di ATTILIO BOLZONI
SONO passati tre anni ma è come se ne fossero passati trenta o trecento. È stata la prima volta di Palermo. È vero che "sta cambiando solo l'aria". E' vero che in questi giorni hanno trovato altri cinquecento nomi di commercianti nel libro mastro del boss Salvatore Lo Piccolo e neanche uno di loro ha ancora confessato in questura o in procura che era costretto a pagare. Ma a Palermo "l'aria" conta più che in ogni altro luogo d'Italia. Prima, i signori del pizzo controllavano anche quella. Solo un palermitano - un palermitano e non un siciliano qualunque - può capire fino in fondo cosa è accaduto ieri, sabato 10 novembre 2007, in quel bellissimo teatro davanti al mercato della Vucciria. È stato l'inizio di una rivolta. È Palermo che sta provando a non morire soffocata dalla sua mafia. Una mafia che si sta velocemente trasformando, che è padrona quando può essere padrona ma non è più padrona sempre e ovunque. È soltanto il principio di una guerra che si combatterà non solo a colpi di indagini e denunce, di blitz polizieschi, di microspie e di telecamere che filmano in diretta gli esattori del racket. Un principio che sembrava sempre lontano in quella città che era muta o complice, serva o piegata dalla paura. Palermo lentamente, faticosamente sta rialzando la testa. Quasi tre anni fa avevano disertato tutti al teatro Biondo. Non si era presentato il presidente della Confcommercio Roberto Helg (che in verità non è stato visto neppure ieri), non c'erano gli uomini politici più rappresentativi della Regione, in prima fila era vuota la poltrona del governatore Totò Cuffaro che pure qualche settimana prima aveva difeso l'"onore" dell'isola contro "lo sciacallaggio mediatico ai danni dell'intero sistema produttivo siciliano". Un reportage di RaiTre sul crimine. Proprio sul racket delle estorsioni.
È stata probabilmente l'ultima volta che Palermo si è voltata dall'altra parte. Qualche mese dopo la città si è risvegliata con i muri coperti da manifesti, da lenzuola che pendevano dai cavalcavia. Tutti con la stessa scritta: "Un popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità". Erano stati alcuni ragazzi di "Addiopizzo", un'associazione allora sconosciuta. Sembrava solo una provocazione. Oggi "Addiopizzo" ha raccolto intorno a sé 209 imprenditori e commercianti che non pagano. Ci sono 9.105 palermitani che li sostengono. E che non fanno la spesa in tutte quelle botteghe dove si vendono prodotti made in mafia. Non comprano il caffè nelle torrefazioni dei boss, non comprano i loro cannoli di ricotta, la loro frutta e la loro carne. La grande partita di Palermo si giocherà nei prossimi mesi sul "pizzo". È quella "messa a posto" di qualche centinaio o di qualche migliaio di euro al mese che segna il confine fra libertà e schiavitù. È sulla mesata che il capo di una "famiglia" o di un "mandamento" può perdere per sempre la faccia e il potere. L'estorsione è la prima attività mafiosa, quella essenziale per la sopravvivenza dell'organizzazione criminale. Se non c'è più estorsione non c'è più controllo del territorio, se salta quel sistema non c'è più mafia. È il momento giusto. L'ha compreso anche Tano Grasso, l'ex commerciante di scarpe di Capo d'Orlando che è diventato bandiera per le sue battaglie contro il racket. Ha aspettato sedici lunghi anni per far nascere anche a Palermo un'associazione contro i boss del pizzo. Era commosso, ieri, in quel teatro palermitano dei primi del Novecento. Come era commosso l'altro Grasso, Pietro, il procuratore nazionale antimafia che per primo ha voluto conoscere nel 2005 i ragazzi di Addiopizzo. L'hanno compreso gli imprenditori siciliani, in tanti. Quelli di Catania come Andrea Vecchio, che in quattro giorni d'estate ha sentito le bombe devastare per quattro volte i suoi cantieri. E quelli di Caltanissetta, di Agrigento, di Siracusa. Nuove generazioni di imprenditori che non sono più disposti a "calare le corna", che probabilmente non ce la fanno nemmeno più a sostenere le richieste di una nuova mafia sempre più aggressiva. Hanno deciso di non sopportare più. Senza sfida. Ma anche senza paura. È però a Palermo, più che altrove in Sicilia, che si vince o si perde tutto. Nella Palermo dove 16 anni fa uccisero Libero Grassi, l'industriale tessile che si scagliò contro i Madonia della Piana dei Colli e i Galatolo dell'Acquasanta mentre il presidente degli industriali di allora raccomandava i colleghi "di pagare tutti per pagare meno". E dileggiò Libero pubblicamente. Gli disse: "Le buone famiglie tendono a tacere". Libero Grassi era diventato un obiettivo "politico" dei boss. E poi militare. Era solo. E uno da solo non può ribellarsi a Cosa Nostra. Sarà l'inizio della fine di un'epoca il grande raduno al teatro Biondo? Quella dei libri mastri, dei contabili dei mafiosi che con maniacale precisione custodiscono il registro delle entrate e delle uscite, che concedono pagamenti a rate ai commercianti in difficoltà, che fanno sconti in caso di lutto in famiglia? Sarà l'inizio della fine per le sanguisughe di Palermo?
