La Sicilia, 30/11/2007
FOTO: Ninetta Bagarella da giovane.
CORLEONE – Ieri mattina, alla consegna della palazzina confiscata alla mafia ai giovani della coop “Lavoro e non Solo” c’era anche il Procuratore nazionale antimafia Piero Grasso. L’immobile, confiscato ai fratelli Grizzaffi, nipoti dell’ex “capo dei capi” di Cosa Nostra Totò Riina, si trova in via Crispi, a poche decine di metri in linea d’aria della villa confiscata anni fa al “padrino”. Ha tre elevazioni fuori terra di circa 150 metri quadrati ciascuna, per un totale di quasi 500 metri quadrati. Il Consorzio “Sviluppo e Legalità” ha voluto assegnarlo alla cooperativa che lavora sui terreni confiscati alla mafia, che lo destinerà a foresteria per i giovani toscani che ogni anno vengono a fare esperienza antimafia a Corleone. «Con l’affidamento di questo immobile – ha detto, soddisfatto, il sindaco Nino Iannazzo, dando la chiave al presidente della coop Calogero Parisi – il comune di Corleone ha consegnato tutti i beni confiscati di cui disponeva». «Sicuramente un bel
risultato – gli ha fatto eco il procuratore Grasso – di cui tutti possiamo essere soddisfatti». «Era dal 2000, da quando il presidente della Repubblica inaugurò il Centro Antimafia, che non venivo a Corleone – ha proseguito Grasso – ma ho sempre seguito con attenzione i passi avanti fatti dal vostro comune. Recentemente ho anche partecipato in Toscana ad alcune cene della legalità per raccogliere fondi a favore della vostra cooperativa. L’ho fatto con piacere, perché so che per battere la mafia c’è bisogno di tanta antimafia sociale. Bravi, continuate così…».
PALERMO - Ancora discussioni sulla fiction di Canale 5 "Il capo dei capi". Con una lettera pubblicata stamani da due quotidiani la vedova del funzionario di polizia Giorgio Boris Giuliano, Ines Maria Leotta, punta il dito sulla figura che emerge del marito, "che non corrisponde alla realtà". "Pur apprezzando il risalto dato alla figura di mio marito - scrive - deploro che gli autori o gli sceneggiatori non abbiano pensato di rivolgersi alla famiglia o alle persone più vicine per delinearne meglio la personalità. Mio marito era infatti molto diverso sin dai caratteri esteriori. Emerge dalla fiction un personaggio che segue lo stereotipo del siciliano: scuro, con folti baffi neri, che parla in dialetto e che usa il turpiloquio, un uomo dal temperamento passivo".La vedova di Boris Giuliano così prosegue: "mio marito non era per nulla così. Non era un uomo di mezza età, non parlava in dialetto stretto (non ci sarebbe stato nulla di male, ma semplicemente non era così). Inoltre non usava abitualmente il turpiloquio e non fumava. Era un uomo giovane (nel 1969 aveva 38 anni)". Secondo Ines Maria Leotta Giuliano suo marito "non aveva bisogno, come appare nel lavoro televisivo, di un inesistente Schirò" che lo spronasse a combattere la mafia". "Ben altro - scrive la vedova - se si fosse voluto rendere giustizia alla sua figura, poteva essere raccontato nella fiction: si poteva fare riferimento all'isolamento in cui fu lasciato, o ai rapporti che presentava e che restavano lettera morta nei cassetti della Procura"."Pur comprendendo che si tratta di una fiction - conclude la vedova Giuliano - è pertanto non necessariamente fedele alla realtà, penso che nel trattare un argomento così delicato andrebbe fatta una scelta: o utilizzare nomi e situazioni di pura fantasia, oppure, se si decidesse di riferirsi a personaggi realmente esistiti (usando il loro nome) e che, come in questo caso, hanno perduto la vita per lo Stato, ci si dovrebbe attenere alla realtà dei fatti sottoponendo la sceneggiatura ai familiari. Non mi sembra di chiedere