatiche – spiega Francesco Sgueglia – legate all’aumento delle temperature ed al vento di scirocco. Oggi siamo in condizione di avere un allerta meteo con due giorni d’anticipo e di poter quindi potenziare i servizi. Il collegamento delle nostre centrali operative con la Prefettura di Palermo, con i tre elicotteri in forza al Corpo Forestale e con quelle delle altre forze dell’ordine (carabinieri, polizia, guardia di finanza e protezione civile) ci consente di far sorvolare su rotte ben individuate tutti gli aereo-mezzi in servizio sui cieli della provincia di Palermo. Con i mezzi ordinari (torrette di guardia, squadre e mezzi antincendio dislocate sui punti più a rischio) ci è possibile gestire emergenze limitate. Più difficile è quando il fuoco viene appiccato in più punti dai piromani in concomitanze con le condizioni meteo avverse”. Uno dei fattori che determinano grossi rischi sono le aree agricole non coltivate in prossimità dei boschi. Spesso, infatti, gli incendi raggiungono le aree boschive da grandi distanze attraversando i terreni abbandonati. “Per questo contiamo sulla collaborazione dei cittadini che hanno a cuore la salvaguardia del loro territorio – conclude Francesco Sgueglia - una intesa in tal senso l’abbiamo raggiunto con alcuni cittadini di Cefalù, esperienza che contiamo di allargare a tutta la provincia. La collaborazione è importante per scoraggiare i piromani che possono così essere individuati ed arrestati in flagranza di reato”. Dalle parole di Francesco Sgueglia trapela la consapevolezza per il duro lavoro dei mesi estivi, ma anche la speranza che quest’anno si possa operare bene in difesa dei boschi e dell’ambiente. (*Co.Di*).

Nella foto (Di Carlo) Gli operatori del Corpo Forestale Provinciale- Al centro il comandante provinciale Francesco Sgueglia ed il comandante del distaccamento di Ficuzza Francesco Muratore , gli operatori delle squadre antincendio di Ficuzza ed i nuovi mezzi antincendio.
Sotto: l'ing. Francesco Sgueglia

Il voto europeo premia gli "esterni": una sfida per il Partito Democratico e i movimenti

di Francesco Palazzo
Due questioni, dopo le elezioni europee, riguardano lo stato di salute del Partito democratico e il futuro del movimento Un´Altra Storia. Due tematiche intrecciate da alcuni anni, quelle dei partiti e dei movimenti. I primi più controversi, ma abbastanza stabili, i secondi più informali e vitali, ma che non tengono alla media distanza. Talvolta copiando il peggio dei partiti. Nel Pd si è fatta strada una prima controversia. Di chi è il merito delle affermazioni di Crocetta e della Borsellino? Questione che lasciamo a chi vuole tormentarsi più del dovuto. Basterebbe solo dire che senza il Pd, rimanendo nelle loro formazioni di appartenenza, mai Crocetta e la Borsellino avrebbero messo insieme quasi quattrocentomila voti. Al contempo, queste candidature hanno portato ai democratici nuova linfa, pronta a dileguarsi tra le polemiche se non la si sfrutta in tempo. Che però i nodi del Partito democratico siano tutti ancora sul tappeto è dimostrato dai consensi presi dai due nomi che più rispondevano alle sensibilità forti del partito, l´ex diessina e l´ex margheritina. Sia Tripi che Barbagallo non sono arrivati neanche a 70 mila voti ciascuno. Segno che il partito, pure con la triplice preferenza, non riesce neppure a promuovere due candidature di una certa levatura. Con ciò non vogliamo dire che i democratici siciliani non hanno qualche elemento per tirare un sospiro di sollievo. Ma da questo a dire che è iniziata una nuova fase, ce ne corre. Anche perché la tenuta del partito nel resto d´Italia, lasciando stare la folata europea e guardando le amministrative, è già abbastanza precaria nelle roccaforti emiliane e toscane. Se lì non si festeggia, figuriamoci in Sicilia. Da noi il centrodestra mantiene complessivamente il suo patrimonio elettorale, è in fase di grande sofferenza la sinistra estrema ed è molto indebolito, o esaurito, il richiamo dei movimenti. Sui quali va detto qualcosa. L´ultimo, in ordine di apparizione, e siamo al secondo argomento, è Un´Altra Storia. Che ha registrato una spaccatura sulla candidatura della Borsellino nel Pd. Basta vedere il sito, fermo dal 20 aprile a dopo le elezioni, e i commenti in esso contenuti, per rendersi conto che non si può minimizzare affermando che si è trattato solo delle dimissioni di poche persone. Peraltro, una lettera girata per e-mail alla vigilia del voto, pare condivisa da molti oltre i pochi firmatari, segnalava criticità sostanziali nel percorso decisionale di Un´Altra Storia circa l´inserimento della propria fondatrice tra i democratici.La spinta di molti aderenti al movimento era quella che la Borsellino accettasse il coinvolgimento in una delle liste della sinistra o in Italia dei valori. Alle elezioni politiche del 2008 la Borsellino era in corsa per il Senato nella Sinistra Arcobaleno, questa volta senza polemiche interne, rimanendo con niente in mano. Un nulla di fatto che si sarebbe replicato se si fosse accasata tra le file della sinistra, e una difficile elezione se avesse accettato le avance dei dipietristi. In entrambi i casi non ci sarebbe stata la valanga di voti che l´ha premiata. E che la pone come un punto di riferimento per lo stesso Pd. Più di quando si candidò alla Regione nel 2006. Basta ricordare che tutti i candidati della sua Lista Rita presero meno della metà delle preferenze da lei adesso racimolate da sola. Ora sarà difficile indirizzare il movimento verso la sponda del Partito democratico. Che è visto, da gran parte della sua creatura politica, come il fumo negli occhi. Così come lei del resto, sino a ieri, non era mai stata tanto amata dai democratici. Probabilmente Un´Altra Storia, come tutte le esperienze collettive basate sul carisma di un leader e sulla voglia di ripartire spontaneamente dal basso, è giunta al capolinea come forza politico-elettorale. Questo non è necessariamente un grosso problema. Visto lo scenario politico, sempre più polarizzato su poche formazioni, è indispensabile non insistere su battaglie di minoranza che restano ai margini e non raccolgono molti voti. Crediamo che la Borsellino, a un certo punto, abbia proprio afferrato questo concetto e sia andata avanti con decisione. Dimostrando di avere un certo fiuto politico e una buona dose di coraggio.
LA REPUBBLICA PALERMO - MARTEDÌ 16 GIUGNO 2009

