di Salvatore D'Anna
Qualcuno vuole fare passare il presidente della Regione Raffaele Lombardo come un politico innovatore, bloccato però da un parlamento che gli mette i bastoni tra le ruote. Per Antonello Cracolici, capogruppo del Pd all’Assemblea regionale siciliana, è un grande inganno. Lombardo è piuttosto un temporeggiatore, che trascina la sua esperienza di governo anche se non ha più una maggioranza che lo sostiene. Intervistato da SiciliaInformazioni Cracolici affronta i temi caldi della politica siciliana, non tralasciando di parlare del Pd, partito appena nato ma che “andrebbe rifatto”.
All’Assemblea regionale siciliana in questo momento regna la confusione. Mpa e governo da una parte, Pdl e Udc dall’altra. Il Pd sembra stare nel mezzo. Che sta succedendo?
La verità è una. La Sicilia in questi anni ha avuto una maggioranza che “gestiva” la Regione. Mai il centrodestra si era posto il problema di introdurre elementi di riforma nel sistema. Adesso stanno venendo i nodi al pettine: sanità, rifiuti, tra un po’ ne verranno altri, a partire dalla formazione professionale, la riforma della macchina della Regione che si è varata ma non è stata ancora attuata. Si sta manifestando in tutta la sua drammaticità che questa alleanza di centrodestra non ha un’idea comune su nulla. È una maggioranza che si è messa insieme nell’intento di gestire il potere. Quando il potere ha avuto bisogno, per essere gestito, di essere cambiato, si è innescato un cortocircuito. Sta crescendo, inoltre, un sentimento di litigiosità al loro interno che è difficile ricomporre.
Come si esce da questa situazione?
Mi pare che il presidente della Regione abbia un dovere. Lui non può continuare a galleggiare, non può pensare che questa sia la strada per andare avanti. Proseguire a tenere in vita un’alleanza che è in evidente stato di coma è da parte di Lombardo un atto di profonda irresponsabilità. La conseguenza è che da un mese e mezzo la giunta non viene convocata, e non esiste decisione su cui non si celebra uno scontro durissimo. Stanno paralizzando la Sicilia. Il presidente della Regione ha l’obbligo di dichiarare la fine politica di questa maggioranza, prendere atto che non esiste più e comportarsi di conseguenza. Non si può continuare a fare finta che quello che sta succedendo sia un semplice fuoco di paglia. La maggioranza è collassata perché i partiti di centrodestra non hanno un’idea comune su come gestire la Sicilia.
Il capogruppo dell’Udc all’Ars, l’onorevole Rudy Maira, l’ha attaccata dichiarando: “Cracolici non esercita il diritto che spetta alle opposizioni, quello di chiedere le dimissioni del capo del governo. Forse pensa a maggioranze variabili”.
È singolare che l’onorevole Maira dica a me di chiedere le dimissioni del presidente della Regione. Vista la situazione politica in atto, dovrebbe invece chiedere ai suoi assessori di riferimento di uscire dalla giunta. L’Udc forse pensa di mantenere il piede in due scarpe, gestendo da una parte e entrando in conflitto dall’altra. Questa è schizofrenia politica, recitare più parti all’interno di una commedia. Sono a sostegno del governo? Lo dimostrino. Sono in conflitto? Prendano atto di non fare più parte di questa maggioranza. Il Pd ha votato con il governo solo quei testi, come quello degli Ato, da noi stessi proposti. E aggiungo che in queste ore il problema non è chiedere le dimissioni di Lombardo, ma prendere atto che il presidente ha un governo espressione di una maggioranza che non c’è più, che non esiste. Forse la prima cosa che bisogna chiedere sono le dimissioni del governo.
Molti dei passi futuri di governo come l’approvazione del bilancio regionale, sono legati ai fondi Fas. Quanto “pesano” Lombardo e l’Mpa a Roma, dove fanno parte dell’esecutivo nazionale, alla luce di quanto accade oggi in Sicilia?
La situazione è tragicomica. C’è un presidente della Regione che rivendica l’autonomia, ma che ha legato il destino e le azioni del suo governo alle decisioni di Silvio Berlusconi, con la conseguenza che anche il potere di rappresentanza e di difesa degli interessi della Sicilia sono legati alla “generosità” del premier. Lombardo sta commettendo un tragico errore, cioè ritenere che il rapporto con lo Stato possa essere basato su questi presupposti. Io lo chiamo ascarismo, non rivendicazione dell’autonomia. L’Mpa sta indebolendo il profilo della Sicilia. Mai un governo aveva deciso di legare il suo Bilancio alle decisioni di quello nazionale. Lombardo, inoltre, prima critica le decisioni di Berlusconi, ma poi non fa mai mancare il suo voto al Parlamento nazionale. Questo mi pare trasformismo.
C’è chi vede Lombardo come l’uomo delle riforme. Lei che ne pensa?
Vedo un desiderio di riforme, ma anche una sostanziale paralisi nell’azione. Quello del presidente della Regione innovatore che viene bloccato da un parlamento conservatore è un grande inganno. Noi abbiamo in realtà un presidente che in questi otto mesi ha dimostrato di essere un temporeggiatore. L’unica decisione che assume è il rinvio di ogni decisione. Non c’è atto azione che non sia frutto di un’estenuante rinvio. Forse il presidente della Regione pensa che il tempo lo aiuti a stancare i suoi avversari. Questa tecnica non fa i conti con una regione che ha dei problemi che vanno affrontati e risolti subito.
Alcuni deputati del Pd, Apprendi e Barbagallo, hanno sollevato il problema dei costi della politica regionale, tra missioni e indennità ai deputati.
Le ragioni poste dall’onorevole Barbagallo non possono essere liquidate come demagogia. Ogni volta che viene posto un problema sulla sobrietà che il sistema politico ha il dovere di avere, c’è chi ritiene che porre questo tipo di tematiche sia pura demagogia. È un atteggiamento inaccettabile. Con altrettanta nettezza devo dire però che non mi convince anche chi di fatto favorisce una campagna tesa a rappresentare chi fa politica come una sorta di criminale. Le indennità che percepiscono i deputati regionali, equiparate a quelle dei senatori, sono state fissate da una legge istituita nel 1962. Non è una decisione presa di recente e costituisce un parametro, nel bene e nel male. E io dico “meno male!”. Se non ci fosse stata, nel corso di questi 47 anni chissà dove saremmo arrivati. Tra l’altro negli ultimi sei anni l’assemblea regionale non ha volutamente adeguato gli aumenti che si sono attuati in Senato, per cui oggi noi abbiamo delle indennità che sono inferiori a quello dei senatori. Rappresentare il tema dei costi della politica come un tema di chissà quale dimensione criminale non è corretto.
Resta comunque il fatto che le indennità per i deputati che fanno parte della commissioni esistono.
Credo che la politica debba dare un livello di accettabilità alle sue azioni. Barbagallo ha posto un esempio. Si può costituire una commissione, come quella dello Statuto, che si è riunita pochissime volte in sei mesi e dove ci sono delle indennità che i deputati che ne fanno parte percepiscono? Se le commissioni si fanno devono servire a qualcosa, non solo a elargire indennità. È un ragionamento che condivido.
A marzo ci saranno le primarie per scegliere il nuovo segretario regionale del Pd. Un partito unico, ma è innegabile che esistono due correnti, quella che fa riferimento agli ex diessini e quella che invece raccoglie gli uomini della Margherita. Lei come vive il Pd attuale?
Lo vivo male perché vedo dei pericolosi passi indietro. Non solo non c’è l’amalgama, ma addirittura vedo rischi di irrigidire dentro profili identitari ciò che era l’esperienza dei Ds e della Margherita. Io credo che bisogna rilanciare il progetto del Pd. Oserei dire che bisogna rifare il Pd, forse in Sicilia bisogna addirittura ancora farlo, superando alcune suggestioni e scorciatoie con cui abbiamo costruito il partito. Pensare che le primarie fossero il fine di questo partito e non un mezzo per selezionare la sua classe dirigente rischia di indebolirci. Le primarie durano un giorno. Bisogna fare politica, costruire consenso, fare sentire il partito come una comunità di valori, di idee condivise. Rischiamo invece di costruire un modello che è quello del “partito della domenica”, che si esalta il giorno delle primarie e poi negli altri giorni affida la sua politica a un ceto molto ristretto.
Ha nostalgia dei vecchi partiti?
Quel modello ideologico non esiste più. Penso che un partito oggi debba promuovere nella società un’idea condivisa delle soluzioni da dare ai problemi. Le modalità non devono essere per forza quelle del passato, penso a un luogo di appartenenza. Io adesso non la vedo, non solo nel Pd. Dobbiamo decidere cosa vogliamo. Ci muoviamo all’interno di dinamiche molto ampie, Stato, Ue, pensare di risolvere tutto con una verniciatina di sicilianismo non porta da nessuna parte. Dobbiamo rappresentare la bella Sicilia, il Pd deve essere un partito che parla più il dialetto e meno la lingua italiana, perché il dialetto sia compreso nel resto del Paese, non per continuare a parlare tra di noi.
SiciliaInformazioni.com, 31 gennaio 2009
sabato 31 gennaio 2009
De André poeta ribelle
di Alberto Dentice
Un cantautore che non raccontava sogni ma la realtà. Che amava gli emarginati. E non sopportava il conformismo. Da riscoprire con 'L'espresso'
Non sono 'un cantante bene', non sono 'un intellettuale'. Sono solo uno che scrive canzoni guardandosi intorno. Questa breve dichiarazione del 1967, l'anno in cui uscì il suo primo Lp, 'Volume 1', illumina meglio di tanti discorsi celebrativi la poetica di Fabrizio De André. E dopo molti anni chiarisce anche a noi, adolescenti di allora, le ragioni di una fascinazione che non è mai finita. De André non era un fabbricante di sogni e diversamente da tanti altri cantautori, non lo sarebbe mai stato. Questa differenza è stata chiara fin da subito. Faber, come lo chiamavano gli amici, aveva il virus della realtà. "C'è chi dice che questo di far sognare sia il compito di noi artisti: ma allora chi resta a raccontarci la realtà? I giornali?", chiedeva: "Io non vendo sogni: i sogni si sognano, la realtà si racconta". Questione di sguardo, appunto. Quello di Fabrizio De André è lo sguardo di un vero poeta. Uno sguardo che non giudica. Ma capace piuttosto di immergersi nei mari dell'esistenza per osservarla dal profondo. Uno sguardo colmo di pietas nella sua sincera essenza anti-borghese e anarchica. L'odio per l'ipocrisia, l'esaltazione dei diseredati, la ribellione alle ingiustizie, il gusto profondo della libertà. Di questo parlano le sue canzoni e lo fanno con un linguaggio colto e al tempo stesso diretto e comprensibile a tutti. Il fatto che non finisce di sorprendere è che anche nelle sue invettive più violente contro il potere o l'assurdità della guerra - pensiamo solo a 'La guerra di Piero' - non andasse mai perduta la dolcezza dello sguardo e della voce. Come se la consapevolezza del dolore, della condizione umana, avesse fatto maturare in lui non tanto un senso religioso della vita, quanto una profonda spiritualità laica in grado di accogliere sotto il segno della poesia amore sacro e amore profano, l'uomo giusto e il delinquente, in un unico umanissimo abbraccio. E che questo non fosse un vezzo poetico, una posa romantica, abbiamo avuto modo di constatarlo direttamente l'unica volta che abbiamo incontrato De André, nel 1981, in occasione dell'uscita dell''Indiano', primo album realizzato dopo il sequestro subìto da lui e Dori Ghezzi da parte dell'Anonima sarda. Un'esperienza che lo aveva profondamente segnato. Eppure, nel raccontare di quel suo soggiorno forzato all''Hotel Supramonte', come lo chiamava, non uscì mai una parola se non di solidarietà e comprensione nei confronti dei sequestratori. Anche per questo, a dieci anni dalla scomparsa, De André ci manca da morire. Ma al di là delle tante celebrazioni in suo onore, la spettacolare mostra di Genova, le maratone televisive, il modo più giusto per ricordare un artista come lui che ha sempre viaggiato "in direzione ostinata e contraria" è quello di riproporre l'ascolto del suo meraviglioso canzoniere. Questo è lo scopo di 'Fabrizio De André - L'opera completa', la collezione dei 14 cd originali da studio che, a partire dalla prossima settimana, accompagneranno in edicola 'L'espresso' e 'la Repubblica'. "La maggior parte delle mie canzoni nasce come brevi racconti", diceva De André: "È la materia stessa del narrare a suggerirmi la musica". Il metodo che avrebbe poi seguito durante tutta la carriera si dimostra validissimo fin dal primo lp, 'Volume 1', nel quale confluiranno anche canzoni scritte diversi anni prima. Mentre una pietra miliare come 'La guerra di Piero' all'inizio passò quasi inosservata "per poi essere riscoperta qualche anno dopo, quando anche il verbo 'pacifista' e politico inizia a circolare nelle canzoni", come ricordano opportunamente Gino Castaldo ed Ernesto Assante nel libretto che accompagna questa prima uscita. O, caso ancora più clamoroso, 'La canzone di Marinella' curata da Giampiero Reverberi, che invece uscì come lato B di 'Valzer per un amore' e dovette attendere la versione di Mina per diventare uno dei brani più popolari del canzoniere italiano del Novecento. La prima canzone dell'album 'Preghiera in gennaio' prende spunto da un tragico riferimento, il gennaio del 1967, quello in cui morì Luigi Tenco. A quel cantautore suicida non volevano fare il funerale, ci volle la dispensa del vescovo. E così De André compose per l'amico versi che ancora oggi suonano come un potente 'j'accuse' verso i difensori di un cattolicesimo bigotto: "Quando attraverserà l'ultimo vecchio ponte ai suicidi dirà, baciandoli alla fronte, venite in Paradiso, là dove vado anch'io, perché non c'è l'inferno nel mondo del buon Dio". Questo spirito anarchico e ribelle Fabrizio lo aveva attinto dalla canzone francese. Ma era soprattutto Georges Brassens l'ispiratore delle sua irriverente poetica anti-borghese. La traduzione di una canzone come 'Marcia nuziale', ad esempio, sta lì a testimoniare l'incondizionata ammirazione del discepolo verso il maestro. Ma per De André il motore dell'ispirazione è prima di tutto la realtà. "Una canzone come 'La guerra di Piero'", ricordava in una intervista nel 1979, tratta dall'autobiografia 'Una goccia di splendore' a cura di Guido Harari, "è nata dai racconti di uno zio che si era fatto la Seconda guerra mondiale in Albania". Anche 'La canzone di Marinella' è ispirata alla cronaca di una prostituta uccisa e gettata nel fiume. E così altri personaggi entrati nel nostro patrimonio genetico attraverso le canzoni di Faber. La ragazza che ispirò 'Bocca di Rosa' entrò a casa sua un pomeriggio in cui i genitori erano fuori: "Non è una puttana, è una che ama e si fa amare. E sa che l'amore migliore è quello che non ha futuro". 'Via del Campo', invece, nacque da una boccaccesca disavventura nelle vie malfamate di Genova: "Quando la bella ragazza tirò fuori la carta d'identità scoprii che si chiamava Giuseppe. Fu uno choc. Oggi non se ne stupirebbe nessuno".A raccontare la genesi di 'Carlo Martello' (1962 ) ci pensa invece il coautore, Paolo Villaggio, nell'affettuoso ricordo dedicato all'inseparabile compagno di bohème che compare nel libretto allegato a 'Volume 1'. Villaggio accenna a una notte buia e tempestosa, a un branco di giovani 'fannulloni' affamati e senza una lira. E a un topo morto che l'amico Faber avrebbe inghiottito per vincere una scommessa. Poi prese la chitarra. "'Suono un po' così mi passa'... 'Che bello questo motivo, dico, sembra musica trovadorica'. 'Tu che sei un maniaco di storia medievale', mi dice, 'scrivimi le parole...'" E cominciamo: 'Re Carlo tornava dalla guerra l'accoglie la sua terra cingendolo d'allor...'".