SONO passati tre anni ma è come se ne fossero passati trenta o trecento. È stata la prima volta di Palermo. È vero che "sta cambiando solo l'aria". E' vero che in questi giorni hanno trovato altri cinquecento nomi di commercianti nel libro mastro del boss Salvatore Lo Piccolo e neanche uno di loro ha ancora confessato in questura o in procura che era costretto a pagare. Ma a Palermo "l'aria" conta più che in ogni altro luogo d'Italia. Prima, i signori del pizzo controllavano anche quella. Solo un palermitano - un palermitano e non un siciliano qualunque - può capire fino in fondo cosa è accaduto ieri, sabato 10 novembre 2007, in quel bellissimo teatro davanti al mercato della Vucciria. È stato l'inizio di una rivolta. È Palermo che sta provando a non morire soffocata dalla sua mafia. Una mafia che si sta velocemente trasformando, che è padrona quando può essere padrona ma non è più padrona sempre e ovunque. È soltanto il principio di una guerra che si combatterà non solo a colpi di indagini e denunce, di blitz polizieschi, di microspie e di telecamere che filmano in diretta gli esattori del racket. Un principio che sembrava sempre lontano in quella città che era muta o complice, serva o piegata dalla paura. Palermo lentamente, faticosamente sta rialzando la testa. Quasi tre anni fa avevano disertato tutti al teatro Biondo. Non si era presentato il presidente della Confcommercio Roberto Helg (che in verità non è stato visto neppure ieri), non c'erano gli uomini politici più rappresentativi della Regione, in prima fila era vuota la poltrona del governatore Totò Cuffaro che pure qualche settimana prima aveva difeso l'"onore" dell'isola contro "lo sciacallaggio mediatico ai danni dell'intero sistema produttivo siciliano". Un reportage di RaiTre sul crimine. Proprio sul racket delle estorsioni.
È stata probabilmente l'ultima volta che Palermo si è voltata dall'altra parte. Qualche mese dopo la città si è risvegliata con i muri coperti da manifesti, da lenzuola che pendevano dai cavalcavia. Tutti con la stessa scritta: "Un popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità". Erano stati alcuni ragazzi di "Addiopizzo", un'associazione allora sconosciuta. Sembrava solo una provocazione. Oggi "Addiopizzo" ha raccolto intorno a sé 209 imprenditori e commercianti che non pagano. Ci sono 9.105 palermitani che li sostengono. E che non fanno la spesa in tutte quelle botteghe dove si vendono prodotti made in mafia. Non comprano il caffè nelle torrefazioni dei boss, non comprano i loro cannoli di ricotta, la loro frutta e la loro carne. La grande partita di Palermo si giocherà nei prossimi mesi sul "pizzo". È quella "messa a posto" di qualche centinaio o di qualche migliaio di euro al mese che segna il confine fra libertà e schiavitù. È sulla mesata che il capo di una "famiglia" o di un "mandamento" può perdere per sempre la faccia e il potere. L'estorsione è la prima attività mafiosa, quella essenziale per la sopravvivenza dell'organizzazione criminale. Se non c'è più estorsione non c'è più controllo del territorio, se salta quel sistema non c'è più mafia. È il momento giusto. L'ha compreso anche Tano Grasso, l'ex commerciante di scarpe di Capo d'Orlando che è diventato bandiera per le sue battaglie contro il racket. Ha aspettato sedici lunghi anni per far nascere anche a Palermo un'associazione contro i boss del pizzo. Era commosso, ieri, in quel teatro palermitano dei primi del Novecento. Come era commosso l'altro Grasso, Pietro, il procuratore nazionale antimafia che per primo ha voluto conoscere nel 2005 i ragazzi di Addiopizzo. L'hanno compreso gli imprenditori siciliani, in tanti. Quelli di Catania come Andrea Vecchio, che in quattro giorni d'estate ha sentito le bombe devastare per quattro volte i suoi cantieri. E quelli di Caltanissetta, di Agrigento, di Siracusa. Nuove generazioni di imprenditori che non sono più disposti a "calare le corna", che probabilmente non ce la fanno nemmeno più a sostenere le richieste di una nuova mafia sempre più aggressiva. Hanno deciso di non sopportare più. Senza sfida. Ma anche senza paura. È però a Palermo, più che altrove in Sicilia, che si vince o si perde tutto. Nella Palermo dove 16 anni fa uccisero Libero Grassi, l'industriale tessile che si scagliò contro i Madonia della Piana dei Colli e i Galatolo dell'Acquasanta mentre il presidente degli industriali di allora raccomandava i colleghi "di pagare tutti per pagare meno". E dileggiò Libero pubblicamente. Gli disse: "Le buone famiglie tendono a tacere". Libero Grassi era diventato un obiettivo "politico" dei boss. E poi militare. Era solo. E uno da solo non può ribellarsi a Cosa Nostra. Sarà l'inizio della fine di un'epoca il grande raduno al teatro Biondo? Quella dei libri mastri, dei contabili dei mafiosi che con maniacale precisione custodiscono il registro delle entrate e delle uscite, che concedono pagamenti a rate ai commercianti in difficoltà, che fanno sconti in caso di lutto in famiglia? Sarà l'inizio della fine per le sanguisughe di Palermo?
(La Repubblica, 11 novembre 2007)
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