di GIORGIO PETTA
Tempi duri e futuro incerto per Cosa Nostra. Soprattutto dopo la cattura di Salvatore Lo Piccolo, «Totò u baruni», il boss incaricato di perpetuare il «modello corleonese» di un'organizzazione omogenea, verticistica e obbediente agli ordini del capo dei capi. Una politica criminale abbozzata alla fine degli anni '60 da Luciano Liggio ed ulteriormente elaborata ed affinata da Salvatore Riina «Totò u curtu» dieci anni dopo. Con il risultato finale – al termine della più sanguinosa guerra di mafia che la storia ricordi – di avere portato i «corleonesi» nella stanza dei bottoni. Praticamente da un quarto di secolo all'interno di Cosa Nostra e nei rapporti tra i boss di tutta la Sicilia la regola è che «non si muove foglia che Riina non voglia». Chi non ha accettato questo diktat – come i ribelli «stiddari» – ha pagato con al vita il suo dissenso.La Cosa Nostra partorita dalla testa e dalla volontà di Riina è un vero e proprio Stato capace di elaborare una politica e dotato – sia pure sul piano della più totale illegalità – di territorio, forze militari, apparato normativo, sistema fiscale e programma economico. Fu il giudice Giovanni Falcone, negli anni '80, ad intuire la pericolosità di questo disegno portato avanti con ogni mezzo dai «viddani» corleonesi. E fu ancora Falcone a capire – fra l'incredulità generale – che lo scontro tra questa Cosa Nostra e le Istituzioni avrebbe raggiunto punte di inaudita violenza. Per questa ragione chiedeva interventi ed iniziative per centralizzare – sul piano legislativo e su quello istituzionale – la lotta alla mafia di Riina cresciuta, come un cancro, nel tessuto della Nazione. L'eliminazione sistematica di uomini dello Stato e le stragi – le due di Capaci e di via D'Amelio seguite dalle altre di Firenze, Milano e Roma – hanno dimostrato quanto fossero corrette ed avvedute le analisi del magistrato palermitano.Formalmente Riina & soci hanno sempre rispettato la democrazia del voto a maggioranza negli organi «amministrativi» di Cosa Nostra. Ma l'esito di ogni decisione è stato scontato grazie al ferreo controllo del voto sia nelle Commissioni provinciali sia nella Cupola che ha approvato anche la strategia di attacco diretto allo Stato voluta dai corleonesi.Eletto capo dei capi nell'82 dopo l'uccisione del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, Salvatore Riina è in carcere, sottoposto al 41 bis, dal 15 gennaio 1993. Stando alle regole avrebbe dovuto dimettersi dalla carica per cederla ad un boss in libertà e quindi in condizione di gestire meglio gli affari e le necessità contingenti di Cosa Nostra. Invece nulla. Il capo è sempre lui pur avendo delegato Bernardo Provenzano a gestire, in sua vece, carica e funzioni. Dall'11 aprile 2006 anche Provenzano è in carcere e Salvatore Lo Piccolo si è dato da fare per subentrargli – sempre su delega di Riina – nell'incarico. Lunedì scorso in cella c'è finito pure lui, insieme con il figlio Sandro. Insomma, si ricomincia da capo. Tre i candidati in corsa, giovani e ambiziosi: Salvo Riina, figlio di «Totò u curtu»; Gianni Nicchi, «figlioccio» di Nino Rotolo; Pietro Tagliavia della cosca palermitana di Corso dei Mille. Se non ci sarà dissenso, la scelta di «Totò u curtu» sarà accettata e rispettata ancora una volta da tutti. In caso contrario, esploderà inevitabile il contrasto e non si può escludere un'altra guerra di mafia. Però i tempi non sono più quelli di 25 anni addietro e la reazione dello Stato si prevede che sarà dura e inflessibile. E allora? «I boss – spiega un investigatore esperto di cose di mafia – se avranno la possibilità sceglieranno di non scegliere. "Calati juncu ca passa la china", consiglia, infatti, la saggezza popolare. Magari in attesa di tempi migliori e con la speranza di ritornare a quella Cosa Nostra precedente l'avvento della tirannia di Totò Riina e dei corleonesi».
La Sicilia, 11.11.2007
lunedì 12 novembre 2007
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