domenica 19 agosto 2007

Beni confiscati alle mafie in Italia: un "tesorone" da 40 miliardi di euro

Un bilancio dei beni confiscati alle mafie in Italia. Cifre da capogiro, nonostante lentezze e ritardi nelle procedure di acquisizione

di Franco Stefanoni

Una villa, in viale della Regione siciliana, a Palermo, un tempo di proprietà di Giovanni Ienna, oggi sede di una caserma dei carabinieri. Un’altra villa, ancora a Palermo, appartenuta a Gaetano Nobile, patrimonio adesso del Comune, dove è ospitata una comunità per la riabilitazione di persone disabili. E, ancora: un terreno di 57 ettari, a Corleone (Palermo), già di proprietà di Totò Riina, finita nelle mani del Comune, che ne ha fatto uno spazio per attività agricole gestite dal consorzio Sviluppo e legalità.Sono alcuni dei frutti delle confische di beni mafiosi, decise dalla magistratura e convalidate fino alla Cassazione, quindi gestite dall’Agenzia del demanio e, infine, destinate a Comuni e associazioni. Un iter lungo, tortuoso, spesso incerto, che contrappone istituzioni locali, enti non profit, amministratori giudiziari, Agenzia del demanio, da poco anche un commissario straordinario (Antonio Maruccia). Con il risultato che solo minima parte dei beni mafiosi passa davvero allo Stato. Ma questa, per ora, è l’unica strategia che, quando va in porto, riesce a far davvero male a Cosa nostra, ‘ndrangheta, camorra e Sacra corona unita.

La Direzione investigativa antimafia ha calcolato che tra il 1992 e il 2006 alle mafie sono stati sequestrati beni (passaggio propedeutico per arrivare al vero esproprio) per 4,3 miliardi, mentre il valore delle confische è stato di 744 milioni. Si tratta però di un conteggio di investigatori e magistratura realizzato a valori storici. In realtà il patrimonio sottratto al crimine organizzato vale molto di più, almeno dieci volte tanto: circa 40 miliardi i sequestri, 7 miliardi le confische. «È una stima per difetto», conferma Marco Arnone, economista all’Università Piemonte orientale e studioso di economia criminale che alle confische ha dedicato alcune ricerche, «perchè è difficile stabilire con precisione valori di imprese, stabili e terreni. Mancano i bilanci, dati sui flussi di entrate e uscite». Nessuna indicazione arriva dall’Agenzia del demanio, depositaria del patrimonio sottratto ai mafiosi Del resto si tratta di beni indisponibili. Enti locali e non profit possono dunque utilizzarli, non comprarli. L’ente pubblico economico, guidato da Elisabetta Spitz, ha il polso solo della quantità di beni confiscati: 7.328, di cui 3.372 destinati. Dal 2000 a oggi le confische sono andate via via diminuendo, dopo gli exploit degli anni Novanta. Rimane tuttavia lo stock da sistemare. Soprattutto terreni, ma anche edifici e aziende. Nell’83% dei casi il patrimonio si trova nelle quattro regioni meridionali (45% in Sicilia, soprattutto Palermo). Ma dare una destinazione non è facile: riesce solo con il 18% dei beni. Il resto è afflitto da abusivismi, illegalità, abbandono. Negli ultimi tempi l’agenzia ha firmato protocolli per immobili ex mafiosi a Roma, Reggio Calabria e lo scorso luglio a Palermo (circa 300).
Entro il 2008, dice, «tutti i beni confiscati saranno consegnati ». La procedura finora ha previsto che parte dei beni rimanga ai Comuni, mentre il resto venga gestito soprattutto dal network Libera (1.200 associazioni) di don Luigi Ciotti, che ha affidato a Daniele Pati il coordinamento del capitolo confische. Nella geografia dei beni espropriati è appunto alla Sicilia che spetta il primato. Cosa nostra è diverse volte capitolata sotto i colpi dello Stato. Ecco, a Trapani, la Calcestruzzi Ericina, sottratta al capo mandamento Vincenzo Virga, e tuttora attiva in attesa di essere assegnata a una cooperativa; a San Cipirello nel comune di Monreale, la cantina sociale Kaggio, confiscata a Giovanni Brusca e Riina (che a Corleone ha visto anche trasformare una sua villa in scuola); come a Partinico (Palermo) i fabbricati, oggi colonia estiva per bambini; a San Giuseppe Jato (Palermo), il terreno un tempo di Enzo Salvatore Brusca, dove è stato ucciso Giuseppe Di Matteo (figlio del pentito Santino), ora giardino comunale e luogo di formazione alla legalità; nella medesima località, i terreni di cui erano proprietari Riina e Bernardo Provenzano, gestiti dalla cooperativa Placido Rizzotto. Qui su cento ettari si coltivano vigneti dai quali si produce vino bianco e rosso, tutto prenotato molto prima della vendemmia.

