sabato 25 agosto 2007

MAFIA. E' davvero finita l'era dei "Corleonesi"?

Con l’arresto di Bernardo Provenzano, dentro Cosa Nostra è finita l’era dei Corleonesi? Attorno a questa domanda, venerdì sera, a Corleone, è ruotato il dibattito tra il giornalista Francesco La Licata e i ragazzi dei campi di lavoro sui terreni confiscati alla mafia. Un dibattito lungo e appassionato, organizzato dal circolo Arci di Corleone, come momento di formazione dei 12 giovani soci della cooperativa sociale “Lavoro e non solo” e dei 65 giovani volontari, provenienti dalla Toscana, tra cui due gruppi scout dell’Agesci, di Firenze e di Pistoia. Tante domande da parte dei ragazzi per cercare di capire l’organizzazione Cosa Nostra, i cui boss “corleonesi” – fino a pochi anni fa – scorazzavano indisturbati sui terreni, che adesso sono stati confiscati e affidati alla cooperativa, inserita nel cartello “Libera Terra”, promosso da don Luigi Ciotti. Loro, dalla Toscana hanno scelto di “sporcarsi” le mani a Corleone, di zappare la terra e di “spietrare”, di raccogliere il pomodoro e di vendemmiare, convinti che coniugare legalità e sviluppo rappresenti il “modo giusto” per liberare la Sicilia dalle “spine” della mafia. Ma non si accontentano di sudare e di bruciarsi la pelle sotto il sole cocente dell’Isola: vogliono pure capire.

E La Licata che, insieme al procuratore nazionale antimafia, Piero Grasso, ha recentemente scritto un libro per spiegare “la mafia prima e dopo Provenzano” (Pizzini, veleni e cicoria, Milano, aprile 2007), non si è sottratto a nessuna domanda, a nessuna curiosità dei ragazzi. «Anzi – ha detto – sono contento di essere qui con voi e dare il mio contributo per capire la mafia e come essa sia potuta attecchire in terra di Sicilia». E intanto ha sfato il mito di un Provenzano “buono” contrapposto ad un Riina “cattivo”. Infatti, per tanti anni Provenzano è stato “u tratturi”, un killer feroce, capace di massacrare con il calcio di una pistola il mafioso Michele Cavataio, nella strage di viale Lazio del 1969 a Palermo. Poi ha condiviso con Riina la “guerra di mafia” palermitana degli anni ’80 e la stagione delle stragi. Fino a Falcone e Borsellino, a Milano, Firenze e Roma.

«Il cambio di strategia, la scelta della “sommersione” e della “mafia invisibile”, dopo l’arresto di Riina, sono stati dettati dalla necessità di superare la stretta repressiva dello Stato». In fondo è la solita, vecchia strategia del “calati juncu, ca passa la china” (“piegati giunco, fino a quando non passa la piena”), usata dalla mafia già ai tempi della repressione del prefetto Cesare Mori (1926) o dopo la strage di Ciaculli (1963). Binnu “u raggiunieri” è solo l’altra faccia del boss Provenzano, la faccia di chi ha voluto “traghettare” Cosa Nostra nella stagione del dopo-stragi, riallacciando un filo di dialogo con la politica e con le istituzioni.
E adesso, dopo l’11 aprile 2006, dopo la cattura dell’ultimo dei “corleonesi” nel covo-masseria di “Montagna dei cavalli”? «I “Corleonesi” non sono più al vertice di Cosa Nostra – ha detto La Licata – e difficilmente vi ritorneranno. Adesso il centro gravitazionale della mafia è tornato nuovamente a Palermo. E non credo che vi sarà una guerra di mafia, perché i “Corleonesi” non hanno più un esercito con cui combatterla». Meno ottimista di lui, giovedì pomeriggio, è stato il giudice Antonio Ingroia, secondo cui «i “corleonesi”, sebbene non siano più nella “Cupola”, adesso tornata in città, continuano ad essere molto potenti e la cupola stessa non li controlla». Ad accrescere le preoccupazioni degli inquirenti, contribuisce - tra l’altro – la paventata prossima scarcerazione di Salvuccio Riina, secondogenito di “don” Totò. Sia La Licata che Ingroia, comunque, hanno valorizzato molto lo strumento della confisca dei beni a Cosa Nostra e la loro assegnazione a cooperative di giovani. «Un campo di lavoro sui terreni confiscati alla mafia – ha sottolineato Ingroia - significa completare il lavoro della magistratura, perchè sarebbe inutile che le procure lavorassero per fare le confische, se poi queste terre rimanessero incolte». E La Licata: «non finiremo mai di essere grati a Pio La Torre, che questo strumento ha pensato ed inserito in un disegno di legge, approvato nel 1982 dal parlamento».
Dino Paternostro
25 agosto 2007
FOTO. Dall'alto: un momento del dibattito; il giornalista Francesco La Licata; Provenzano tra i poliziotti che l'hanno arrestato.

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