(L’Espresso, 30 gennaio 2009)
Un cantautore che non raccontava sogni ma la realtà. Che amava gli emarginati. E non sopportava il conformismo. Da riscoprire con 'L'espresso'
Non sono 'un cantante bene', non sono 'un intellettuale'. Sono solo uno che scrive canzoni guardandosi intorno. Questa breve dichiarazione del 1967, l'anno in cui uscì il suo primo Lp, 'Volume 1', illumina meglio di tanti discorsi celebrativi la poetica di Fabrizio De André. E dopo molti anni chiarisce anche a noi, adolescenti di allora, le ragioni di una fascinazione che non è mai finita. De André non era un fabbricante di sogni e diversamente da tanti altri cantautori, non lo sarebbe mai stato. Questa differenza è stata chiara fin da subito. Faber, come lo chiamavano gli amici, aveva il virus della realtà. "C'è chi dice che questo di far sognare sia il compito di noi artisti: ma allora chi resta a raccontarci la realtà? I giornali?", chiedeva: "Io non vendo sogni: i sogni si sognano, la realtà si racconta". Questione di sguardo, appunto. Quello di Fabrizio De André è lo sguardo di un vero poeta. Uno sguardo che non giudica. Ma capace piuttosto di immergersi nei mari dell'esistenza per osservarla dal profondo. Uno sguardo colmo di pietas nella sua sincera essenza anti-borghese e anarchica. L'odio per l'ipocrisia, l'esaltazione dei diseredati, la ribellione alle ingiustizie, il gusto profondo della libertà. Di questo parlano le sue canzoni e lo fanno con un linguaggio colto e al tempo stesso diretto e comprensibile a tutti. Il fatto che non finisce di sorprendere è che anche nelle sue invettive più violente contro il potere o l'assurdità della guerra - pensiamo solo a 'La guerra di Piero' - non andasse mai perduta la dolcezza dello sguardo e della voce. Come se la consapevolezza del dolore, della condizione umana, avesse fatto maturare in lui non tanto un senso religioso della vita, quanto una profonda spiritualità laica in grado di accogliere sotto il segno della poesia amore sacro e amore profano, l'uomo giusto e il delinquente, in un unico umanissimo abbraccio. E che questo non fosse un vezzo poetico, una posa romantica, abbiamo avuto modo di constatarlo direttamente l'unica volta che abbiamo incontrato De André, nel 1981, in occasione dell'uscita dell''Indiano', primo album realizzato dopo il sequestro subìto da lui e Dori Ghezzi da parte dell'Anonima sarda. Un'esperienza che lo aveva profondamente segnato. Eppure, nel raccontare di quel suo soggiorno forzato all''Hotel Supramonte', come lo chiamava, non uscì mai una parola se non di solidarietà e comprensione nei confronti dei sequestratori. Anche per questo, a dieci anni dalla scomparsa, De André ci manca da morire. Ma al di là delle tante celebrazioni in suo onore, la spettacolare mostra di Genova, le maratone televisive, il modo più giusto per ricordare un artista come lui che ha sempre viaggiato "in direzione ostinata e contraria" è quello di riproporre l'ascolto del suo meraviglioso canzoniere. Questo è lo scopo di 'Fabrizio De André - L'opera completa', la collezione dei 14 cd originali da studio che, a partire dalla prossima settimana, accompagneranno in edicola 'L'espresso' e 'la Repubblica'. "La maggior parte delle mie canzoni nasce come brevi racconti", diceva De André: "È la materia stessa del narrare a suggerirmi la musica". Il metodo che avrebbe poi seguito durante tutta la carriera si dimostra validissimo fin dal primo lp, 'Volume 1', nel quale confluiranno anche canzoni scritte diversi anni prima. Mentre una pietra miliare come 'La guerra di Piero' all'inizio passò quasi inosservata "per poi essere riscoperta qualche anno dopo, quando anche il verbo 'pacifista' e politico inizia a circolare nelle canzoni", come ricordano opportunamente Gino Castaldo ed Ernesto Assante nel libretto che accompagna questa prima uscita. O, caso ancora più clamoroso, 'La canzone di Marinella' curata da Giampiero Reverberi, che invece uscì come lato B di 'Valzer per un amore' e dovette attendere la versione di Mina per diventare uno dei brani più popolari del canzoniere italiano del Novecento. La prima canzone dell'album 'Preghiera in gennaio' prende spunto da un tragico riferimento, il gennaio del 1967, quello in cui morì Luigi Tenco. A quel cantautore suicida non volevano fare il funerale, ci volle la dispensa del vescovo. E così De André compose per l'amico versi che ancora oggi suonano come un potente 'j'accuse' verso i difensori di un cattolicesimo bigotto: "Quando attraverserà l'ultimo vecchio ponte ai suicidi dirà, baciandoli alla fronte, venite in Paradiso, là dove vado anch'io, perché non c'è l'inferno nel mondo del buon Dio". Questo spirito anarchico e ribelle Fabrizio lo aveva attinto dalla canzone francese. Ma era soprattutto Georges Brassens l'ispiratore delle sua irriverente poetica anti-borghese. La traduzione di una canzone come 'Marcia nuziale', ad esempio, sta lì a testimoniare l'incondizionata ammirazione del discepolo verso il maestro. Ma per De André il motore dell'ispirazione è prima di tutto la realtà. "Una canzone come 'La guerra di Piero'", ricordava in una intervista nel 1979, tratta dall'autobiografia 'Una goccia di splendore' a cura di Guido Harari, "è nata dai racconti di uno zio che si era fatto la Seconda guerra mondiale in Albania". Anche 'La canzone di Marinella' è ispirata alla cronaca di una prostituta uccisa e gettata nel fiume. E così altri personaggi entrati nel nostro patrimonio genetico attraverso le canzoni di Faber. La ragazza che ispirò 'Bocca di Rosa' entrò a casa sua un pomeriggio in cui i genitori erano fuori: "Non è una puttana, è una che ama e si fa amare. E sa che l'amore migliore è quello che non ha futuro". 'Via del Campo', invece, nacque da una boccaccesca disavventura nelle vie malfamate di Genova: "Quando la bella ragazza tirò fuori la carta d'identità scoprii che si chiamava Giuseppe. Fu uno choc. Oggi non se ne stupirebbe nessuno".A raccontare la genesi di 'Carlo Martello' (1962 ) ci pensa invece il coautore, Paolo Villaggio, nell'affettuoso ricordo dedicato all'inseparabile compagno di bohème che compare nel libretto allegato a 'Volume 1'. Villaggio accenna a una notte buia e tempestosa, a un branco di giovani 'fannulloni' affamati e senza una lira. E a un topo morto che l'amico Faber avrebbe inghiottito per vincere una scommessa. Poi prese la chitarra. "'Suono un po' così mi passa'... 'Che bello questo motivo, dico, sembra musica trovadorica'. 'Tu che sei un maniaco di storia medievale', mi dice, 'scrivimi le parole...'" E cominciamo: 'Re Carlo tornava dalla guerra l'accoglie la sua terra cingendolo d'allor...'".
(L’Espresso, 30 gennaio 2009)
La Sanità in Sicilia. Ecco la mappa dei tagli ai posti letto di città e provincia
di Emanuele Lauria
I manager trovano l´accordo: pagano pegno Civico e Policlinico. In commissione all´Ars approvati i primi tre articoli della riforma. Lite sugli esuberi
A pagare il conto del piano di rientro saranno le grandi cattedrali della sanità metropolitana, Policlinico e Civico, più dei piccoli ospedali di provincia. Ecco la nuova mappa dei posti letto nel territorio palermitano, definita ieri sera al termine di una riunione fra il manager dell´Asl 6, Salvatore Iacolino, e i direttori generali delle aziende ospedaliere. Il vertice ha partorito un documento in cui vengono sottoscritti, struttura per struttura, i tagli. Il decreto di rimodulazione della rete ospedaliera, approvato dalla giunta il 24 dicembre, prevede in provincia una riduzione di 686 posti letto per acuti nel settore pubblico. La cifra complessiva scende a circa 3.500 posti. I manager, fatti i tagli, non hanno invece individuato i 740 posti letto da creare nel settore della riabilitazione e della lungodegenza, in attesa di direttive da parte dell´assessorato sulla ripartizione fra pubblico e privato.Il Policlinico, secondo la nuova mappa, avrà circa 730 posti letto. Ovvero 225 in meno rispetto al numero attuale, quello indicato nella prima bozza di decreto sulla rete ospedaliera predisposta dall´assessorato alla Sanità ad ottobre. L´azienda Civico avrà a disposizione 930 posti letto, a fronte dei 1.040 attuali. Più leggeri i tagli su Villa Sofia e Cervello, che oggi contano rispettivamente 420 e 444 posti letto, stando sempre ai dati dell´assessorato aggiornati a tre mesi fa. Entrambi gli ospedali, è stato deciso ieri, avranno circa 400 posti letto. Le strutture che dipendono direttamente dall´Ausl 6 perdono in tutto 50 posti letto (da 692 a 642). La riduzione, in questo caso, colpirà per due terzi i piccoli ospedali cittadini (Ingrassia e Casa del sole) e per un terzo quattro nosocomi della provincia: Corleone, Petralia, Termini Imerese e Partinico. Non vengono toccati gli istituti della cosiddetta «sperimentazione gestionale», ovvero San Raffaele di Cefalù e Ismett. In una successiva riunione sarà definito il taglio nelle divisioni e nei reparti delle singole aziende. Intanto, il documento varato ieri sarà sottoposto all´esame dei sindaci e delle parti sociali. Prima di essere trasmesso all´assessorato alla Sanità, insieme alle proposte dei manager delle altre province.
Ieri, all´interno del disegno di legge sul riassetto delle aziende sanitarie e ospedaliere, la commissione sanità dell´Ars ha messo su carta la possibilità «dell´accorpamento e dell´eliminazione di strutture risultanti superflue o sovradimensionate o a bassa complessità». Una norma presentata dal governo sulla quale si è acceso uno scontro che ha caratterizzato gran parte della seduta no-stop in commissione, cominciata in mattinata e finita intorno alle 19,30. Il vicepresidente dell´Ars Santi Formica ha accusato il Pd di appoggiare l´assessore Russo «anche nell´ipotesi di chiusura degli ospedali e nei licenziamenti». «Colossali bugie», secondo Roberto De Benedictis (Pd). Anche i democratici però si sono divisi e alla fine, per iniziativa di Baldo Gucciardi e Nino Dina (Udc) è stato chiarito nel testo che a essere chiusi potranno essere singoli reparti e unità operative, non interi ospedali. Soppresso fra le polemiche anche il comma, inserito sempre dal governo, che prevedeva che il personale in esubero potesse essere collocato anche in centri privati.Malgrado le cinque ore di dibattito segnate da momenti di tensione, Marco Falcone del Pdl coglie «primi segnali distensivi» e Giuseppe Laccoto del Pd descrive «un clima sereno che ha consentito di approfondire i temi posti in discussione e la votazione unanime di alcuni emendamenti che hanno migliorato il testo, nella parte che riguarda la programmazione sanitaria».Alla fine la commissione ha approvato solo tre articoli della riforma del sistema sanitario, sui quali peraltro era stato trovato nei giorni scorsi un accordo di maggioranza. La commissione tornerà a riunirsi martedì e mercoledì.
(La repubblica, 30 gennaio 2009)
I manager trovano l´accordo: pagano pegno Civico e Policlinico. In commissione all´Ars approvati i primi tre articoli della riforma. Lite sugli esuberi
A pagare il conto del piano di rientro saranno le grandi cattedrali della sanità metropolitana, Policlinico e Civico, più dei piccoli ospedali di provincia. Ecco la nuova mappa dei posti letto nel territorio palermitano, definita ieri sera al termine di una riunione fra il manager dell´Asl 6, Salvatore Iacolino, e i direttori generali delle aziende ospedaliere. Il vertice ha partorito un documento in cui vengono sottoscritti, struttura per struttura, i tagli. Il decreto di rimodulazione della rete ospedaliera, approvato dalla giunta il 24 dicembre, prevede in provincia una riduzione di 686 posti letto per acuti nel settore pubblico. La cifra complessiva scende a circa 3.500 posti. I manager, fatti i tagli, non hanno invece individuato i 740 posti letto da creare nel settore della riabilitazione e della lungodegenza, in attesa di direttive da parte dell´assessorato sulla ripartizione fra pubblico e privato.Il Policlinico, secondo la nuova mappa, avrà circa 730 posti letto. Ovvero 225 in meno rispetto al numero attuale, quello indicato nella prima bozza di decreto sulla rete ospedaliera predisposta dall´assessorato alla Sanità ad ottobre. L´azienda Civico avrà a disposizione 930 posti letto, a fronte dei 1.040 attuali. Più leggeri i tagli su Villa Sofia e Cervello, che oggi contano rispettivamente 420 e 444 posti letto, stando sempre ai dati dell´assessorato aggiornati a tre mesi fa. Entrambi gli ospedali, è stato deciso ieri, avranno circa 400 posti letto. Le strutture che dipendono direttamente dall´Ausl 6 perdono in tutto 50 posti letto (da 692 a 642). La riduzione, in questo caso, colpirà per due terzi i piccoli ospedali cittadini (Ingrassia e Casa del sole) e per un terzo quattro nosocomi della provincia: Corleone, Petralia, Termini Imerese e Partinico. Non vengono toccati gli istituti della cosiddetta «sperimentazione gestionale», ovvero San Raffaele di Cefalù e Ismett. In una successiva riunione sarà definito il taglio nelle divisioni e nei reparti delle singole aziende. Intanto, il documento varato ieri sarà sottoposto all´esame dei sindaci e delle parti sociali. Prima di essere trasmesso all´assessorato alla Sanità, insieme alle proposte dei manager delle altre province.
Ieri, all´interno del disegno di legge sul riassetto delle aziende sanitarie e ospedaliere, la commissione sanità dell´Ars ha messo su carta la possibilità «dell´accorpamento e dell´eliminazione di strutture risultanti superflue o sovradimensionate o a bassa complessità». Una norma presentata dal governo sulla quale si è acceso uno scontro che ha caratterizzato gran parte della seduta no-stop in commissione, cominciata in mattinata e finita intorno alle 19,30. Il vicepresidente dell´Ars Santi Formica ha accusato il Pd di appoggiare l´assessore Russo «anche nell´ipotesi di chiusura degli ospedali e nei licenziamenti». «Colossali bugie», secondo Roberto De Benedictis (Pd). Anche i democratici però si sono divisi e alla fine, per iniziativa di Baldo Gucciardi e Nino Dina (Udc) è stato chiarito nel testo che a essere chiusi potranno essere singoli reparti e unità operative, non interi ospedali. Soppresso fra le polemiche anche il comma, inserito sempre dal governo, che prevedeva che il personale in esubero potesse essere collocato anche in centri privati.Malgrado le cinque ore di dibattito segnate da momenti di tensione, Marco Falcone del Pdl coglie «primi segnali distensivi» e Giuseppe Laccoto del Pd descrive «un clima sereno che ha consentito di approfondire i temi posti in discussione e la votazione unanime di alcuni emendamenti che hanno migliorato il testo, nella parte che riguarda la programmazione sanitaria».Alla fine la commissione ha approvato solo tre articoli della riforma del sistema sanitario, sui quali peraltro era stato trovato nei giorni scorsi un accordo di maggioranza. La commissione tornerà a riunirsi martedì e mercoledì.
(La repubblica, 30 gennaio 2009)
Sicilia. Sinistra, il valzer degli addii
Anche in Sicilia la sinistra potrebbe presentarsi ai prossimi appuntamenti elettorali divisa almeno in due schieramenti
di Emanuele Lauria
È stato per 18 anni il volto più noto di Rifondazione comunista in Sicilia. Francesco Forgione (nella foto) è stato l´ultimo emblema della falce e martello all´Ars, di un´opposizione griffata ma senza inciuci, fedele al dogma della legalità e dell´antimafia. Domani il pupillo di Bertinotti, il più durevole segretario siciliano del partito (dal 1996 al 2001), reciterà il suo ultimo intervento al comitato regionale del Prc e annuncerà il suo addio. Seguirà Nichi Vendola nel nuovo «movimento per la sinistra» lasciando al suo destino Ferrero e tutti quelli, dice, «che vogliono creare un involucro meramente ideologico utile solo ad accreditare il Pd come unica alternativa credibile al centrodestra». Forgione - che vive ormai fra Palermo, Roma e L´Aquila dove insegna - è anche l´immagine di una sinistra in movimento, uscita a pezzi dal 2008 elettorale ma ancora percorsa da addii e lacerazioni. E con una doppia tagliola sul suo cammino: al possibile sbarramento al 4 per cento alle europee - tema attuale di dibattito - in Sicilia si somma lo sbarramento certo al 5 per cento alle amministrative, recentemente introdotto dall´Ars. A giugno ci sarà un nuovo, impegnativo, banco di prova per i reduci delle forze antagoniste e movimentiste nel regno di Lombardo e del Pdl. Una sfida nella sfida: sostituire a caratteristiche quali «snobismo e litigiosità», per dirla con le parole di un preoccupato Giusto Catania, la capacità di aggregarsi. Con l´obiettivo della sopravvivenza. Questa travagliata fase politica mette a repentaglio anche antichi sodalizi umani e politici. Come quello fra Forgione e lo stesso Catania, che invece rimane sotto le bandiere del Prc: un divorzio che si consuma, anche se i due amici che si separano concordano sulla necessità di un´alleanza che coinvolga l´intera sinistra. In vista, appunto, dei prossimi appuntamenti elettorali.
«Presentarci ancora una volta frammentati equivale a un suicidio politico. È a questo che puntano i gruppi dirigenti dei partiti?», chiede Catania. Sulla base anche dei dati delle ultime regionali, che nel 2006 hanno visto le formazioni di sinistra superare di poco il 5 per cento, nel 2008 fallire il traguardo e restare fuori dall´Ars. E invece.E invece anche in Sicilia, come nel resto d´Italia, la sinistra potrebbe presentarsi ai prossimi appuntamenti elettorali divisa almeno in due schieramenti. Da un lato c´è una possibile lista comunista formata dal Prc - che tenterà domani di eleggere finalmente il successore di Rosario Rappa alla segreteria regionale - e dal Pdci di Diliberto, rimasto orfano nell´Isola di una figura simbolica come il sindaco di Gela Rosario Crocetta (transitato nel Pd): «Naturale che abbiamo accusato il colpo - ammette Orazio Licandro, responsabile organizzativo dei Comunisti italiani - ma ci interroghiamo sulla credibilità di Crocetta: non depongono a suo favore le voci di un addio legato a una candidatura alle europee. Ma il partito è organizzato attorno al suo segretario regionale (Salvatore Petrucci, ndr) e gli ultimi sondaggi ci danno in crescita a livello nazionale». Già, ma le alleanze? «Noi stiamo lavorando con il Prc di Ferrero alla costruzione di un unico partito che si colleghi alla tradizione comunista. Sono le altre forze a dire no a un dialogo con noi. Forse perché guardano al Pd o vogliono presto finirci dentro».E l´altro cartello è quello composto dai vendoliani, dalla Sinistra democratica e dai Verdi. Qualcosa di più di una coalizione elettorale, rammenta il coordinatore nazionale di Sd Claudio Fava: «Da un anno lavoriamo a un progetto politico ben definito, quello di una sinistra non comunista, non settaria ma aperta al contributo della società e di intellettuali quali Moni Ovadia e Stefano Rodotà. Una vera alternativa a un Pd che in Sicilia - dice Fava - è esile e malinconico, che appoggiando lo sbarramento al 5 per cento ha barattato la sua sconfitta con piccoli spartizioni politiche». Certo, pure Sd deve fare i conti con qualche illustre defezione: il segretario regionale, l´ex senatore Gianni Battaglia, si è dimesso dall´incarico. Anche lui viene dato in viaggio verso il Pd. È stato sostituito dall´ex sindaco Acicastello Paolo Castorina, che con Fava condivide un passato da atleta di buon livello: pallavolista il primo, pallanotista il secondo. Serve uno sforzo da campioni, per risollevare una sinistra che nell´Isola è ai margini di quasi tutte le istituzioni. Il gioco di squadra Fava lo vede con i socialisti di Nencini e naturalmente con Rita Borsellino, tentata però anche da Di Pietro. Che la porta di quest´aggregazione sia chiusa alla lista comunista è invece confermato da Massimo Fundarò, componente del coordinamento nazionale dei Verdi: «Ci viene difficile dialogare con un Prc che, con la segreteria Ferrero, afferma una linea identitaria da vecchio Pci. Noi abbiamo un programma riformista, di governo, che può ripartire dai Comuni siciliani. Perché non crederci?». Perché?
(La Repubblica, 31 gennaio 2009)
di Emanuele Lauria
È stato per 18 anni il volto più noto di Rifondazione comunista in Sicilia. Francesco Forgione (nella foto) è stato l´ultimo emblema della falce e martello all´Ars, di un´opposizione griffata ma senza inciuci, fedele al dogma della legalità e dell´antimafia. Domani il pupillo di Bertinotti, il più durevole segretario siciliano del partito (dal 1996 al 2001), reciterà il suo ultimo intervento al comitato regionale del Prc e annuncerà il suo addio. Seguirà Nichi Vendola nel nuovo «movimento per la sinistra» lasciando al suo destino Ferrero e tutti quelli, dice, «che vogliono creare un involucro meramente ideologico utile solo ad accreditare il Pd come unica alternativa credibile al centrodestra». Forgione - che vive ormai fra Palermo, Roma e L´Aquila dove insegna - è anche l´immagine di una sinistra in movimento, uscita a pezzi dal 2008 elettorale ma ancora percorsa da addii e lacerazioni. E con una doppia tagliola sul suo cammino: al possibile sbarramento al 4 per cento alle europee - tema attuale di dibattito - in Sicilia si somma lo sbarramento certo al 5 per cento alle amministrative, recentemente introdotto dall´Ars. A giugno ci sarà un nuovo, impegnativo, banco di prova per i reduci delle forze antagoniste e movimentiste nel regno di Lombardo e del Pdl. Una sfida nella sfida: sostituire a caratteristiche quali «snobismo e litigiosità», per dirla con le parole di un preoccupato Giusto Catania, la capacità di aggregarsi. Con l´obiettivo della sopravvivenza. Questa travagliata fase politica mette a repentaglio anche antichi sodalizi umani e politici. Come quello fra Forgione e lo stesso Catania, che invece rimane sotto le bandiere del Prc: un divorzio che si consuma, anche se i due amici che si separano concordano sulla necessità di un´alleanza che coinvolga l´intera sinistra. In vista, appunto, dei prossimi appuntamenti elettorali.