Tra le etichette, quella di Cento passi, in onore di Pepil Mondo 17 agosto 2007 copertina copertina questa ribalta anti mafiosa non è piaciuta alla malavitaorganizzata. Lo scorso aprile, nella cooperativa Valle del Marro di Gioia Tauro, un raid della ‘ndrangheta ha rubato le attrezzature per il lavoro agricolo, mentre l’anno prima, a Platì, le cosche hanno sparso veleno su 12 mila piantine di frutti di bosco, distruggendole. Oltre alle mianacce a agli attentati, tra i problemi più sentiti c’è quello delpino Impastato vittima della mafia di Tano Badalamenti. Umberto Di Maggio, responsabile di Libera a Palermo, ricorda: «All’inizio, nel 2001, la gente aveva paura a lavorare per noi. Oggi c’è la fila». La Placido Rizzotto, nella vicina Portella della ginestra (luogo della strage del 1947 eseguita dagli uomini del bandito Salvatore Giuliano), località Piana degli albanesi, gestisce un agriturismo in un cascinale confiscato a Giovanni Brusca e famiglia, in passato luogo di summit mafiosi. Ora ha dieci posti letto, 50 per la ristorazione, ed è collegata al Maneggio Di Matteo (nel nome del bambino ucciso), con una decina di cavalli. Le attività usufruiscono del contributo di Italia lavoro che consegna borse di studio da 4 mila euro ai soci delle cooperative, scelte con bando pubblico. «Il problema è che non siamo proprietari e le banche non ci finanziano », dice Di Maggio.
Lo sanno anche alla cooperativa Pio La Torre, che nel 2006 ha raccolto 300 persone pronte a lavorare sui terreni di Corleone, anche se i posti erano 15. Negli ultimi dieci anni il potere crimanale ha soprattutto registrato la crescita della ‘ndrangheta. Il boss Domenico Libri, tuttavia, ha visto passare la sua villa di Reggio Calabria ai carabinieri, che vi hanno allestito una caserma. Operazione d’altronde non complicata, perché la struttura era già munita di vetri antiproiettile, sistema antintrusione e di video sorveglianza. Poi ci sono le distese di campi agricoli.Tra le località feudo del crimine, figurano Oppido Mamertina e Gioia Tauro (Reggio Calabria). Nel primo caso, nel 2003, 14 ettari di terreni e immobili della famiglia Piromalli sono stati destinati alla coltivazione di agrumi; altri 30 ettari, già della cosca Mammoliti, nella piana di Gioia Tauro hanno preso la strada della coltivazione di ulivi, tutto biologico. Ci sono voluti tre anni per trasformare campi incolti in terre produttive. «Fu investito l’intero nostro capitale», ricorda Antonio Napoli che per Libera si occupa della promozione culturale e sociale nella piana di Gioia Tauro, «ovvero 2.500 euro per socio. È andata bene. Ma qui non è facile, l’area non è permeabile a iniziative simili ». A ogni modo: oggi si producono con sistema biologico anche melanzane, peperoncino piccante, olio extra vergine,miele. In zona, inoltre, la mafia calabrese ha dovuto cedere degli immobili poi finiti alla diocesi di Oppido Palmi. Una struttura di quattro piani è stata destinata a magazzino della Caritas, a uffici della curia e istituto di scienze religiose. La diocesi, per spinta di don Pino De Masi, ha anche chiesto di utilizzare i beni della ‘ndrangheta per costruire una nuova chiesa. Tutta questa ribalta anti mafiosa non è piaciuta alla malavitaorganizzata. Lo scorso aprile, nella cooperativa Valle del Marro di Gioia Tauro, un raid della ‘ndrangheta ha rubato le attrezzature per il lavoro agricolo, mentre l’anno prima, a Platì, le cosche hanno sparso veleno su 12 mila piantine di frutti di bosco, distruggendole. Oltre alle mianacce a agli attentati, tra i problemi più sentiti c’è quello dell’amministrazione giudiziaria dei beni confiscati. Ovvero ciò che accade nel periodo che va dalla decisione della magistratura di confiscare un bene a quello della sua destinazione finale. Gli amministratori, indicati dal tribunale, sono in genere commercialisti e avvocati.

