Questo il verdetto della Corte d'appello presieduta da Claudio Dall'Acqua (a latere Salvatore Barresi e Sergio La Commare). La sentenza assolve però il senatore del Pdl per "le condotte successive al 1992"
PALERMO - Sette anni di carcere per Marcello Dell'Utri, ma è assolto per le "condotte successive al 1992, perché il fatto non sussiste". Questo il verdetto della seconda sezione della Corte d'appello di Palermo presieduta da Claudio Dall'Acqua (a latere Salvatore Barresi e Sergio La Commare). In primo grado, il senatore del Pdl era stato condannato a 9 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Oggi, dopo cinque giorni di camera di consiglio, i giudici d'appello riscrivono la sentenza in uno dei punti più delicati del processo, quello della trattativa che secondo la Procura e il Tribunale sarebbe intercorsa fra l'organizzazione mafiosa e Marcello Dell'Utri alla vigilia della nascita di Forza Italia. La Corte ritiene invece provato che Dell'Utri intrattenne stretti rapporti con la vecchia mafia di Stefano Bontade e poi, dopo il 1980, con gli uomini di Totò Riina e Bernardo Provenzano, almeno fino alla stagione delle stragi di Falcone e Borsellino nel 1992.
Eccoli, allora, i capisaldi della condanna. Innanzitutto, l'assunzione del boss palermitano Vittorio Mangano per fare da stalliere nella villa di Arcore di Silvio Berlusconi. "Attraverso la mediazione di Dell'Utri e del mafioso Gaetano Cinà - aveva ribadito il procuratore generale Nino Gatto poco prima che i giudici entrassero in camera di consiglio - Mangano assicurò protezione contro l'escalation dei sequestri a Milano". Nell'autunno 1974, l'arrivo di Mangano sarebbe stato sancito da un incontro fra Dell'Utri, Berlusconi e i capimafia palermitani Stefano Bontade e Mimmo Teresi, nella sede della Edilnord. I giudici della corte d'appello hanno evidentemente creduto al pentito Francesco Di Carlo, che ha svelato di essere stato presente a quell'incontro. La sentenza di primo grado sosteneva pure che prima del 1980 Dell'Utri aveva fatto da tramite per gli investimenti a Milano di Stefano Bontade, all'epoca uno dei padrini più influenti di Cosa nostra palermitana, che era alla ricerca di aziende pulite del Nord Italia in grado di riciclare i miliardi di lire provenienti dal traffico internazionale di droga. Il senatore Dell'Utri non era presente alla lettura della sentenza nell'aula bunker di Pagliarelli ed ha preferito aspettare la decisione della corte d'appello a Como. Poi ha commentato la sentenza in una conferenza stampa a Milano 1. Per lui, il sostituto procuratore generale Nino Gatto aveva chiesto una condanna anche più alta di quella inflitta in primo grado, 11 anni. E aveva fatto un appello finale ai giudici: "E' il potere a essere giudicato (...) Voi potete contribuire alla costruzione di un gradino, salito il quale forse, e ripeto forse, si potranno percorrere altri scalini che potranno fare accertare le responsabilità che hanno insanguinato il nostro Paese. Oppure lo potete distruggere questo gradino".
Il riferimento del procuratore generale era a quelle indagini delle Procure di Caltanissetta, Palermo e Firenze che di recente hanno ricevuto nuovi spunti dalle dichiarazioni di Gaspare Spatuzza: l'ex killer oggi pentito ha parlato di "garanzie" che sarebbero state offerte nel 1993 dal "compaesano" Dell'Utri e da Berlusconi, alla vigilia della nascita di Forza Italia. L'assoluzione di Dell'Utri per le vicende successive al 1992 suona adesso come una sconfessione di Spatuzza, ma su questo punto bisognerà attendere le motivazioni della sentenza per capire se i giudici della corte d'appello hanno valutato il pentito del tutto inattendibile, oppure se si sono limitati a ritenere il suo contributo non determinante, perché sulla trattativa politica-mafia ha riferito in fondo solo quanto appreso da uno dei suoi capi, Giuseppe Graviano. Di certo, però, nel processo Dell'Utri non era solo Spatuzza a parlare di un accordo politico-mafioso in vista della nascita di Forza Italia. Nella sentenza di primo grado, che aveva portato alla condanna del senatore di Forza Italia, una parte rilevante era rappresentata dalle dichiarazioni di Nino Giuffrè: l'ex fedelissimo del capo di Cosa nostra Bernardo Provenzano aveva parlato del sostegno elettorale dei boss in cambio di "garanzie" che sarebbero state offerte da alcuni intermediari. Adesso, la sentenza di appello sembra mettere in discussione anche quelli che erano ormai ritenuti i capisaldi delle ultime inchieste sulla trattativa fra mafia e politica durante la stagione delle stragi del 1993.