martedì 16 giugno 2009

MESSINA DENARO. Il boss, lo scrivano e le veline

Ritratto del latitante trapanese che ha ereditato i segreti di Riina e Provenzano. Unico indizio della sua presenza, i pizzini ritrovati. E qualche favoreggiatore davvero poco discreto
di Salvo Palazzolo
L’ultima volta che l’hanno visto correva in Porsche verso il lido di Marina di Selinunte. Foulard al collo, pantaloni Versace e rolex Daytona. Era il 1993, l’anno delle bombe di mafia a Firenze, Milano e Roma. Da quei giorni insanguinati Matteo Messina Denaro sembra essere scomparso nel nulla. Oggi ha 47 anni ed è ritenuto il nuovo capo di Cosa Nostra siciliana: “Perché ha ereditato i segreti dei Corleonesi”, sostiene il pentito Nino Giuffrè. Ovvero, l’archivio di Totò Riina e i rapporti politici di Bernardo Provenzano. “Quei segreti – prosegue Giuffrè – continuano ad essere per chi li detiene una formidabile arma di ricatto, ma anche la chiave che custodisce i tesori di Cosa nostra”.Unico indizio della sua presenza, i pizzini. Come fu per Bernardo Provenzano. Matteo Messina Denaro continua a governare così la mafia del terzo millennio: dispensando ordini e massime di vita criminale attraverso piccoli foglietti di carta che viaggiano per la Sicilia, e anche all’estero (ne sono convinti gli investigatori), attraverso i soliti fidati postini. “Io non andrò mai via di mia volontà”, assicura lui in uno dei biglietti ritrovati dalla squadra mobile di Trapani: “Ho un codice d’onore da rispettare. Lo devo a Papà e ai miei principi. Io starò sempre nella mia terra fino a quando il destino lo vorrà e sarò sempre disponibile per i miei amici”.Il “destino del mafioso” è un concetto che ritorna. Al giovane Sandro Lo Piccolo, latitante a 25 anni, Messina Denaro scriveva: “ Mi dispiace le condizioni in cui ti trovi, so cosa vuol dire perché anche io ho cominciato da giovane, ed ormai sono passati tanti anni, capisco che la gioventù vorrebbe essere passata in altri modi, ma purtroppo un uomo non può cambiare il suo destino. Un uomo fa quel che può fino a quando il suo destino non si compia, l’i mportante è vivere tutto con serenità e con dignità”.
Fra il covo di Provenzano (scoperto nel 2006) e quello dei Lo Piccolo (2007), una decina di pizzini di Messina Denaro sono finiti all’attenzione dei poliziotti della squadra mobile di Trapani diretta da Giuseppe Linares, da anni ormai impegnato nelle ricerche del superlatitante. Quei pizzini restano le tracce principali. E presto hanno svelato una sorpresa. Non sono stati vergati da Matteo Messina Denaro. Non hanno avuto dubbi i grafologi incaricati dagli inquirenti di confrontare la scrittura dei biglietti con la firma apposta tanti anni fa dal boss su un verbale di polizia. Forse, sarà perché il giovane capo di Cosa nostra ha problemi di vista. O forse, è solo un vezzo. O un’ulteriore cautela. Chi indaga ritiene che Messina Denaro abbia uno scrivano, fedele trascrittore di ordini e riflessioni. Con licenza di apportare, a sua discrezione, le citazioni ritenute più opportune. “Credo di essere diventato il Malaussène di tutti e di tutto”, fu un dotto riferimento. Oppure: “L’unico leader a mia memoria fu Craxi, oggi basta che si faccia antimafia”. E ancora: “Lo dice Toni Negri, la giustizia italiana è marcia e corrotta alle fondamenta”. Chi indaga su questi indizi avanza l’ipotesi che il misterioso scrivano possa essere un professore di Lettere. Messina Denaro continua a restare un fantasma. O quasi. “Lo scopo di quest’ultima attività d’indagine è di isolare il latitante – dice il sostituto procuratore Paolo Guido, che da un anno e mezzo coordina un nuovo gruppo di lavoro per la ricerca di Messina Denaro – il sistema di controllo e di protezione di cui può godere il capomafia appare ancora straordinario ed eccezionale. Su quel versante dobbiamo incidere. E’ la stessa strategia che si è dimostrata vincente per la cattura di Bernardo Provenzano”.Così, scavando nella rete delle complicità e delle protezioni, le indagini hanno scoperto che Matteo Messina Denaro si è rivolto a un trapanese trapiantato da anni a Roma. Il padrino cercava un documento falso. Ed è stata un’altra sorpresa inaspettata. Domenico Nardo gestisce una società che a Roma offre guardie del corpo a veline e personaggi dello spettacolo, la World protection srl, e nel bel mondo della Capitale si muove con disinvoltura. Anche la figlia di Nardo è una starlet, che è stata fidanzata con nomi noti del mondo dello spettacolo. Insomma, lui non è proprio uno di quei personaggi discreti che ogni latitante sogna di arruolare a tutti i costi. Eppure, Messina Denaro si fidava di Mimmo Nardo: le intercettazioni della polizia dicono che trafficava non solo in documenti falsi, ma anche in droga. Chissà a cosa serviva un documento ben fatto a Matteo Messina Denaro. Probabilmente, per viaggiare. Ma verso dove?
(La Repubblica, 16 giugno 2009)

Mafia, tredici arresti a Trapani: coprivano il boss latitante Matteo Messina Denaro

Sono accusati di aver favorito la latitanza del capo della "cupola"latitante ormai da sedici anni. Trecento uomini impegnati nell'operazione "Golem". Scoperti traffico di droga ed estorsioni. Sequestrati i beni degli arrestatiIl "tipografo" che gli forniva documenti falsi è residente a Roma
TRAPANI - 13 persone sono state arrestate dagli agenti del Servizio centrale operativo (Sco) e delle Squadre mobili di Trapani e Palermo perché favorivano i contatti fra il boss latitante trapanese, Matteo Messina Denaro, e alcuni esponenti di vertice di Cosa nostra palermitana, fornendogli pure falsi documenti. Per l'accusa sono i componenti di una fitta rete di favoreggiatori che da anni copre il capomafia di Trapani, accusato di omicidi e stragi, ricercato da 16 anni, che avrebbe coperture anche a Roma. Le accuse. A richiedere i provvedimenti di custodia cautelare in carcere sono stati il procuratore aggiunto Teresa Principato e i sostituti della Dda, Paolo Guido, Roberto Scarpinato e Sara Micucci, e sono stati eseguiti nelle province di Trapani, Palermo, Roma e Piacenza. Gli indagati sono accusati a vario titolo di associazione mafiosa, estorsione, traffico di stupefacenti e trasferimento fraudolento di società e valori. I 13 in carcere. I provvedimenti cautelari riguardano uomini e donne, ma anche imprenditori caseari insospettabili e anche pregiudicati. I 13 finiti in carcere sono Vito Angelo, 45 anni, arrestato a Piacenza; Leonardo Bonafede, 77 anni, di Campobello di Mazara; Giuseppe Bonetto, 54, imprenditore di Castelvetrano; Lea Cataldo, 46 anni, di Campobello di Mazara; Salvatore Dell'Aquila, di 48; Leonardo Ferrante, 54 anni; Franco e Giuseppe Indelicato, di 40 e 36; Aldo e Francesco Luppino, rispettivamente 62 e 53 anni; Giovanni Salvatore Madonia, 44 anni; Mario Messina Denaro, 57 anni, imprenditore caseario, cugino del boss latitante Matteo, e Domenico Nardo, di 50, residente a Roma, considerato dagli inquirenti il "tipografo" che stampava i documenti falsi del boss. Nell'operazione, denominata "Golem" - in cui sono stati impegnati oltre 300 uomini della polizia -, sono stati colpiti i mandamenti mafiosi di Trapani e Castelvetrano, riconducibili a Matteo Messina Denaro. Colpiti anche i beni. Nella rete di favoreggiatori che avrebbe coperto la latitanza di Matteo Messina Denaro vi è anche un cugino del boss trapanese ricercato da 16 anni. L'uomo, secondo gli inquirenti, avrebbe anche imposto il pagamento di tangenti ad imprenditori. Dall'inchiesta emerge inoltre la scoperta di un traffico di droga tra Roma e il territorio trapanese organizzato dalle famiglie mafiose, i cui componenti agivano in nome e per conto di Messina Denaro. La polizia sta provvedendo anche al sequestro di beni riconducibili all'organizzazione. Il racket delle olive. Dall'indagine emerge anche un forte interesse della mafia sulle olive e la produzione dell'olio, uno dei principali capitoli dell'economia della provincia di Trapani. A margine dell'attività di indagine riguardante la conduzione dell'oleificio "Fontane D'Oro", che è stato sequestrato, sono emersi chiari riferimenti al tentativo, da parte di due delle persone arrestate, Francesco Luppino e Franco Indelicato, di imporre i prezzi di mercato delle olive, la cui lavorazione costituisce uno dei settori imprenditoriali più importanti sia del Belice che a Castelvetrano, il paese di Messina Denaro, noto come "la città delle olive". I movimenti del boss. Le indagini hanno evidenziato come Messina Denaro si sia recato più volte all'estero: in Austria, in Svizzera, in Grecia, in Spagna e in Tunisia. In collaborazione con l'Interpol, la polizia di Stato ha svolto approfondimenti investigativi in diversi Paesi europei ed extraeuropei, e in questo contesto sono stati localizzati e catturati in Venezuela,"Paese dove risiede una nutrita schiera di trapanesi storicamente in rapporti con il latitante", ricordano gli inquirenti, due esponenti di spicco di Cosa nostra, legati a Matteo Messina Denaro: Vincenzo Spezia e Francesco Termine. Il primo, trapanese di 45 anni, killer ed elemento di vertice della famiglia mafiosa di Campobello di Mazara, è stato arrestato dalla polizia il 21 maggio 2007, dopo una latitanza iniziata nel 1996, e deve scontare una condanna a 21 anni di carcere; il secondo, 55 anni, di Ribera (Agrigento), trafficante internazionale di stupefacenti e ritenuto vicino alla famiglia mafiosa di Ribera, è stato arrestato il 25 ottobre 2007, dopo una latitanza iniziata nel 1992, e deve scontare due condanne per complessivi 26 anni di carcere.
(La Repubblica, 16 giugno 2009)

lunedì 15 giugno 2009

Bianca Berlinguer ricorda il padre: «Quel giorno a Yalta con con Ponomariov...»

di Concita De Gregorio
Dal giorno della sua morte la famiglia di Enrico Berlinguer – la moglie, i suoi quattro figli – ha mantenuto un riserbo assoluto. Mai un’intervista né uno scritto sul marito e sul padre. «Perché così lui avrebbe voluto, perché niente si poteva togliere né aggiungere davanti a quella grande testimonianza di affetto collettivo», dice oggi Bianca.
Ora che sono passati 25 anni, un quarto di secolo, la primogenita di Enrico ha deciso di condividere con i lettori dell’Unità un frammento del diario familiare. Una foto dall’album che ci lascia entrare per un momento nella sua vita privata e nei suoi ricordi, un varco in uno spazio gelosamente custodito: ci mostra il padre com’era e ci consente di immaginare di vederlo. Al mare, un giorno qualsiasi. È un regalo, in un certo senso. Lo accogliamo con gratitudine.
Di papà amo ricordare quella frase di un’intervista a Giovanni Minoli: “Mi dà fastidio che dicano che sarei triste, perché non è vero”. È come lo dice che mi piace: sorridendo. Non era triste nemmeno un po’. Era introverso e tuttavia capace di essere anche molto estroso, in particolare con noi bambini. Ci portava alla ruota dell’Eur, in tutti i luna park delle città che visitavamo, a camminare in luoghi impervi e su rocce a strapiombo e poi in barca, a vela latina, quella senza deriva, nel mare di Stintino. Mia madre racconta che lui diceva sempre: se potessi scegliere come morire vorrei che fosse in mare. Mamma aggiungeva scherzando che più di una volta ci aveva pure provato. Affrontava il mare in tempesta con il cugino Paolo. Per lui il mare era un’avventura e una sfida. Una volta io e mia sorella Maria abbiamo fatto naufragio al largo dell’Asinara, fortunatamente papà era avanti e ha visto che non lo seguivamo più: di certo non saremmo potute rientrare a nuoto. Mi ha insegnato il mare. Un amore assoluto. E ad andare in bicicletta quando ero ancora piccolissima. In un giorno solo, al Foro italico. Io cadevo e lui diceva: devi risalire subito se no ti viene paura e non ci vai più. Sono tornata a casa con le ginocchia sbucciate ma avevo abbandonato definitivamente le ruotine. Sono sempre i padri che insegnano ad andare in bici, no? Con lui abbiamo imparato anche a nuotare. Un giorno in canotto. Ha detto, a me e ai miei fratelli: scommettiamo che se vi buttate nuotate? Io vado in acqua, voi tuffatevi, se non ce la fate vi prendo io. Ci aiutava nei compiti. Soprattutto storia e filosofia. E ci faceva capire se i nostri fidanzati gli piacevano ma senza dirlo: non era necessario, si vedeva molto chiaramente. Abbiamo quasi sempre pranzato insieme. Almeno quando poteva tornare a casa. Noi figli si parlava, spesso si litigava, lui soprattutto ascoltava. E ripeteva: non urlate, non urlate, per carità. Non era severo, era fermo. Abbiamo sempre fatto almeno quindici giorni di vacanze tutti insieme. Luglio si andava con gli amici, ciascuno coi suoi. Ad agosto insieme noi sei. Per anni abbiamo affittato a Stintino l’ultima casa del paese quella della signora Speranza. Allora era proprio un borgo di pescatori. Ciascuno di noi figli aveva il suo gruppo, si cresceva insieme un’estate dopo l’altra. Poi nel ’77 non ci potemmo andare più. Erano gli anni del terrorismo, c’erano grandi problemi di sicurezza. Ricordo un giorno a Roma, tornando a casa col Boxer, lo trovai da solo fuori dalla porta senza nessuno della scorta. Mi hanno convocato a scuola dei tuoi fratelli, mi disse, dobbiamo andare subito, portami tu. Andammo in due sul motorino, aveva il sellino da uno, io stavo in piedi sui pedali. Al ritorno sotto casa c’era uno spiegamento di forze: ma dov’è che sei andato, in motorino con tua figlia da solo, siamo matti? Fu l’unica volta. Era rispettosissimo delle regole della sicurezza soprattutto perché non voleva creare problemi ai compagni che stavano con lui: Menichelli, Franceschini, Righi, Alessandrelli. Siamo cresciuti con loro. Comunque: dal 77 non fu più possibile andare a Stintino. Quella casa non si poteva proteggere. Così per due anni andammo all’Elba, poi nel ’79 i miei decisero di portarci in Unione Sovietica. Yalta, Leningrado, Kiev. Si andò in nave passando dalla Grecia. Mi ricordo che all’arrivo affacciandosi dal ponte papà disse: “oddio c’è Ponomariov”. Ponomariov era il dirigente che si occupava dei partiti comunisti non al governo. Ci portarono in una casa sul mare con un bellissimo giardino. Papà ci disse, mi raccomando cercate di non parlare in casa perché sarà piena di microfoni, parlate all’aperto. Mia sorella Laura aveva 9 anni, ci fece impressione questa storia dei microfoni ma tanto che potevamo dire di segreto?, gli chiedemmo, lui sorrideva. Eravamo circondati dagli uomini della sicurezza sovietica, ci seguivano dappertutto. Se il mare era mosso non volevano che facessimo il bagno. Quando vedevano uno di noi figli entrare in acqua arrivavano di corsa e facevano segno col dito: “Berlinguer, no”. Ci chiamavano tutti Berlinguer. Allora andavamo a protestare da mio padre, io avevo 18 anni protestavo molto. E così lui veniva in acqua con noi: se entrava lui non potevano dir nulla. Capeggiava la ribellione familiare. Faceva il bagno con noi e i sovietici a quel punto dovevano spogliarsi ed entrare in acqua anche loro. C’era un’interprete che si chiamava Nina, allegra e chiacchierona, ma quando veniva a cena Ponomariov diventava taciturna e rigida, si cambiava, si toglieva i pantaloni e si metteva la gonna. Nell’Urss non siamo più tornati. Papà sì per i funerali di Andropov, quella volta che non volle mettersi il colbacco. L’anno dopo finalmente potemmo tornare a Stintino. Dall’80, qualche anno ancora. Di nuovo a veleggiare, papà era sempre al timone. Gli piaceva tantissimo il maestrale forte, mamma non voleva che ci portasse quando c’era mare ma ormai eravamo grandi e in barca ci andavamo da soli. Il giorno che è partito per Padova siamo andati all’aeroporto insieme. Lui a Genova, io in Sardegna. Ci siamo salutati lì. Quando mi hanno chiamata la notte ho capito subito che doveva essere una cosa molto grave: lui non avrebbe permesso che chiamassero a quell’ora. A Stintino, a casa di Speranza, non siamo tornati mai più».
L'Unità, 13 giugno 2009