troppo".Di parere diverso Pietro Grasso, procuratore nazionale antimafia: "Non si può nascondere la realtà. E' giusto che si conosca e che, magari, a corredo ci sia un modo per commentarla. Non sono d'accordo con la proposta di sospenderla, la fiction va trasmessa, e, contemporaneamente, dovrebbe essere discussa in famiglia, nelle scuole e ovunque si possa mettere in evidenza come la realtà della mafia porta solo sangue, morte e distruzione"."Non dobbiamo avere paura - ha proseguito - del rischio emulazione ma andare al cuore del problema. Se ha un difetto è che è stata trasmessa a puntate e in alcune potrebbe venire fuori il lato accattivante del personaggio. Se, invece, fosse stata raccolta in due ore si sarebbe arrivati subito alla morale che, secondo me, è più educativa di tutto il resto della fiction".Alle osservazioni del presidente dell'Osservatorio sui diritti dei minori, Antonio Marziale, secondo il quale "è meglio la pornografia di un fiction su Cosa nostra", risponde l'eurodeputato Claudio Fava, co-sceneggiatore de "Il capo dei capi": "Un'affermazione da codice penale. Rivela un disprezzo grossolano verso chi si è battuto in questi anni in nome del diritto di non tacere mai sulla mafia e sulle ragioni della sua impunità"."La mafia è violenza, ferocia, viltà; ma è anche potere, collusione, contiguità - aggiunge Fava -. Il torto de Il capo dei capi, secondo taluni benpensanti, è quello di avere restituito a Cosa nostra tutta la sua drammatica complessità. Il ministro Mastella avrebbe preferito un bel western, buoni e cattivi, saraceni e paladini, come in un'opera dei pupi. Ma la mafia è altra cosa. L'errore non è mai raccontare Cosa nostra ma non averla mai raccontata abbastanza"."L'errore - prosegue Fava - non è parlare dei mafiosi, ma parlare con i mafiosi o far loro da testimoni di nozze. L'errore è far credere che a Cosa nostra si possa opporre solo la rassegnazione. La nostra fiction è invece la storia di una scelta: sbirro o mafioso, macellaio o uomo libero, siamo noi che decidiamo da che parte stare. Forse è proprio questo senso di responsabilità che fa paura a qualcuno".
FIRENZE - E' iniziata, nell'aula bunker di Santa Verdiana a Firenze, l'udienza a carico di Totò Riina e Bernardo Provenzano accusati di essere rispettivamente il mandante e uno degli esecutori materiali della strage di via Lazio, avvenuta a Palermo il 10 dicembre 1969. Quella strage è considerata uno degli episodi più cruenti della prima guerra di mafia che si scatenò negli anni 60 e che - a causa della morte del boss Michele Cavataio - portò a una ridefinizione delle sfere di competenza della varie famiglie mafiose.All'udienza, che si tiene davanti alla Corte d'assise di Palermo presieduta da Giancarlo Trizzino (a latere Angelo Pellino), e il pm è Michele Prestipino, sono presenti in videoconferenza gli unici due imputati: dal carcere di Novara Bernardo Provenzano e dal carcere di Milano Totò Riina. L'udienza è incentrata sull'audizione di Gaetano Grado, il collaboratore di giustizia (e cugino di Salvatore Contorno) che indicò in Bernardo Provenzano il killer di Michele Cavataio, trucidato brutalmente da 'Binnu 'u tratturi'."Dissi a Stefano Bontade: cerchiamo di ammazzare Totò Riina, che fa troppa strategia, ma Bontade mi disse di lasciarlo fare, 'sto viddanu". Lo ha detto il collaboratore di giustizia Gaetano Grado, cugino di Salvatore Contorno e 'custode' negli anni '60 di Totò Riina, nella sua deposizione davanti alla corte d' assise di Palermo per il processo sulla strage di viale Lazio, a Palermo. "Riina faceva troppa strategia - ha detto Grado - perchè dovunque andasse cercava di ingraziarsi i piu furbi e questo non