(La Repubblica, 29 giugno 2010)
martedì 29 giugno 2010
La gaffe letteraria del "bibliofilo" Dell'Utri
di Jolanda Bufalini
Ma cosa dice il senatore Dell'Utri confermando davanti ai microfoni che per lui Vittorio Mangano è un eroe, “il mio eroe” come in Dostoevskij, “nelle prime pagine dei Fratelli Karamazov”? Un errore da far aggrinciare ogni poro pilifero, da allappare i denti come quando si morde un'albicocca acerba. Dice: “Il mio eroe, come nei Fratelli Karamazov, se prendete le prime pagine. Andrew....non so come si chiami in russo...”. Andrew sarebbe Andrej in russo, ma non c'è nessun Andrej nei Fratelli Karamazov. Aliosha si chiama l'eroe di Dostoevskij, Aleksej Fiodorovic Karamazov, il più piccolo dei fratelli, il fraticello di cui Dostoevskij scrive “sono il primo a sapere che si tratta di tutt'altro che di un grand'uomo”.
Errore incredibile per un bibliofilo. Ama i libri in che senso? L'edizione rara, la rilegatura, la quarta di copertina, magari, e le prime righe del testo? Non l'incipit, in questo caso, che quella a cui ha fatto riferimento è solo una nota, una breve prefazione dell'autore al lettore. A ben guardare tutto questo un senso ce l'ha, perché rivela il rapporto del senatore Dell' Utri con la cultura: un vestito, una maschera, latinorum dell'avvocato Azzeccagarbugli, sabbia da gettare negli occhi degli ingenui che copre gli interessi veri della vita: potere e affari.
Eppure, se il senatore limitrofo a Cosa Nostra avesse avuto il tempo e la pazienza di andare fino in fondo al romanzo fiume racchiuso, nella edizione economica Einaudi, in due volumi, avrebbe trovato davvero il “suo eroe” perché Vittorio Mangano nei Fratelli Karamazov c'è e risponde al nome di Smerdjakov. Il servo. Ambiguo e fedele al tempo stesso. Vero eroe del romanzo perché è nel suo specchio che il complesso Ivan vedrà riflessa la propria abiezione.
Smerdjakov, dal nome parlante, è colui che fa la chiamata a correo. Ma non davanti alla giustizia, cosa che avrebbe rappresentato una liberazione catartica per i fratelli. Smerdjakov parla senza testimoni, solo davanti a quello che considera il suo cattivo maestro. Non gli interessa la giustizia davanti al mondo ma il ricatto e la vendetta. Valori omertosi che condivide con Vittorio Mangano. Ma lui è un eroe di carta e quello di cui stiamo parlando è letteratura...
L'Unità, 29 giugno 2010
Ma cosa dice il senatore Dell'Utri confermando davanti ai microfoni che per lui Vittorio Mangano è un eroe, “il mio eroe” come in Dostoevskij, “nelle prime pagine dei Fratelli Karamazov”? Un errore da far aggrinciare ogni poro pilifero, da allappare i denti come quando si morde un'albicocca acerba. Dice: “Il mio eroe, come nei Fratelli Karamazov, se prendete le prime pagine. Andrew....non so come si chiami in russo...”. Andrew sarebbe Andrej in russo, ma non c'è nessun Andrej nei Fratelli Karamazov. Aliosha si chiama l'eroe di Dostoevskij, Aleksej Fiodorovic Karamazov, il più piccolo dei fratelli, il fraticello di cui Dostoevskij scrive “sono il primo a sapere che si tratta di tutt'altro che di un grand'uomo”.
