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Campo di lavoro in un terreno confiscato in Calabria |
Il racconto di Silvia, una ragazza dell'associazione Legal-Mente, di ritorno da un campo di volontariato nei terreni confiscati alle mafie a Polistena. "E’ una calda mattina di Luglio, intrisa di sole e di una densa aria di mare, quando atterro nel piccolo aeroporto sulla costa calabrese di Lamezia Terme.
Il gruppo con cui opererò mi aspetta a Polistena, cittadina nell’interno della piana di Gioia Tauro, per una settimana di volontariato agricolo e di studio sui terreni confiscati all’economia criminale. Pervenuta alla scuola che fungerà da campo base, dove il team al gran completo già aspetta l’inizio dei lavori, basta poco per fare sì che questa esperienza si presenti, ai miei occhi, come un’avvincente, triplice sfida. In primo luogo, il team è molto numeroso. Sono almeno una trentina i volti sorridenti che mi accologono, i nomi da imparare, le storie che si intrecceranno in questa settimana di cooperazione nello studio del fenomeno mafioso e nel lavoro agricolo. Questo è il mio quinto campo di lavoro, e l’abitudine a gruppi più ridotti – composti da 15, 20 persone al massimo – ed a progetti di durata più lunga mi rende curiosa su come sia possibile, in un tempo tanto breve, armonizzare un così cospicuo numero di persone. Mi affido perciò all’esperienza di Libera, e del team di volontari locali che ci coordinerà, nel gestire gruppi tanto vasti ed eterogenei: ripongo la mia fiducia nel team, ed i giorni a venire mi mostreranno come tale fiducia sia meritata sotto tutti gli aspetti.
In secondo luogo, la zona dove opereremo è, sotto il profilo della penetrazione dell’economia criminale, tutt’altro che semplice. La piana di Gioia Tauro ha visto nascere e crescere il fenomeno mafioso della ‘ndrangheta, riflesso nella politica – numerosi i comuni ripetutamente sciolti per mafia – così come in un’economia dalla fisionomia distorta. Certo una bella sfida lavorare qui, per un team prettamente composto da studenti provenienti dalle regioni del centro-nord, dove una silenziosa quanto capillare penetrazione mafiosa non si è accompagnata ad una presa di coscienza altrettanto ramificata e pervasiva.
La terza sfida, invece, riguarda la mia personale esperienza. Da quattro anni opero in più Paesi in via di sviluppo come volontaria internazionale; da un anno un Master of Science mi ha abilitata come economista dello sviluppo. Medio Oriente, India, Africa dell’Est: eppure del mio Paese, sessantatreesimo nella classifica mondiale della corruzione percepita (collocato esattamente tra la Turchia e la Tunisia), non mi sono mai occupata, né per volontariato né per ricerca. Ecco dunque la mia sfida, la domanda che mi pongo fin da subito: potranno le mie competenze, sviluppate in contesti tanto diversi da quello in cui mi trovo, avere qualche utilità in un Paese che, per quanto mi sia familiare per origine, non ho mai davvero fatto “mio” nella ricerca e nell’azione sociale? Come si confronterà la mia prospettiva internazionale di sviluppo basato sull’empowerment, con la realtà locale che mi vedrà studiare e lavorare in questi giorni?
E’ Antonio Napoli, professore di filosofia che per dedicarsi alla nostra cooperativa ha sacrificato cattedra e carriera, a contestualizzare la nostra attività fornendo una prima risposta a tali interrogativi. La cooperativa Valle Del Marro, che si pone come obiettivo l’inserimento di soggetti socialmente svantaggiati nel mondo del lavoro, nasce dal progetto LiberaTerra del 2004: un progetto che fluisce direttamente dalla legge 109/1996, che prevede la destinazione ad uso sociale dei beni confiscati alle organizzazioni mafiose. Avvalendosi dei vasti beni immobili precedentemente stretti tra le spire della ‘ndrangheta, LiberaTerra li rende atti ad una produzione agricola che sia, in primo luogo, strumento di valorizzazione del territorio, di sua restituzione ad un popolo che li aveva visti alienati da un potere autoimposto, con una sistematica azione violenta.