mi piaceva. Per questo lo raccontai a Stefano Bontade", boss di Santa Maria di Gesù. "Un giorno in macchina gli dissi, dammi retta cerchiamo di ammazzarlo a questo, ma Bontade disse di no: 'è viddanu', mi disse, 'lascialo correre a questo cavallo, che tanto deve passare sempre da qui". Grado, coimputato nel processo per la strage di Viale Lazio, era stato combinato giovanissimo nella famiglia di Villagrazia che poi venne assorbita dalla famiglia di Santa Maria del Gesù."Io non volevo morire vestito da poliziotto. Per questo la divisa della polizia usata per la strage di viale Lazio la indossarono soltanto Bernardo Provenzano, Calogero Bagarella, Damiano Caruso e Manuele D' Agostino", ha detto Grado alla Corte d'assise di Palermo durante la ricostruzione dell'organizzazione della strage di viale Lazio. "Cavataio - ha detto Grado - doveva morire perchè non rispettava le regole di Cosa nostra, perché uccideva innocenti e non aveva onore".Dopo la strage di viale Lazio, negli uffici dei fratelli Moncada, "portammo via il corpo di Calogero Bagarella" rimasto ucciso nella strage "e dovevamo decidere di seppellirlo perchè era morto con onore. Ma Totò Riina disse che il corpo di suo cognato doveva essere bruciato. Comunque se ne occupò lui", ha raccontato Grado. "Mettemmo il corpo di Bagarella in un sacco - ha detto Grado - e io dissi che doveva essere sepolto vicino alla sua famiglia. Ma Riina mi disse che ero pazzo, che avremmo attirato i carabinieri e che quindi il corpo andava bruciato. Ci avrebbe pensato lui. Non so come andò a finire perchè io me ne andai".
Sarà in edicola domani con il Giornale di Sicilia, a soli 2 euro, "Oltre il buio della mafia", il nuovo libro del giornalista Alfonso Bugea. Prefazione di Andrea Camilleri, con un riflessione del Vescovo di Agrigento Monsignor Carmelo Ferraro. Ecco, per gentile concessione dell'autore, un'anticipazione del libro che racconta la storia di Alfonso Falzone, un pentito di Cosa Nostra agrigentino. Nel brano che segue un'anteprima del libro, un dialogo tra il giornalista e il mafioso di Porto Empedocle che indica il pentimento come la "terza via" per uscire dalla mafia.
CORLEONE (PALERMO) - "Riina o Schirò?" ha chiesto, da una panchina trasformata in un improvvisato palco, il sindaco di Corleone, Antonino Iannazzo. E le centinaia di studenti, scesi in strada questa mattina per dire che "i corleonesi non sono tutti uguali", non hanno avuto dubbi. In coro, più volte, hanno risposto: "Schirò", dimostrando che, tra la prepotenza e la violenza del capomafia, e il coraggio e l'onestà del poliziotto Biagio Schirò, personaggio positivo della fiction di Mediaset su Riina, 'Il capo dei capi', loro scelgono il bene. "Questa è la risposta che Corleone dà a chi dice che i giovani qui si riconoscono in Riina", commenta Iannazzo, che non nega, però, che la presenza di tanti adolescenti, nella piazza intitolata ai giudici Falcone e Borsellino, sia dovuta anche alla presenza di Daniele Liotti, l'attore che nella fiction interpreta appunto Schirò, unico personaggio inventato del telefilm. "Ciò non toglie nulla al successo della nostra manifestazione - spiega - I ragazzi hanno accolto Liotti con entusiasmo, dimostrando di avere ben chiara la positività del ruolo che interpreta. Se, anche in futuro, uniremo la forza della tv e il sentire comune dei corleonesi, davvero, arriveremo a grandi risultati".Travolto da decine di ragazzi, l'attore fa fatica a parlare. "Non mi aspettavo una cosa simile: mi tremano le gambe", dice, strattonato dai fans che gli scattano foto con i cellulari. E difende con forza la fiction, accusata di evocare nei giovani un'immagine positiva del capomafia.