Errore incredibile per un bibliofilo. Ama i libri in che senso? L'edizione rara, la rilegatura, la quarta di copertina, magari, e le prime righe del testo? Non l'incipit, in questo caso, che quella a cui ha fatto riferimento è solo una nota, una breve prefazione dell'autore al lettore. A ben guardare tutto questo un senso ce l'ha, perché rivela il rapporto del senatore Dell' Utri con la cultura: un vestito, una maschera, latinorum dell'avvocato Azzeccagarbugli, sabbia da gettare negli occhi degli ingenui che copre gli interessi veri della vita: potere e affari.
Eppure, se il senatore limitrofo a Cosa Nostra avesse avuto il tempo e la pazienza di andare fino in fondo al romanzo fiume racchiuso, nella edizione economica Einaudi, in due volumi, avrebbe trovato davvero il “suo eroe” perché Vittorio Mangano nei Fratelli Karamazov c'è e risponde al nome di Smerdjakov. Il servo. Ambiguo e fedele al tempo stesso. Vero eroe del romanzo perché è nel suo specchio che il complesso Ivan vedrà riflessa la propria abiezione.
Smerdjakov, dal nome parlante, è colui che fa la chiamata a correo. Ma non davanti alla giustizia, cosa che avrebbe rappresentato una liberazione catartica per i fratelli. Smerdjakov parla senza testimoni, solo davanti a quello che considera il suo cattivo maestro. Non gli interessa la giustizia davanti al mondo ma il ricatto e la vendetta. Valori omertosi che condivide con Vittorio Mangano. Ma lui è un eroe di carta e quello di cui stiamo parlando è letteratura...
L'Unità, 29 giugno 2010
lunedì 28 giugno 2010
Le foto delle prime tre classificate al Festival della Canzone dell'Istituto "G: Vasi" di Corleone
LA LETTERA. Ci scrivono da Campofiorito: "Ecco perchè abbiamo lasciato la maggioranza al Comune..."
Egregio Signor Direttore,
in merito agli ultimi eventi politici sorti all’interno della maggioranza del comune di Campofiorito e del Consiglio Comunale tutto, Le invio alcune mie riflessioni. Non sono affatto stupito se la mia provocatoria dichiarazione di voto contrario al bilancio di previsione sia stata volutamente ignorata dai consiglieri comunali, che come me, provengono dagli ex Democratici di Sinistra. Infatti nessun chiarimento politico c’è stato da quel consiglio comunale del 29 aprile 2010 ad oggi. E’ evidente che la mia presenza e quella dei compagni a me vicini e che rappresento in questo Consiglio Comunale è mal digerita e soprattutto è parecchio scomoda. Il chiarimento agli ex DS non interessa e ciò è dimostrato dall’affannosa ricerca di nuovi sgabelli, provenienti dalle file dell’opposizione. Infatti nel consiglio comunale del 24/05/2010, riunitosi in seconda convocazione il 25/05/2010, hanno ufficializzato l’appoggio del nuovo gruppo politico costituitosi il 23/05/2010 proveniente dal gruppo di Forza Italia, gruppo denominato Alleanza per Campofiorito che fa riferimento all’on. Salvino Caputo,
Adesso, come è stato ribadito in consiglio comunale dai consiglieri ex DS Oddo e Iannazzo e dopo avere incassato l’appoggio in consiglio Comunale del gruppo Alleanza per Campofiorito, si chiedono pubbliche motivazioni alle mie scelte. Volutamente dimenticano che i dissensi all’interno del gruppo degli ex DS nasce dal loro comportamento di insofferenza nei confronti miei e del mio gruppo che ha avuto la forza di farmi eleggere consigliere comunale, mentre loro non hanno avuto la forza di fare eleggere il loro candidato Giuseppe Iannazzo. Le esternazioni da loro fatte subito dopo avere avuto la certezza della non elezione di Iannazzo sono note a tutti e non sto qui ad elencarle.