Duplice è, nell’esaustivo quadro tracciato da Antonio, la caratterizzazione che distingue l’organizzazione mafiosa da quella solo genericamente criminale. Se il primo carattere, quello di un’azione improntata sull’intimidazione sistematica e sulla violenza, è quello più comunemente associato all’agire mafioso, più silenzioso e capillare è invece il secondo: quello della volontà di potere, di controllo totale e continuo su un territorio, perseguito tramite l’accumulazione patrimoniale ed il conseguimento della silente omertà dei cittadini. E’ proprio questo duplice carattere a generare il doppio binario su cui si articola la lotta al fenomeno mafioso: se da una parte è necessaria l’assicurazione dell’azione giudiziaria, facente in modo che i processi si risolvano in condanne esaustive per i reati commessi, dall’altra è necessaria l’azione sul patrimonio, che deve essere attaccato al fine di disgregare le cellule di quel controllo sulla quale la mafia s’impronta.
Antonio, attento lettore socio-economico dell’economia criminale e di chi la contrasta, è professore di filosofia, e la sua lettura etica del fenomeno mafioso lo rivela appieno. Conturbante il suo paragone della mafia alla ben nota lupa dantesca, la quale nella sua magrezza cela la cupidigia come “appetito disordinato” di ogni bene temporale: forte il suo uso, per illustrare il comportamento di chi rifiuta di schierarsi in modo chiaro, dell’immagine degli ignavi “sanza ‘nfamia e sanza lodo” ritratti dal poeta fiorentino. E se le lettere per un attimo stregano la nostra attenzione, il quadro economico di fronte a cui ci troviamo ci riconduce all’asperità della realtà di questa terra: la mafia, al di là di qualsivoglia visione etico-filosofica, costituisce un freno di prim’ordine allo sviluppo territoriale, creando monopoli indesiderati e scacciando dal mercato il contributo, fresco e creativo, degli investitori emergenti. Un’organizzazione metodica nel pensiero, ma rabbiosa e disordinata nell’azione, se si pensa alla violenza sterile dei raid distruttivi rivolti contro chi, superando la zona grigia dell’ignavia, si adopera per sfidare questo controllo ininterrotto. Tra questi, la nostra cooperativa, più volte vittima di raid, ogni volta ripartita senza cenno d’esitazione.
Il podere di Gioia Tauro nel quale lavoriamo, da solo, basta a spiegare il motivo per cui i lavori richiedono un gruppo di volontari tanto numeroso. Lunghi filari di melanzane e peperoncino debbono essere disinfestati a mano, ripuliti dalle erbacce, i prodotti della terra raccolti e lavorati: il tutto, per l’appunto, a mano, secondo i più stretti principi dell’agricoltura biologica. Il lavoro inizia presto la mattina, prima che il sole cocente aggiunga peso all’attività – nuova quasi per noi tutti – a contatto con la terra ed i suoi filari: questo lavoro, gestito di norma da sole quattro persone perpetuamente presenti, dipende dai gruppi di volontari in larghissima misura. Per quanto numerosi, e beneficiari di una sola settimana per cementare il nostro gruppo, il condividere obiettivi quali il riempimento di enormi bidoni di melanzane, lavate e sbucciate con ogni cura, è un collante di gruppo pressoché insostituibile!
I pomeriggi, che ci vedono reduci da tali mattinate lavorative, sono dedicati ad attività di legame con la comunità locale e di studio-analisi del fenomeno mafioso. Commovente l’incontro con Mommo Tripodi e Peppino Lavorato, esponenti di prima linea del PCI delle lotte contadine, ex sindaci di Polistena e di Rosarno rispettivamente. Toccanti ed esaustivi i loro racconti: la nascita del porto di Gioia Tauro, creato come polo trainante dello sviluppo calabrese e poi tratto nelle maglie della violenza economica mafiosa; la battaglia del 1994, la prima in cui dei comuni – i loro – si costituirono parte civile in un processo contro la ‘ndrangheta. Tanta passione, nessun eroismo forzato nel racconto in prima persona degli attentati subiti: solo un’esortazione, potente perché tanto piena di una consapevolezza nascente dalla vita vissuta, a disgregare il terrore vedendolo nella sua natura umanamente battibile, dal momento che – grida Mommo Tripodi alla platea – “il cappio ha una funzione solo se c’è il collo”.