"Il regista - spiega - ha scelto di raccontare Cosa nostra dal punto di vista dei 'cattivì: per questo i personaggi negativi sono più approfonditi. Il messaggio, però, è chiaro: tutti insieme contro la mafia". E al ministro della Giustizia, Mastella, che ieri aveva giudicato la trasmissione prodotta da Mediaset "diseducativa" e ne aveva sollecitato la sospensione, l'attore risponde: "Spegnere la tv non serve. Mastella dia risposte più serie e intelligenti, ad esempio, inserendo nelle scuole materie che spieghino cos'è la mafia e chi sono gli eroi che l'hanno combattuta".Ma gli studenti di Corleone cosa è la mafia sembrano saperlo. "Riina è cattivo" - dice Antonino, 11 anni, alunno della V elementare che esibisce fiero la maglietta distribuita ai ragazzi con la scritta 'Non voglio essere mafioso". "È un uomo che ha fatto cose cattive - continua -, che ha ammazzato persone buone". Del rischio che la fiction possa condizionare negativamente i più piccoli parla, invece, Giovanni, 17 anni, studente dell'istituto Agrario. "Noi 'grandi' - spiega - conosciamo la storia e sappiamo dove sta il bene, ma i ragazzini potrebbero essere attratti dal potere e dal denaro conquistati da Riina". "Ciò non vuol dire che la tv sia da censurare - conclude - Magari, in questo caso, dovrebbero essere le famiglie ad aiutare i bambini a dare la giusta interpretazione a ciò che vedono".
di Antonio Ingroia
di Alberto Custodero
CORLEONE (PALERMO) - C'è il ragazzino delle medie che dice "Batman? Io sono Totò Riina". Chi invece, studente di liceo, è soddisfatto che di vedere che un pugno di corleonesi soprannominati "viddani" o "cafoni" hanno, seppur in un ambito negativo, battuto i palermitani "cittadini" nella corsa alla supremazia criminale. A Corleone, dopo altri centri siciliani, la fiction di canale 5 "Il capo dei capi" comincia a suscitare preoccupazione perché, soprattutto tra i più giovani, vengono notate emulazioni della figura di Totò Riina. Nel paese dei padrini che per oltre trent'anni hanno gestito il direttorio di Cosa nostra giovedì sembra ci sia il coprifuoco: tutta la gente è in casa incollata davanti alla televisione a vedere la storia dei concittadini che hanno reso tristemente noto il nome della cittadina. Una tendenza che è anche nazionale considerato che la fiction è sempre prima negli ascolti ma che qui balza subito agli occhi. Dice il corrispondente di un quotidiano regionale: "Se cammini nudo per strada il giovedì sera e non incontri una delle pattuglie di polizia e carabinieri nessuno se ne accorge perché le strade sono deserte".Non tutti per fortuna ammirano il super boss. "E' un delinquente ancora in vita, che senso ha fare un film, per altro con tante puntate, sulla sua vita? Lo hanno fatto diventare un personaggio storico. Lo hanno santificato", dice Annalisa, 34 anni, che lavora nel centro di formazione a Corleone."Molti ragazzi e ragazzini - gli fa eco uno degli studenti del centro - guardano il film accanto ad adulti che non spiegano il contesto e che magari non sono del tutto contrari a quel tipo di mentalità: è un danno per i giovani soprattutto in questa citta. E poi nel film non sono state utilizzate comparse di qui e il film è stato girato nel ragusano e nel siracusano non a Corleone: non ha molto senso".Fuori dall'istituto "Don Giovanni Colletto", che ospita i licei scientifico e classico di Corleone, alcuni studenti si sottraggono alle domande altri dicono di "aver scoperto cose nuove dalla fiction" o che "nelle puntate finora non si è vista la presenza dello Stato" e che comunque Totò Riina è "chiaramente un criminale".