E’ opportuno invece ricordare il curriculum dei consiglieri Oddo, Iannazzo e dall’assessore Milazzo che adesso hanno trovato collocazione nel P.D. gratificata da comode poltrone.
Infatti non dobbiamo dimenticare che per i loro interessi sono usciti dai Democratici di Sinistra per approdare nel partito della Sinistra Unita dell’On. Cantafia (ufficialmente questo transito, dal consigliere Oddo, è stato giustificato perché dovevano dare vita ad un progetto attualmente oggi sconosciuto agli altri). Sempre per i loro interessi sono rientrati nei DS dopo essere rimasti orfani del referente Cantafia non rieletto nelle consultazioni elettorali per il rinnovo dell’assemblea regionale; hanno ammesso il loro sbaglio e noi ci abbiamo creduto! Come il figliol prodigo ritornato alla casa del padre sono stati premiati, infatti il consigliere Oddo è stato eletto Presidente del Consiglio Comunale e Milazzo assessore ai servizi sociali. Iannazzo, primo dei non eletti è diventato recentemente consigliere comunale per disgrazia altrui e così ha avuto modo di addolcire le amare lacrime versate in occasione della sua non elezione a consigliere comunale.
Io sono consigliere da circa due anni. Nonostante la mia inesperienza in politica sono fermamente convinto che un politico serio dovrebbe lanciare accuse a chi ritiene un suo avversario solo ed esclusivamente in presenza di quest’ultimo e di coloro che conoscono nei dettagli gli eventi precedenti alla mia candidatura a consigliere comunale.
Scarpinato Antonino
Consigliere Comunale
in merito agli ultimi eventi politici sorti all’interno della maggioranza del comune di Campofiorito e del Consiglio Comunale tutto, Le invio alcune mie riflessioni. Non sono affatto stupito se la mia provocatoria dichiarazione di voto contrario al bilancio di previsione sia stata volutamente ignorata dai consiglieri comunali, che come me, provengono dagli ex Democratici di Sinistra. Infatti nessun chiarimento politico c’è stato da quel consiglio comunale del 29 aprile 2010 ad oggi. E’ evidente che la mia presenza e quella dei compagni a me vicini e che rappresento in questo Consiglio Comunale è mal digerita e soprattutto è parecchio scomoda. Il chiarimento agli ex DS non interessa e ciò è dimostrato dall’affannosa ricerca di nuovi sgabelli, provenienti dalle file dell’opposizione. Infatti nel consiglio comunale del 24/05/2010, riunitosi in seconda convocazione il 25/05/2010, hanno ufficializzato l’appoggio del nuovo gruppo politico costituitosi il 23/05/2010 proveniente dal gruppo di Forza Italia, gruppo denominato Alleanza per Campofiorito che fa riferimento all’on. Salvino Caputo,
Adesso, come è stato ribadito in consiglio comunale dai consiglieri ex DS Oddo e Iannazzo e dopo avere incassato l’appoggio in consiglio Comunale del gruppo Alleanza per Campofiorito, si chiedono pubbliche motivazioni alle mie scelte. Volutamente dimenticano che i dissensi all’interno del gruppo degli ex DS nasce dal loro comportamento di insofferenza nei confronti miei e del mio gruppo che ha avuto la forza di farmi eleggere consigliere comunale, mentre loro non hanno avuto la forza di fare eleggere il loro candidato Giuseppe Iannazzo. Le esternazioni da loro fatte subito dopo avere avuto la certezza della non elezione di Iannazzo sono note a tutti e non sto qui ad elencarle.
E’ opportuno invece ricordare il curriculum dei consiglieri Oddo, Iannazzo e dall’assessore Milazzo che adesso hanno trovato collocazione nel P.D. gratificata da comode poltrone.
Infatti non dobbiamo dimenticare che per i loro interessi sono usciti dai Democratici di Sinistra per approdare nel partito della Sinistra Unita dell’On. Cantafia (ufficialmente questo transito, dal consigliere Oddo, è stato giustificato perché dovevano dare vita ad un progetto attualmente oggi sconosciuto agli altri). Sempre per i loro interessi sono rientrati nei DS dopo essere rimasti orfani del referente Cantafia non rieletto nelle consultazioni elettorali per il rinnovo dell’assemblea regionale; hanno ammesso il loro sbaglio e noi ci abbiamo creduto! Come il figliol prodigo ritornato alla casa del padre sono stati premiati, infatti il consigliere Oddo è stato eletto Presidente del Consiglio Comunale e Milazzo assessore ai servizi sociali. Iannazzo, primo dei non eletti è diventato recentemente consigliere comunale per disgrazia altrui e così ha avuto modo di addolcire le amare lacrime versate in occasione della sua non elezione a consigliere comunale.
Io sono consigliere da circa due anni. Nonostante la mia inesperienza in politica sono fermamente convinto che un politico serio dovrebbe lanciare accuse a chi ritiene un suo avversario solo ed esclusivamente in presenza di quest’ultimo e di coloro che conoscono nei dettagli gli eventi precedenti alla mia candidatura a consigliere comunale.
Scarpinato Antonino
Consigliere Comunale
“I politici non profaneranno il dolore di via D’Amelio”
di Martina Miliani
domenica 27 giugno 2010
Parla tutto d’un fiato Salvatore Borsellino. E soprattutto ringrazia, per la possibilità che gli abbiamo dato, di raccontare questa storia: “Sa non sono molto bene accetto da certa stampa, mi hanno dato del sovversivo”. Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, parla di stragi di Stato, di equilibri politici e di agende rosse che scompaiono improvvisamente. Parla di illusioni, ma anche della voglia di continuare a lottare per ottenere la verità, su quella strage fa gli ha portato via il fratello. Parla anche di speranza, Salvatore Borsellino: spera che la morte di Paolo non sia stata vana.
Cos’è cambiato nella sua vita da quel 19 luglio?
“E’ cambiata molto la mia vita. Ma ho attraversato diverse fasi da allora. Fino al ‘97, vedendo la reazione della società civile e delloStato alla strage, nutrivo la fortissima speranza che la morte di miofratello fosse almeno servita a cambiare le cose. Poi ho capito cheera tutta un’illusione: spenta, la reazione della società civile, fasulla, quella dello Stato. Ma dal 2004 ho ricominciato a parlare:avevo la certezza che la strage di via d’Amelio non fosse una strage di mafia ma una strage di Stato”.
Quindi cosa ha pensato quando sono arrivate le dichiarazioni di Spatuzza e Ciancimino?
“Ho nutrito una profonda gratitudine verso le procure di Caltanissetta, Firenze e Palermo. E’ nata in me una profonda speranza nei collaboratori di giustizia, ma soprattutto in quei magistrati che li stanno ascoltando, che stanno procedendo senza paura nonostante le intimidazioni del capo dell’esecutivo”.
Cosa si sa davvero di via D’Amelio?
“Ho letto molti libri di giornalisti che parlano della trattativa tra mafia e Stato, che si è svolta durante il periodo delle stragi. Io sono convinto che mio fratello sapesse della trattativa, e conoscendo Paolo sicuramente si sarà messo di traverso. Inoltre sono sicuro che il primo luglio del 1992 quell’incontro con Mancino c’è stato, nonostante lui continui a negarlo. C’è scritto nell’agenda grigia di Paolo. Lo Stato doveva eliminare l’ostacolo alla trattativa intavolata nel momento in cui si stava attuando in Italia l’ennesimo processo, dirompente per l’opinione pubblica, di cambiamento degli equilibri politici. E in questi casi, a scatenarsi sono le stragi di Stato”.
Cos’è il popolo delle agende rosse?
