giovedì 29 novembre 2007

In edicola col Giornale di Sicilia "Oltre il buio della mafia"

Sarà in edicola domani con il Giornale di Sicilia, a soli 2 euro, "Oltre il buio della mafia", il nuovo libro del giornalista Alfonso Bugea. Prefazione di Andrea Camilleri, con un riflessione del Vescovo di Agrigento Monsignor Carmelo Ferraro. Ecco, per gentile concessione dell'autore, un'anticipazione del libro che racconta la storia di Alfonso Falzone, un pentito di Cosa Nostra agrigentino. Nel brano che segue un'anteprima del libro, un dialogo tra il giornalista e il mafioso di Porto Empedocle che indica il pentimento come la "terza via" per uscire dalla mafia.

-Dicono che solo la morte e la galera possono liberare dall'appartenenza mafiosa?
«È la verità, ma per fortuna ora c'è il pentimento. È la terza via d'uscita! Difficile da percorrere, ma almeno ti tiri fuori da certi ingranaggi. Salvi te stesso e la famiglia».
-Se potessi mandare un messaggio al latitante Gerlandino Messina cosa gli diresti?
«Gli direi di costituirsi e collaborare con la giustizia. Ormai so che hanno arrestato diversi della sua famiglia. Gerlandino pentiti! Non rovinare e far piangere altre persone!»
-Quanti omicidi hai commesso.
«Commessi da me e compiuti insieme ad altri circa una ventina. Oggi sono il mio incubo è come se li avessi portati a termine ieri. Quelle scene, certi sguardi delle vittime, le urla, il rumore dello sparo, il sangue... non potrò dimenticarli mai».
-Hai mai provato pietà per qualcuna delle tue vittime?
«Per diversi di loro. In special modo per quelli che conoscevo. Salvatore Dalli Cardillo, per esempio, veniva a comprare da me il pesce per il suo ristorante. Quando ho saputo che doveva essere ucciso non potevo certo dire che era un mio caro amico. Tristezza e pena anche per la sorte di Salvatore Giugno, abitava nel mio stesso palazzo e le nostre mogli erano amiche. Io quella donna non riuscivo a guardarla negli occhi quando chiedeva notizie del marito scomparso. Il suo corpo venne trovato dopo un paio di giorni in un canneto».-Se incontrassi le mogli delle vittime, i figli orfani, chiederesti perdono...«Senza pensarci due volte».
-E pensi che loro accetterebbero? Credi che loro ti potranno perdonare o senti pesare sulla tua testa una sorta di maledizione?
«Io non posso dirlo. Spetta a loro decidere di essere capaci di perdonare. Io so che oggi, grazie anche all'aiuto dello Stato, sono diverso. Allora agivo preso dall'impulso e dall'obbligo di portare avanti ogni decisione del clan. Io oggi sono pentito e chiedo perdono. So che non è facile riuscire ad averlo. Ma io sento l'obbligo di chiederlo e sperare di riceverlo».
-La moglie di Pasquale Di Lorenzo ha augurato ai killer del marito "che le grida di dolore, soprattutto dei figli delle povere vittime colpevoli solo di fare il loro lavoro, diventino il loro incubo per il resto della loro misera vita".
«Non si può darle torto. Ha ragione, quello che ha scritto è giusto. Ma io sono fermo nella mia convinzione: ho sbagliato e chiedo perdono».
-Qual è l'episodio criminale che turba ancora i tuoi sonni e la tua coscienza?
«Il sequestro del piccolo Di Matteo. Sono stato il suo carceriere, ma non sapevo che doveva essere ammazzato. Se lo avessi saputo mi sarei ribellato».-Come?«Avrei fatto in modo che le forze dell'ordine lo trovassero».
-Prima di pentirti che giudizio davi dei collaboratori?
«Ti lascio immaginare! Gli aggettivi e gli insulti si sprecavano».
-E quando si è saputo di Pasquale Salemi qual è stata la tua reazione?
«Di disappunto, specialmente davanti alle altre persone del clan. Essendo io uno degli accusati non potevo certo parlarne bene. Su Salemi si disse di tutto e di più. Cercammo anche di ammazzarlo. Del resto successivamente hanno cercato di fare altrettanto con me».
-A Salemi avete anche fatto lo scherzo dei manifesti funebri con la scritta: «È morto al Policlinico Gemelli di Roma il signor Pasquale Salemi...».
«No, non è vero. Noi non ne sapevamo nulla. Quando è successo siamo rimasti contenti dell'iniziativa, ma non immaginavamo neanche chi avesse potuto organizzare questa bravata. Noi volevamo uccidere Salemi, lui e nessun altro. Cercavamo lui e non i parenti, che non c'entrano nulla in queste storie».
-Quanti figli hai?
«Una».
-Quando ti sei pentito tua figlia quanti anni aveva?
«Due anni e mezzo, ora ne ha quasi 12».
-Le hai detto la verità quando ti ha chiesto perché ha dovuto lasciare il paese?
«No, me lo ha chiesto più volte e io rispondo sempre per motivi di lavoro».
-Ha accettato di vivere con un cognome e un nome nuovi?
«Lei era troppo piccola e non aveva ancora imparato il suo cognome. Crescendo ha memorizzato quello nuovo e non pensa minimamente che possa averne un altro. Per garanzia le abbiamo cambiato anche il nome».
-E quando glielo avete detto qual è stata la sua reazione?
«Per la verità non glielo abbiamo stravolto. Ora ha un diminutivo di quello registrato all'anagrafe di Porto Empedocle. Glielo abbiamo modificato leggermente. Ma è bastato a darle una nuova identità».
-Le è venuto mai un dubbio, un sospetto?
«No, mai».
-Ma come si spiega che tu stai sempre a casa e non lavori?
«Lei la mattina va a scuola e io ho il permesso per accompagnarla. Quando le lezioni finiscono è già pomeriggio e io vado a riprenderla come fa ogni papà all'uscita dall'ufficio. E insieme torniamo a casa».
-Prima o poi questa situazione, però, non potrà reggere. Arriverà il momento in cui le risposte di oggi non basteranno e vorrà sapere...
«Lo so. So che la sua ricerca della verità mi metterà con le spalle a muro. Quello sarà il momento più difficile della mia nuova vita. Io spero di trovare le parole giuste. Spero di trovare in lei comprensione e aiuto. Non sarà facile! Spero che possa non solo capire i miei errori, ma soprattutto lo sforzo che ho fatto per allontanare lei e tutta la famiglia dalla mafia».
Calogero Giuffrida

29 novembre 2007

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