«Presentarci ancora una volta frammentati equivale a un suicidio politico. È a questo che puntano i gruppi dirigenti dei partiti?», chiede Catania. Sulla base anche dei dati delle ultime regionali, che nel 2006 hanno visto le formazioni di sinistra superare di poco il 5 per cento, nel 2008 fallire il traguardo e restare fuori dall´Ars. E invece.E invece anche in Sicilia, come nel resto d´Italia, la sinistra potrebbe presentarsi ai prossimi appuntamenti elettorali divisa almeno in due schieramenti. Da un lato c´è una possibile lista comunista formata dal Prc - che tenterà domani di eleggere finalmente il successore di Rosario Rappa alla segreteria regionale - e dal Pdci di Diliberto, rimasto orfano nell´Isola di una figura simbolica come il sindaco di Gela Rosario Crocetta (transitato nel Pd): «Naturale che abbiamo accusato il colpo - ammette Orazio Licandro, responsabile organizzativo dei Comunisti italiani - ma ci interroghiamo sulla credibilità di Crocetta: non depongono a suo favore le voci di un addio legato a una candidatura alle europee. Ma il partito è organizzato attorno al suo segretario regionale (Salvatore Petrucci, ndr) e gli ultimi sondaggi ci danno in crescita a livello nazionale». Già, ma le alleanze? «Noi stiamo lavorando con il Prc di Ferrero alla costruzione di un unico partito che si colleghi alla tradizione comunista. Sono le altre forze a dire no a un dialogo con noi. Forse perché guardano al Pd o vogliono presto finirci dentro».E l´altro cartello è quello composto dai vendoliani, dalla Sinistra democratica e dai Verdi. Qualcosa di più di una coalizione elettorale, rammenta il coordinatore nazionale di Sd Claudio Fava: «Da un anno lavoriamo a un progetto politico ben definito, quello di una sinistra non comunista, non settaria ma aperta al contributo della società e di intellettuali quali Moni Ovadia e Stefano Rodotà. Una vera alternativa a un Pd che in Sicilia - dice Fava - è esile e malinconico, che appoggiando lo sbarramento al 5 per cento ha barattato la sua sconfitta con piccoli spartizioni politiche». Certo, pure Sd deve fare i conti con qualche illustre defezione: il segretario regionale, l´ex senatore Gianni Battaglia, si è dimesso dall´incarico. Anche lui viene dato in viaggio verso il Pd. È stato sostituito dall´ex sindaco Acicastello Paolo Castorina, che con Fava condivide un passato da atleta di buon livello: pallavolista il primo, pallanotista il secondo. Serve uno sforzo da campioni, per risollevare una sinistra che nell´Isola è ai margini di quasi tutte le istituzioni. Il gioco di squadra Fava lo vede con i socialisti di Nencini e naturalmente con Rita Borsellino, tentata però anche da Di Pietro. Che la porta di quest´aggregazione sia chiusa alla lista comunista è invece confermato da Massimo Fundarò, componente del coordinamento nazionale dei Verdi: «Ci viene difficile dialogare con un Prc che, con la segreteria Ferrero, afferma una linea identitaria da vecchio Pci. Noi abbiamo un programma riformista, di governo, che può ripartire dai Comuni siciliani. Perché non crederci?». Perché?
(La Repubblica, 31 gennaio 2009)
venerdì 30 gennaio 2009
La riforma degli Ato-rifiuti in Sicilia. Votano insieme Mpa e Pd, il Pdl e l'Udc sbattono la porta
di Salvatore D'Anna
Nuovo terremoto politico in Sicilia. La commissione Territorio e Ambiente dell’Ars ha approvato il provvedimento sulla riforma dei rifiuti. Il testo è stato votato solo da Mpa e Pd, mentre i rappresentanti del Pdl e dell’Udc hanno abbandonato sin dall’inizio i lavori della commissione. “La maggioranza non c’è più. A questo punto Lombardo ne prenda atto”, dice il capogruppo del Pd Antonello Cracolici. Il testo sulla riforma degli Ato rifiuti approvato dalla commissione assorbe le principali proposte del Pd: il ddl prevede, infatti, un nuovo Piano rifiuti che soppianterà quello voluto da Cuffaro costruito sui quattro termovalorizzatori. Sempre su proposta del Pd sono stati previsti un Piano di rientro per i debiti degli Ato e un Piano straordinario di discariche ad iniziativa pubblica in Sicilia. Soddisfatti il governo e il partito del presidente Lombardo, l’Mpa. “L’approvazione della IV commissione dell’Ars del disegno di legge di riordino degli Ato è un significativo passo in avanti nella strada già tracciata”, commenta l’assessore Regionale al Territorio e all’Ambiente Pippo Sorbello. “Si tratta di una segnale molto importante – ha detto Sorbello – delle scelte che il governo intende perseguire in un settore così decisivo. Nei prossimi giorni, su richiesta dei parlamentari della IV commissione valuteremo l’opportunità di insediare una Task force tecnica in grado di gestire l’emergenza fino all’approvazione della legge e alla sua piena applicazione”. “L’approvazione del ddl di riforma degli Ato rifiuti rappresenta un momento di vera riforma della politica ambientale in Sicilia”. Riccardo Minardo, a nome dell’Mpa, da voce alla soddisfazione del partito per aver sbloccato l’iter di un provvedimento fondamentale per superare l'attuale fase di crisi. “Il sistema della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti in Sicilia era al collasso a causa della precedente riforma, che non aveva risolto i problemi, ma li aveva amplificati. Il disegno di legge esitato dalla commissione - aggiunge Minardo - è addirittura migliorativo rispetto al testo presentato dal governo, perché permetterà ai comuni di recuperare le somme non riscosse e soprattutto perché elimina una serie di costi che erano già stati ribaltati sul servizio e quindi sui cittadini”. Mentre in commissione Ambiente e Territorio erano fermi due disegni di legge per la gestione e lo smaltimento dei rifiuti, uno presentato dal governo e l’altro del Pdl, il Partito democratico stamattina ha proposto la sua ricetta per salvare la Sicilia dall’emergenza rifiuti. Non un ddl, ma tre emendamenti presentati al disegno di legge “Nuove norme in materia di gestione dei rifiuti e delle acque” proposto dall’assessore regionale al Territorio e Ambiente Giuseppe Sorbello dell’Mpa. Un nuovo piano di rifiuti incentrato sulla raccolta differenziata; un piano di rientro per superare la situazione debitoria degli Ato siciliani; utilizzare esclusivamente discariche pubbliche, stabilire tariffe uniche per il conferimento dei rifiuti e ridurre gli Ato da 27 a non oltre 14. Sono questi i punti salienti dei tre emendamenti. “Stiamo assistendo a un vero e proprio collasso del sistema di raccolta e smaltimento dei rifiuti in Sicilia - dice Antonello Cracolici, capogruppo del Pd all'Ars -. Bisogna varare entro 180 giorni un nuovo piano”. Il Pd mette sotto accusa quello redatto dall’allora commissario straordinario per l'emergenza ed ex presidente della Regione Salvatore Cuffaro, “costruito ad arte sulla centralità dei termovalorizzatori, il cui unico risultato è stato creare debiti e riempire di immondizia le strade”. Sotto accusa anche il governo Berlusconi, che si muoverebbe per aiutare esclusivamente le singole emergenze delle singole città, le emergenze degli “amici”, riferendosi il Pd agli aiuti economici per salvare l’Amia di Palermo e per chiudere il buco nel Bilancio del Comune di Catania. “Non vorremmo che a qualcuno interessasse dichiarare un nuovo stato di emergenza solo allo scopo di nominare nuovamente un commissario ad hoc”, dice il capogruppo del Pd. Il partito di Cracolici propone uno studio tecnico ed economico su cui stilare un nuovo piano di uscita dalla crisi e rilancio del settore. Il piano del Pd si fonda sulla raccolta differenziata e il ciclo integrato dei rifiuti e relega agli impianti di termovalorizzazione solo la parte residuale dei rifiuti, quella che non si può riciclare. La proposta prevede anche una possibile soluzione per superare la situazione debitoria degli Ato. Un Piano di rientro simile a quello studiato per i debiti della sanità, che indicherà agli Ato parametri, obiettivi e criteri per una “sana gestione” ai quali attenersi per potere essere sostenuti nel percorso di risanamento economico. Previsto un apposito fondo da 250 milioni di euro a disposizione degli Enti locali per ripianare i debiti anche attraverso rimborsi ventennali a tasso agevolato. “Un buon sistema per ripianare i debiti degli enti locali sarebbe quello di restituire, sottoforma di premi, parte dell’Iva pagata dai Comuni alla Regione attraverso le società d’ambito”. Gli enti locali dovranno però meritare l’aiuto economico, impegnandosi a praticare la raccolta differenziata, riportando i costi di gestione ai piani industriali e riportando a principi di equità i costi di conferimento dei rifiuti in discarica. “La situazione debitoria degli Ato rifiuti non può essere scaricata tutta sugli enti locali siciliani poiché andrebbero, in gran parte, in dissesto. Dal Fondo per le autonomie locali, pari a 913 milioni di euro, si attinge già per coprire tutti i servizi essenziali erogati dai 390 comuni della Sicilia”, spiega Giovanni Barbagallo. “La Regione dovrebbe stanziare almeno 500 milioni di euro - aggiunge - non solo perché in questi anni ha incassato l’Iva versata dai comuni attraverso le società d'ambito ma, soprattutto, perché è responsabile di un piano rifiuti che ha prodotto un aumento delle tariffe, accumulo di debiti e un livello di raccolta differenziata tra i più bassi d’Italia”. “Bisogna costruire prima i contenuti e poi i contenitori: se non si fa questo la situazione precipiterà – dice Concetta Raia, componente della commissione Ambiente e territorio -. Chiamiamo in causa anche il governo nazionale perché intervenga concretamente e affronti col governo regionale questa emergenza”.
SiciliaInformazioni.com
Nuovo terremoto politico in Sicilia. La commissione Territorio e Ambiente dell’Ars ha approvato il provvedimento sulla riforma dei rifiuti. Il testo è stato votato solo da Mpa e Pd, mentre i rappresentanti del Pdl e dell’Udc hanno abbandonato sin dall’inizio i lavori della commissione. “La maggioranza non c’è più. A questo punto Lombardo ne prenda atto”, dice il capogruppo del Pd Antonello Cracolici. Il testo sulla riforma degli Ato rifiuti approvato dalla commissione assorbe le principali proposte del Pd: il ddl prevede, infatti, un nuovo Piano rifiuti che soppianterà quello voluto da Cuffaro costruito sui quattro termovalorizzatori. Sempre su proposta del Pd sono stati previsti un Piano di rientro per i debiti degli Ato e un Piano straordinario di discariche ad iniziativa pubblica in Sicilia. Soddisfatti il governo e il partito del presidente Lombardo, l’Mpa. “L’approvazione della IV commissione dell’Ars del disegno di legge di riordino degli Ato è un significativo passo in avanti nella strada già tracciata”, commenta l’assessore Regionale al Territorio e all’Ambiente Pippo Sorbello. “Si tratta di una segnale molto importante – ha detto Sorbello – delle scelte che il governo intende perseguire in un settore così decisivo. Nei prossimi giorni, su richiesta dei parlamentari della IV commissione valuteremo l’opportunità di insediare una Task force tecnica in grado di gestire l’emergenza fino all’approvazione della legge e alla sua piena applicazione”. “L’approvazione del ddl di riforma degli Ato rifiuti rappresenta un momento di vera riforma della politica ambientale in Sicilia”. Riccardo Minardo, a nome dell’Mpa, da voce alla soddisfazione del partito per aver sbloccato l’iter di un provvedimento fondamentale per superare l'attuale fase di crisi. “Il sistema della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti in Sicilia era al collasso a causa della precedente riforma, che non aveva risolto i problemi, ma li aveva amplificati. Il disegno di legge esitato dalla commissione - aggiunge Minardo - è addirittura migliorativo rispetto al testo presentato dal governo, perché permetterà ai comuni di recuperare le somme non riscosse e soprattutto perché elimina una serie di costi che erano già stati ribaltati sul servizio e quindi sui cittadini”. Mentre in commissione Ambiente e Territorio erano fermi due disegni di legge per la gestione e lo smaltimento dei rifiuti, uno presentato dal governo e l’altro del Pdl, il Partito democratico stamattina ha proposto la sua ricetta per salvare la Sicilia dall’emergenza rifiuti. Non un ddl, ma tre emendamenti presentati al disegno di legge “Nuove norme in materia di gestione dei rifiuti e delle acque” proposto dall’assessore regionale al Territorio e Ambiente Giuseppe Sorbello dell’Mpa. Un nuovo piano di rifiuti incentrato sulla raccolta differenziata; un piano di rientro per superare la situazione debitoria degli Ato siciliani; utilizzare esclusivamente discariche pubbliche, stabilire tariffe uniche per il conferimento dei rifiuti e ridurre gli Ato da 27 a non oltre 14. Sono questi i punti salienti dei tre emendamenti. “Stiamo assistendo a un vero e proprio collasso del sistema di raccolta e smaltimento dei rifiuti in Sicilia - dice Antonello Cracolici, capogruppo del Pd all'Ars -. Bisogna varare entro 180 giorni un nuovo piano”. Il Pd mette sotto accusa quello redatto dall’allora commissario straordinario per l'emergenza ed ex presidente della Regione Salvatore Cuffaro, “costruito ad arte sulla centralità dei termovalorizzatori, il cui unico risultato è stato creare debiti e riempire di immondizia le strade”. Sotto accusa anche il governo Berlusconi, che si muoverebbe per aiutare esclusivamente le singole emergenze delle singole città, le emergenze degli “amici”, riferendosi il Pd agli aiuti economici per salvare l’Amia di Palermo e per chiudere il buco nel Bilancio del Comune di Catania. “Non vorremmo che a qualcuno interessasse dichiarare un nuovo stato di emergenza solo allo scopo di nominare nuovamente un commissario ad hoc”, dice il capogruppo del Pd. Il partito di Cracolici propone uno studio tecnico ed economico su cui stilare un nuovo piano di uscita dalla crisi e rilancio del settore. Il piano del Pd si fonda sulla raccolta differenziata e il ciclo integrato dei rifiuti e relega agli impianti di termovalorizzazione solo la parte residuale dei rifiuti, quella che non si può riciclare. La proposta prevede anche una possibile soluzione per superare la situazione debitoria degli Ato. Un Piano di rientro simile a quello studiato per i debiti della sanità, che indicherà agli Ato parametri, obiettivi e criteri per una “sana gestione” ai quali attenersi per potere essere sostenuti nel percorso di risanamento economico. Previsto un apposito fondo da 250 milioni di euro a disposizione degli Enti locali per ripianare i debiti anche attraverso rimborsi ventennali a tasso agevolato. “Un buon sistema per ripianare i debiti degli enti locali sarebbe quello di restituire, sottoforma di premi, parte dell’Iva pagata dai Comuni alla Regione attraverso le società d’ambito”. Gli enti locali dovranno però meritare l’aiuto economico, impegnandosi a praticare la raccolta differenziata, riportando i costi di gestione ai piani industriali e riportando a principi di equità i costi di conferimento dei rifiuti in discarica. “La situazione debitoria degli Ato rifiuti non può essere scaricata tutta sugli enti locali siciliani poiché andrebbero, in gran parte, in dissesto. Dal Fondo per le autonomie locali, pari a 913 milioni di euro, si attinge già per coprire tutti i servizi essenziali erogati dai 390 comuni della Sicilia”, spiega Giovanni Barbagallo. “La Regione dovrebbe stanziare almeno 500 milioni di euro - aggiunge - non solo perché in questi anni ha incassato l’Iva versata dai comuni attraverso le società d'ambito ma, soprattutto, perché è responsabile di un piano rifiuti che ha prodotto un aumento delle tariffe, accumulo di debiti e un livello di raccolta differenziata tra i più bassi d’Italia”. “Bisogna costruire prima i contenuti e poi i contenitori: se non si fa questo la situazione precipiterà – dice Concetta Raia, componente della commissione Ambiente e territorio -. Chiamiamo in causa anche il governo nazionale perché intervenga concretamente e affronti col governo regionale questa emergenza”.
SiciliaInformazioni.com
giovedì 29 gennaio 2009
Gli scoop cinici e la lotta alla mafia
di DINO PATERNOSTRO
Non ha torto Rita Borsellino quando dichiara di sentirsi ferita come cittadina dall’intervista di Maria Concetta Riina. E non ha torto nemmeno Maria Falcone quando dichiara tutta la sua amarezza. L’obiettivo della figlia del boss non era quello di prendere le distanze dal padre mafioso e da Cosa Nostra, ma di sottolineare che il “capo dei capi” non si pentirà mai, che lo Stato non dovrebbe accanirsi contro il fratello Gianni, così giovane, che un lavoro sarebbe giusto darlo pure a lei e a suo marito. In sostanza, Maria Concetta si appella al volto umano dello Stato, ma dimentica che tanti figli onesti di questo Stato hanno perso la vita per la ferocia della mafia e di boss come suo padre, suo e suo fratello Gianni. Dimentica che, per colpa della mafia, tanti figli non vivono l’amarezza di vedere da dietro un vetro i loro padri, ma l’inconsolabile dolore di averli persi per sempre, di poterli vedere solo in fotografia.
C’è da chiedersi perché “Panorama” nel 1995 e “Repubblica” ieri si siano prestati a fare da “megafono” alla figlia del boss. Per fare uno scoop, a prescindere dalla sua eticità? Non condividiamo, anzi dissentiamo da questo modo cinico di fare informazione. Dal “concittadino” onorario Attilio Bolzoni ci saremmo aspettati di più e di meglio. Specie quando - su Repubblica-Tv - Umberto Garimberti gli ha chiesto se la Corleone di oggi è cambiata. Bolzoni ha glissato, preferendo buttarsi a capofitto sulla Tombstone degli anni ‘50 e ’60, sulle centinaia di morti ammazzati e basta. Gli costava così tanto dire che la Corleone di oggi gli ha conferito la cittadinanza onoraria? Che, pur fra mille contraddizioni, un percorso di legalità l’ha avviato? Che, nonostante tutto, la battaglia culturale contro la mafia “rischia” di vincerla?
d.p.
Non ha torto Rita Borsellino quando dichiara di sentirsi ferita come cittadina dall’intervista di Maria Concetta Riina. E non ha torto nemmeno Maria Falcone quando dichiara tutta la sua amarezza. L’obiettivo della figlia del boss non era quello di prendere le distanze dal padre mafioso e da Cosa Nostra, ma di sottolineare che il “capo dei capi” non si pentirà mai, che lo Stato non dovrebbe accanirsi contro il fratello Gianni, così giovane, che un lavoro sarebbe giusto darlo pure a lei e a suo marito. In sostanza, Maria Concetta si appella al volto umano dello Stato, ma dimentica che tanti figli onesti di questo Stato hanno perso la vita per la ferocia della mafia e di boss come suo padre, suo e suo fratello Gianni. Dimentica che, per colpa della mafia, tanti figli non vivono l’amarezza di vedere da dietro un vetro i loro padri, ma l’inconsolabile dolore di averli persi per sempre, di poterli vedere solo in fotografia.