“E’ un movimento spontaneo, del quale fanno parte anche Sonia Alfano, la figlia di Beppe Alfano morto ammazzato dalla mafia, e Benny Calasanzio, nipote di due imprenditori anche loro uccisi nell’arco di sei mesi dalla criminaità organizzata, proprio nel periodo delle stragi. Abbiamo iniziato a muoverci nelle scuole e tra la gente, per sensibilizzare l’opinione pubblica alla piaga della criminalità organizzata. Alcuni giovani che abbiamo incontrato, hanno deciso di unirsi a noi. Sono giovani non politicizzati, un gruppo trasversale, che ha deciso di lottare con noi per ottenere giustizia e verità. Il nostro più grande sostegno va ai magistrati che si adoperano per questo, nonostante le minacce da parte del governo. La prossima manifestazione sarà il 17, 18 e 19 luglio. Cercheremo di impedire la profanazione di via d’Amelio da parte di quei politici che con ipocrisia vengono a deporre corone di fiori”.
Il 17 febbraio del 2009 la Corte di Cassazione si è pronunciata sull’agenda rossa: non ci sono prove che Paolo Borsellino l’avesse con sè quel giorno, e con molta probabilità è andata distrutta nell’esplosione.
“L’agenda rossa è il simbolo di questo movimento, il simbolo di giustizia e di verità. L’arrivo di questa sentenza è una pietra tombale sulla giustizia.Non si è mai arrivati ad una fase dibattimentale di questo processo. Delle foto provano che il colonnello Arcangioli aveva con sè la borsa mio fratello, nei momenti successivi alla strage. Agnese, la moglie di Paolo, ha testimoniato lei stessa di aver visto mio fratello quel giorno prendere l’agenda rossa, dalla quale non si separava mai. Ho chiesto che Agnese, e tutti i familiari di Paolo venissero incriminati per aver mentito, o per aver fatto sparire l’agenda, perchè noi saremmo stati gli unici a poterla avere. Ho chiesto che venissimo processati, ma non è successo nulla”.
Giorgio Napolitano si è rammaricato delle ombre che, nonostante i processi arrivati a sentenza, continuano a permanere sulla strage di Ustica. Perchè secondo lei è così difficile arrivare alla verità in Italia?
“Dietro queste stragi ci sono sempre pezzi deviati dello Stato che occultano notizie, depistano. Ustica, il caso Moro, Piazza Fontana, Piazza delle Logge. Non si arriva alla verità a causa di apparati di disinformazione, che continuano a nasconderla”.
Da I love Sicilia
domenica 27 giugno 2010
Parla tutto d’un fiato Salvatore Borsellino. E soprattutto ringrazia, per la possibilità che gli abbiamo dato, di raccontare questa storia: “Sa non sono molto bene accetto da certa stampa, mi hanno dato del sovversivo”. Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, parla di stragi di Stato, di equilibri politici e di agende rosse che scompaiono improvvisamente. Parla di illusioni, ma anche della voglia di continuare a lottare per ottenere la verità, su quella strage fa gli ha portato via il fratello. Parla anche di speranza, Salvatore Borsellino: spera che la morte di Paolo non sia stata vana.
Cos’è cambiato nella sua vita da quel 19 luglio?
“E’ cambiata molto la mia vita. Ma ho attraversato diverse fasi da allora. Fino al ‘97, vedendo la reazione della società civile e delloStato alla strage, nutrivo la fortissima speranza che la morte di miofratello fosse almeno servita a cambiare le cose. Poi ho capito cheera tutta un’illusione: spenta, la reazione della società civile, fasulla, quella dello Stato. Ma dal 2004 ho ricominciato a parlare:avevo la certezza che la strage di via d’Amelio non fosse una strage di mafia ma una strage di Stato”.
Quindi cosa ha pensato quando sono arrivate le dichiarazioni di Spatuzza e Ciancimino?
“Ho nutrito una profonda gratitudine verso le procure di Caltanissetta, Firenze e Palermo. E’ nata in me una profonda speranza nei collaboratori di giustizia, ma soprattutto in quei magistrati che li stanno ascoltando, che stanno procedendo senza paura nonostante le intimidazioni del capo dell’esecutivo”.
Cosa si sa davvero di via D’Amelio?