Rostagno, le norme garantiste salvano, per ora, il presunto killer

di Rino Giacalone
Il Tribunale del riesame di Palermo ha annullato l'ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal gip Maria Pino nei confronti di Vito Mazzara, accusato di avere fatto parte del gruppo di fuoco che, il 26 settembre 1988, uccise a Lenzi il giornalista e sociologo Mauro Rostagno, ex leader di Lotta Continua, fondatore della Comunità Saman. La decisione è stata resa nota ieri mattina. All'interno del circolo delle norme garantiste, talvolta all'esasperazione, ma dove trovano appiglio i carnefici e non le vittime, i difensori di Mazzara, avvocati Vito e Salvatore Galluffo, hanno presentato ricorso contro l’ordinanza. I giudici ne hanno riconosciuto la fondatezza senza forse cogliere a fondo tutti gli elementi che avevano permesso di riaprire il caso a 21 anni da delitto, hanno deciso di revocare a Mazzara l'ordinanza. I giudici del tribunale del riesame hanno ritenuto insufficienti le prove a carico di Vito Mazzara. L'accusa avrebbe prodotto elementi che per i giudici non sarebbero gravi da giustificare l'ordinanza di custodia cautelare. Anche se l'arma utilizzata per il delitto di Mauro Rostagno è stata successivamente impugnata da Mazzara in altri delitti compiuti nel trapanese, per i quali l'uomo è già stato condannato all'ergastolo definitivamente, non sarebbe sufficiente a sostenere un ordine di carcerazione.I giudici non hanno messo in dubbio che l'omicidio è stato maturato e deciso nell'ambiente mafioso di Trapani. Gli elementi d'accusa, dunque, non vengono meno, per inquadrare il delitto del sociologo come un omicidio di mafia.Vito Mazzara è detenuto nel carcere di Biella, dove sconta ergastoli per cinque delitti dei quali con sentenze definitive, è stato riconosciuto colpevole. In cella aveva ricevuto la notifica della nuova ordinanza emessa a conclusione delle indagini sul delitto Rostagno. In carcere era stato intercettato a parlare con i familiari, un paio di colloqui secondo la Dda di Palermo che costituiscono elementi di prova in aggiunta a quelli forniti dall’esame balistico delle cartucce trovate sul luogo del delitto. Mazzara durante un colloquio esternò risentimento per il fatto che l’indagine «su questa cosa vecchia» (così definì l’omicidio Rostagno parlando con moglie e figlia) era stata «riesumata». Il lavoro del gabinetto di Polizia Scientifica aveva evidenziato una perfetta sovrapponibilità tra gli elementi rinvenuti sulla scena del delitto Rostagno con quelli relativi agli altri delitti per i quali Mazzara è stata riconosciuto essere colpevole.Ma per i giudici del riesame tutto questo non è sufficiente. L’altro destinatario del provvedimento è il riconosciuto capo mafia di Trapani Vincenzo Virga. Detenuto a Parma non ha impugnato l’ordinanza.La Dda di Palermo probabilmente ricorrerà in Cassazione contro la decisione del Tribunale del Riesame. Il «caso Rostagno» riaperto dopo 21 anni non appare destinato a tornare verso l’archiviazione da dove era stato riesumato da Procura e Polizia.

sabato 13 giugno 2009

“Istituire il Parco archeologico di Selinunte”. L’appello lanciato nelle giornate di studio in onore di Vincenzo Tusa

SELINUNTE, 13 giugno 2009. «È arrivato il momento di istituire il Parco archeologico di Selinunte. Non ci sono più motivi validi per ritardarne l’istituzione». Sebastiano Tusa, Soprintendente del mare, lancia l’appello durante il convegno in ricordo del padre, Vincenzo Tusa, che si è svolto proprio nel cuore dell’area archeologica di Selinunte, al Baglio Florio. Due giornate di studio (ieri e oggi) dal titolo “Selinunte ed il Mediterraneo nelle nostre vite. Il ruolo di Vincenzo Tusa nella scoperta delle popolazioni della Sicilia antica” che completano il percorso sul pioniere dell’archeologia mediterranea iniziato a Ustica sabato scorso. A sostenere l’appello di Tusa anche gli esperti e gli archeologi intervenuti al convegno. Tra questi Gianfranco Zanna, responsabile beni culturali di Legambiente Sicilia: «Si farebbe un gran servizio alla memoria di Vincenzo Tusa se si istituisse il Parco archeologico di Selinunte. Dopo un anno e mezzo dall’ultimo parere del Consiglio regionale ai Beni culturali, che ha fra l’altro ulteriormente ampliato i confini dell’area, il decreto non è stato ancora firmato. Forse non si firma perché la nuova riperimetrazione confligge con interessi speculativi nella zona?». Anche il senatore Michele Figurelli sostiene la causa: «Arrivi subito questa firma del decreto da parte del presidente della Regione e dell’assessore regionale ai Beni culturali. Si atteso troppo, ma mi chiedo: è solo uno dei tanti ritardi della burocrazia o ci sono interessi speculativi sulla fascia di tutela? Oppure è conseguenza di vicende politico-giudiziarie?». Figurelli, fra l’altro, ha lanciato diverse proposte durante il suo intervento: raccogliere gli scritti di Tusa e pubblicarli, intitolare all’archeologo il «cuore» dell’area archeologica di Selinunte, cioè il Baglio Florio, e proseguire le sue ricerche iniziate, concretizzando le sue idee. D’accordo sull’importanza della costituzione del Parco anche Eugenio La Rocca, ordinario di Archeologia classica all’Università di Roma 1 La Sapienza: «Permetterebbe interventi capillari e strategici di restauro. Tusa ha preparato la strada ora è il momento opportuno e si può realizzare». Sia La Rocca che Michel Gras, direttore dell’École française de Rome hanno ricordato poi la figura di Tusa: «Uno dei grandi padri dell’archeologia della Sicilia occidentale – ha detto il primo - anche per l’importanza del merito e per le soluzioni di intervento», mentre per il secondo «Tusa ha gestito la Soprintendenza facendo emergere una strategia scientifica. Inoltre, lui era specializzato soprattutto in un aspetto: il suo territorio».
Il convegno è stato aperto da Giuseppe Gini, soprintendente ai Beni culturali di Trapani e dal sindaco di Castelvetrano, Gianni Pompeo.
Le due giornate hanno ospitato anche la videoinstallazione “seLInuNTe XYz>rGb”, (venerdì sera) opera per immagini e suoni Salvo Cuccia, musiche di “Curva minore piccolo ensemble” con Lelio Giannetto (contrabbasso), Alessandro Librio (violino) featuring Miriam Palma (voce) e la Proiezione del documentario “Oltre Selinunte” di Salvo Cuccia (sabato sera).
Le giornate selinuntine, finanziati con uno stanziamento speciale a completamento dei fondi del Por Sicilia 2000-2006, sono organizzate dalla Soprintendenza del mare di Palermo, dalla Soprintendenza dei beni culturali di Trapani, dal Servizio per i beni archeologici della stessa Soprintendenza, dal Comune di Castelvetrano e dalla fondazione Kepha.
Salvo Butera

Chi è Vincenzo Tusa?

Nasce a Mistretta (ME) il 7 dicembre 1920. Nel 1944 si laurea in Lettere e Filosofia presso l'Università di Catania. Nel 1955 consegue il diploma di specializzazione in Archeologia presso la Scuola di Perfezionamento in Archeologia dell'Università di Roma La Sapienza. Nel 1947 è assunto nell'allora Amministrazione delle Antichità e Belle Arti, prestando servizio dapprima presso la Soprintendenza alle Antichità di Bologna per due anni, e successivamente presso la Soprintendenza alle Antichità di Palermo con giurisdizione sull'intera Sicilia Occidentale, come Ispettore a partire dal 1953, esplicando le funzioni di Soprintendente dal 1963 e reggendo la Soprintendenza stessa in qualità di Dirigente Superiore dal 1976 fino al collocamento in pensione avvenuto il 31 dicembre 1985. Nel corso della sua attività ha contestualmente diretto il Museo Archeologico di Palermo per circa un trentennio. Nel 1964 consegue la libera docenza ed insegna Antichità Puniche presso la Facoltà di Lettere dell'Università di Palermo, dove presta servizio come professore associato fino al 31 Ottobre 1991. Nel 1968 è promotore della rivista “Sicilia Archeologica” edita dall'A.P.T. di Trapani, della quale è Direttore Responsabile dal 1971. Nel 1975 opera in prima persona alla creazione della Fondazione Culturale “G. Whitaker”, attuale proprietaria dell'isola di Mozia, della quale è Consigliere. Socio nazionale dell'Accademia di Scienze, Lettere ed Arti di Palermo, membro ordinario dell'Istituto Archeologico Germanico, Presidente onorario della Società Siciliana di Storia Patria, socio nazionale dell'Accademia dei Lincei, beneficiario di numerosi premi e riconoscimenti tra cui il I premio “Zanotti Bianco” con medaglia d'oro, cittadino onorario dei Comuni di Campobello di Mazara, S. Flavia, Castelvetrano, V. Tusa è autore di quasi un migliaio di pubblicazioni comprendenti volumi, saggi su riviste scientifiche, articoli sulla stampa italiana ed estera che documentano parte della sua attività archeologica, sociale ed umana portando a conoscenza del pubblico, su basi scientifiche, le vicende storico-archeologiche che lo hanno visto come testimone e protagonista. Parallelamente alla sua attività scientifica,V. Tusa ha perseguito con costanza il dovere istituzionale di tutela, conservazione e valorizzazione del patrimonio a lui affidato: per la salvaguardia definitiva della zona archeologica di Selinunte ha realizzato un parco archeologico di 270 ettari oggi di proprietà della Regione Siciliana. Muore a Palermo il 5 marzo 2009.

Pur nella oggettivamente difficile situazione scaturita in seguito alle vicende del secondo conflitto mondiale e del lungo periodo di assestamento successivo, V. Tusa riuscì a completare in maniera esaustiva e coerente la sua formazione archeologica grazie soprattutto alla sua spiccata e forte carica umana che lo portava ad interagire con i maestri dell'archeologia di allora travalicando il tradizionale rapporto accademico ed universitario. Fu così che, grazie al suo contatto diretto con Guido Libertini e Paolo Enrico Arias, docenti presso l'Università di Catania, impostò la sua concezione dell'archeologia come approfondimento delle vicende del passato intimamente basato sulla centralità dell'uomo come diretto artefice di fatti e reperti. Nella formazione di questa visione fortemente antropocentrica dell'archeologia, dove la storia ebbe sempre un ruolo preponderante, giocò un ruolo importantissimo la sua provenienza dal complesso e variegato mondo della campagna siciliana. Non è da sottovalutare infatti, nella formazione accademica del personaggio, l'influenza avuta dalla sua esperienza diretta del mondo contadino e pastorale siciliano dovuta alle origini ed all'attività della sua famiglia. Ma è indubbio che nel rendere questa formazione efficace anche al fine dell'acquisizione di un metodo di ricerca e di una capacità di sintesi fu fondamentale il suo approccio all'idealismo ed al liberalismo crociano maturato negli anni formativi del liceo a Catania dove ebbe l'opportunità di venire in contatto con figure eminenti di quell'ambito intellettuale, sia maestri che compagni di studi. Infine, per comprendere in pieno il personaggio è utile ricordare che fu quasi certamente la contiguità con la famiglia Libertini, di cui i Tusa erano affittuari di vasti appezzamenti di terreno nel territorio occidentale della pianura di Catania, a far scoccare in V. Tusa l'interesse per il passato e per la metodologia di indagine archeologica come strumento per ricostruirne le logiche e gli sviluppi.
Era evidente che l'ambiente siciliano, per quanto ricco di sollecitazioni e stimoli, non poteva soddisfare appieno le ansie e le curiosità del giovane studioso che si affacciava in questo mondo di studi in un Italia che risorgeva con grande vigore intellettuale dalle macerie e dalle tragedie della guerra. In tal senso fu estremamente formativa l'opportunità offerta dalla frequenza presso la Scuola di Specializzazione Archeologica di Roma, dove V. Tusa ebbe l'opportunità di forgiare quelle amicizie e quelle intense relazioni scientifiche ed umane sia con i maestri (Massimo Pallottino, Biagio Pace, Ranuccio Bianchi Bandinelli, Pietro Romanelli) sia con i suoi compagni di studi che, come lui, sarebbero diventati i protagonisti dell'archeologia italiana degli anni a venire. In quel frangente fu certamente il contatto con Ranuccio Bianchi Bandinelli ad imprimere una sensibile sterzata verso l'approfondimento delle tematiche socio-economiche del passato ma anche il forte interesse verso i problemi della cultura contemporanea. Sono questi gli anni (fine anni '40, inizi anni '50 del secolo scorso) durante i quali V. Tusa elabora quel riuscito equilibrio tra interessi verso il mondo antico ed attenzione ai problemi dell'Italia contemporanea e soprattutto meridionale, gli anni durante i quali grazie all'impegno diretto nell'amministrazione statale delle allora denominate Antichità e Belle Arti V. Tusa riesce ad esprimere un efficace connubio tra ricerca scientifica ed efficiente tutela e valorizzazione delle testimonianze del passato.
In ambito squisitamente scientifico, pur essendosi formato ad una scuola ancora fortemente intrisa da una visione classicista dell'archeologia, fu grazie a due fattori fondamentali che egli, spinto anche dalla sua innata curiosità, si rivolse con attenzione al mondo antico mediterraneo aldilà dell'ambito greco-romano, anche se la sua attenzione verso questo mondo rimase sempre viva, basti pensare a due opere fondamentali sempre valide, rispettivamente sui sarcofagi romani in Sicilia e sulla scultura in pietra selinuntina. In primo luogo giocò un ruolo determinante l'intensa frequentazione con Biagio Pace, sfociata in sincera amicizia pur nel rispetto delle diametralmente opposte visioni politiche; una figura che lo indusse a misurare la sua ricerca con il mondo anellenico siciliano assumendo quasi sempre come paradigma teorico l'opera “Popoli e civiltà della Sicilia antica”. Ma fu anche la casuale assegnazione alla Soprintendenza alle Antichità e Belle Arti di Palermo a metterlo in diretto contatto con le articolate dinamiche etniche della Sicilia occidentale che egli seppe non soltanto analizzare e divulgare ma anche mettere sempre in relazione ad un quadro di riferimento storico ed archeologico di respiro mediterraneo.
Grazie a questi elementi formativi succintamente ricordati l'opera di V. Tusa ebbe sempre il carattere e la misura sia analitiche che di sintesi legate ad una concezione della storia nella quale l'uomo, concepito tanto come singolo, quanto nella sua dimensione sociale, fosse sempre presente. In ciò riaffiorano sempre sia la sua matrice “contadina” sia la sua attenzione ai problemi della società contemporanea che egli visse animato da una spiccata voglia di partecipazione. Non è, infatti, da sottovalutare il suo impegno in politica che lo portò a misurarsi con il consenso elettorale assumendo responsabilità istituzionali nell'ambito del Consiglio Provinciale di Palermo come indipendente nelle liste del Partito Comunista Italiano. Non è da sottovalutare, inoltre, il suo operare in prima persona in quella stagione di rinascita e riscatto intellettuale e civile che attraversò le vicende politiche siciliane e nazionali negli anni '70 del secolo scorso. Egli fu in quel periodo protagonista, insieme ad altri intellettuali impegnati come Leonardo Sciascia, Renato Guttuso, Cesare Brandi, della vita politico-culturale nazionale che lo portò, tra l'altro, ad essere uno degli estensori delle leggi di tutela del settore dei beni culturali che segnarono il decentramento amministrativo delle Soprintendenze siciliane dallo Stato alla Regione.
Pur nell'intensità di un'attività che lo vedeva fortemente impegnato nella politica e nel dibattito culturale di quegli anni, seppe sempre coniugare questo impegno con la produzione scientifica e con la formazione di un'intensa schiera di allora giovani studiosi forgiatisi nell'orbita del suo insegnamento di Antichità Puniche presso la Facoltà di Lettere dell'Università di Palermo. L'intensa attività di ricerca verso gli ambiti anellenici della Sicilia occidentale lo vide all'opera nella realizzazione di un sistema si esemplari collaborazioni con autorevolissimi personaggi ed istituzioni per le quali basti citare Sabatino Moscati per il mondo punico e Giuseppe Nenci per quello elimo. Una costante, infatti, della sua impostazione della ricerca scientifica fu l'assidua e riuscita capacità di costruire reti di collaborazioni nazionali ed internazionali, sempre convinto che i migliori risultati scaturissero dalla collaborazione scientifica di più istituzioni e relative scuole piuttosto che da isolati approcci accademici. Nel suo quasi privilegiare i mondi anellenici della Sicilia e del Mediterraneo non trascurò di continuare ad approfondire la conoscenza del mondo greco siceliota attraverso l'impegno diretto nella ricerca selinuntina ed indiretto in quella imerese, attivando e contribuendo in prima persona nell'attività di ricerca dell'allora Istituto di Archeologia dell'Università di Palermo. Il suo interesse ed il suo contributo forse più incisivo si concentrò su Selinunte, dove riuscì ad impostare un sistema si ricerca archeologica basato sulla cooperazione internazionale di istituzioni e personaggi quali Dieter Mertens, Juliette de la Geniere, Martin Fourmont, Roland Martin e Giorgio Gullini. I risultati di questa impostazione hanno portato alla conoscenza del sito non soltanto nelle sue caratteristiche intrinseche, ma anche nel suo ruolo interattivo sia con le realtà anelleniche della Sicilia che con l'ecumene greco. V. Tusa soggiornava spesso a Selinunte, che divenne in quel periodo un luogo di ritrovo per studiosi ed intellettuali, figure di spicco in vari campi della cultura come Renato Guttuso, i fisici Bruno Rossi e Marcello Carapezza, il compositore Luciano Berio, l'architetto Franco Minissi, lo storico delle religioni Karl Kerenyi, l'editore Giulio Einaudi, il musicologo Luigi Rognoni, il poeta Ignazio Buttitta, oltre agli archeologi Ranuccio Bianchi Bandinelli, Massimo Pallottino, Paolo Enrico Arias e tanti altri.
Diretta emanazione dell'impegno scientifico secondo quella che fu sempre la sua logica dove non esistevano quasi limiti tra ricerca e tutela, intesa come doveroso contributo alla divulgazione della scienza verso la società civile, fu la grande operazione esemplare che lo portò a realizzare uno dei primi e più significativi parchi archeologici al mondo. Fu un esperienza profonda e fortemente impegnativa per le difficoltà insite nella riluttante opposizione verso una nuova concezione che giustamente voleva preservare le testimonianze del passato non nell'ottica limitata di angusti steccati bensì in una dimensione ambientale di più vasto respiro e di spiccata contestualizzazione naturale. Fu osteggiato in quest'opera sia da chi, in buona fede, non ne percepiva il forte carattere innovativo, sia da chi, animato da volgari interessi speculativi, si faceva forte del supporto violento della mafia per intimidire o corrompere il personaggio inducendolo alla resa. Non mancarono per fortuna l'appoggio morale e l'incitamento da parte di amici ed intellettuali che avevano compreso l'importanza del progetto del costituendo parco archeologico: tra questi Cesare Brandi, allora titolare della cattedra di Storia dell'Arte presso l'Università di Palermo, che in un articolo pubblicato sul “Corriere della Sera” definì le rovine di Selinunte come “le più belle che esistano al mondo”.
Alla fine il parco si fece, ed oggi e nel futuro esso consentirà di leggere in un corretto rapporto ecosistemico i resti di una grande città e costituirà un esempio a venire per simili emergenze archeologiche.

Scritti principali di Tusa: I sarcofagi romani in Sicilia, Palermo 1957, II ed. Roma 1995; L'archeologia come fatto umano, in “Sicilia Archeologica”, IV, 15, 1971, 5-7; La civiltà punica in Italia?, Roma 1974; La scultura in pietra di Selinunte, Palermo 1983; Che cos'è l'Archeologia, in “Sicilia Archeologica”, XIX, 62, 1986, 69-70; Il Giovane di Mozia, in “Rivista di Studi Fenici”, XIV, 1986, 143-151; La funzione culturale dell'Archeologia, in “Sicilia Archeologica”, 1989, XXII, 105-108; Il Parco archeologico di Selinunte, Castelvetrano 1991; Selinunte nella mia vita, Palermo 1991; Greci e non Greci nella Sicilia Antica, Palermo 1997.
Scritti principali su Tusa: Studi sulla Sicilia Occidentale in onore di Vincenzo Tusa.

giovedì 11 giugno 2009

Ciancimino, indagati 4 politici siciliani

Accuse per Vizzini (Pdl) e gli udc Cuffaro, Cintola e Romano. Il figlio di «don Vito»: presero soldi per favorire gli affari di mio padre
ROMA — L’accusa è concor­so in corruzione aggravata dal­l’aver favorito l’associazione mafiosa. I senatori inquisiti Car­lo Vizzini (Popolo della Libertà, presidente della commissione Affari costituzionali), Salvatore Cintola, Saverio Romano e Sal­vatore Cuffaro (Udc) saranno chiamati a risponderne nei prossimi giorni davanti ai magi­strati della Procura di Palermo che indagano sul cosiddetto «te­soro » di Vito Ciancimino, l’ex sindaco della città condannato per mafia e morto nel 2002. L’inchiesta è scaturita dalle più recenti dichiarazioni del­l’ultimogenito di Ciancimino, Massimo, già condannato in primo grado a 5 anni e 8 mesi di carcere per riciclaggio dei soldi del padre.
S’è definito una capro espiatorio, ha parla­to di altri personaggi ben più importanti di lui coinvolti nel­la gestione dei soldi lasciati dal padre, compresi uomini politi­ci. Di loro si occupava — ha ri­ferito — il tributarista Giorgio Lapis, condannato anche lui nel processo per riciclaggio, di­stribuendo il denaro prelevato dal conto «Mignon Sa» presso la Banca di Ginevra, in Svizze­ra, da un altro imputato con­dannato: l’avvocato Giorgio Ghiron, titolare di studi a New York, Londra e Roma. Secondo quanto raccontato da Massimo Ciancimino, che gli inquirenti ritengono riscon­trato da altri elementi di prova, tra gli «ingenti quantitativi di denaro» elargiti da Lapis per conto di Ciancimino una buona fetta sarebbe finita a Vizzini, ex leader socialdemocratico poi entrato in Forza Italia. Secondo i calcoli degli inquirenti, nel corso del tempo, avrebbe rice­vuto almeno un milione di eu­ro. Tramite la mediazione di Cintola (ex assessore regionale, già inquisito per concorso in as­sociazione mafiosa in indagine archiviata nel settembre 2007, senatore dal 2008), altri soldi sarebbero finiti a Saverio Roma­no e Salvatore Cuffaro; il primo è stato appena eletto al Parla­mento europeo, l’altro è l’ex presidente della Regione, di­messosi dopo una condanna in primo grado per favoreggia­mento, approdato lo scorso an­no a palazzo Madama.
I milioni del «tesoro» di Cian­cimino, in parte già sequestra­to nel 2005 perché considerato di «provenienza mafiosa» vista la condanna riportata da Vito e i suoi rapporti con capimafia del calibro di Bernardo Proven­zano, stavano sul conto «Mi­gnon » e sono serviti a liquidare i soci palesi e occulti della socie­tà «Gas», una sorta di conteni­tore creato dall’ex sindaco do­po la vendita a un gruppo spa­gnolo. Secondo Ciancimino jr., e ora anche secondo l’ipotesi ac­cusatoria formulata dai pubbli­ci ministeri Antonio Ingroia e Nino Di Matteo, a una quota di liquidazione avrebbe avuto di­ritto anche il senatore Vizzini. Di qui i pagamenti a lui e ad al­tri politici che, nella storia rac­contata dal figlio dell’ex sinda­co, sono serviti negli anni pas­sati a «oliare i meccanismi» del­le concessione per la distribu­zione del gas in Sicilia, un affa­re gestito proprio da Ciancimi­no attraverso le sue società. In pratica il denaro veniva da­to ai capi-partito o ai capi-cor­rente dei partiti, che poi aveva­no il compito di agevolare l’ag­giudicazione degli appalti e la concessione dei lavori nei vari centri dell’isola. A riscontro del­le dichiarazioni di Massimo Ciancimino, ci sarebbero parzia­li ammissioni (seppure con giu­stificazioni diverse e molto me­no compromettenti) dell’anzia­no tributarista Lapis, documen­ti e intercettazioni telefoniche che però, per essere contestate ai senatori indagati, dovranno prima essere trasmesse al Parla­mento insieme alla richiesta di utilizzazione. Qualche mese fa, dopo la pubblicazione di indiscrezioni sul coinvolgimento di Vizzini nell’inchiesta, il senatore aveva replicato con una denuncia per calunnia contro il figlio dell’ex sindaco: «Non conosco il si­gnor Massimo Ciancimino — disse Vizzini —, dal quale dun­que non posso mai avere ricevu­to nulla, così come non ho mai avuto rapporto alcuno con suo padre. Ho però dedicato buona parte della mia vita e della mia attività parlamentare prima a demolire il sistema politico-ma­fioso costruito dal signor Vito Ciancimino, e poi a combattere la mafia e tutti i detentori di pa­trimoni mafiosi». L’onorevole Romano parlò di «vicenda che non ha alcun fondamento».
Giovanni Bianconi
Corriere della sera, 11 giugno 2009

martedì 9 giugno 2009

Dal convegno "Corleone in mappa" un altro contributo per conoscere la storia della città

Sabato 30 maggio 2009, nel suggestivo scenario della chiesa della Madonna del Carmelo di Corleone si è svolto il seminario di studi sul tema: “CORLEONE IN MAPPA: PROSPETTIVA STORICA, ANTROPOLOGICA ED ESTETICA”. Il seminario ha avuto come oggetto lo studio di una antica mappa litografica raffigurante la città di Corleone risalente probabilmente al XVII – XVIII secolo. La litografia in questione è stata ceduta in questa occasione dall’Associazione Culturale “Palladium” in comodato d’uso al Comune di Corleone, la cui amministrazione ne ha predisposto l’esposizione presso il museo Civico “Pippo Rizzo”. All’evento hanno partecipato: in rappresentanza dell’Associazione “Palladium” la Dott.ssa Patrizia Virgadamo (presidente), il Prof. Calogero Ridulfo, il Prof. Giovanni Lisotta e il Dott. Francesco Piazza; il sindaco Nino Iannazzo per l’amministrazione comunale e tre studiosi particolarmente conosciuti, il Prof. Maurizio Carta, ordinario di urbanistica presso la facoltà di Architettura dell’Università di Palermo, il Prof. Ferdinando Maurici, archeologo e la Prof.ssa Valeria Li Vigni, antropologa e direttrice del Museo Regionale di storia naturale e mostra permanente del carretto siciliano di Terrasini. Il convegno, moderato da Francesco Piazza, ha visto emergere diversi spunti di riflessione sugli scenari aperti dalla litografia. Il sindaco Iannazzo ha sottolineato l’importanza dell’evento, dato che per la prima volta dopo decenni di utilizzo improprio del patrimonio collettivo da parte di vari enti, un soggetto privato come l’Associazione culturale Palladium decide di affidare un suo bene ad un ente pubblico, trovando una amministrazione sensibile alla valorizzazione e salvaguardia di un pezzo importante della storia di questa città; da qui scaturisce l’idea di stipulare un contratto di comodato d’uso.
Le vicende che hanno portato al riaffiorare della litografia sono state illustrate dal Prof. Calogero Ridulfo, componente della Palladium e genero del compianto Prof. Giuseppe Virgadamo, fondatore dell’associazione e personalità di spicco della cultura corleonese. La stampa era stata infatti miracolosamente recuperata dal Prof. Virgadamo in casa di una anziana donna che la conservava gelosamente, dopo anni di utilizzo improprio, forse avendola estrapolata da un volume di antiche raffigurazioni della Sicilia. Desiderio del Prof. Virgadamo, che non desiderava conservare la stampa come sua proprietà personale, era quello di renderla fruibile ai cittadini ed a quanti ne avessero desiderio. Non aveva ritenuto però i tempi sufficientemente maturi. I lavori sono continuati con un momento dedicato alla poesia, che ha visto protagonista il Prof. Giovanni Lisotta, che ha recitato i suoi versi dedicati ai millenni di storia della “Animosa Civitas” di Corleone.
Illuminanti sono stati poi gli interventi dei relatori. “Non si conosce una raffigurazione di Corleone più antica di quella che è oggetto di studio oggi”. E’ quello che ha sottolineato il Prof. Maurizio Carta, che già conosceva questa immagine da una piccola foto utilizzata per la copertina del suo libro intitolato “Storia urbanistica della città di Corleone” (1993) e che ha mostrato grande soddisfazione nel trovare l’originale che credeva ormai disperso.
“Prospettiva aperta” l’ha definita il prof. Carta, una Corleone diversa dove non conta tanto la raffigurazione precisa dei luoghi, su cui si aprono nuove prospettive di studio che seguiranno questo convegno, ma il modo in cui l’autore ha voluto rappresentare la città, con una visione dal basso che include anche gli abitanti della città e che quindi rappresenta uno spaccato di vita vissuta corleonese. L’intervento di Carta ha poi toccato lo sviluppo urbanistico della città di Corleone nel passato e le sue prospettive per il futuro. Tra i contributi al convegno, di grande importanza è stato quello dell’archeologo Prof. Ferdinando Maurici, che, partendo dalla litografia, ha tracciato un excursus della storia di Corleone dal punto di vista archeologico, sottolineando come la città sia fortemente legata al suo passato “sepolto” sulla montagna “Vecchia”, sede di diversi scavi, con evidenti riferimenti alle prospettive che la prosecuzione degli stessi potrebbe aprire per la storia di Corleone.
La Prof.ssa Valeria li Vigni ha poi arricchito il seminario con un contributo antropologico sugli usi e tradizioni della società della Sicilia occidentale nei secoli passati. Molto interessanti sono stati i suoi riferimenti alle tradizioni più vicine alla nostra “Animosa Civitas”, partendo dagli usi della società comune (mestieri, tradizioni, modi di dire) fino ad arrivare alle feste locali (riti della settimana santa). Grande soddisfazione ha manifestato Francesco Piazza, che insieme ai membri della sezione che si occupa degli eventi culturali della Palladium (Calogero Ridulfo, Emiliano Somellini, Francesco Marsalisi, Giuseppe Crapisi, Luca Cascio) ha curato l’evento, esprimendo grande compiacimento per l’attenzione mostrata dai relatori e dal pubblico che ha gremito la chiesa della Madonna del Carmelo di Corleone fino a tarda sera per questa circostanza.
L’Associazione Palladium ha annunciato di stare già lavorando alla pubblicazione degli atti del convegno.
FOTO. Dall'alto: un momento del convegno; il manifesto dell'iniziativa.