C’è da chiedersi perché “Panorama” nel 1995 e “Repubblica” ieri si siano prestati a fare da “megafono” alla figlia del boss. Per fare uno scoop, a prescindere dalla sua eticità? Non condividiamo, anzi dissentiamo da questo modo cinico di fare informazione. Dal “concittadino” onorario Attilio Bolzoni ci saremmo aspettati di più e di meglio. Specie quando - su Repubblica-Tv - Umberto Garimberti gli ha chiesto se la Corleone di oggi è cambiata. Bolzoni ha glissato, preferendo buttarsi a capofitto sulla Tombstone degli anni ‘50 e ’60, sulle centinaia di morti ammazzati e basta. Gli costava così tanto dire che la Corleone di oggi gli ha conferito la cittadinanza onoraria? Che, pur fra mille contraddizioni, un percorso di legalità l’ha avviato? Che, nonostante tutto, la battaglia culturale contro la mafia “rischia” di vincerla?
d.p.
mercoledì 28 gennaio 2009
L'indignazione di Rita Borsellino: "Totò Riina uomo generoso? Mi sento ferita come cittadina"
di GABRIELE ISMAN
Rita Borsellino interviene dopo l'intervista alla figlia del "Capo dei Capi". "Non prende le distanze dal padre. Anche mio genero non trova lavoro"
PALERMO - "Quelle frasi mi hanno fatto male, molto male. E non lo dico da familiare di una vittima, ma da cittadina italiana. Perché io non cerco certo commiserazione". Rita Borsellino, 63 anni, sorella del giudice ucciso in via D'Amelio il 19 luglio del 1992 insieme con cinque uomini della sua scorta, commenta così l'intervista a Maria Concetta Riina, la figlia di Totò, il Capo dei Capi.
PALERMO - "Quelle frasi mi hanno fatto male, molto male. E non lo dico da familiare di una vittima, ma da cittadina italiana. Perché io non cerco certo commiserazione". Rita Borsellino, 63 anni, sorella del giudice ucciso in via D'Amelio il 19 luglio del 1992 insieme con cinque uomini della sua scorta, commenta così l'intervista a Maria Concetta Riina, la figlia di Totò, il Capo dei Capi.
Che cosa l'ha ferita?
"Totò Riina, ops che lapsus, Maria Concetta fa affermazioni molto gravi e non prende alcuna distanza dal padre. Ne mette in dubbio le colpe, dice persino che è stato un parafulmine e aggiunge che chi ha le vere responsabilità, sapeva che, una volta in carcere, lui non avrebbe parlato. Come familiare di una vittima della mafia, voglio la verità: se non è stato lui, chi ha deciso quelle morti? Le sentenze dicono che fu lui. Descrive il padre come un uomo affettuoso, generoso, e non è nemmeno la prima volta che lo lascia intendere".
A dire il vero è la prima volta che la figlia del boss decide di parlare in un'intervista.
"Sì, certo, ma mi riferisco a molti anni fa: poco dopo l'arresto di Riina ci fu una grande polemica perché Maria Concetta era stata nominata capoclasse nel suo liceo. Ci fu un polverone, io invece la difesi: mi pareva eccessivo quell'accanimento contro una ragazzina. Oggi dice le stesse cose, ma è una donna, la situazione è molto diversa. Oggi non la difendo più, e non mi sento di commiserare né lei, né il padre, né i fratelli, né lo zio detenuti. Lei dice che lei e il marito non trovano lavoro. Anche mio genero non trova lavoro e, come lui, tanti ragazzi onesti".
Resta il fatto che la figlia del boss abbia accettato di parlare. Non lo trova importante? Fino a poco tempo fa per la mentalità mafiosa sembrava inconcepibile.
"Io temo che si sviluppi un filone giornalistico. Maria Concetta Riina dice che non è contenta della propria vita. Ma forse è un modo per cercare ciò che vuole. E non credo sia soltanto un lavoro".
A che cosa si riferisce?
"Vuole una riabilitazione: quel cognome è ingombrante. Ma io giro nelle scuole e ora vedo i ragazzi parlare di Totò Riina con gli occhi che si illuminano. E io dico solo che Riina era e resta un mafioso, un criminale, che ha ucciso tante persone e ha distrutto l'immagine, l'economia e l'essenza di questa terra, che io amo moltissimo, anche se avrei più di qualche motivo per lasciarla. Riina non ha mai parlato e non parla di quanto sa, continuando così a nuocere. Altri hanno scelto diversamente e i risultati sono arrivati. Riina no, anzi cerca di ricostituire il suo impero, come risulta dalle indagini più recenti. E allora anche il carcere di cui Maria Concetta si lamenta non dev'essere stato poi così duro".
L'INTERVISTA DI MARIA CONCETTA RIINA A REPUBBLICA TV
(La Repubblica, 28 gennaio 2009)
(La Repubblica, 28 gennaio 2009)
Parla Maria Concetta la figlia del boss: "La mia vita con un padre che si chiama Totò Riina"
dal nostro inviato
ATTILIO BOLZONI
"Non ho problemi a parlare di mafia, ma temo di essere interpretata male. Ora vorrei una vita normale"
CORLEONE - Comincia a parlare anche di quando erano tutti fantasmi, latitanti in Sicilia. Lei con sua madre Ninetta, con i fratelli Gianni e Salvo, con la sorella Lucia. E con suo padre Totò Riina:
"Chi eravamo, noi lo sapevamo da sempre: noi lo sapevamo che eravamo latitanti. Da quando io mi posso ricordare, l'ho sempre saputa questa cosa che mio padre era ricercato e che noi dovevamo scappare perché lo cercavano, perché mio padre era accusato di tutti questi omicidi". Ricorda ancora di quella vita in fuga: "Per me però era una cosa che era al di fuori da quello che vedevo io o che sentivo in tv. Era una cosa lontana da quello che vivevo nella mia famiglia". Parla Maria Concetta Riina, la figlia del capo dei capi di Cosa Nostra. Per la prima volta si fa intervistare da Repubblica e si concede alle nostre telecamere per raccontare suo padre, l'uomo più pericoloso d'Italia per un ventennio, il mafioso che è stato catturato - il 15 gennaio del 1993 - dopo un quarto di secolo di omicidi e trame. Maria Concetta è nella sua Corleone. Ha deciso di uscire allo scoperto "per il futuro dei miei figli". Parla un poco di quel suo passato oscuro e tanto del suo tormentato presente. Mai di affari di famiglia. Di vittime. Di una Sicilia soffocata e insanguinata. Parla molto dei fratelli in carcere e "di quel 41 bis che mi fa soffrire tanto per Gianni" e parla del nome terribile che porta. E si presenta: "Io sono Maria Concetta Riina, ho 34 anni, tutti gli amici mi chiamano Mari. Sono sposata con Toni Ciavarello e abbiamo tre figli: Gian Salvo, Maria Lucia e Gabriele. Vivo a Corleone dal 16 gennaio del 1993, il giorno dopo che si sono portati via mio padre".
Quale è stata la sua prima reazione quando ha scoperto che suo padre era il nemico numero uno dello Stato italiano, quello accusato di avere ucciso anche Falcone e Borsellino?
"Era una situazione surreale, assurda. Quello che dicevano su di noi io lo sentivo ma è come se non mi appartenesse. È come se non parlassero di me, di mio padre, della mia famiglia ma di qualcun altro".
Suo padre è stato condannato per decine di omicidi, misfatti di eccezionale crudeltà, stragi. È mai possibile che tutto questo per lei fosse soltanto "assurdo" o "surreale"? Come poteva non credere a tutto quello che si diceva sul conto di suo padre?
"Per me, e questo lo pensa anche lui, è stato un parafulmine per tante situazioni. Faceva comodo a molti dire che tutte quelle cose le aveva fatte Totò Riina. Tutti sanno benissimo comunque che qualsiasi cosa gli avessero chiesto, lui non sarebbe andato più di là, oltre. Non avrebbe mai fatto nomi e cognomi di nessuno. A lui hanno chiesto tante volte in maniera esplicita di pentirsi, ma il suo è sempre stato un no tassativo. È stato detto e non detto anche che quel suo l'avrebbero fatto pesare su di noi. Sui figli, su tutta la sua famiglia".
Perché quando parla di suo padre non pronuncia mai la parola mafia?
"Non ho problemi a parlarne. Però quella parola messa in bocca a me.... Se dico qualcosa può venire mal interpretata. Direbbero: guarda, parla di mafia proprio la figlia di Totò Riina... A casa mia, io non l'ho vissuta quella mafia".
Per lo Stato italiano è un assassino, per lei chi è suo padre?
"Sembrerà strano... mio padre viene presentato come un sanguinario, crudele, quasi un animale, uno che addirittura avrebbe fatto uccidere anche i bambini. Ma a me, come figlia, tutto questo non risulta. So io quello che mi ha trasmesso. Educazione. Moralità. Rispetto. E quando parlo di rispetto non parlo in quel senso, in senso omertoso. La persona che io sono ora, è quella che mio padre e mia madre hanno lasciato".
Si rende naturalmente conto che c'è un contrasto nettissimo tra come suo padre è descritto in centinaia di sentenze e come lo sta descrivendo lei adesso. Come può parlare di moralità e di rispetto una persona che ha fatto uccidere tanti uomini?
"Ecco perché ho detto che vi sembrerà strano, ma mio padre per me è così. E io così l'ho vissuto e così lo vivo ancora".
Dopo 19 anni che lei ha vissuto in latitanza con tutta la sua famiglia è arrivata a Corleone nel gennaio del 1993. Come è stato il passaggio dalla clandestinità alla visibilità?
"Come una seconda vita. Abbiamo potuto fare una cosa che non avevamo mai fatto prima: incontrarci di presenza con tutti i nostri parenti. Abbiamo trovato tutte le mie zie, mia nonna...".
Corleone è sempre stato il regno di suo padre, il paese che aveva in pugno, per alcuni il paese più mafioso e omertoso della Sicilia dove la paura poteva "proteggere" la sua famiglia. Come è stato il ritorno?
"Il paese ci ha accolti bene, non ci ha isolati. Anzi, molte persone hanno cercato di farci sentire a nostro agio. Come se avessimo vissuto lì da sempre".
Chiamarsi Riina molte volte vi ha fatto comodo, è un nome che in Sicilia faceva tremare. Lei sente di esercitare qualche potere?
"Perché non pensate alle difficoltà che ho avuto?".
Quali difficoltà?
"Il problema vero per noi è sempre stato trovare un lavoro... Tutti hanno paura di essere messi sui giornali, paura magari di essere considerati collusi. Qualche tempo fa ho frequentato i corsi di una cooperativa a Palermo, poi a un certo punto mi è stato detto che dovevo andarmene perché altrimenti quella cooperativa la chiudevano. Non è bello sentirsi dire certe cose. Giustamente tu dici: io non ho fatto niente, mi sono comportata bene con tutti. Mi hanno penalizzato solo perché mi chiamavo Riina. E non è stata l'ultima volta".
Ma Totò Riina per lo Stato è sempre stato "il capo dei capi": se ne dimentica?
"Ma per me ormai è un calvario. Tempo fa avevo anche fatto una domanda di accesso a un corso che organizzava servizi finanziari. Sono salita a Milano, è andato tutto bene, ho legato con tutti, anche con il direttore commerciale. Tutto a postissimo. Poi hanno visto sul mio documento di identità nome e provenienza: Riina e Corleone. Alla fine mi hanno fatto la fatidica domanda: "Ma tu sei parente di?". Io ho risposto: certo, sì, sono la figlia. L'ho detto con naturalezza... io non lo dico mai prima, non cammino con il cartello appeso al collo con su scritto "Sono la figlia di Riina", però se me lo domandano non ho problemi a dirlo. Non è passata nemmeno mezz'ora e mi ha chiamato il direttore dicendo che era offeso perché non gliel'avevo detto prima. Era un grosso problema per lui, per l'immagine della sua azienda".
Torniamo a suo padre. È in isolamento da 16 anni. Ma quando va a colloquio, lo vede dietro un vetro blindato e non gli ha mai chiesto conto delle accuse che gli vengono rivolte?
"È dalla mattina del 16 gennaio '93 che non lo accarezzo, certo se non ci fosse quel vetro... Prima ci andavo spesso a trovarlo ma adesso è complicato, ho tre figli. Mio padre ha condizioni peggiori del 41 bis normale, non ha contatti con altri detenuti, è messo in un'area a parte fatta apposta per lui".
In casa Riina non ci sono più figli maschi. Gianni è all'ergastolo per tre omicidi. Suo zio Leoluca Bagarella è in carcere dal 1995. Suo fratello Salvo è tornato dentro qualche giorno fa per scontare una pena residua. Lei parlava delle "sofferenze" del carcere, ma ha mai letto gli atti che accusano suo padre e suo fratello Gianni, le carte che raccontano i loro delitti?
"Loro devono scontare quello che devono e io non voglio giudicare i processi o sentenze. Dico solo che ho sofferenza, soprattutto per Gianni che è un ragazzo, ha vissuto troppo poco la sua adolescenza. E dico anche che, secondo me, si potrebbe evitare con lui un certo accanimento. Potrebbero farlo studiare in carcere, insegnargli un mestiere".
Lei parla di vita normale, difende sempre suo padre ma non prende mai le distanze dai delitti di cui è accusato: quale futuro si aspetta?
"Come figlia mi aspetto che cambi tutto. Per me, per mio marito, per i miei figli. Vorrei una vita normale o quasi normale. Vorrei lavorare. Vorrei che mi si giudicasse per quello che sono e faccio. Vorrei soprattutto che i miei figli fossero considerati domani uomini e donne come tutti gli altri. Oggi sto parlando per loro". Ha mai pensato di andare via da Corleone? "Chi lo sa, forse un giorno... ".
(La Repubblica, 28 gennaio 2009)
ATTILIO BOLZONI
"Non ho problemi a parlare di mafia, ma temo di essere interpretata male. Ora vorrei una vita normale"
CORLEONE - Comincia a parlare anche di quando erano tutti fantasmi, latitanti in Sicilia. Lei con sua madre Ninetta, con i fratelli Gianni e Salvo, con la sorella Lucia. E con suo padre Totò Riina:
"Chi eravamo, noi lo sapevamo da sempre: noi lo sapevamo che eravamo latitanti. Da quando io mi posso ricordare, l'ho sempre saputa questa cosa che mio padre era ricercato e che noi dovevamo scappare perché lo cercavano, perché mio padre era accusato di tutti questi omicidi". Ricorda ancora di quella vita in fuga: "Per me però era una cosa che era al di fuori da quello che vedevo io o che sentivo in tv. Era una cosa lontana da quello che vivevo nella mia famiglia". Parla Maria Concetta Riina, la figlia del capo dei capi di Cosa Nostra. Per la prima volta si fa intervistare da Repubblica e si concede alle nostre telecamere per raccontare suo padre, l'uomo più pericoloso d'Italia per un ventennio, il mafioso che è stato catturato - il 15 gennaio del 1993 - dopo un quarto di secolo di omicidi e trame. Maria Concetta è nella sua Corleone. Ha deciso di uscire allo scoperto "per il futuro dei miei figli". Parla un poco di quel suo passato oscuro e tanto del suo tormentato presente. Mai di affari di famiglia. Di vittime. Di una Sicilia soffocata e insanguinata. Parla molto dei fratelli in carcere e "di quel 41 bis che mi fa soffrire tanto per Gianni" e parla del nome terribile che porta. E si presenta: "Io sono Maria Concetta Riina, ho 34 anni, tutti gli amici mi chiamano Mari. Sono sposata con Toni Ciavarello e abbiamo tre figli: Gian Salvo, Maria Lucia e Gabriele. Vivo a Corleone dal 16 gennaio del 1993, il giorno dopo che si sono portati via mio padre".
Quale è stata la sua prima reazione quando ha scoperto che suo padre era il nemico numero uno dello Stato italiano, quello accusato di avere ucciso anche Falcone e Borsellino?
"Era una situazione surreale, assurda. Quello che dicevano su di noi io lo sentivo ma è come se non mi appartenesse. È come se non parlassero di me, di mio padre, della mia famiglia ma di qualcun altro".
Suo padre è stato condannato per decine di omicidi, misfatti di eccezionale crudeltà, stragi. È mai possibile che tutto questo per lei fosse soltanto "assurdo" o "surreale"? Come poteva non credere a tutto quello che si diceva sul conto di suo padre?
"Per me, e questo lo pensa anche lui, è stato un parafulmine per tante situazioni. Faceva comodo a molti dire che tutte quelle cose le aveva fatte Totò Riina. Tutti sanno benissimo comunque che qualsiasi cosa gli avessero chiesto, lui non sarebbe andato più di là, oltre. Non avrebbe mai fatto nomi e cognomi di nessuno. A lui hanno chiesto tante volte in maniera esplicita di pentirsi, ma il suo è sempre stato un no tassativo. È stato detto e non detto anche che quel suo l'avrebbero fatto pesare su di noi. Sui figli, su tutta la sua famiglia".
Perché quando parla di suo padre non pronuncia mai la parola mafia?
"Non ho problemi a parlarne. Però quella parola messa in bocca a me.... Se dico qualcosa può venire mal interpretata. Direbbero: guarda, parla di mafia proprio la figlia di Totò Riina... A casa mia, io non l'ho vissuta quella mafia".
Per lo Stato italiano è un assassino, per lei chi è suo padre?
"Sembrerà strano... mio padre viene presentato come un sanguinario, crudele, quasi un animale, uno che addirittura avrebbe fatto uccidere anche i bambini. Ma a me, come figlia, tutto questo non risulta. So io quello che mi ha trasmesso. Educazione. Moralità. Rispetto. E quando parlo di rispetto non parlo in quel senso, in senso omertoso. La persona che io sono ora, è quella che mio padre e mia madre hanno lasciato".
Si rende naturalmente conto che c'è un contrasto nettissimo tra come suo padre è descritto in centinaia di sentenze e come lo sta descrivendo lei adesso. Come può parlare di moralità e di rispetto una persona che ha fatto uccidere tanti uomini?
"Ecco perché ho detto che vi sembrerà strano, ma mio padre per me è così. E io così l'ho vissuto e così lo vivo ancora".
Dopo 19 anni che lei ha vissuto in latitanza con tutta la sua famiglia è arrivata a Corleone nel gennaio del 1993. Come è stato il passaggio dalla clandestinità alla visibilità?
"Come una seconda vita. Abbiamo potuto fare una cosa che non avevamo mai fatto prima: incontrarci di presenza con tutti i nostri parenti. Abbiamo trovato tutte le mie zie, mia nonna...".
Corleone è sempre stato il regno di suo padre, il paese che aveva in pugno, per alcuni il paese più mafioso e omertoso della Sicilia dove la paura poteva "proteggere" la sua famiglia. Come è stato il ritorno?
"Il paese ci ha accolti bene, non ci ha isolati. Anzi, molte persone hanno cercato di farci sentire a nostro agio. Come se avessimo vissuto lì da sempre".
Chiamarsi Riina molte volte vi ha fatto comodo, è un nome che in Sicilia faceva tremare. Lei sente di esercitare qualche potere?
"Perché non pensate alle difficoltà che ho avuto?".
Quali difficoltà?
"Il problema vero per noi è sempre stato trovare un lavoro... Tutti hanno paura di essere messi sui giornali, paura magari di essere considerati collusi. Qualche tempo fa ho frequentato i corsi di una cooperativa a Palermo, poi a un certo punto mi è stato detto che dovevo andarmene perché altrimenti quella cooperativa la chiudevano. Non è bello sentirsi dire certe cose. Giustamente tu dici: io non ho fatto niente, mi sono comportata bene con tutti. Mi hanno penalizzato solo perché mi chiamavo Riina. E non è stata l'ultima volta".
Ma Totò Riina per lo Stato è sempre stato "il capo dei capi": se ne dimentica?
"Ma per me ormai è un calvario. Tempo fa avevo anche fatto una domanda di accesso a un corso che organizzava servizi finanziari. Sono salita a Milano, è andato tutto bene, ho legato con tutti, anche con il direttore commerciale. Tutto a postissimo. Poi hanno visto sul mio documento di identità nome e provenienza: Riina e Corleone. Alla fine mi hanno fatto la fatidica domanda: "Ma tu sei parente di?". Io ho risposto: certo, sì, sono la figlia. L'ho detto con naturalezza... io non lo dico mai prima, non cammino con il cartello appeso al collo con su scritto "Sono la figlia di Riina", però se me lo domandano non ho problemi a dirlo. Non è passata nemmeno mezz'ora e mi ha chiamato il direttore dicendo che era offeso perché non gliel'avevo detto prima. Era un grosso problema per lui, per l'immagine della sua azienda".
Torniamo a suo padre. È in isolamento da 16 anni. Ma quando va a colloquio, lo vede dietro un vetro blindato e non gli ha mai chiesto conto delle accuse che gli vengono rivolte?
"È dalla mattina del 16 gennaio '93 che non lo accarezzo, certo se non ci fosse quel vetro... Prima ci andavo spesso a trovarlo ma adesso è complicato, ho tre figli. Mio padre ha condizioni peggiori del 41 bis normale, non ha contatti con altri detenuti, è messo in un'area a parte fatta apposta per lui".
In casa Riina non ci sono più figli maschi. Gianni è all'ergastolo per tre omicidi. Suo zio Leoluca Bagarella è in carcere dal 1995. Suo fratello Salvo è tornato dentro qualche giorno fa per scontare una pena residua. Lei parlava delle "sofferenze" del carcere, ma ha mai letto gli atti che accusano suo padre e suo fratello Gianni, le carte che raccontano i loro delitti?
"Loro devono scontare quello che devono e io non voglio giudicare i processi o sentenze. Dico solo che ho sofferenza, soprattutto per Gianni che è un ragazzo, ha vissuto troppo poco la sua adolescenza. E dico anche che, secondo me, si potrebbe evitare con lui un certo accanimento. Potrebbero farlo studiare in carcere, insegnargli un mestiere".
Lei parla di vita normale, difende sempre suo padre ma non prende mai le distanze dai delitti di cui è accusato: quale futuro si aspetta?
"Come figlia mi aspetto che cambi tutto. Per me, per mio marito, per i miei figli. Vorrei una vita normale o quasi normale. Vorrei lavorare. Vorrei che mi si giudicasse per quello che sono e faccio. Vorrei soprattutto che i miei figli fossero considerati domani uomini e donne come tutti gli altri. Oggi sto parlando per loro". Ha mai pensato di andare via da Corleone? "Chi lo sa, forse un giorno... ".
(La Repubblica, 28 gennaio 2009)
L'editoriale: "Commissione antimafia. Se ci sei, batti un colpo!"
di Roberto Morrione
Se ci sei, batti un colpo. L’antico adagio potrebbe adattarsi bene alla nuova Commissione Parlamentare Antimafia. Costituita l’11 Novembre scorso, con l’elezione di Beppe Pisanu a presidente, frutto di un accordo che ha visto l’astensione dell’opposizione e l’intesa per la nomina “bipartisan” dei vice-presidenti, dopo due mesi non solo non abbiamo ancora visto concreti progetti operativi, ma neppure un indirizzo di fondo, uno di quegli atti forse simbolici, ma che attestano di fronte al parlamento e all’opinione pubblica la precisa volontà di sviluppare quanto la precedente Commissione aveva intrapreso. Non vogliamo qui risollevare le polemiche che segnarono il faticoso avvio dell’impegno nella precedente legislatura, con una presenza di alcuni personaggi inquisiti e al centro di vicende giudiziarie, pur non mancando anche nel nuovo organismo bicamerale alcuni nomi per lo meno opinabili e sindacabili…Il fatto che nonostante i dubbi iniziali la Commissione guidata da Francesco Forgione in poco più di un anno abbia lavorato bene e in modo unitario sgombra di per sé il campo da polemiche pregiudiziali, che devono però essere seguite da atti concreti. A partire dalla richiesta di piena attuazione da parte di tutti i partiti di quel Codice Etico allora approvato per la formazione delle liste elettorali, con l’esclusione di imputati per procedimenti di mafia e di condannati in vicende giudiziarie, che rappresenta un rilevante segnale di discontinuità nel rapporto fra la politica e la società, la riaffermazione di una responsabilità pubblica di trasparenza che escluda ogni contiguità affaristica e di scambio con interessi di origine illegale. Le imminenti elezioni europee e soprattutto quelle amministrative costituiscono un obiettivo che la Commissione Antimafia deve riproporre con determinazione. Così le numerose inchieste giudiziarie aperte in Regioni e grandi Comuni, che coinvolgono trasversalmente amministratori di diversa estrazione politica, in una contaminazione e a volte complicità fra settori dell’amministrazione pubblica e imprese, mentre la corruzione è dilagante in forme più sottili e complesse di quelle che risalgono a “tangentopoli”, non possono vedere assente l’organismo parlamentare, sia pure nel rispetto dell’autonomia del potere giudiziario. Per non parlare della necessità per lo meno morale, se non istituzionale, di prendere posizione su casi estremi quale quello della permanenza nel governo del sottosegretario Nicola Cosentino, nonostante le concomitanti accuse di collegamenti con esponenti di clan camorristici da parte di pentiti ritenuti giudizialmente attendibili…Ma è soprattutto nell’attacco frontale alle ricchezze illegali delle mafie e alla loro immersione nell’ economia legale, che è improrogabile la concreta ripresa d’attività della Commissione Antimafia. E’ sotto gli occhi di tutti il dilagare in Italia, in Europa e nel mondo, di investimenti di origine mafiosa debitamente riciclati attraverso le maglie del sistema bancario e finanziario, che l’aggravarsi della crisi economica e della recessione su una miriade di imprese renderà ancora più agevole, considerata l’enorme capacità di liquidità di cui dispongono le mafie attraverso il pizzo e soprattutto i traffici internazionali di droga, armi, rifiuti tossici, esseri umani. Gli arresti che si susseguono nel cuore della capitale, ormai invasa da camorra e ‘ndrangheta che rilevano esercizi commerciali e supermarket, come le inchieste aperte nelle altre regioni italiane o i rischi che si intravedono già negli investimenti sull’Expo di Milano, dicono quanto sia urgente riprendere le proposte della precedente Commissione in tema di riciclaggio, anche in chiave di normativa europea, come sul costituire subito l’Agenzia per la gestione dei beni sequestrati, su più incisive norme in materia di controllo degli appalti pubblici e di scioglimento dei consigli comunali collusi, colpendo anche gli apparati burocratici. Si avverte infine la necessità di un intervento sulla controversa riforma della Giustizia, se non altro per denunciare l’inquietante impoverimento della presenza numerica dei PM nelle procure delle zone ad alta densità mafiosa, frutto di norme sbagliate che risalgono al precedente governo Berlusconi e i rischi derivanti dal decreto sulle intercettazioni ancora in discussione.
Per arrivare a unificare in un unico testo di legge la complessa e ramificata normativa antimafia, per dare un indirizzo unitario all’azione di contrasto nei procedimenti, certo encomiabili per l’impegno di tanti magistrati e delle forze investigative, ma scoordinati e frammentati. C’è qualcuno, almeno all’interno della Commissione istituzionalmente preposta, che si pone la domanda se ci sono le condizioni di costruire su scala nazionale un modello e un quadro unitario di riferimento che si rifaccia all’azione straordinaria che il pool di Caponnetto, Falcone e Borsellino impressero a Palermo contro Cosa Nostra? Questa sì che sarebbe un vero passo avanti nella riforma della Giustizia, all’altezza della sfida lanciata dalle mafie e dai loro complici dai colletti bianchi, sfida che lo Stato, purtroppo, sta finora perdendo.
Se ci sei, batti un colpo. L’antico adagio potrebbe adattarsi bene alla nuova Commissione Parlamentare Antimafia. Costituita l’11 Novembre scorso, con l’elezione di Beppe Pisanu a presidente, frutto di un accordo che ha visto l’astensione dell’opposizione e l’intesa per la nomina “bipartisan” dei vice-presidenti, dopo due mesi non solo non abbiamo ancora visto concreti progetti operativi, ma neppure un indirizzo di fondo, uno di quegli atti forse simbolici, ma che attestano di fronte al parlamento e all’opinione pubblica la precisa volontà di sviluppare quanto la precedente Commissione aveva intrapreso. Non vogliamo qui risollevare le polemiche che segnarono il faticoso avvio dell’impegno nella precedente legislatura, con una presenza di alcuni personaggi inquisiti e al centro di vicende giudiziarie, pur non mancando anche nel nuovo organismo bicamerale alcuni nomi per lo meno opinabili e sindacabili…Il fatto che nonostante i dubbi iniziali la Commissione guidata da Francesco Forgione in poco più di un anno abbia lavorato bene e in modo unitario sgombra di per sé il campo da polemiche pregiudiziali, che devono però essere seguite da atti concreti. A partire dalla richiesta di piena attuazione da parte di tutti i partiti di quel Codice Etico allora approvato per la formazione delle liste elettorali, con l’esclusione di imputati per procedimenti di mafia e di condannati in vicende giudiziarie, che rappresenta un rilevante segnale di discontinuità nel rapporto fra la politica e la società, la riaffermazione di una responsabilità pubblica di trasparenza che escluda ogni contiguità affaristica e di scambio con interessi di origine illegale. Le imminenti elezioni europee e soprattutto quelle amministrative costituiscono un obiettivo che la Commissione Antimafia deve riproporre con determinazione. Così le numerose inchieste giudiziarie aperte in Regioni e grandi Comuni, che coinvolgono trasversalmente amministratori di diversa estrazione politica, in una contaminazione e a volte complicità fra settori dell’amministrazione pubblica e imprese, mentre la corruzione è dilagante in forme più sottili e complesse di quelle che risalgono a “tangentopoli”, non possono vedere assente l’organismo parlamentare, sia pure nel rispetto dell’autonomia del potere giudiziario. Per non parlare della necessità per lo meno morale, se non istituzionale, di prendere posizione su casi estremi quale quello della permanenza nel governo del sottosegretario Nicola Cosentino, nonostante le concomitanti accuse di collegamenti con esponenti di clan camorristici da parte di pentiti ritenuti giudizialmente attendibili…Ma è soprattutto nell’attacco frontale alle ricchezze illegali delle mafie e alla loro immersione nell’ economia legale, che è improrogabile la concreta ripresa d’attività della Commissione Antimafia. E’ sotto gli occhi di tutti il dilagare in Italia, in Europa e nel mondo, di investimenti di origine mafiosa debitamente riciclati attraverso le maglie del sistema bancario e finanziario, che l’aggravarsi della crisi economica e della recessione su una miriade di imprese renderà ancora più agevole, considerata l’enorme capacità di liquidità di cui dispongono le mafie attraverso il pizzo e soprattutto i traffici internazionali di droga, armi, rifiuti tossici, esseri umani. Gli arresti che si susseguono nel cuore della capitale, ormai invasa da camorra e ‘ndrangheta che rilevano esercizi commerciali e supermarket, come le inchieste aperte nelle altre regioni italiane o i rischi che si intravedono già negli investimenti sull’Expo di Milano, dicono quanto sia urgente riprendere le proposte della precedente Commissione in tema di riciclaggio, anche in chiave di normativa europea, come sul costituire subito l’Agenzia per la gestione dei beni sequestrati, su più incisive norme in materia di controllo degli appalti pubblici e di scioglimento dei consigli comunali collusi, colpendo anche gli apparati burocratici. Si avverte infine la necessità di un intervento sulla controversa riforma della Giustizia, se non altro per denunciare l’inquietante impoverimento della presenza numerica dei PM nelle procure delle zone ad alta densità mafiosa, frutto di norme sbagliate che risalgono al precedente governo Berlusconi e i rischi derivanti dal decreto sulle intercettazioni ancora in discussione.
Per arrivare a unificare in un unico testo di legge la complessa e ramificata normativa antimafia, per dare un indirizzo unitario all’azione di contrasto nei procedimenti, certo encomiabili per l’impegno di tanti magistrati e delle forze investigative, ma scoordinati e frammentati. C’è qualcuno, almeno all’interno della Commissione istituzionalmente preposta, che si pone la domanda se ci sono le condizioni di costruire su scala nazionale un modello e un quadro unitario di riferimento che si rifaccia all’azione straordinaria che il pool di Caponnetto, Falcone e Borsellino impressero a Palermo contro Cosa Nostra? Questa sì che sarebbe un vero passo avanti nella riforma della Giustizia, all’altezza della sfida lanciata dalle mafie e dai loro complici dai colletti bianchi, sfida che lo Stato, purtroppo, sta finora perdendo.
liberainformazione.org
Roma, 26.01.2009
martedì 27 gennaio 2009
Intervista a Beppe Lumia. La Commissione antimafia scelga la via dell'inchiesta
di Norma Ferrara
Un nuovo testo per il 41 bis. Condanne più dure per i mafiosi. La neonata commissione antimafia. Il coraggio di fare luce sui mandanti esterni delle stragi e sui legami mafia e politica
Solo qualche giorno fa nell’operazione che manda in carcere 24 affiliati al clan Madonia si scopre che nonostante il 41 bis un boss riesce ad impartire ordini a familiari e “reggenti”. Non solo. Il presidente della provincia nissena, sarebbe coinvolto nell'operazione per presunto scambio di voti. Stato, mafia e politica e strumenti legislativi per combatterli. Il punto con il senatore Beppe Lumia.
Dopo l'operazione contro il clan Madonia, ancora polemiche sul 41 bis. Strumento a favore dei mafiosi, anziché dello Stato?
Il 41 bis così com’è purtroppo è un privilegio per i boss mafiosi. E' già pronta in parlamento una nuova proposta, in discussione al disegno 733 sulla sicurezza. Si tratta di un 41 bis in grado di bloccare il flusso di comunicazione verso l’esterno e capace di affrontare un tema molto delicato che è quello della riapertura delle carceri nelle piccole isole. Mentre si parla di carceri superaffollate, li sono state chiuse solo le sezioni dedicate al 41 bis: una contraddizione gravissima.
Un 41 bis svuotato o fatto male, dunque?
Nato nel post – stragi sulla scia dell’emergenza, il 41 bis aveva un carattere emergenziale temporaneo. Era una misura che si articolava ogni sei mesi impedendo cosi di fatto il ricorso davanti al giudice di sorveglianza, Successivamente il 41bis divenne una norma ordinaria allungando i tempi da sei mesi ad un anno. I giudici di sorveglianza sono spesso intervenuti con interpretazioni - come abbiamo constatato in Commissione antimafia - troppo agganciate al dettato normativo, in sostanza favorevoli ai boss mafiosi. C’è di fondo un dato importante. Non devono essere questi giudici ad occuparsi del 41 bis, ma il giudice competente per il territorio di provenienza del boss mafioso. Inoltre non deve essere lo Stato a dimostrare che il mafioso non ha più rapporti con l’esterno, ma il contrario.
Non solo 41 bis …. da anni sentiamo parlare sempre delle stesse "famiglie", per destabilizzare Cosa nostra serve anche altro. Cosa?
Inasprire le condanne. Pene basse infatti non destrutturano le organizzazioni. Non mettono in crisi l’aspetto economico “assistenziale”del mantenimento da parte delle famiglie verso i mafiosi. Sto preparando in questi giorni, un disegno di legge che considero il più dirompente che si possa presentare; aumenta tutte le condanne per reati di mafia, da 20 anni in su, proprio con questo obiettivo. Solo mettendo insieme queste norme potremmo colpire in modo intelligente le organizzazioni mafiose per distruggerle e non solo per combatterle.
Proprio in questi mesi si è insediata la nuova Commissione Antimafia, presieduta da Pisanu. Come procedono i lavori?
C’è una importante novità. La norma di supporto necessaria a far nascere, in ogni legislazione, la Commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia quest’anno ha inserito fra gli obiettivi dell’attuale commissione: i rapporti mafia e politica, la necessità di fare chiarezza sugli anni delle stragi e sul sistema delle collusioni economico – politiche con le mafie. La commissione si trova dunque ad un bivio: può scegliere di utilizzare poteri d’inchiesta (simili a quelli della magistratura) per individuare queste responsabilità politiche. Oppure imboccare l’altra strada, quella più scontata: elaborare documenti dando contributo tutto sommato ordinario, senza andare alla radice, limitandosi a dare indirizzi, per contenere le mafie e non per sradicarle. Ci stiamo battendo perché scelga la prima. Vedremo se c’è la volontà di farlo.
Lei ha appena citato alcuni “buchi neri” della nostra storia italiana, come gli anni delle stragi. Il procuratore Antonino di Matteo l’ha ribadito più volte: “ su D’Amelio è mancata la volontà politica di indagare sui mandanti esterni”. Lei concorda su questa dichiarazione?
Sono d’accordo con lui e aggiungo: il tema delle stragi ha avuto due limiti. Un primo limite interno alla magistratura stessa e un secondo di ordine politico. Ci sono zone d’ombra che devono essere affrontate con gli strumenti dell’inchiesta istituzionale per giungere al giudizio politico capace di consegnare al Paese la verità sulle responsabilità di cui si macchiarono esponenti politici di allora . Quelle che portarono al passaggio fra la morte della Prima repubblica e la nascita della Seconda al fine di individuare quegli accordi, quei compromessi , grazie a cui le organizzazioni mafiose osarono sfidare lo Stato non solo con l’obiettivo di punire i loro storici nemici ma di ricollocare Cosa nostra dentro le strategie e la vita democratica del Paese.
Pensa che la nuova commissione posso condurre un'inchiesta sui mandanti esterni delle stragi di Palermo?
Lo spero. La Commissione parlamentare antimafia deve imboccare la strada dell’inchiesta e deve dire al Paese che la lotta alla mafia è la prima delle priorità, intorno a cui raccogliere, questioni delicate in Parlamento e verso cui non lesinare risorse, dando alle istituzioni, politica, società civile e comunità internazionale, strumenti legislativi operativi e amministrativi per eliminare le mafie per puntare alla testa delle organizzazioni mafiose e disintegrarle.
Ci sono aree del Paese dove la sovrapposizione mafia e istituzioni è giunta a livelli ormai altissimi. Lei si è più volte occupato di denunciarle, soprattutto in relazione alla provincia di Messina. Qual è la situazione oggi sul versante siciliano dello Stretto ?
La situazione messinese presenta negli ultimi anni una novità. Sono sempre più convinto che il “sistema barcellonese” (rif. al paese di Barcellona pozzo di Gotto (Me)) oggi sia in grado di condizionare tutta la provincia compresa la città di Messina.Questo è il punto vero dell'inchiesta che bisognerebbe produrre, per cui da anni mi batto, su cui ci sono tutta una serie di elementi ben chiari, noti, su cui mi appresto a richiedere l’ intervento della Commissione antimafia. Ritornerò a chiedere che si indaghi ancora sul Caso Alfano, sul Caso Manca, sul delitto Campagna e sul suicidio del prof. Adolfo Parmaliana. Tutti casi che hanno messo in luce il collegamento mafia e politica, mafia e massoneria, mafia apparati e che hanno consentito a Cosa nostra di tenere quei territori sotto un controllo ferreo.
Perché un paesino come Barcellona Pozzo di Gotto diventa strategico per Cosa nostra e contemporaneamente per l’intera politica nazionale?
Perché storicamente è stato il punto di confluenza delle più importanti organizzazioni mafiose. E’ stato scelto come base logistica per la grande latitanza per cui bisognava tenerlo sotto controllo ma in silenzio. Perchè le mafie locali sono sempre state abili a fornire supporto in quest’ottica proprio a Cosa nostra, palermitana e catanese, e alla ‘ndrangheta. Infine, non ultima, c’è stata una borghesia e una classe dirigente che per ottenere il potere e competere con gli altri territori della Sicilia ha utilizzato anche la mafia per legittimarsi, avere rilievo e forza. Questo ha portato Barcellona ai più alti livelli di controllo mafioso di affari politici ed economici. Non solo locali.
E’ stato annunciato proprio nella città del Longano, per la prima volta, la nascita di un movimento antimafia (collegato al gruppo Ammazzateci tutti_ Sicilia). A guidarlo una giovane ragazza di soli 17 anni. C’è voglia di reagire, finalmente a tutto questo, che ne pensa?
Si. Quando mi reco nella provincia e a Barcellona pozzo di Gotto, ai dibattiti trovo sempre tanta gente dunque la voglia di partecipazione c’è. Questo lo reputo un segnale positivo su cui costruire un fronte antimafia più forte e più coeso.
Un nuovo testo per il 41 bis. Condanne più dure per i mafiosi. La neonata commissione antimafia. Il coraggio di fare luce sui mandanti esterni delle stragi e sui legami mafia e politica
Solo qualche giorno fa nell’operazione che manda in carcere 24 affiliati al clan Madonia si scopre che nonostante il 41 bis un boss riesce ad impartire ordini a familiari e “reggenti”. Non solo. Il presidente della provincia nissena, sarebbe coinvolto nell'operazione per presunto scambio di voti. Stato, mafia e politica e strumenti legislativi per combatterli. Il punto con il senatore Beppe Lumia.
Dopo l'operazione contro il clan Madonia, ancora polemiche sul 41 bis. Strumento a favore dei mafiosi, anziché dello Stato?
Il 41 bis così com’è purtroppo è un privilegio per i boss mafiosi. E' già pronta in parlamento una nuova proposta, in discussione al disegno 733 sulla sicurezza. Si tratta di un 41 bis in grado di bloccare il flusso di comunicazione verso l’esterno e capace di affrontare un tema molto delicato che è quello della riapertura delle carceri nelle piccole isole. Mentre si parla di carceri superaffollate, li sono state chiuse solo le sezioni dedicate al 41 bis: una contraddizione gravissima.
Un 41 bis svuotato o fatto male, dunque?
Nato nel post – stragi sulla scia dell’emergenza, il 41 bis aveva un carattere emergenziale temporaneo. Era una misura che si articolava ogni sei mesi impedendo cosi di fatto il ricorso davanti al giudice di sorveglianza, Successivamente il 41bis divenne una norma ordinaria allungando i tempi da sei mesi ad un anno. I giudici di sorveglianza sono spesso intervenuti con interpretazioni - come abbiamo constatato in Commissione antimafia - troppo agganciate al dettato normativo, in sostanza favorevoli ai boss mafiosi. C’è di fondo un dato importante. Non devono essere questi giudici ad occuparsi del 41 bis, ma il giudice competente per il territorio di provenienza del boss mafioso. Inoltre non deve essere lo Stato a dimostrare che il mafioso non ha più rapporti con l’esterno, ma il contrario.
Non solo 41 bis …. da anni sentiamo parlare sempre delle stesse "famiglie", per destabilizzare Cosa nostra serve anche altro. Cosa?
Inasprire le condanne. Pene basse infatti non destrutturano le organizzazioni. Non mettono in crisi l’aspetto economico “assistenziale”del mantenimento da parte delle famiglie verso i mafiosi. Sto preparando in questi giorni, un disegno di legge che considero il più dirompente che si possa presentare; aumenta tutte le condanne per reati di mafia, da 20 anni in su, proprio con questo obiettivo. Solo mettendo insieme queste norme potremmo colpire in modo intelligente le organizzazioni mafiose per distruggerle e non solo per combatterle.
Proprio in questi mesi si è insediata la nuova Commissione Antimafia, presieduta da Pisanu. Come procedono i lavori?
C’è una importante novità. La norma di supporto necessaria a far nascere, in ogni legislazione, la Commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia quest’anno ha inserito fra gli obiettivi dell’attuale commissione: i rapporti mafia e politica, la necessità di fare chiarezza sugli anni delle stragi e sul sistema delle collusioni economico – politiche con le mafie. La commissione si trova dunque ad un bivio: può scegliere di utilizzare poteri d’inchiesta (simili a quelli della magistratura) per individuare queste responsabilità politiche. Oppure imboccare l’altra strada, quella più scontata: elaborare documenti dando contributo tutto sommato ordinario, senza andare alla radice, limitandosi a dare indirizzi, per contenere le mafie e non per sradicarle. Ci stiamo battendo perché scelga la prima. Vedremo se c’è la volontà di farlo.
Lei ha appena citato alcuni “buchi neri” della nostra storia italiana, come gli anni delle stragi. Il procuratore Antonino di Matteo l’ha ribadito più volte: “ su D’Amelio è mancata la volontà politica di indagare sui mandanti esterni”. Lei concorda su questa dichiarazione?
Sono d’accordo con lui e aggiungo: il tema delle stragi ha avuto due limiti. Un primo limite interno alla magistratura stessa e un secondo di ordine politico. Ci sono zone d’ombra che devono essere affrontate con gli strumenti dell’inchiesta istituzionale per giungere al giudizio politico capace di consegnare al Paese la verità sulle responsabilità di cui si macchiarono esponenti politici di allora . Quelle che portarono al passaggio fra la morte della Prima repubblica e la nascita della Seconda al fine di individuare quegli accordi, quei compromessi , grazie a cui le organizzazioni mafiose osarono sfidare lo Stato non solo con l’obiettivo di punire i loro storici nemici ma di ricollocare Cosa nostra dentro le strategie e la vita democratica del Paese.
Pensa che la nuova commissione posso condurre un'inchiesta sui mandanti esterni delle stragi di Palermo?
Lo spero. La Commissione parlamentare antimafia deve imboccare la strada dell’inchiesta e deve dire al Paese che la lotta alla mafia è la prima delle priorità, intorno a cui raccogliere, questioni delicate in Parlamento e verso cui non lesinare risorse, dando alle istituzioni, politica, società civile e comunità internazionale, strumenti legislativi operativi e amministrativi per eliminare le mafie per puntare alla testa delle organizzazioni mafiose e disintegrarle.
Ci sono aree del Paese dove la sovrapposizione mafia e istituzioni è giunta a livelli ormai altissimi. Lei si è più volte occupato di denunciarle, soprattutto in relazione alla provincia di Messina. Qual è la situazione oggi sul versante siciliano dello Stretto ?
La situazione messinese presenta negli ultimi anni una novità. Sono sempre più convinto che il “sistema barcellonese” (rif. al paese di Barcellona pozzo di Gotto (Me)) oggi sia in grado di condizionare tutta la provincia compresa la città di Messina.Questo è il punto vero dell'inchiesta che bisognerebbe produrre, per cui da anni mi batto, su cui ci sono tutta una serie di elementi ben chiari, noti, su cui mi appresto a richiedere l’ intervento della Commissione antimafia. Ritornerò a chiedere che si indaghi ancora sul Caso Alfano, sul Caso Manca, sul delitto Campagna e sul suicidio del prof. Adolfo Parmaliana. Tutti casi che hanno messo in luce il collegamento mafia e politica, mafia e massoneria, mafia apparati e che hanno consentito a Cosa nostra di tenere quei territori sotto un controllo ferreo.
Perché un paesino come Barcellona Pozzo di Gotto diventa strategico per Cosa nostra e contemporaneamente per l’intera politica nazionale?
Perché storicamente è stato il punto di confluenza delle più importanti organizzazioni mafiose. E’ stato scelto come base logistica per la grande latitanza per cui bisognava tenerlo sotto controllo ma in silenzio. Perchè le mafie locali sono sempre state abili a fornire supporto in quest’ottica proprio a Cosa nostra, palermitana e catanese, e alla ‘ndrangheta. Infine, non ultima, c’è stata una borghesia e una classe dirigente che per ottenere il potere e competere con gli altri territori della Sicilia ha utilizzato anche la mafia per legittimarsi, avere rilievo e forza. Questo ha portato Barcellona ai più alti livelli di controllo mafioso di affari politici ed economici. Non solo locali.
E’ stato annunciato proprio nella città del Longano, per la prima volta, la nascita di un movimento antimafia (collegato al gruppo Ammazzateci tutti_ Sicilia). A guidarlo una giovane ragazza di soli 17 anni. C’è voglia di reagire, finalmente a tutto questo, che ne pensa?
Si. Quando mi reco nella provincia e a Barcellona pozzo di Gotto, ai dibattiti trovo sempre tanta gente dunque la voglia di partecipazione c’è. Questo lo reputo un segnale positivo su cui costruire un fronte antimafia più forte e più coeso.
liberainformazione.org
Roma, 27.01.2009
lunedì 26 gennaio 2009
Gioacchino Genchi: "Il premier tirato dentro ad arte, io non ho nessun archivio segreto"
Parla l'esperto informatico e consulente dell'ex pm di Catanzaro De Magistris: "In atto una grande mistificazione. Nessun coinvolgimento di Spataro o De Gennaro"
ROMA - "Io in vita in mia, compreso il periodo che ho svolto attivo nella polizia di Stato, non ho mai svolto una sola intercettazione, e sfido chiunque a dimostrare il contrario, né legale né tanto meno illegale". Ai microfoni di SkyTg24 Gioacchino Genchi, esperto informatico e consulente dell'ex pm di Catanzaro, Luigi De Magistris, ha ribadito quanto aveva precedentemente detto a Repubblica, negando anche l'esistenza di un archivio segreto. Genchi, nel corso di altre interviste rilasciate all'Ansa e al Secolo XIX, ha negato ogni coinvolgimento di Berlusconi e ha chiamato in causa un parlamentare "che ha intestato a suo nome decine di schede telefoniche e le ha distribuite ai suoi conoscenti", in Calabria. "Tra l'altro - ha continuato - le intercettazioni illegali sono punite dalla legge, esiste pure un'aggravante qualora vengano commesse da un pubblico ufficiale, e io sono un pubblico ufficiale, ipotesi per la quale è previsto l'arresto: se qualcuno sostiene che io abbia svolto delle intercettazioni illegali lo dicesse pure, così mi arrestano. L'archivio? Non esiste nessun archivio". Per Genchi, sulla vicenda che lo riguarda è in atto "una grande mistificazione", perché "la confusione non è solo una carenza di conoscenze professionali e tecniche di chi la fa ma attiene proprio alla volontà di mistificare e denigrare". Insomma, per Genchi "certi nomi" inquadrati nell'inchiesta "sono stati fatti trapelare ad arte". E' il caso di quello di Armando Spataro, il pm antiterrorismo di Milano. "Non c'è nulla su Spataro. Spataro non c'azzecca nulla e il suo nome è stato fatto trapelare per tagliare i ponti a De Magistris, visto il ruolo che Spataro ricopre nella magistratura e il peso che ha nella sua corrente".
Parimenti, secondo Genchi non c'è nulla neanche nei confronti dell'ex capo della polizia Gianni De Gennaro e dell'ex direttore del Sisde Gabrielli, che per il consulente informatico "è persona offesa" e i cui tabulati telefonici "non sono mai stati acquisiti". Insomma, per Genchi il quadro è chiaro: De Magistris indagava su "due fughe di notizie di una gravità inaudita" relative alla faida di San Luca e all'indagine Fortugno e per questo è stata montata ad arte "la più grande mistificazione d'Italia". "Il problema - ha concluso nel'intervista a Sky - è la Calabria e le collusioni che da lì partono verso altre zone d'Italia", tant'è vero che "il magistrati di Salerno hanno fatto bene a indagare" sull'attività della procura di Catanzaro. Quanto al premier, che durante il suo tour elettorale in Sardegna ha lanciato l'allarme su quello che ha definito il "più grande scandalo della Repubblica", il consulente ha dato la sua versione in una intervista successiva all'Ansa: "Berlusconi con la vicenda Why not non c'entra nulla - ha detto Genchi - Potrebbe entrarci lui, come Bin Laden o il Papa. Tirare dentro lui in questa vicenda facendogli credere che è stato intercettato è un modo come un altro per far sollecitare a Berlusconi iniziative che se deve adottarle le adotti pure, ma non c'entra niente". L'ex consulente del magistrato De Magistris ha poi aggiunto: "Posso sì sapere delle cose su di lui, ma non l'ho mai intercettato né mi sono occupato di lui nell'ambito delle inchieste Why not o Poseidone. Vogliono colpirmi - ha proseguito - perché sono un testimone di malefatte di alcuni magistrati di Catanzaro con intrecci che coinvolgono anche imprenditori, uomini dei servizi e giornalisti". All'Ansa, Genchi ha detto di non sapere di una sua eventuale iscrizione nel registro degli indagati da parte di qualche procura. "Non ho notizie dettagliate in merito, ho dato mandato al mio legale, l'avvocato Fabio Repici di occuparsene", ha aggiunto. Il consulente informatico ha poi fornito altri dettagli in un'intervista al Secolo XIX: "Forse sono altri che danno scandalo. Ad esempio quel parlamentare che ha intestato a suo nome decine di schede telefoniche e le ha distribuite ai suoi conoscenti. Schede che giravano per tutta la Calabria e che non si potevano controllare, perchè erano coperte da segreto parlamentare". Genchi si è detto "pronto" a rivelare il nome di questa persona "non appena la Commissione Antimafia mi convocherà". Secondo Genchi, non poteva essere sempre questa persona a utilizzarle perché "c'è la prova provata. Ha partecipato a una votazione in Parlamento - ha sottolineato - E non poteva essere coperto da un 'pianista' perché era una votazione ad appello nominale. Eppure, mentre lui era a Roma a votare, altre schede telefoniche a suo nome avevano contatti inquietanti in Calabria. Ma non si sarebbero mai potute intercettare se non chiedendo l'autorizzazione alla sua Camera. Come dire? A quel punto non sarebbe servito a nulla". Quanto alle intercettazioni dell'allora ministro Clemente Mastella, Genchi ha aggiunto: "Il Ros dei carabinieri non ha saputo nemmeno acquisire correttamente l'intestatario dell'utenza cellulare di Mastella, che non era da tempo intestata alla 'Camera dei Deputati' ma al Dap (Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria) quando ne sono stati acquisiti i tabulati. Mai e poi mai avrei potuto ipotizzare o supporre, quando ho acquisito il tabulato, che quel numero fosse di Mastella. Peraltro non mi sarebbe servito a nulla. Posto che avessi voluto dimostrare i contatti di Mastella con Saladino, questi sarebbero già emersi dal tabulato di quest'ultimo".
(La Repubblica, 26 gennaio 2009)
NELLA FOTO: Gioacchino Genchi
ROMA - "Io in vita in mia, compreso il periodo che ho svolto attivo nella polizia di Stato, non ho mai svolto una sola intercettazione, e sfido chiunque a dimostrare il contrario, né legale né tanto meno illegale". Ai microfoni di SkyTg24 Gioacchino Genchi, esperto informatico e consulente dell'ex pm di Catanzaro, Luigi De Magistris, ha ribadito quanto aveva precedentemente detto a Repubblica, negando anche l'esistenza di un archivio segreto. Genchi, nel corso di altre interviste rilasciate all'Ansa e al Secolo XIX, ha negato ogni coinvolgimento di Berlusconi e ha chiamato in causa un parlamentare "che ha intestato a suo nome decine di schede telefoniche e le ha distribuite ai suoi conoscenti", in Calabria. "Tra l'altro - ha continuato - le intercettazioni illegali sono punite dalla legge, esiste pure un'aggravante qualora vengano commesse da un pubblico ufficiale, e io sono un pubblico ufficiale, ipotesi per la quale è previsto l'arresto: se qualcuno sostiene che io abbia svolto delle intercettazioni illegali lo dicesse pure, così mi arrestano. L'archivio? Non esiste nessun archivio". Per Genchi, sulla vicenda che lo riguarda è in atto "una grande mistificazione", perché "la confusione non è solo una carenza di conoscenze professionali e tecniche di chi la fa ma attiene proprio alla volontà di mistificare e denigrare". Insomma, per Genchi "certi nomi" inquadrati nell'inchiesta "sono stati fatti trapelare ad arte". E' il caso di quello di Armando Spataro, il pm antiterrorismo di Milano. "Non c'è nulla su Spataro. Spataro non c'azzecca nulla e il suo nome è stato fatto trapelare per tagliare i ponti a De Magistris, visto il ruolo che Spataro ricopre nella magistratura e il peso che ha nella sua corrente".
Parimenti, secondo Genchi non c'è nulla neanche nei confronti dell'ex capo della polizia Gianni De Gennaro e dell'ex direttore del Sisde Gabrielli, che per il consulente informatico "è persona offesa" e i cui tabulati telefonici "non sono mai stati acquisiti". Insomma, per Genchi il quadro è chiaro: De Magistris indagava su "due fughe di notizie di una gravità inaudita" relative alla faida di San Luca e all'indagine Fortugno e per questo è stata montata ad arte "la più grande mistificazione d'Italia". "Il problema - ha concluso nel'intervista a Sky - è la Calabria e le collusioni che da lì partono verso altre zone d'Italia", tant'è vero che "il magistrati di Salerno hanno fatto bene a indagare" sull'attività della procura di Catanzaro. Quanto al premier, che durante il suo tour elettorale in Sardegna ha lanciato l'allarme su quello che ha definito il "più grande scandalo della Repubblica", il consulente ha dato la sua versione in una intervista successiva all'Ansa: "Berlusconi con la vicenda Why not non c'entra nulla - ha detto Genchi - Potrebbe entrarci lui, come Bin Laden o il Papa. Tirare dentro lui in questa vicenda facendogli credere che è stato intercettato è un modo come un altro per far sollecitare a Berlusconi iniziative che se deve adottarle le adotti pure, ma non c'entra niente". L'ex consulente del magistrato De Magistris ha poi aggiunto: "Posso sì sapere delle cose su di lui, ma non l'ho mai intercettato né mi sono occupato di lui nell'ambito delle inchieste Why not o Poseidone. Vogliono colpirmi - ha proseguito - perché sono un testimone di malefatte di alcuni magistrati di Catanzaro con intrecci che coinvolgono anche imprenditori, uomini dei servizi e giornalisti". All'Ansa, Genchi ha detto di non sapere di una sua eventuale iscrizione nel registro degli indagati da parte di qualche procura. "Non ho notizie dettagliate in merito, ho dato mandato al mio legale, l'avvocato Fabio Repici di occuparsene", ha aggiunto. Il consulente informatico ha poi fornito altri dettagli in un'intervista al Secolo XIX: "Forse sono altri che danno scandalo. Ad esempio quel parlamentare che ha intestato a suo nome decine di schede telefoniche e le ha distribuite ai suoi conoscenti. Schede che giravano per tutta la Calabria e che non si potevano controllare, perchè erano coperte da segreto parlamentare". Genchi si è detto "pronto" a rivelare il nome di questa persona "non appena la Commissione Antimafia mi convocherà". Secondo Genchi, non poteva essere sempre questa persona a utilizzarle perché "c'è la prova provata. Ha partecipato a una votazione in Parlamento - ha sottolineato - E non poteva essere coperto da un 'pianista' perché era una votazione ad appello nominale. Eppure, mentre lui era a Roma a votare, altre schede telefoniche a suo nome avevano contatti inquietanti in Calabria. Ma non si sarebbero mai potute intercettare se non chiedendo l'autorizzazione alla sua Camera. Come dire? A quel punto non sarebbe servito a nulla". Quanto alle intercettazioni dell'allora ministro Clemente Mastella, Genchi ha aggiunto: "Il Ros dei carabinieri non ha saputo nemmeno acquisire correttamente l'intestatario dell'utenza cellulare di Mastella, che non era da tempo intestata alla 'Camera dei Deputati' ma al Dap (Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria) quando ne sono stati acquisiti i tabulati. Mai e poi mai avrei potuto ipotizzare o supporre, quando ho acquisito il tabulato, che quel numero fosse di Mastella. Peraltro non mi sarebbe servito a nulla. Posto che avessi voluto dimostrare i contatti di Mastella con Saladino, questi sarebbero già emersi dal tabulato di quest'ultimo".