Si tratta di incarichi non agevoli. I professionisti, che devono occuparsi della gestione ordinaria, spesso sono accusati di non preoccuparsi troppo dei beni. Da parte loro, i curatori non di rado denunciano pressioni da parte delle famiglie mafiose che vogliono rimettere le mani sulle proprietà. Elio Collovà, consulente della Direzione distrettuale antimafia di Palermo e amministratore giudiziario da 25 anni (oggi tra l’altro gestisce 47 società a Caltanissetta), commenta: «Bisogna essere determinati e trasparenti. Chi non ha la forza di resistere alle pressioni è meglio che lasci». Collovà, che per svolgere bene l’incarico ha chiuso il suo studio di commercialista, ha un rammarico: «A Palermo ci sono 150 amministratori, specie di beni sequestrati. Quando si trasformano in immobili confiscati passano al demanio, cioè a Roma, e tutto s‘ingessa ». Così trascorrono anche 15 anni prima che un bene sia destinato. Lo sanno bene i camorristi, che in più casi sono riusciti a dilatare all’infinito il recupero dell’immobile alla società civile, riuscendo nel frattempo a lasciare negli appartamenti i famigliari del clan. Il caso simbolo è quello di Francesco Schiavone, detto Sandokan.
Nel casertano, a Marcianise e Casal di principe, a Schiavone e il clan dei Casalesi in passato sono stati sottratti 60 beni immobiliari, solo in piccola parte realmente destinati. La procedura giudiziaria inoltre è durata oltre 15 anni. È andata meglio in altri casi, come riguardo le confische realizzate ai danni della famiglia Mariano, nei Quartieri spagnoli di Napoli, dove un appartamento è stato affidato alla cattolica Agesci che ne ha fatto un centro per gli scout. Oppure nel quartiere Santa Caterina a Castellamare di Stabia, dove due appartamenti di 500 metri quadrati in passato di Adriana Rotondale, chiamata lady cocaina, del clan D’Alessandro, sono stati destinati a un centro donne e di accoglienza di immigrati. Oppure, ancora, a Giugliano, con l’autoparco Rea, confiscato al camorrista Salvatore Rea (villa bunker, 36 alloggi) e affidato al Consorzio Sole, ora sede della guardia di finanza e in futuro anche del tribunale di Giugliano. Così come è capitato a Pomigliano d’Arco, dove 400 metri quadrati della famiglia Forìa ora sono un centro polivalente gestito dalle associazioni intitolate a Rita Atria e Paolo Borsellino. «Le lungaggini che abbiamo subito si potevano evitare affidando il tutto a un’agenzia dedicata alle sole confische », commenta Fabio Giuliani, referente di Libera a Napoli, «si eviterebbe inoltre il rischio di destinare i beni a cooperative vicine ai camorristi».

Altra preoccupazione degli addetti ai lavori è quella di evitare che il bene destinato non risponda a un tipo di utilizzo collettivo, ma sia usato per fini privati, da amici degli amici. Niente di illegale, ma di sicuro improprio. Alessandro Leo, che per Libera cura le confische nella provincia di Brindisi, avverte: «Purtroppo ci sono associazioni che dei beni destinati fanno cosa privata, magari perché sono simpatici al sindaco». In Puglia sono stati colpiti più volte boss della Sacra corona unita. Che ha reagito danneggiando le attività sociali. A Torchiarolo, nel brindisino, 40 ettari di terreno confiscati a Cosimo Antonio Screti e affidati a cooperative agricole, nel 2006 sono stati dati alle fiamme. Stessa sorte per i poderi espropriati a Carlo Cantanna, a Mesagne. Un terreno di 20 ettari coltivati a grano è stato oggetto di attentati.
Libera non si è scoraggiata e una cooperativa agricola (la prima in Puglia) ora aspetta di selezionare il personale (con bando pubblico) per iniziare la coltivazione.L’avvio dei lavori, che comprendono altri 35 ettari incolti e abbandonati destinati in parte a vigna, confiscati sempre nel brindisino, è previsto per il gennaio 2008. Nel salentino, regno del mafioso Pino Rogoli, l’associazione Allegra compagnia ha poi avuto in gestione alcuni appartamenti, sottratti sempre a Cantanna, nei quali oggi si occupa di minori a rischio e cultura alla legalità. Un discorso, quello della formazione alla legalità, molto caro a Libera. Anche in Sardegna, l’associazione cagliaritana La strada presieduta da Giampiero Farru, sta per esempio gestendo corsi per 30 ragazzi (anche russi, francesi, spagnoli e cubani) su un campo di Gergei confiscato ad Antonio Deidda. Il terreno di tre ettari comprende un fabbricato, una piscina con discoteca all’aperto, una pista di go kart, una decina di bungalow in costruzione. I ragazzi un po’ ascoltano, un po’ lavorano per bonificare il posto.