Non gli sarà stato facile, all’età di 45 anni, lasciare la sua Corleone, la Sicilia, l’Italia, per recarsi in terra di missione, nel lontano Brasile. O forse gli è stato più facile di quanto si possa immaginare. Infatti, scelte simili si fanno solamente se si portano nel cuore una grande fede e un grande coraggio, capaci di far superare le paure e le angosce umane. A fra’ Rosario Pirrello, nativo di Corleone, non mancavano evidentemente né l’una né l’altro. In Brasile arrivò alla fine di novembre del ’47, «con l’ardente desiderio di fondare in quella terra lontana una Chiesa ed un Convento per il Terzo Ordine Regolare di San Francesco», a cui apparteneva, scrive padre Giuseppe Messina, nel volume “Religiosi del T.O.R. di Sicilia, dai Vespri Siciliani alla galleria d’Arte Moderna” (Palermo, 2006). Ma fra’ Rosario, quando arriva a San Paolo del Brasile, non trova niente, neanche un tetto sotto il quale dormire. «Tanto che, per diverse notti, gli toccò addormentarsi sotto le stelle…», racconta il nipote Giusto Pirrello, che a Corleone si sta adoperando per tenere viva la memoria dello zio missionario. Di giorno fra’ Rosario iniziò una faticosa opera di evangelizzazione nei quartieri di periferia di San Paolo, nelle “favelas”, tra i “meniňos de rua”, i “bambini di strada”. Vivevano (e, purtroppo, vivono ancora) senza famiglia e senza casa, sporchi, vestiti di stracci, a piedi nudi e – quel ch’è peggio – continuamente a rovistare nelle discariche, alla ricerca di qualcosa da mettere sotto i denti, per allentare i morsi della fame. Fra’ Rosario non si perse d’animo, cercò di collegarsi con i siciliani emigrati in Brasile, cominciò a fare opera di accoglienza, conquistò la fiducia e la stima di tanta povera gente. E, a poco a poco, le cose cominciarono a cambiare. Dapprima la chiesa dove celebrava messa era una misera baracca, solo un po’ più grande delle altre, per poter accogliere i fedeli. Poi riuscì a costruire una chiesa in muratura, che volle dedicare a «Nostra Signora del Perpetuo Soccorso», e ad acquisire un vasto appezzamento di terreno, dove probabilmente pensava di realizzare un convento, che però rimase solo un suo sogno.
Per realizzarlo, infatti, sarebbe stata necessaria la presenza di altri frati. Ma nemmeno allora era facile convincerli a lasciare l’opulento occidente per “sposare” davvero “Madonna Povertà”, nel Terzo Mondo. Fra’ Rosario dovette rinunciare all’idea di costruire il convento francescano, ma continuò – instancabile – la sua opera missionaria tra gli “ultimi”. Il Brasile divenne la sua seconda patria e San Paolo la sua nuova città. Non volle più tornare in Italia, tranne che per brevi periodi, convinto che di lui ci fosse più bisogno in una terra difficile come quella brasiliana. Si ammalò del “mal di Brasile”, dunque, e le rare volte che ne era lontano, veniva preso dalla “saudade”, quella nostalgia lancinante che “consuma” i brasiliani costretti ad emigrare. Morì in Brasile nel 1982, all’età di 80 anni. E giovedì scorso, a 25 anni dalla morte, la sua città d’origine, Corleone, ha voluto onorarne ancora una volta la memoria, dedicandogli un cippo, che è stato scoperto su un’area adiacente alla via che porta il suo nome. Un semplice cippo in pietra, con una scritta altrettanto semplice: «Sac. Rosario Pirrello, francescano del terzo ordine regolare, stella della solidarietà, missionario tra le favelas di San Paolo, 1947 – 1982, la città di Corleone nel ricordo pose il 15 novembre 2007». L’opera, commissionata dal Comune di Corleone, è stata realizzata da Piero Cascio, un giovane scultore corleonese, autodidatta. Giovedì scorso, all’inaugurazione, era presente una folta delegazione dei francescani del Terzo Ordine Regolare, guidata da padre Giuseppe Messina, un gruppo di alunni della scuola elementare, il sindaco Nino Iannazzo e diversi assessori, Giusto Pirrello, nipote di fra’ Rosario. Ma l’anima della manifestazione è stato fra’ Giuseppe, parroco di Maria Santissima delle Grazie. «Oggi è una giornata bellissima – ha detto fra’ Giuseppe – perché ricordiamo un nostro confratello che ha speso la sua vita per gli altri. E’ giusto che Corleone sia conosciuta perché patria di persone generose e buone come fra’ Rosario, piuttosto che per le gesta di qualche criminale».P.S. Siamo contenti che Città Nuove stia diventando ogni giorno di più lo strumento di questa ripresa dello spirito di confronto democratico. Per questo ringraziamo i lettori...
Ciao cari amici, sono don Leo Pasqua, corleonese doc, immamorato della mia parrocchia di origine S. Rosalia, dove sono stato educato nella fede e dove ho ricevuto i sacramenti dell'iniziazione cristiana.Incardinato nella Diocesi di Palermo, attualmente svolgo il servizio di Vice Rettore nel seminario Arcivescovile, rimanendo comunque legato a Corleone dove spesso mi ritrovo a celebrare L'Eucaristia. Volevo esprimere il mio disappunto per l'atteggiamento poco maturo, che si sta assumendo a proposito del trasferimento di don Francesco Carlino al quale mi lega una profonda e fraterna amicizia.Questa vicenda, che non mi ha lasciato certamente indifferente, bisogna leggerla con gli occhi della fede, prima di farla diventare oggetto di critica e di cortile.Credo che il Signore voglia invitare la comunità di S. Rosalia a fare un salto di qualità e a dimostrare una certa maturita nella fede come risultato di un cammino intenso e intelligente condotto grazie alla sollecitudine di Pastori saggi e prudenti quali Mons. Girolamo Liggio, don Domenico Mancuso, e per ultimo don Francesco.Pertanto sarebbe un grave errore vanificare tutto ciò che si è costruito con fatica giudicando la scelta del vescovo Di Cristina e insinuando falsità sulle motivazioni del trasferimento.Noi sacerdoti il giono dell'ordinazione abbiamo fatto una promessa di obbedienza nelle mani del nostro vescovo e don francesco in questo momento ci sta offrendo un grande esempio di umiltà e di accettazione della volontà di Dio.Per cui credo che il più bel regalo che possiamo fare a don Francesco é l'assunzione di un atteggiamnto di ascolto, di fiducia e di abbandono,che non solo dicono la maturita raggiunta da una comunità cristiana, ma costituiscono i frutti più belli di quanto don Francesco ha seminato nello svolgimento del suo ministero come parroco della nostra parrocchia.E allora bando alle critiche e con speranza e spirito di obbedienza continuiamo a lavorare nella vigna del Signore, nella consapevolezza che Dio nostro Padre non abbandona i suoi figli. don Leo Pasqua
Ho ricevuto in questi giorni diversi mail e sms di giovani sinceramente disperati perche' Casablanca, un giornale che e' la continuazione ideale dei "Siciliani" di Pippo Fava, un giornale che faticosamente combatte a Catania contro l'indifferenza dei tanti e contro l'impero dei Ciancio, un giornale che combatte in trincea e non come noi dalle retrovie, sta per essere ucciso.