«Quella parte della storia che i dotti non hanno scritto, ma che il popolo ha lasciato nei suoi costumi, nelle sue usanze, nelle sue credenze, nei suoi riti». Così, Giuseppe Pitré, indiscusso padre della scienza demologica in Italia, definiva quella sfera, per secoli considerata minore, eppure sempre viva e perpetrata attraverso le tradizioni. Parlare di riti e di credenze, a Palermo, significa parlare di Santa Rosalia. Sulla sua vita, sulla morte, sul ritrovamento dei suoi presunti resti, sui suoi miracoli, leggenda e realtà si rincorrono, aggiungendo al culto, ancora molto forte nei palermitani, un´aura di mistero, perfetta nella terra dove la fantasia e la cronaca hanno spesso labili confini.
Il forte bisogno di credere, allora come oggi, fu persino più tenace della realtà: la fine dell´epidemia di peste, tradizionalmente legata al culto della santa, in realtà non finì al momento del ritrovamento delle reliquie, bensì, così come testimoniato dagli archivi comunali, oltre due anni dopo. Eppure, a dispetto della realtà, la città volle dotarsi del suo miracolo, e tanto bastò allora e tanto basta oggi a quanti le si rivolgono con il cuore colmo di dolore e speranza.
Ed il culto della Santuzza, nei secoli, si è arricchito di riti, tradizioni, formule, divenuti strumenti per dominare gli eventi, sottolineando quell´intreccio di pagano e di cristiano che c´è in un ex voto, forte momento contrattuale, dove si offre un oggetto o un sacrificio per una grazia da chiedere o già ottenuta. Così come ripercorre gli antichi rituali precristiani l´odierna "acchianata", la salita al santuario di Monte Pellegrino, con tutta la simbologia che l´accompagna, dai ceri alla montagna sacra, dalla grotta al dormire all´addiaccio.
E quanto, sin da subito, questa santa sia entrata nel cuore dei palermitani, è testimoniato da come sia divenuta Patrona della città, sbaragliando in un colpo solo, le quattro sante che si dividevano il ruolo e resistendo agli attacchi di San Benedetto il Moro.
E proprio le poche ed incerte notizie biografiche sulla romita hanno contribuito alla nascita di storie, racconti o romanzi come questo di Roberto Tagliavia, recentemente pubblicato. "Rosalia da Palermo" (Ispe Editrice, pagine 365, 15 euro), caratterizzato da una scrittura elegante anche se, a tratti, turbata da un ritmo eccessivamente lento soprattutto nelle descrizioni, è un libro che si muove su due piani. Quello seicentesco, che vede una Palermo messa in ginocchio da un´epidemia di peste particolarmente virulenta, che vide cadere vittima del contagio, nel 1624, anche lo stesso vicerè Emanuele Filiberto, e quello del Millecento, epoca di splendore economico e culturale per il Regno di Sicilia, ma anche segnata da rivolte come quelle dei baroni in aperto contrasto con il potere centrale.
Tagliavia, appartenente ad una famiglia le cui attività marittime sono una tradizione cittadina, ha legato il suo nome ad una militanza politica che l´ha visto per anni impegnato nell´allora partito comunista, militanza che non gli ha impedito di avere una posizione di credente "laico". Una profonda crisi personale, che lui stesso racconta con coraggio e commozione, l´ha portato alle soglie di una decisione estrema e definitiva, dalla quale, l´incontro con una strana e misteriosa donna, l´ha fatto desistere. Un miracolo della santa? La risposta di Tagliavia è questo libro, come lui stesso spiega. «Pensai che potesse essere una vicenda da raccontare in modo nuovo, anche se, non essendo uno scrittore e sapendone poco, mi stupivo che una tale urgenza potesse incalzarmi dentro in modo tanto esigente. Scoprii così che la leggenda della Santa era cominciata da un cacciatore sull´orlo del suicidio, fermato da una fanciulla. Rimasi di stucco. Un filo svolazzante, quasi un ricciolo barocco, aveva liberamente percorso i secoli, i quartieri della città, storie e vite differenti, legando tra loro cose inaccostabili ed arrivando fino a me».
La ricerca di Tagliavia prende le mosse da una sorta di fastidio provocato in lui dal Festino, definito «la barbarie pagana» e da quei fenomeni di passione collettiva generati da una «santa inesistente». Cerca, soprattutto, una spiegazione sul perché una ragazzina di nobile stirpe normanna, ospitata alla corte del re, se ne allontani per una scelta così assoluta e insostenibile come quella dell´eremitaggio. E la risposta che Tagliavia si immagina, è legata ad una storia che vede la madre di Rosalia coinvolta in una relazione con il capo di una rivolta contro il re Guglielmo il Malo con la conseguente reazione paterna e la sua scia di sangue. Ma è determinata anche dal vedere la sua migliore amica morire dissanguata per un aborto al quale viene costretta dalla madre; dalle molestie subite dalla stessa Rosalia da parte del Siniscalco al quale era stata affidata dalla famiglia e dal vedere lo zio vescovo impugnare la spada e uccidere come un qualsiasi soldato senza Dio. E l´amarezza per un mondo pervaso di violenza ed ipocrisia portano la giovane figlia di Sinibaldi a rifiutare anche l´ipotesi di chiudersi in convento: «Dio l´ho incontrato nella vita; nei conventi non ho incontrato nulla di diverso o particolare, ma la stessa fatica a capire Dio, a trovare il filo del suo messaggio, ed anche tante brutture come nella vita di tutti».
Elementi molto forti, dunque, alla base di una scelta così radicale, che, tuttavia, nella revisione storica, già nel 1625 per volontà del cardinale Giannettino Doria, furono depurati da qualsiasi possibile riferimento a vicende di contrasti familiari o prese di distanza dalle autorità religiose dell´epoca.
ANTONELLA SCANDONE
La Repubblica Palermo, giovedì 19 giugno 2008
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