La Banda della Magliana ha dovuto cedere grandi patrimoni a Roma e dintorni. Soltanto nel 2006 al boss Danilo Sbarra, sono stati confiscati 24 villini, 44 appartamenti, un parco di 7 mila metri quadrati sull’Appia Pignatelli. Dall’ex patrimonio di Enrico Nicoletti, storico cassiere del gruppo criminale, sono stati recuperati beni per oltre 150 milioni, tra i quali 25 società, tre alberghi, ristoranti, residence e dieci ville.Uno di questi immobili è l’attuale Casa del jazz di Roma, palcoscenico internazionale di musica.Un altro è l’ex cinema Aquila, espropriato a Matilde Ciarlante, che il Comune della capitale ha destinato a laboratorio cinematografico. Ma a Roma non c’è solo la Banda della Magliana ad aver subito confische. C’è il clan dei Casamonica, al quale è stato bloccato un patrimonio di 60 milioni (tra cui 23 ville, 22 auto di lusso, dieci cavalli). C’è stato il camorrista Michele Zaza, nella cui ex palazzina (poco lontana dal Quirinale) ora è ubicata la sede di Libera; c’è l’altro camorrista Francesco Schiavone, a Cisterna di Latina, già proprietario di un casale e di un terreno di dieci ettari, oggi in parte coltivati a vigneto dalla cooperativa agricola Il gabbiano.Nel 2006, a tre giorni dalla festa per il primo raccolto, tre ettari di campo sono stati bruciati dolosamente. «È stata una botta», rammenta Giorgio Ciacciarelli referente di Libera nel Lazio, «ma sugli altri sei ettari abbiamo prodotto 16 mila bottiglie. E nel 2008 ripartiamo sulla parte distrutta ». Nel casale, invece, che grazie a un finanzamento della Regione Lazio è in ristrutturazione, si pratica didattica alle scuole e si ospitano malati psichici. Si sa, è nel Nord Italia che le mafie investono in aziende e immobili. Non sorprende dunque che Lombardia e Piemonte contino confische nei confronti delle cosche trapiantate. A Galbiate, nel lecchese, la villa che fu del boss della ‘ndrangheta Franco Coco Trovato oggi è il centro diurno per anziani Le querce di Mamre, gestito dalla cooperativa Arcobaleno del consorzio Farsi vicino della Caritas. Gli ospiti fanno fisioterapia nell’area adibita a palestra dove un tempo Coco Trovato custodiva l’autorimessa con le sue Ferrari.

Nell’hinterland milanese altre case e terreni sono stati sequestrati, tra l’altro, alle famiglie calabresi Papalia, Morabito, Paviglianiti e Sergi, a quella siciliana dei Ciulla. A Segrate (Milano) nel febbraio 2007 la villa di Elio Pellegrino è stata destinata al Comune che ne ha fatto una struttura socio sanitaria. «A Milano e in altre province lombarde le istituzioni non vogliono riconoscere che la mafia c’è», commenta Lorenzo Frigerio, referente regionale e membro della presidenza nazionale di Libera, «l’atteggiamento è distratto, al massimo si guarda l’esclusivo significato immobiliare, niente più». Un rischio che si corre anche in Piemonte, dove la ‘ndrangheta è ben presente, soprattutto nel torinese. A Volpiano una cascina confiscata è sede dei vigili del fuoco e nucleo cinofilo; a Volvera un’altra cascina sottratta a Vincenzo Riggio è gestita dall’Associazione per l’educazione alla legalità, che la sta bonificando dall’amianto; un appartamento ancora di Riggio (fino a poco tempo fa ha continuato a viverci la moglie) è in mano alla Caritas. Ma c’è anche Cosa nostra: a Moncalvo d’Asti ancora una cascina, confiscata al trapanese Francesco Pace, braccio destro di Vincenzo Virga, è stata destinata a centro per donne tossicodipendenti. Uno dei più rilevanti patrimoni confiscati nel Nord si trova però a San Sebastiano da Po, di nuovo nel torinese. A Domenico Belfiore, uomo dei Piromalli, l’esproprio ha riguardato un immobile di circa mille metri quadrati (oltre a 10 mila di terreno). Ancora fino a metà maggio 2007 la famiglia Belfiore è riuscita a rimanere nella struttura, che oggi è presidiata dall’Associazione comunità famiglia, legata al gruppo Abele, che ha inserito cinque nuclei familiari. «C’è molto da fare», dice Francesca Rispoli, che per Libera si occupa di confische in Piemonte, «ma i risultati arrivano».