(La Repubblica, 26 gennaio 2009)
NELLA FOTO: Gioacchino Genchi
La Giornata della memoria contro i crimini del nazi-fascismo
Partecipo alla giornata della memoria ricordando i martiri della ferocia nazista e fascista su persone inermi colpevoli soltanto di appartenere ad una etnia, una religione, un gruppo politico, un genere sessuale. La memoria è necessaria dal momento che questa follia contro coloro che si ritengono diversi e come tali possono essere maltrattati o soppressi ritorna in Europa, nel nostro Paese, nel mondo. L'Italia ricorda l'Olocausto nel modo peggiore con leggi sulla sicurezza che stabiliscono una discriminazione in base all' appartenenza etnica: una discriminazione odiosa che si è abbattuta e si abbatte sui rom e sugli stranieri che, se clandestini, vengono puniti maggiorando la pena di un terzo. L'Europa che ha assistito inerte al massacro della popolazione palestinese ed in particolare dei bambini deve ricordare che la stessa indifferenza c'era tra gli abitanti delle città vicine al lagers nazisti e che per molti anni di guerra si finse di ignorare i campi di concentramento gremiti di milioni di infelici pur avendone notizia attraverso le fonti militari. Qualcuno sostiene che la memoria è dannosa perchè tiene vivo l'odio ed è spesso causa di nuove tragedie. Io penso che la memoria sia necessaria, perchè serve ad insegnarci quanto possa diventare mostruosa la creatura umana se drogata da ideologie suprematiste e avendo la forza militare per imporle. Voglio sperare che assieme alle persone soppresse a Buckenvald, ad Auschvitz e nei tanti campi di concentramento, noi italiani ricordiamo i lagers dove abbiamo soppresso migliaia di famiglie slave facendole morire di fame e di malattie o di percorse. Ricordiamo quindi non solo la ferocia nazista ma anche quella fascista verso popolazioni inermi della Jugoslavia e dell'Africa.
Pietro Ancona
Pietro Ancona
domenica 25 gennaio 2009
Mario Francese, il cronista controcorrente che per primo svelò l´ascesa dei "corleonesi"
di LUCA TESCAROLI
Aveva capito come cambiava Cosa nostra: fu assassinato sotto casa il 26 gennaio 1979. La sua morte aprì la serie dei delitti eccellenti. Fece per primo il nome del superboss Riina
In una serata di pieno inverno, quando l´Italia era percorsa dalla minaccia terroristica, alcuni sicari silenziosi e spietati rapirono alla vita un siciliano per bene, padre di quattro figli, mentre stava rientrando a casa dopo un´impegnativa giornata di lavoro. Aveva appena posteggiato l´auto e stava per raggiungere il portone dello stabile in cui abitava, quando l´imboscata scattò in viale Campania. Per sedici anni aveva scritto di cronaca giudiziaria, era divenuto una delle firme più apprezzate del Giornale di Sicilia e uno dei più esperti conoscitori delle vicende mafiose. Era Mario Francese e cessò di vivere il 26 gennaio 1979.Quel delitto rimase per un ventennio senza ragione e senza un colpevole (l´inchiesta venne riaperta su richiesta della famiglia e dopo le rivelazioni dei collaboratori di giustizia Francesco Di Carlo e Angelo Siino) e diede avvio a una lunga catena di sangue e di omicidi eccellenti. Solo in quell´anno vennero uccisi il segretario provinciale della Dc Michele Reina, il capo della squadra mobile Boris Giuliano, il giudice Cesare Terranova. E molti ancora ne seguirono. Si dovette attendere l´aprile del 2001 perché la Corte d´assise riconoscesse la matrice mafiosa dell´uccisione di Francese e accertasse che quel giornalista era stato assassinato per il suo straordinario impegno professionale e perché la sua esecuzione servisse da monito. Venne così sgombrato il campo da quelle piste alternative, riconducibili a inverosimili regolamenti di conti che determinati ambienti contigui al crimine mafioso avevano contribuito ad accreditare. In una Palermo paludosa, ove brulicavano opache complicità tra alcuni mafiosi ed esponenti del mondo dell´informazione, percorso da mille prudenze, egli aveva saputo ricostruire le vicende più complesse e rilevanti degli anni Sessanta e Settanta.Dalla strage di Ciaculli all´omicidio del colonnello Giuseppe Russo, non c´era stata vicenda giudiziaria di cui non si fosse occupato. Fu l´unico giornalista a intervistare la moglie di Totò Riina, Ninetta Bagarella. Il primo a capire l´evoluzione strategica e i nuovi interessi della mafia di Corleone. Intuì la frattura venutasi a creare tra l´ala moderata e il gruppo capeggiato da Luciano Liggio. Con i suoi articoli aveva precorso le inchieste giudiziarie, svelando la sanguinosa ascesa dei "corleonesi" di Riina e Provenzano, in un´epoca in cui le informazioni sulla struttura e sull´attività dell´organizzazione mafiosa erano molto limitate. Fece rivelazioni su personaggi come don Agostino Coppola, il sacerdote di Partinico che aveva celebrato le nozze segrete del latitante Riina e aveva rapporti con l´anonima sequestri.Si occupò a lungo delle speculazioni per la costruzione della diga Garcia sul fiume Belice e dei delitti che vi ruotarono attorno, spiegando che dietro la sigla di una misteriosa società, la Risa, si nascondeva Riina, a quell´epoca una sorta di male invisibile, pienamente coinvolto nella gestione dei subappalti relativi alla costruzione della diga. Scoprì che gli 820 ettari di terreni sui quali venne innalzata la diga erano stati acquistati dai mafiosi per due miliardi di lire e rivenduti alla Regione per diciassette, evidenziando il connubio tra mafia e politica nella prospettiva di un´enorme accumulazione di ricchezza.Quando venne assassinato, Francese stava attendendo la pubblicazione di un suo dossier su mafia e appalti, pubblicato postumo come supplemento al Giornale di Sicilia. Un ritardo di cui il giornalista si lamentò con diversi colleghi, ritenendo che «fosse uscito dalla redazione». Il delitto Francese fu il momento più alto di una strategia iniziata con gli attentati ai danni del quotidiano palermitano L´Ora, del direttore e del capo cronista del Giornale di Sicilia, Lino Rizzi e Lucio Galluzzo, ai quali vennero rispettivamente bruciate l´auto e la villa al mare.Con la morte del coraggioso giornalista Cosa nostra eliminò un cronista scomodo, che per i suoi rapporti con le forze dell´ordine era in grado di nuocere sempre più se fosse rimasto in vita, riuscì a far ritardare la pubblicazione del dossier e provocò l´allontanamento volontario di Rizzi e Galluzzo. Come osservarono gli estensori della motivazione della sentenza del 13 dicembre 2002 della Corte d´assise d´appello, da quel momento la linea editoriale del Giornale di Sicilia mutò radicalmente «sino a divenire, negli anni dei pentimenti di Buscetta e Contorno e del primo maxiprocesso, uno dei più feroci e critici dell´attività dei giudici del pool antimafia, definiti "sceriffi" e "professionisti dell´antimafia", e attaccati quotidianamente con incisivi e dotti corsivi».Sono trascorsi trent´anni da quel delitto di alta mafia, e su tutti noi incombe il dovere di ricordare il suo impegno, il suo sacrificio, le sofferenze dei familiari e l´esempio di dirittura morale. Oggi più che mai va rievocata quella tragica fine per la fedeltà alla verità dimostrata dal cronista siracusano dalla schiena dritta, un valore che l´informazione obbediente sempre più diffusa non riesce a metabolizzare, soprattutto quando deve interagire con i potenti. A questa persona occorre essere grati perché, in virtù delle sue inchieste e delle sue denunce, si è iniziato a conoscere cos´è la mafia. Il suo impegno e la sua sorte sono lì a ricordarci quanto l´informazione basata sulla verità sia temuta da Cosa nostra, perché ostacola la sua azione, consente di tenere viva l´attenzione, di sensibilizzare l´opinione pubblica e la parte sana delle istituzioni sulla sua pericolosità, di sgretolare il consenso sociale sul quale ancora conta e che mira a rafforzare.Un lungo e faticoso percorso giudiziario, caratterizzato da lentezze investigative e depistaggi, si è concluso il 5 ottobre 2005 con la conferma da parte della Corte di Cassazione del carcere a vita a Bernardo Provenzano, quale mandante. In precedenza, il 2 dicembre 2003, la Cassazione aveva reso definitiva la condanna all´ergastolo di Salvatore Riina, riconosciuto mandante del crimine e principale interessato all´eliminazione, che rinviò dal 1977 al 1979 non disponendo della maggioranza in seno alla "Commissione". Al contempo, ha annullato senza rinvio quelle di Antonio Geraci, Giuseppe Farinella e Pippo Calò. Trent´anni sono stati inflitti a Francesco Madonia - posto da Riina a capo del mandamento di Resuttana, nel cui territorio fu eseguito il delitto - e Michele Greco, come pure a Leoluca Bagarella, uno degli esecutori materiali.Uno squarcio di verità, forse incompleta, che il figlio più piccolo del giornalista, Giuseppe, inseguì per tutta la sua breve vita, prima di dire addio, a 36 anni, a un´esistenza segnata da quel grave lutto. Come se Mario Francese fosse stato ucciso due volte, come se gli aguzzini di Corleone gli avessero sparato da morto.
La Repubblica, 25 gennaio 2009
Aveva capito come cambiava Cosa nostra: fu assassinato sotto casa il 26 gennaio 1979. La sua morte aprì la serie dei delitti eccellenti. Fece per primo il nome del superboss Riina
In una serata di pieno inverno, quando l´Italia era percorsa dalla minaccia terroristica, alcuni sicari silenziosi e spietati rapirono alla vita un siciliano per bene, padre di quattro figli, mentre stava rientrando a casa dopo un´impegnativa giornata di lavoro. Aveva appena posteggiato l´auto e stava per raggiungere il portone dello stabile in cui abitava, quando l´imboscata scattò in viale Campania. Per sedici anni aveva scritto di cronaca giudiziaria, era divenuto una delle firme più apprezzate del Giornale di Sicilia e uno dei più esperti conoscitori delle vicende mafiose. Era Mario Francese e cessò di vivere il 26 gennaio 1979.Quel delitto rimase per un ventennio senza ragione e senza un colpevole (l´inchiesta venne riaperta su richiesta della famiglia e dopo le rivelazioni dei collaboratori di giustizia Francesco Di Carlo e Angelo Siino) e diede avvio a una lunga catena di sangue e di omicidi eccellenti. Solo in quell´anno vennero uccisi il segretario provinciale della Dc Michele Reina, il capo della squadra mobile Boris Giuliano, il giudice Cesare Terranova. E molti ancora ne seguirono. Si dovette attendere l´aprile del 2001 perché la Corte d´assise riconoscesse la matrice mafiosa dell´uccisione di Francese e accertasse che quel giornalista era stato assassinato per il suo straordinario impegno professionale e perché la sua esecuzione servisse da monito. Venne così sgombrato il campo da quelle piste alternative, riconducibili a inverosimili regolamenti di conti che determinati ambienti contigui al crimine mafioso avevano contribuito ad accreditare. In una Palermo paludosa, ove brulicavano opache complicità tra alcuni mafiosi ed esponenti del mondo dell´informazione, percorso da mille prudenze, egli aveva saputo ricostruire le vicende più complesse e rilevanti degli anni Sessanta e Settanta.Dalla strage di Ciaculli all´omicidio del colonnello Giuseppe Russo, non c´era stata vicenda giudiziaria di cui non si fosse occupato. Fu l´unico giornalista a intervistare la moglie di Totò Riina, Ninetta Bagarella. Il primo a capire l´evoluzione strategica e i nuovi interessi della mafia di Corleone. Intuì la frattura venutasi a creare tra l´ala moderata e il gruppo capeggiato da Luciano Liggio. Con i suoi articoli aveva precorso le inchieste giudiziarie, svelando la sanguinosa ascesa dei "corleonesi" di Riina e Provenzano, in un´epoca in cui le informazioni sulla struttura e sull´attività dell´organizzazione mafiosa erano molto limitate. Fece rivelazioni su personaggi come don Agostino Coppola, il sacerdote di Partinico che aveva celebrato le nozze segrete del latitante Riina e aveva rapporti con l´anonima sequestri.Si occupò a lungo delle speculazioni per la costruzione della diga Garcia sul fiume Belice e dei delitti che vi ruotarono attorno, spiegando che dietro la sigla di una misteriosa società, la Risa, si nascondeva Riina, a quell´epoca una sorta di male invisibile, pienamente coinvolto nella gestione dei subappalti relativi alla costruzione della diga. Scoprì che gli 820 ettari di terreni sui quali venne innalzata la diga erano stati acquistati dai mafiosi per due miliardi di lire e rivenduti alla Regione per diciassette, evidenziando il connubio tra mafia e politica nella prospettiva di un´enorme accumulazione di ricchezza.Quando venne assassinato, Francese stava attendendo la pubblicazione di un suo dossier su mafia e appalti, pubblicato postumo come supplemento al Giornale di Sicilia. Un ritardo di cui il giornalista si lamentò con diversi colleghi, ritenendo che «fosse uscito dalla redazione». Il delitto Francese fu il momento più alto di una strategia iniziata con gli attentati ai danni del quotidiano palermitano L´Ora, del direttore e del capo cronista del Giornale di Sicilia, Lino Rizzi e Lucio Galluzzo, ai quali vennero rispettivamente bruciate l´auto e la villa al mare.Con la morte del coraggioso giornalista Cosa nostra eliminò un cronista scomodo, che per i suoi rapporti con le forze dell´ordine era in grado di nuocere sempre più se fosse rimasto in vita, riuscì a far ritardare la pubblicazione del dossier e provocò l´allontanamento volontario di Rizzi e Galluzzo. Come osservarono gli estensori della motivazione della sentenza del 13 dicembre 2002 della Corte d´assise d´appello, da quel momento la linea editoriale del Giornale di Sicilia mutò radicalmente «sino a divenire, negli anni dei pentimenti di Buscetta e Contorno e del primo maxiprocesso, uno dei più feroci e critici dell´attività dei giudici del pool antimafia, definiti "sceriffi" e "professionisti dell´antimafia", e attaccati quotidianamente con incisivi e dotti corsivi».Sono trascorsi trent´anni da quel delitto di alta mafia, e su tutti noi incombe il dovere di ricordare il suo impegno, il suo sacrificio, le sofferenze dei familiari e l´esempio di dirittura morale. Oggi più che mai va rievocata quella tragica fine per la fedeltà alla verità dimostrata dal cronista siracusano dalla schiena dritta, un valore che l´informazione obbediente sempre più diffusa non riesce a metabolizzare, soprattutto quando deve interagire con i potenti. A questa persona occorre essere grati perché, in virtù delle sue inchieste e delle sue denunce, si è iniziato a conoscere cos´è la mafia. Il suo impegno e la sua sorte sono lì a ricordarci quanto l´informazione basata sulla verità sia temuta da Cosa nostra, perché ostacola la sua azione, consente di tenere viva l´attenzione, di sensibilizzare l´opinione pubblica e la parte sana delle istituzioni sulla sua pericolosità, di sgretolare il consenso sociale sul quale ancora conta e che mira a rafforzare.Un lungo e faticoso percorso giudiziario, caratterizzato da lentezze investigative e depistaggi, si è concluso il 5 ottobre 2005 con la conferma da parte della Corte di Cassazione del carcere a vita a Bernardo Provenzano, quale mandante. In precedenza, il 2 dicembre 2003, la Cassazione aveva reso definitiva la condanna all´ergastolo di Salvatore Riina, riconosciuto mandante del crimine e principale interessato all´eliminazione, che rinviò dal 1977 al 1979 non disponendo della maggioranza in seno alla "Commissione". Al contempo, ha annullato senza rinvio quelle di Antonio Geraci, Giuseppe Farinella e Pippo Calò. Trent´anni sono stati inflitti a Francesco Madonia - posto da Riina a capo del mandamento di Resuttana, nel cui territorio fu eseguito il delitto - e Michele Greco, come pure a Leoluca Bagarella, uno degli esecutori materiali.Uno squarcio di verità, forse incompleta, che il figlio più piccolo del giornalista, Giuseppe, inseguì per tutta la sua breve vita, prima di dire addio, a 36 anni, a un´esistenza segnata da quel grave lutto. Come se Mario Francese fosse stato ucciso due volte, come se gli aguzzini di Corleone gli avessero sparato da morto.
La Repubblica, 25 gennaio 2009
sabato 24 gennaio 2009
Ato Monreale. I creditori ottengono il sequestro dei mezzi. Raccolta paralizzata
Su richiesta dei legali di alcune ditte creditrici, il Tribunale di Palermo ha disposto il sequestro di alcuni auto-compattatori dell’Ato “Belice Ambiente” di Monreale, di cui fanno parte anche Corleone e i comuni della zona. Proprio sabato mattina, alcuni di questi automezzi sono stati sequestrati a Bisacquino. E si teme che la prossima settimana possa toccare a Corleone. Che l’Ato di Monreale fosse in una situazione disastrosa lo si sapeva, ma nessuno immaginava che rischiasse il sequestro di automezzi indispensabili per garantire la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani. Nonostante l’emergenza, però, sabato gli uffici dell’Ato a Monreale erano deserti. Il sabato non si lavora, avrà pensato la prof.ssa Lea Giangrande, presidente della Società d’ambito. Come se la situazione fosse normale e non eccezionalmente drammatica. Di questo passo, i nostri paesi rischiano di essere sommersi da cumuli d’immondizia, come o peggio di Napoli. Eppure, se l’Ato si fosse legalmente opposto, probabilmente non ci sarebbe stato il sequestro di mezzi indispensabili per garantire un servizio essenziale come la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti. E se stamattina stessa avesse presentato un ricorso al Tribunale, probabilmente avrebbe potuto ottenere a tamburo battente il dissequestro dei mezzi. Invece, la direzione dell’Ato somiglia tanto ad un pugile suonato, che non sa più cosa fare. Anzi una cosa hanno deciso di farla i sindaci dei comuni soci dell’Ato. Per risparmiare circa 700-800 mila euro l’anno, hanno proposto al consiglio di amministrazione di trasformare a part-time tutti i contratti a tempo pieno degli impiegati amministrativi. E di ridurre al minimo lo straordinario per gli autisti addetti alla raccolta. Una mossa disperata, che difficilmente potrà essere attuata. Anche perché a proporla sono quegli stessi sindaci che, fino a qualche anno fa, “infornavano” all’Ato amici e clienti! È troppo chiedere all’Ato di “svegliarsi”, di adoperarsi per il dissequestro dei mezzi, di pretendere che i sindaci paghino le quote loro spettanti e di pagare i salari agli operai? Si pensava che peggio della Sicula Ciclat non ci potesse capitare. Invece ci è capitato questo carrozzone clientelare chiamato Ato “Belice-Ambiente!
24 gennaio 2009
venerdì 23 gennaio 2009
Immigrazione, mozione del PD all’ARS: La Regione accolga gli immigrati e sostenga i Comuni nell'emergenza
Il gruppo del Partito Democratico all’Assemblea Regionale Siciliana ha presentato una mozione con la quale si chiede l’impegno del presidente della Regione per “intervenire presso il presedente del Consiglio ed il ministro dell’Interno perché adottino con urgenza provvedimenti che consentano l’adeguata e dignitosa accoglienza di tutti coloro che sbarcano sull’isola di Lampedusa, ed il loro tempestivo trasferimento in altre strutture”. Con la mozione, presentata da Giuseppe Lupo e sostenuta dal presidente del gruppo Antonello Cracolici e dagli altri deputati regionali del PD, si chiede inoltre di “scongiurare la ventilata realizzazione di un nuovo centro per l’identificazione e l’espulsione degli immigrati presso i locali dell’ex base navale Loran”, di “esprimere la più netta contrarietà nei confronti dell’operato del ministro dell’Interno rispetto alle politiche discriminatorie fin qui adottate nei confronti di coloro che arrivano nella nostra regione, ribadendo con forza la vocazione all’accoglienza e all’integrazione culturale da sempre espressa dal popolo siciliano” e di “attivare interventi in favore dei Comuni di Lampedusa, di Pozzallo e delle altre comunità locali interessate al fine di eliminare le condizioni di disagio che tali comunità vivono in riferimento alla gestione del fenomeno migratorio”.
Fra i diversi punti della mozione del PD all’Ars, vi è inoltre la richiesta di un dibattito d’aula urgente al Parlamento regionale; l’adozione di una normativa regionale sull’immigrazione e sulla cooperazione decentrata allo sviluppo finalizzata all’accoglienza ed all’integrazione nel tessuto sociale e produttivo degli immigrati, nonché allo sviluppo dei loro paesi di provenienza; un piano di accoglienza dei migranti in connessione con le attività degli enti locali e delle associazioni della società civile; l’affidamento ad un Osservatorio regionale – costituito, in aggiunta ai rappresentanti del governo regionale e dell’Assemblea regionale siciliana, anche da rappresentanti dell’Anci, della Protezione Civile, delle Forze dell’ordine, delle organizzazioni di volontariato, delle organizzazioni sindacali – del compito di individuare le misure immediate di intervento per fronteggiare il fenomeno migratorio in Sicilia.
IL TESTO INTEGRALE DELLA MOZIONE
L’Assemblea regionale siciliana
Premesso che:
§ Notizie sempre più allarmanti giungono dall’isola di Lampedusa dove continuano a susseguirsi sbarchi di migranti provenienti dall’Africa;
§ La situazione del CTP dell’isola è ormai al collasso, 1900 persone stipate all’interno contro una capienza media di 800;
§ In tali condizioni, non è possibile garantire condizioni igienico-sanitarie minime né un riparo per tutti i presenti;
§ All’interno del centro, sono detenuti un centinaio di minori costretti a convivere con la sporcizia e la spazzatura, fognature intasate e servizi igienici insufficienti;
§ Le condizioni di vita per gli immigrati sono, pertanto, degradanti e disumane;
§ Il Consiglio comunale di Lampedusa ha all’unanimità approvato un ordine del giorno col quale si proclama lo stato di agitazione contro la decisione del Governo nazionale di costruire sull’isola un nuovo centro per l’identificazione e l’espulsione degli immigrati;
Considerato che:
§ Tale stato di cose è la diretta conseguenza della politica del Governo nazionale e del Ministro dell’Interno Maroni in tema di immigrazione che rappresenta un grave passo indietro che allontana l’Italia dal progresso civile;
§ La scelta di non consentire il trasferimento presso altri centri di tutti gli immigrati arrivati a Lampedusa per un più celere, ma improbabile, rimpatrio sta generando nell’isola una vera e propria emergenza umanitaria;
§ Il centro di permanenza temporanea di Lampedusa si sta trasformando sempre più in un luogo di detenzione nel quale vengono calpestati i più elementari diritti umani all’interno di una politica che appare sempre più discriminatoria e criminalizzante nei confronti dei migranti;
§ A pagare pesanti conseguenze sono anche il territorio e gli abitanti di Lampedusa, costretti a fronteggiare un’emergenza continua rispetto alla quale si registra soltanto una sostanziale inerzia;
§ Ciò si inserisce nel vuoto della legislazione siciliana sull’immigrazione e sul tema della cooperazione allo sviluppo e dell’integrazione;
Premesso, inoltre, che:
§ Da anni, la Sicilia è meta privilegiata per i migranti provenienti dall’Africa, e tale flusso, lungi dal diminuire, è cresciuto in modo esponenziale: nelle prime due settimane del 2009 le persone arrivate in Italia via mare sono 1.500;
§ La causa di tali flussi è da ricercare nell’enorme povertà di tanti paesi dell’Africa maghrebina e sub-sahariana, che genera masse di disoccupati e disperati la cui unica speranza per la sopravvivenza diventa quella dell’emigrazione. A ciò si aggiungano anche l’assenza di garanzie democratiche in quei Paesi e la presenza, in diverse realtà, di conflitti etnici ormai endemici;
§ La stragrande maggioranza dei migranti che intendono raggiungere il nostro territorio è costretta a pagare a caro prezzo le organizzazioni criminali, gli sfruttatori e i trafficanti di esseri umani per intraprendere viaggi che si concludono non di rado con la morte;
§ L’effetto più grave è, infatti, rappresentato dalle tragedie del mare e dall’enorme numero di naufragi verificatisi nel Mediterraneo e nel Canale di Sicilia in particolare: secondo “Fortress Europe” sarebbero almeno 1.502 i migranti morti alle frontiere dell’Unione Europea nel 2008. In Sicilia le vittime sono passate dalle 556 del 2007 alle 642 del 2008;
Ritenuto che:
§ La vigente normativa italiana, via via inasprita negli ultimi mesi, si connota sempre più per una tendenza discriminatoria nei confronti del fenomeno dell’immigrazione che renderà sempre più difficile il percorso di integrazione degli stranieri extracomunitari;
§ Il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa Thomas Hammarberg ha di recente dichiarato che la normativa attualmente in discussione in Italia è a sfondo discriminatorio e non garantisce il rispetto dei diritti umani;
§ In particolare, desta preoccupazione la proposta di rimpatriare direttamente tutti coloro che arrivano sul territorio italiano, senza consentire a coloro che ne hanno il diritto, di chiedere asilo politico, col rischio di essere rispediti in Paesi dove non si ha alcuna garanzia circa il rispetto dei più elementari diritti umani;
§ La carenza di validi accordi con i Paesi di provenienza vanificherà di fatto la possibilità di rimpatri nei tempi brevi che sono stati annunciati; la sicura identificazione dei migranti risulta, infatti, alquanto problematica;
§ il Ministro dell’Interno Roberto Maroni ha condiviso e difeso la proposta della Lega Nord di introdurre una ulteriore tassa per il rilascio e il rinnovo del permesso di soggiorno ed una fideiussione sull'apertura di una partita IVA a carico degli immigrati in Italia;
§ tali proposte sono state fortemente criticate dalle forze politiche di opposizione ma anche da esponenti della maggioranza di governo, oltre che dalle associazioni sindacali e dai responsabili della CEI per i diritti degli immigrati;
§ sulla stessa scia si inseriscono le norme che rendono ancora più gravose le procedure per i ricongiungimenti familiari, che hanno finora funzionato come valido traino per una migliore integrazione;
Considerato, infine, che:
§ servirebbero piuttosto politiche di integrazione dei cittadini immigrati che, con impegno e con notevoli sforzi, cercano di integrarsi in Italia;
§ il Movimento per l’Autonomia, di cui il Presidente della Regione siciliana è il massimo esponente nazionale, fa parte della maggioranza che sostiene il governo Berlusconi-Bossi.
IMPEGNA IL PRESIDENTE DELLA REGIONE
- a riferire con urgenza all’Assemblea regionale siciliana circa la grave situazione che si è determinata a Lampedusa dopo gli sbarchi degli ultimi giorni;
- ad intervenire presso il Presedente del Consiglio ed il Ministro dell’Interno perché adottino con urgenza provvedimenti che consentano l’adeguata e dignitosa accoglienza di tutti coloro che sbarcano sull’isola ed il loro tempestivo trasferimento in altre strutture;
- ad intervenire presso il Presedente del Consiglio ed il Ministro dell’Interno al fine di scongiurare la ventilata realizzazione di un nuovo centro per l’identificazione e l’espulsione degli immigrati presso i locali dell’ex base navale Loran;
- ad esprimere la più netta contrarietà nei confronti dell’operato del Ministro dell’Interno rispetto alle politiche discriminatorie fin qui adottate nei confronti di coloro che arrivano nella nostra regione, ribadendo con forza la vocazione all’accoglienza e all’integrazione culturale da sempre espressa dal popolo siciliano;
- a chiedere al Parlamento nazionale l’approvazione di una normativa che favorisca gli ingressi legali nel nostro territorio e che disciplini, in conformità all’art. 10 della Costituzione, il diritto di asilo;
- ad attivarsi per l’adozione di una normativa regionale sull’immigrazione e sulla cooperazione decentrata allo sviluppo finalizzata all’accoglienza ed all’integrazione nel tessuto sociale e produttivo degli immigrati, nonché allo sviluppo dei loro paesi di provenienza;
- a predisporre un piano di accoglienza dei migranti in connessione con le attività degli enti locali e delle associazioni della società civile;
- a realizzare una serie di interventi a favore dei Comuni di Lampedusa, di Pozzallo e delle altre comunità locali interessate al fine di eliminare le condizioni di disagio che tali comunità vivono in riferimento alla gestione del fenomeno migratorio;
- ad affidare ad un Osservatorio regionale – costituito, in aggiunta ai rappresentanti del governo regionale e dell’Assemblea regionale siciliana, anche da rappresentanti dell’Anci, della Protezione Civile, delle Forze dell’ordine, delle organizzazioni di volontariato, delle organizzazioni sindacali – il compito di individuare le misure immediate di intervento per fronteggiare il fenomeno migratorio in Sicilia.
(23 gennaio 2009)
Fra i diversi punti della mozione del PD all’Ars, vi è inoltre la richiesta di un dibattito d’aula urgente al Parlamento regionale; l’adozione di una normativa regionale sull’immigrazione e sulla cooperazione decentrata allo sviluppo finalizzata all’accoglienza ed all’integrazione nel tessuto sociale e produttivo degli immigrati, nonché allo sviluppo dei loro paesi di provenienza; un piano di accoglienza dei migranti in connessione con le attività degli enti locali e delle associazioni della società civile; l’affidamento ad un Osservatorio regionale – costituito, in aggiunta ai rappresentanti del governo regionale e dell’Assemblea regionale siciliana, anche da rappresentanti dell’Anci, della Protezione Civile, delle Forze dell’ordine, delle organizzazioni di volontariato, delle organizzazioni sindacali – del compito di individuare le misure immediate di intervento per fronteggiare il fenomeno migratorio in Sicilia.
IL TESTO INTEGRALE DELLA MOZIONE
L’Assemblea regionale siciliana
Premesso che:
§ Notizie sempre più allarmanti giungono dall’isola di Lampedusa dove continuano a susseguirsi sbarchi di migranti provenienti dall’Africa;
§ La situazione del CTP dell’isola è ormai al collasso, 1900 persone stipate all’interno contro una capienza media di 800;
§ In tali condizioni, non è possibile garantire condizioni igienico-sanitarie minime né un riparo per tutti i presenti;
§ All’interno del centro, sono detenuti un centinaio di minori costretti a convivere con la sporcizia e la spazzatura, fognature intasate e servizi igienici insufficienti;
§ Le condizioni di vita per gli immigrati sono, pertanto, degradanti e disumane;
§ Il Consiglio comunale di Lampedusa ha all’unanimità approvato un ordine del giorno col quale si proclama lo stato di agitazione contro la decisione del Governo nazionale di costruire sull’isola un nuovo centro per l’identificazione e l’espulsione degli immigrati;
Considerato che:
§ Tale stato di cose è la diretta conseguenza della politica del Governo nazionale e del Ministro dell’Interno Maroni in tema di immigrazione che rappresenta un grave passo indietro che allontana l’Italia dal progresso civile;
§ La scelta di non consentire il trasferimento presso altri centri di tutti gli immigrati arrivati a Lampedusa per un più celere, ma improbabile, rimpatrio sta generando nell’isola una vera e propria emergenza umanitaria;
§ Il centro di permanenza temporanea di Lampedusa si sta trasformando sempre più in un luogo di detenzione nel quale vengono calpestati i più elementari diritti umani all’interno di una politica che appare sempre più discriminatoria e criminalizzante nei confronti dei migranti;
§ A pagare pesanti conseguenze sono anche il territorio e gli abitanti di Lampedusa, costretti a fronteggiare un’emergenza continua rispetto alla quale si registra soltanto una sostanziale inerzia;
§ Ciò si inserisce nel vuoto della legislazione siciliana sull’immigrazione e sul tema della cooperazione allo sviluppo e dell’integrazione;
Premesso, inoltre, che:
§ Da anni, la Sicilia è meta privilegiata per i migranti provenienti dall’Africa, e tale flusso, lungi dal diminuire, è cresciuto in modo esponenziale: nelle prime due settimane del 2009 le persone arrivate in Italia via mare sono 1.500;
§ La causa di tali flussi è da ricercare nell’enorme povertà di tanti paesi dell’Africa maghrebina e sub-sahariana, che genera masse di disoccupati e disperati la cui unica speranza per la sopravvivenza diventa quella dell’emigrazione. A ciò si aggiungano anche l’assenza di garanzie democratiche in quei Paesi e la presenza, in diverse realtà, di conflitti etnici ormai endemici;
§ La stragrande maggioranza dei migranti che intendono raggiungere il nostro territorio è costretta a pagare a caro prezzo le organizzazioni criminali, gli sfruttatori e i trafficanti di esseri umani per intraprendere viaggi che si concludono non di rado con la morte;
§ L’effetto più grave è, infatti, rappresentato dalle tragedie del mare e dall’enorme numero di naufragi verificatisi nel Mediterraneo e nel Canale di Sicilia in particolare: secondo “Fortress Europe” sarebbero almeno 1.502 i migranti morti alle frontiere dell’Unione Europea nel 2008. In Sicilia le vittime sono passate dalle 556 del 2007 alle 642 del 2008;
Ritenuto che:
§ La vigente normativa italiana, via via inasprita negli ultimi mesi, si connota sempre più per una tendenza discriminatoria nei confronti del fenomeno dell’immigrazione che renderà sempre più difficile il percorso di integrazione degli stranieri extracomunitari;
§ Il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa Thomas Hammarberg ha di recente dichiarato che la normativa attualmente in discussione in Italia è a sfondo discriminatorio e non garantisce il rispetto dei diritti umani;
§ In particolare, desta preoccupazione la proposta di rimpatriare direttamente tutti coloro che arrivano sul territorio italiano, senza consentire a coloro che ne hanno il diritto, di chiedere asilo politico, col rischio di essere rispediti in Paesi dove non si ha alcuna garanzia circa il rispetto dei più elementari diritti umani;
§ La carenza di validi accordi con i Paesi di provenienza vanificherà di fatto la possibilità di rimpatri nei tempi brevi che sono stati annunciati; la sicura identificazione dei migranti risulta, infatti, alquanto problematica;
§ il Ministro dell’Interno Roberto Maroni ha condiviso e difeso la proposta della Lega Nord di introdurre una ulteriore tassa per il rilascio e il rinnovo del permesso di soggiorno ed una fideiussione sull'apertura di una partita IVA a carico degli immigrati in Italia;
§ tali proposte sono state fortemente criticate dalle forze politiche di opposizione ma anche da esponenti della maggioranza di governo, oltre che dalle associazioni sindacali e dai responsabili della CEI per i diritti degli immigrati;
§ sulla stessa scia si inseriscono le norme che rendono ancora più gravose le procedure per i ricongiungimenti familiari, che hanno finora funzionato come valido traino per una migliore integrazione;
Considerato, infine, che:
§ servirebbero piuttosto politiche di integrazione dei cittadini immigrati che, con impegno e con notevoli sforzi, cercano di integrarsi in Italia;
§ il Movimento per l’Autonomia, di cui il Presidente della Regione siciliana è il massimo esponente nazionale, fa parte della maggioranza che sostiene il governo Berlusconi-Bossi.
IMPEGNA IL PRESIDENTE DELLA REGIONE
- a riferire con urgenza all’Assemblea regionale siciliana circa la grave situazione che si è determinata a Lampedusa dopo gli sbarchi degli ultimi giorni;
- ad intervenire presso il Presedente del Consiglio ed il Ministro dell’Interno perché adottino con urgenza provvedimenti che consentano l’adeguata e dignitosa accoglienza di tutti coloro che sbarcano sull’isola ed il loro tempestivo trasferimento in altre strutture;
- ad intervenire presso il Presedente del Consiglio ed il Ministro dell’Interno al fine di scongiurare la ventilata realizzazione di un nuovo centro per l’identificazione e l’espulsione degli immigrati presso i locali dell’ex base navale Loran;
- ad esprimere la più netta contrarietà nei confronti dell’operato del Ministro dell’Interno rispetto alle politiche discriminatorie fin qui adottate nei confronti di coloro che arrivano nella nostra regione, ribadendo con forza la vocazione all’accoglienza e all’integrazione culturale da sempre espressa dal popolo siciliano;
- a chiedere al Parlamento nazionale l’approvazione di una normativa che favorisca gli ingressi legali nel nostro territorio e che disciplini, in conformità all’art. 10 della Costituzione, il diritto di asilo;
- ad attivarsi per l’adozione di una normativa regionale sull’immigrazione e sulla cooperazione decentrata allo sviluppo finalizzata all’accoglienza ed all’integrazione nel tessuto sociale e produttivo degli immigrati, nonché allo sviluppo dei loro paesi di provenienza;
- a predisporre un piano di accoglienza dei migranti in connessione con le attività degli enti locali e delle associazioni della società civile;
- a realizzare una serie di interventi a favore dei Comuni di Lampedusa, di Pozzallo e delle altre comunità locali interessate al fine di eliminare le condizioni di disagio che tali comunità vivono in riferimento alla gestione del fenomeno migratorio;
- ad affidare ad un Osservatorio regionale – costituito, in aggiunta ai rappresentanti del governo regionale e dell’Assemblea regionale siciliana, anche da rappresentanti dell’Anci, della Protezione Civile, delle Forze dell’ordine, delle organizzazioni di volontariato, delle organizzazioni sindacali – il compito di individuare le misure immediate di intervento per fronteggiare il fenomeno migratorio in Sicilia.
(23 gennaio 2009)
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