“Ho letto molti libri di giornalisti che parlano della trattativa tra mafia e Stato, che si è svolta durante il periodo delle stragi. Io sono convinto che mio fratello sapesse della trattativa, e conoscendo Paolo sicuramente si sarà messo di traverso. Inoltre sono sicuro che il primo luglio del 1992 quell’incontro con Mancino c’è stato, nonostante lui continui a negarlo. C’è scritto nell’agenda grigia di Paolo. Lo Stato doveva eliminare l’ostacolo alla trattativa intavolata nel momento in cui si stava attuando in Italia l’ennesimo processo, dirompente per l’opinione pubblica, di cambiamento degli equilibri politici. E in questi casi, a scatenarsi sono le stragi di Stato”.
Cos’è il popolo delle agende rosse?
“E’ un movimento spontaneo, del quale fanno parte anche Sonia Alfano, la figlia di Beppe Alfano morto ammazzato dalla mafia, e Benny Calasanzio, nipote di due imprenditori anche loro uccisi nell’arco di sei mesi dalla criminaità organizzata, proprio nel periodo delle stragi. Abbiamo iniziato a muoverci nelle scuole e tra la gente, per sensibilizzare l’opinione pubblica alla piaga della criminalità organizzata. Alcuni giovani che abbiamo incontrato, hanno deciso di unirsi a noi. Sono giovani non politicizzati, un gruppo trasversale, che ha deciso di lottare con noi per ottenere giustizia e verità. Il nostro più grande sostegno va ai magistrati che si adoperano per questo, nonostante le minacce da parte del governo. La prossima manifestazione sarà il 17, 18 e 19 luglio. Cercheremo di impedire la profanazione di via d’Amelio da parte di quei politici che con ipocrisia vengono a deporre corone di fiori”.
Il 17 febbraio del 2009 la Corte di Cassazione si è pronunciata sull’agenda rossa: non ci sono prove che Paolo Borsellino l’avesse con sè quel giorno, e con molta probabilità è andata distrutta nell’esplosione.
“L’agenda rossa è il simbolo di questo movimento, il simbolo di giustizia e di verità. L’arrivo di questa sentenza è una pietra tombale sulla giustizia.Non si è mai arrivati ad una fase dibattimentale di questo processo. Delle foto provano che il colonnello Arcangioli aveva con sè la borsa mio fratello, nei momenti successivi alla strage. Agnese, la moglie di Paolo, ha testimoniato lei stessa di aver visto mio fratello quel giorno prendere l’agenda rossa, dalla quale non si separava mai. Ho chiesto che Agnese, e tutti i familiari di Paolo venissero incriminati per aver mentito, o per aver fatto sparire l’agenda, perchè noi saremmo stati gli unici a poterla avere. Ho chiesto che venissimo processati, ma non è successo nulla”.
Giorgio Napolitano si è rammaricato delle ombre che, nonostante i processi arrivati a sentenza, continuano a permanere sulla strage di Ustica. Perchè secondo lei è così difficile arrivare alla verità in Italia?
“Dietro queste stragi ci sono sempre pezzi deviati dello Stato che occultano notizie, depistano. Ustica, il caso Moro, Piazza Fontana, Piazza delle Logge. Non si arriva alla verità a causa di apparati di disinformazione, che continuano a nasconderla”.
Da I love Sicilia
domenica 27 giugno 2010
Massimo Ciancimino: “Il mio torto? Dire la verità”
di Massimo Ciancimino
Ho appena finito di leggere l’articolo di Felice Cavallaro su ‘I love Sicilia’ e credo sia giusto “riportare la barra dritta”, come dice lo stesso inviato di punta del Corriere della Sera nella sua rubrica ‘L’Infelice’. Mi verrebbe subito da controbattere alla descrizione,totalmente fuorviante, che viene fornita sulla mia persona. Mi viene detto che sono “sbruffone”, “beffardo e canzonatorio”. Ho la netta sensazione che stavolta, il vostro editorialista di punta abbia toppato. E vi spiego perché.