La cascina del boss ha quattro stelle. Era un’azienda agricola mal gestita, a Monteroni d’Arbia-Vescovado nel senese, con una grande e malandata fattoria, 780 ettari (200 coltivati a barbabietola e grano), 400 ovini, macchine obsolete, vecchi cingolati. Oggi è un fiore all’cchiello tra le aziende sottratte al crimine. Apparteneva al costruttore siciliano in odore di mafia Vincenzo Piazza (nella foto), che si dichiarava quasi nullatenente e che invece ha subìto una confisca valutata 1 miliardo. L’Agricola Suvignano srl, già sequestrata nel 1983 da parte di Giovanni Falcone, nel 1994 e nel 1996 è stata di nuovo bloccata dai giudici, nell’ambito di un maxi sequestro di 21 società riconducibili a Piazza, trasformate in confisca definitiva nell’aprile 2007. I giudici, come amministratore giudiziario, scelsero l’avvocato palermitano Gaetano Cappellano, che di anno in anno, a colpi di finanziamenti bancari (600 mila euro) e contributi della Ue (250 mila), ha rivoluzionato l’Agricola Suvignano. Il tribunale ha detto sì a investire su 570 ettari di terreno (grano duro, avena e orzo), migliorare i fabbricati (14 posti letto in due unità abitative), acquistare una chiesa (400 metri quadrati più 6 mila di terreno) per 200 mila euro, aumentare gli ovini a 3 mila capi, ospitare tre famiglie di pastori sardi, sviluppare la riserva di caccia su 200 ettari di bosco, aprire un agriturismo a quattro stelle (con piscina e solarium), impiantare un uliveto, allevare suini (400) ed equini (tra cui dieci asini), firmare gemellaggi con la Regione Sicilia. Cappellano, che oggi presiede la società, ha chiesto 1,3 milioni alla Ue per ospitare 40 stagisti per formarli all’agriturismo.

Così il maltolto diventa cosa vostra. Elisabetta Spitz, direttore dell’Agenzia del demanio, alle critiche è abituata. Il panorama giuridico non l’agevola ed è costante l’osservazione degli operatori istituzionali (commissione antimafia e Cnel) e di quelli sociali destinatari del patrimonio criminale. «Il recupero alla legalità è difficile», dice, «i beni confiscati ai mafiosi sono spesso poco trasparenti, coperti di irregolarità fiscali e catastali, mal tutelati». A consegnare il patrimonio all’agenzia sono gli amministratori giudiziari incaricati dai giudici di gestire i sequestri dei beni. «Gli amministratori hanno le mani legate: non possono far demolire un immobile, accettare un condono, trattare con le banche». Già, le banche. «Qualche volta sono conniventi con il crimine», «No, è un obiettivo ambizioso ma necessario».accusa. L’agenzia ha uffici in ogni regione, con 80 persone che lavorano a tempo pieno in confische, ovvero 3.835 beni immobili destinabili e circa 40 aziende attive (cemento, turismo, trasporti, alimentare). Secondo operatori sociali e commissione antimafia, il meccanismo è tuttavia inefficiente e sarebbe meglio che operasse un ente apposito. «Penso anch’io che ci dovrebbe essere un unico soggetto competente», risponde Spitz. E il commissario staordinario da poco istitutito? «Credo abbia un ruolo di solo coordinamento e monitoraggio». Non è troppo ottimista quando dice che entro il 2008 l’intero patrimonio confiscato destinabile sarà destinato?
Il Mondo - 17 agosto 2007
FOTO. Corleone, la casa confiscata al boss Bernardo Provenzano, adesso foresteria per i ragazzi dei campi di lavoro antimafia.

Nessun commento: