mercoledì 28 novembre 2007

CONTROVENTO. FERMATE IL MINISTRO!

di Claudio Fava
Clemente Mastella chiede la sospensione della messa in onda dell'ultima puntata del Capo dei capi.
Non l'ha mai visto, spiega ai giornalisti, ma gli hanno detto che quella fiction va fermata. Proviamo a spiegare perchè chi va fermato è lui: il signor ministro.
Insomma: questo “Capo dei Capi” fa paura. Inquieta, seduce, confonde. Posso provare a capirne le ragioni. Soprattutto se mi spoglio dei panni facili di sceneggiatore e torno a rivestire quelli affaticati di siciliano. Quando ammazzarono mio padre, mi sforzai di pensare che quegli assassini appartenevano a un altro mondo, a un’altra vita. Macellai, pensai. Gente capace solo di spararti alle spalle. Per un po’ quella visione da giardino zoologico mi consolò: noi e loro. Noi, i giusti; loro, i carnefici. Era un modo per restare in vita, per dare un senso al dolore, per non affogare nell’autocommiserazione.
Poi, con il tempo, cercai di capire. Mi dedicai a ricostruire tutto quello che c’era da sapere: il killer che spara i suoi cinque colpi con una 7,65; il finestrino dell’auto che vola in frantumi; il tramestio osceno di quelle pallottole nella testa di mio padre… Volli sapere anche quello che accadde dopo. Perché c’è sempre un dopo, anche se ci piace pensare che tutto finisca con l’oltraggio della morte. Per esempio quello che s’erano detti gli assassini dopo l’ammazzatina. La bottiglia di champagne nel retrobottega di un benzinaio, il brindisi ai “due piccioni con una fava”, poi la fine della festa. Disse dieci anni dopo uno di loro al giudice: “S’era fatto tardi. Mi feci accompagnare alla macchina e me ne tornai a casa”.
Per anni quella frase mi ha perseguitato: “S’era fatto tardi”. Quell’uomo aveva appena ucciso un altro uomo, aveva brindato alla sua morte. E poi era tornato a casa sua. Dalla moglie, dai figli. S’era fatto tardi… E' stato allora che ho imparato a pensare ai mafiosi non come animali da circo ma come uomini tra gli uomini. Capaci di ferocia e di abitudini, di famiglia e di morte. Era un’immagine della mafia che non indulgeva alla caricatura ma che si misurava con la banalità del male. Con il suo fascino, perfino: perché negarlo? Per i picciotti della mia città, quelle cinque pallottole ficcate nella nuca di un uomo inerme saranno sembrate un atto epico, una cosa da dire e da vantare.
Ci fa paura raccontarla così la mafia? Preferiremmo immaginare uno come Riina soltanto come una caricatura quando agita parole sgrammaticate dal fondo di una gabbia in corte d’Assise? Ci fa paura raccontare questo criminale per ciò che davvero è stato? Il figlio di un bracciante con la fame incrostata sullo stomaco, uno che da quella fame da miserabile è partito alla conquista del mondo, senza regole che non fossero le sue regole, senza principio che non fosse la propria impunità, con l’istinto animale di chi sa colpire sempre per primo…
Insomma, che cosa si cerca in una fiction che racconta cinquant’anni di storia italiana, e dentro questa storia disperata e violenta cerca di spiegarci perché quell’ometto da niente è diventato il Capo dei capi: parole consolanti? Prediche? I buoni sentimenti? Forse a dar fastidio a taluni non è Riina quanto il racconto della sua impunità, la mafia che si fa potere, collusione, tolleranza. Colpa di questa fiction è aver mostrato chi ha permesso a quell'ometto di diventare il capo dei capi: i suoi sodali politici, gli amici degli amici... Dice uno dei protagonisti dello sceneggiato, raccontando la Sicilia di quegli anni: “Qui se tocchi la mafia tocchi la Dc, e se tocchi la Dc tocchi la chiesa: ecco perché nessuno vuole fare la guerra contro Cosa Nostra”. Una verità storica: eppure io, una frase così, in uno sceneggiato televisivo non l'avevo mai sentita pronunciare. Mai! Magari Mastella vorrebbe fermarla proprio per questo, la sesta puntata: per non dover sapere e vedere chi ammazzò Falcone in vita, prima che lo faccessero i corleonesi a Capaci.
Siamo abituati a tagliare la vita a colpi d’accetta. Buoni e cattivi, come in una parodia da film western. Non ci piace immaginare la normalità del male, la sua prossimità. Vorremmo che tra noi e loro ci fossero non cento passi ma oceani, continenti, distanze siderali. Peccato che la realtà si nutra di penombre, contiguità, zone grigie. Ho letto che qualche ragazzino gioca a scuola a fare Totò Riina, che gli piace identificarsi nella figura di un uomo che comanda la morte degli altri uomini: di chi è la colpa, di chi racconta la storia di Riina o di chi non riesce a offrire a quei ragazzini altri modelli? E per far contento il ministro Mastella, che dovremmo fare: volgere in farsa questo mezzo secolo di storia? Ridurre tutto a un gioco di pupi siciliani? I saraceni, i paladini, la bella Angelica…
“Il capo dei capi” non è un romanzo d’appendice sulla famiglia Riina: è una fiction sul potere. Potere mafioso. Con le sue ambiguità, i suoi linguaggi, le sue seduzioni. E’ la storia di un contadino di Corleone che per trent’anni ha tenuto sul palmo della mano il destino delle cose e degli uomini. Ma è anche il racconto di un libero arbitrio: perché in quei cento passi che ci separano da loro, spetta a ciascuno di noi decidere cosa fare della nostra vita. Sbirro o mafioso, macellaio o uomo libero. Chissà che a infastidire qualche benpensante non sia proprio questo cocciuto, onesto richiamo al nostro senso di responsabilità.
Itacanews, 27.11.2007

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