sabato 6 giugno 2009

L'EDITORIALE. Le anime belle di fronte alle urne

di EUGENIO SCALFARI
SCRIVO oggi e non domenica come è mia abitudine perché fin da oggi pomeriggio si comincerà a votare in Europa ed io voglio appunto parlare di questo voto. L'argomento è già stato trattato molte volte e da tempo in tutti i giornali e in tutte le televisioni ed anche noi di Repubblica l'abbiamo esaminato ripetutamente, come e più degli altri.
Sento dunque un rischio di sazietà verso un tema usurato da motivazioni contrapposte e ripetitive. Del resto a poche ore di distanza dall'apertura delle urne anche gli indecisi avranno fatto la loro scelta e difficilmente la cambieranno. Infatti non è del colore del voto che voglio parlare. I miei lettori sanno come la penso e come voterò perché l'ho scritto in varie e recenti occasioni. Non desidero dunque convincere nessuno ad imitare la mia scelta. Il mio tema di oggi è un altro. Voglio esaminare in che modo nella nostra storia gli italiani hanno usato la loro sovranità di elettori da quando il suffragio è stato esteso a tutti i cittadini di sesso maschile e poi, nell'Italia repubblicana, finalmente anche alle donne ed infine ai diciottenni abbassando la soglia della cosiddetta maggiore età. Storicizziamo dunque la sovranità del popolo e vediamo nelle sue grandi linee quali ne sono state le idee e le forze dominanti.
* * *
Il suffragio universale maschile coincise nel 1919 con un sistema elettorale di tipo proporzionale; una proporzionale corretta in favore dei partiti quantitativamente più forti, che lasciava però a tutti i competitori ampi margini di rappresentanza. Nelle elezioni del "Diciannove" (le prime dopo la fine della guerra mondiale del 1914-18) si affacciò sulla scena della politica italiana una forza nuova, quella dei cattolici riuniti attorno ad un sacerdote di grande carattere e di convinta fede religiosa: il Partito popolare di don Luigi Sturzo. Fu l'ingresso d'un nuovo protagonista la cui presenza ruppe gli schemi fino allora vigenti che avevano privilegiato le clientele liberali raccolte dalla destra nazionalista e salandrina e quelle democratiche che avevano in Giovanni Giolitti il loro leader parlamentare. Il Partito socialista, massimalista con appena una spolverata di riformisti, stava all'opposizione in rappresentanza della parte politicizzata del proletariato. Che tipo di Italia era quella? Un paese traumatizzato da quattro anni di trincea, con un altissimo costo di morti, di mutilati, di sradicati; un paese che aveva però acquistato una certa coscienza dei propri diritti. In prevalenza contadino, in prevalenza analfabeta, in prevalenza fuori dalle istituzioni e della stato di diritto. Un paese in cui il popolo sovrano si limitava alla piccola borghesia degli impieghi e delle libere professioni, alla classe operaia del Nord, ai proprietari fondiari e ai mezzadri. Il grosso della popolazione era fuori mercato, bracciantato con paghe di fame e prestiti ad usura, tracoma e colera nel Sud, pellagra e malaria nelle pianure del Nordest. Ma gli ex combattenti della piccola borghesia erano agitati da sogni di rivincita e di dominio. Odiavano il Parlamento. Detestavano la politica. Vagheggiavano il superuomo e il D'Annunzio della trasgressione e dell'insurrezione fiumana. Poi trovarono Mussolini.
* * *
Ricordo queste vicende perché contengono alcuni insegnamenti. I più anziani le rammentano per averne fatto esperienza, i più giovani ne hanno forse sentito parlare ma alla lontana e comunque non sembrano darvi alcuna importanza. Sbagliano: i fatti di allora rivelano l'esistenza di alcune costanti storiche nella vita pubblica italiana. Si tratta di costanti antiche, cominciarono a manifestarsi con la Rivoluzione francese dell'Ottantanove, con il tricolore che diventò ben presto la bandiera-simbolo dell'Europa democratica e con i tre valori iscritti su quella bandiera: libertà eguaglianza fraternità. Quei valori hanno avuto un'influenza positiva tutte le volte che sono stati portati avanti insieme ed invece un'influenza negativa quando soltanto uno di loro ha esercitato egemonia culturale e politica. La libertà, da sola, ha generato privilegi in favore dei più forti; l'eguaglianza, da sola, ha dovuto essere imposta con la forza (ma ciò in Italia non è mai avvenuto); la solidarietà, da sola, ha dato vita ad un'infausta politica assistenziale che ha dilapidato le risorse e indebolito la competitività e la libera concorrenza. L'Italia non ha mai avuto una borghesia degna di questo nome perché i tre grandi valori della modernità non hanno mai avanzato insieme. Per la stessa ragione la laicità non ha mai raggiunto la sua pienezza e per la stessa ragione un vero Stato moderno, una compiuta democrazia, un'effettiva sovranità del popolo e un'autentica classe dirigente portatrice di interessi generali, non sono mai stati una realtà ma soltanto un sogno, un'ipotesi di lavoro sempre rinviata, una ricerca vana e frustrante, uno stato d'animo diffuso che ha alimentato la disistima delle istituzioni e l'analfabetismo politico. Col passar degli anni questo analfabetismo è diventato drammatico. Il rifiuto della politica ne è la conseguenza più negativa. Gli italiani si sono convinti che la politica sia il male che corrode il paese. Perciò una larga parte dei nostri concittadini ha delegato la sua rappresentanza ad un giocoliere che ostenta il suo odio contro la politica e il suo qualunquismo congenito e festevole, all'ombra del quale sta nascendo un potere intrusivo, autoritario, concentrato nelle mani di un solo individuo.
* * *
L'analfabetismo politico degli italiani è molto diffuso tra quelli che parteggiano per la destra ma non risparmia la sinistra. Per certi aspetti anzi a sinistra questa assenza di educazione politica è uno dei suoi connotati, in particolare tra i sedicenti intellettuali che sono forse i più analfabeti di tutti. Uno degli effetti più vistosi di questo fenomeno consiste nella ricerca di un partito da votare che corrisponda il più esattamente possibile alle proprie idee, convinzioni, gusti, simpatie. Ricerca vana poiché ciascuno di noi è un individuo, una mente, un deposito di pulsioni emotive non ripetibili. Le persone politicamente mature sanno che in un sistema democratico occorre raccogliere i consensi attorno alla forza politica che rappresenti il meno peggio nel panorama dei partiti in campo. La ricerca del meglio porta inevitabilmente al frazionamento, alla polverizzazione del voto, al moltiplicarsi dei simboli e di fatto alla rinuncia della sovranità popolare. Aldo Schiavone ha scritto ieri che la polverizzazione del voto è frutto di un narcisismo patologico: per dimostrare la nobiltà e la purezza della propria scelta si getta nel secchio dei rifiuti la sovranità popolare. Non si tratta d'invocare il voto utile ma più semplicemente di predisporre un'alternativa efficace per sostituire il dominio dei propri avversari politici. La destra sa qual è il suo avversario e fa massa contro di lui. La sinistra coltiva il culto della testimonianza, ma quando si trasferisce quel culto nell'azione politica il risultato è appunto la rinuncia ad una sovranità efficace per far posto al narcisismo dell'anima bella, pura e dura. Pensare che questo scambio sia un'azione politica è un errore gravido purtroppo di conseguenze. Fu compiuto lo stesso errore dai popolari di Sturzo nel 1921: rifiutarono sia l'alleanza con i socialisti sia quella con i liberaldemocratici pur di restare puri nel loro integrismo cattolico. Rifiuto analogo fecero i socialisti. Le conseguenze sono note, ma non mi sembra che si siano trasformate in una solida esperienza. Vedo, a destra e a sinistra, una sorta di sonno della ragione dal quale bisognerebbe sapersi risvegliare. Post Scriptum. Anche in America la ragione si era addormentata dando spazio ai furori emotivi di George Bush. Dopo molti anni di letargo che hanno fatto degli Usa la potenza più odiata nel mondo, Barack Hussein Obama ha risvegliato la ragione facendo leva su una travolgente emotività carismatica. Quanto sta accadendo nel mondo e nella straordinaria trasformazione dell'immagine dell'America ci insegna questo: per svegliare la ragione ci vuole un forte soprassalto emotivo, senza il quale l'emotività si volge a beneficio della demagogia. Emozione razionale accresce la pienezza della democrazia, emozione demagogica le scava la fossa. Questo insegna Obama. L'insegnamento del giovane presidente afroamericano ci sia utile per la scelta che tra poche ore dovremo fare.
(La Repubblica, 6 giugno 2009)