giovedì 28 febbraio 2008

Carriera di un aspirante boss, tra bravate, pizzo e affari

IL RITRATTO. La strada di Giuseppe Riina, un "figlio eccellente" della mafia. Le intercettazioni, i soldi facili, il disprezzo dopo l'attentato di Capaci

di ENRICO BELLAVIA

Duro, sprezzante, conscio di portare un cognome che gli avrebbe spianato la strada, Giuseppe Salvatore Riina, lascia il carcere di Sulmona a due mesi dal suo trentunesimo compleanno. Il fratello Giovanni resta dentro con un ergastolo. A lui è andata meglio. Una condanna per mafia ed estorsione, l'annullamento senza rinvio per il secondo reato contestatogli, una pena a 8 anni e 10 mesi e tre anni trascorsi tra il primo grado e l'appello gli restituiscono anzitempo la libertà.

In carcere c'era finito nel giugno del 2002. Due anni dopo gli avevano contestato la partecipazione allo sterminio di una famiglia di Corleone insieme con il fratello. L'accusa che lo vedeva assassino a 17 anni era poi caduta. Scalpitava e tanto per tornare libero già da mesi, Giuseppe Salvatore Riina, per tutti Salvuccio. Lo avevano intercettato mentre pronunciava frasi ingiuriose nei confronti di Falcone e Borsellino e al processo, giocando il ruolo del figlio oppresso da un cognome ingombrante, aveva anche fatto pubblica ammenda per quelle offese. Non gli era bastato a evitare una condanna pari quasi al doppio di quella definitiva.
Altre e decisive prove della smania di seguire le orme del padre aveva rassegnato alle microspie. Era caduta così anche la patina di rispettabilità che aveva provato a darsi commerciando in macchine agricole con la Agrimar, la società che aveva aperto insieme con il cognato piazzandosi in un capannone industriale con la facciata a vetri proprio all'ingresso di Corleone. Gli investigatori lo avevano ascoltato raccontare di affari, di soldi facili fatti con il pizzo e le forniture sugli appalti, di gare d'appalto combinate e del destino amministrativo della sua città.

Aveva in odio il sindaco ds Giuseppe Cipriani, uno dei più dubbiosi sull'effettiva riabilitazione dei figli di Riina. Proprio Cipriani aveva accolto quei ragazzi in municipio, quando, dopo l'arresto del padre erano tornati dalla clandestinità, nel 1993. Aveva avvertito sulla necessità di evitare che le colpe del superboss ricadessero sui figli. Ma i rampolli di Riina avevano subito rivelato ben altre aspirazioni. Il danneggiamento della lapide di Falcone e Borsellino nella piazza di Corleone, diverse altre spacconate, le corse in motorino, le risse in discoteca avevano gelato le speranze di quanti speravano che il terzogenito di Totò u'curtu sfuggisse al suo destino.

Il resto lo hanno fatto le intercettazioni nella sua auto. Durante i lunghi viaggi in giro per la Sicilia a combinare affari, parlando con amici fidati, ragionava a tutto campo di mafia e antimafia. A Riesi parlava di Giuseppe Di Cristina, il boss ucciso perché sospettato di essere un confidente: "Faceva all'antica - diceva Riina jr - dove non arrivava con la testa arrivava con le corna". A Gela raccontava della guerra alla stidda decretata dal padre: "Un macello".

A partire dal furto telematico di milioni di euro ai danni del Banco di Sicilia, Riina Jr era entrato in affari con Gianfranco Puccio, suo amico di infanzia e puntava a "riempirsi i sacchittuna con i soldi illeviti (riempirsi le tasche con i soldi facili" . Per questo dava lezioni di economia, invitando i soci a fatturare acquisti con l'Agrimar: "Tu devi anche sapere... riciclare, i soldi quelli "illè" (in nero, ndr), li puoi fare spuntare "original"". Aggiungeva che "i soldi non si tengono sotto il mattone, perché altrimenti fetono (puzzano) e allora bisogna movimentarli".

Teneva fede al patto di una Corleone tranquilla, dove neppure la droga circola, a costo di sforacchiare a pistolettate l'auto di uno spacciatore riottoso. "L'ordine qui sono io", ricordava con spocchia a un benzinaio a corto di carburante che si giustificava sostenendo che le esigue scorte gli servivano per le forze dell'ordine.

Analizzava a suo modo la crisi delle casse mafiose. E a Salvatore Cusimano diceva: "Se tu pensi quello che ha fatto mio padre, allora io oggi dico con quello che ha fatto mio padre di pizzo, allora oggi noialtri neanche possiamo fare l'uno per cento. C'era più benessere, i soldi si facevano, oggi vedi che non si possono fare più".

Aveva del resto una sua idea sulla dissociazione dei boss e rivendicava con orgoglio: "Noi putroppo siamo quelli all'antica, noi ci mangiamo la galera". È quello che ha sempre pensato del padre e dello zio Leoluca Bagarella: "Linea dura!! Ne pagano le conseguenze, però, sono stati uomini, alla fin fine". Passando per l'autostrada di Capaci commentava: "A maggio ci fu sta strage, a luglio l'altra e poi a gennaio hanno arrestato a mio padre. Perché io non so come sarebbe andata a finire, si o statu poi un ci avissi fatto calari i corna". Ed ecco come vedeva la repressione del dopo stragi causata dal clamore degli attentati: "Purtroppo ci fu troppo accanimento, e poi che "sciddicò (scivolò, ndr) a palla", "sciddicò u peri" nel momento giusto". L'intento delle stragi era chiaro: "Perché noi le corna gliele facevamo a tutti i compagni e dirgli "qua in Sicilia ci siamo noi", forse da là sopra in poi ci siete voi, "ma cca semu nuatri".

(la Repubblica, 28 febbraio 2008)

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