giovedì 29 novembre 2007

Grasso e Fava difendono la fiction di Canale 5 "Il capo dei capi"

PALERMO - Ancora discussioni sulla fiction di Canale 5 "Il capo dei capi". Con una lettera pubblicata stamani da due quotidiani la vedova del funzionario di polizia Giorgio Boris Giuliano, Ines Maria Leotta, punta il dito sulla figura che emerge del marito, "che non corrisponde alla realtà". "Pur apprezzando il risalto dato alla figura di mio marito - scrive - deploro che gli autori o gli sceneggiatori non abbiano pensato di rivolgersi alla famiglia o alle persone più vicine per delinearne meglio la personalità. Mio marito era infatti molto diverso sin dai caratteri esteriori. Emerge dalla fiction un personaggio che segue lo stereotipo del siciliano: scuro, con folti baffi neri, che parla in dialetto e che usa il turpiloquio, un uomo dal temperamento passivo".La vedova di Boris Giuliano così prosegue: "mio marito non era per nulla così. Non era un uomo di mezza età, non parlava in dialetto stretto (non ci sarebbe stato nulla di male, ma semplicemente non era così). Inoltre non usava abitualmente il turpiloquio e non fumava. Era un uomo giovane (nel 1969 aveva 38 anni)". Secondo Ines Maria Leotta Giuliano suo marito "non aveva bisogno, come appare nel lavoro televisivo, di un inesistente Schirò" che lo spronasse a combattere la mafia". "Ben altro - scrive la vedova - se si fosse voluto rendere giustizia alla sua figura, poteva essere raccontato nella fiction: si poteva fare riferimento all'isolamento in cui fu lasciato, o ai rapporti che presentava e che restavano lettera morta nei cassetti della Procura"."Pur comprendendo che si tratta di una fiction - conclude la vedova Giuliano - è pertanto non necessariamente fedele alla realtà, penso che nel trattare un argomento così delicato andrebbe fatta una scelta: o utilizzare nomi e situazioni di pura fantasia, oppure, se si decidesse di riferirsi a personaggi realmente esistiti (usando il loro nome) e che, come in questo caso, hanno perduto la vita per lo Stato, ci si dovrebbe attenere alla realtà dei fatti sottoponendo la sceneggiatura ai familiari. Non mi sembra di chiedere troppo".Di parere diverso Pietro Grasso, procuratore nazionale antimafia: "Non si può nascondere la realtà. E' giusto che si conosca e che, magari, a corredo ci sia un modo per commentarla. Non sono d'accordo con la proposta di sospenderla, la fiction va trasmessa, e, contemporaneamente, dovrebbe essere discussa in famiglia, nelle scuole e ovunque si possa mettere in evidenza come la realtà della mafia porta solo sangue, morte e distruzione"."Non dobbiamo avere paura - ha proseguito - del rischio emulazione ma andare al cuore del problema. Se ha un difetto è che è stata trasmessa a puntate e in alcune potrebbe venire fuori il lato accattivante del personaggio. Se, invece, fosse stata raccolta in due ore si sarebbe arrivati subito alla morale che, secondo me, è più educativa di tutto il resto della fiction".Alle osservazioni del presidente dell'Osservatorio sui diritti dei minori, Antonio Marziale, secondo il quale "è meglio la pornografia di un fiction su Cosa nostra", risponde l'eurodeputato Claudio Fava, co-sceneggiatore de "Il capo dei capi": "Un'affermazione da codice penale. Rivela un disprezzo grossolano verso chi si è battuto in questi anni in nome del diritto di non tacere mai sulla mafia e sulle ragioni della sua impunità"."La mafia è violenza, ferocia, viltà; ma è anche potere, collusione, contiguità - aggiunge Fava -. Il torto de Il capo dei capi, secondo taluni benpensanti, è quello di avere restituito a Cosa nostra tutta la sua drammatica complessità. Il ministro Mastella avrebbe preferito un bel western, buoni e cattivi, saraceni e paladini, come in un'opera dei pupi. Ma la mafia è altra cosa. L'errore non è mai raccontare Cosa nostra ma non averla mai raccontata abbastanza"."L'errore - prosegue Fava - non è parlare dei mafiosi, ma parlare con i mafiosi o far loro da testimoni di nozze. L'errore è far credere che a Cosa nostra si possa opporre solo la rassegnazione. La nostra fiction è invece la storia di una scelta: sbirro o mafioso, macellaio o uomo libero, siamo noi che decidiamo da che parte stare. Forse è proprio questo senso di responsabilità che fa paura a qualcuno".
La Sicilia, 29/11/2007

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