Gli esponenti dell’associazione antiracket di Polistena, così come del vicino paese di Cittanova, presentano anch’essi la propria esperienza al nostro team. La loro è un’esperienza evolutasi nel tempo, nel contrastare un fenomeno estorsivo prima incentrato sulla massimizzazione del guadagno – perseguita carpendo ingenti somme a soggetti selezionati – e poi spostatosi sul potenziamento del controllo territoriale, ottenuto estorcendo, per converso, somme minori ad un gran numero di soggetti. Partite dall’idea pionieristica di Tano Grasso nella Sicilia delle cosche, le associazioni antiracket calabresi si articolano sul principio di un’unione diversa dalla comune intimidazione: un’unione capace di conferire, come valida alternativa all’estorsione criminalmente imposta, una forza data dalla collettività, dalla coralità del rifiuto all’adesione estorsiva. Si chiude, con questo contributo, il cerchio aperto da Antonio Napoli sul tema del colpire i patrimoni: l’antiracket è, in effetti, mezzo primario volto ad incrinare la continuità patrimoniale mafiosa; così facendo, si pone come ulteriore meccanismo generativo della rabbia impotente di chi, auto-ponendosi come leader territoriale, vede il proprio dominio incrinato dai nervi economici e sociali di quel territorio sul quale il controllo è tanto ambito.
Sullo sfondo, e nel contempo parte integrante della nostra esperienza operativa, le comunità locali, di Polistena così come dei comuni limitrofi. Se il campo è iniziato il 19 Luglio, anniversario della strage di via D’Amelio che ci ha visti sfilare in corteo come primo atto tra le viuzze polistenesi, il 23 partecipiamo alla commemorazione della strage di Razzà, barbaro atto ‘ndranghetista verificatosi nel comune di Taurianova. Se un’accoglienza densa di abbracci, pietanze, canti gioiosi ci aveva salutati a Polistena il primo giorno, l’arrivo in Taurianova non è da meno: alla commemorazione segue un grande ricevimento, dove i balli ed il buon cibo s’accompagnano a ringraziamenti ed abbracci che toccano il cuore. Gli anziani ci interrogano curiosi sulla nostra provenienza, c’è chi, per le strade, ci abbraccia o manifesta gioiosamente il suo benvenuto: ugualmente, c’è chi guarda il corteo passare, restando fermo sulla soglia senza muoversi per unirsi ad esso. E’ una realtà dove il benvenuto è gridato ai quattro venti, forte tanto quanto la percezione della maglia invisibile in cui il territorio è stretto: un vociante applauso di approvazione risuona, nelle mie orecchie ora, tanto alto quanto il silenzio di un’occhiata d’indifferenza, del passaggio davanti a un esercizio colluso.
Mi resterà tutto, tutto questo, negli appunti presi fitti fitti, nella mente e nel cuore. Il confronto diretto della mia esperienza economica con una terra di mafia, dove le distorsioni studiate ai tempi della laurea triennale si concretizzano in realtà tangibili, mi porta a rivedere l’indiscussa visione dell’Italia come “paese sviluppato” immune dai problemi di development; mi porta a guardare al nord osannato e trainante sotto la luce di una contaminazione che, seguendo le stesse dinamiche qui osservate della silente penetrazione criminale, si conforma passo dopo passo al suo specchio antico nel mezzogiorno.
Il cuore, sballottato tra gli iniziali colpi di spaesamento, la novità del lavoro nei campi, l’accoglienza di una terra gonfia di speranza e di coscienza, il cuore è quello che oggi mi porta a scrivere queste righe, a vedere questa settimana di studio-lavoro come un punto di partenza di difficile sostituibilità. Una partenza verso una consapevolezza che la passione determinata e travolgente, trasmessa dai contadini nel podere di Gioia Tauro, dall’ironia disincantata dei giovani di Polistena, dalle lacrime agli occhi di Mommo Tripodi di fronte a me, traduce in una scelta d’azione ben precisa: una scelta di schieramento, di non-ignavia, che con esperienze come questa diventa parte integrante della vita umana e civica, dovunque essa s’inscriva."
29.07.2010