Lungi da me l’idea di volermi giustificare o dare spiegazioni, anche se certamente avrei preferito potere replicare, punto su punto, ad alcune imprecisioni o cattiverie che sono state dette sul mio conto. Evidentemente, siamo alle solite: tutti pronti a puntare il dito su chi parla su, chi racconta le reali collusioni del proprio padre con Cosa nostra – cosa non facile vi assicuro – e non solo.
Vengo criticato come sempre sul mio comportamento progressivo al limite della “paraculaggine” con noti ed illustri esponenti della Procura di Palermo e di Caltanissetta. Niente e nulla su tanti che ancora oggi, pur sapendo tante cose utili alle inchieste dei giudici, tacciono in un confortante e sempre rassicurante silenzio. Io ho il torto di parlare, di raccontare scomode verità. Ma per questo sono uno “sbruffone”, io. Ma che cosa ne sapete voi su che cosa realmente comporta vivere sotto scorta, cambiare casa continuamente, con una richiesta di separazione ( per fortuna superata ) fatta da mia moglie dopo una lettera anonima giunta nella mia abitazione di Bologna dove veniva scritto che mio figlio VitoAndrea, che ha appena cinque anni, avrebbe fatto la fine del piccolo Giuseppe Di Matteo? Per chi non lo ricordasse, è il figlio del pentito Santino Di Matteo che dopo essere stato segregato per anni in diversi casolari, è stato strangolato e poi sciolto nell’acido.
Vi assicuro che la mia vita non è una vita facile, tutt’altro. Ma io continuo a parlare e a raccontare ai giudici ciò che so. A rispondere, puntualmente, alle loro domande. E non a “spizzichi e bocconi”, come mi accusano. Io rispondo a ciò che mi viene chiesto. So di averer intrapreso una strada troppo rischiosa, con il rischio di compromettere anche l’incolumità di mio figlio. No, preferite dire che viene “il mal di pancia” a vedermi uscire da Feltrinelli dopo avere firmato qualche copia del mio libro ‘Don Vito’.
Nulla, invece, sulle tante volte in cui per motivi di sicurezza mi viene consigliato di non andare al mare, di non accompagnare mio figlio a scuola di evitare di passeggiare con lui. Nulla sulle lettere dei condomini che non ti vogliono. Nulla su come continuare a giustificare alla propria famiglia le continue minacce e i proiettili. Nulla sul fatto che tutto quello che sarà il mio guadagno sul libro che considero una mia creatura e a cui sono molto affezionato, andrà speso interamente per la ristrutturazione di una villa liberty a Palermo. Un mio vecchio sogno. Ahimè, se nessun invito mi viene rivolto da potenti circoli e dai giornalisti legati al mondo della cultura della Destra Italiana.
Poi, per amore di verità, per quanto riguarda l’episodio di una ipotetica presentazione del libro a Como, e sul presunto rifiuto mio alla presenza alla manifestazione dell’avvocato Michele Costa, rimango basito, non so nulla. Sarebbe stato per me un onore sedere accanto al figlio di un persona come il giudice Costa, come lo è stato sia per Salvatore Borsellino sia per Nando Dalla Chiesa. Non conosco l’avvocato Costa, ho più volte letto di sue dichiarazioni nei miei confronti. Non mi è stata mai data facoltà di replica, anzi posso dire che una volta mi era stato chiesto da Radio Radicale un confronto, ma è stato l’avvocato Costa che si è sottratto al confronto perché io andavo visto non come persona ma solo come ” il figlio di un mafioso” . Ho rispettato comunque e continuerò a rispettare la posizione dell’avvocato Costa, sperando un domani in un possibile confronto. E’ tutto molto triste, la strada del silenzio non solo paga ma rende tutti innocenti.
Confesso che l’articolo di Felice Cavallaro mi ha lasciato l’amaro in bocca. C’e’ astio nei miei confronti, e non ne percepisco le ragioni. Vengo descritto come una persona che non sono. Non vorrei pensare, cari amici di ‘I love Sicilia’, che per voi sia arrivato il tempo del ‘riposizionamento’, del ‘contrordine’. Dopo tante copertine su Massimo, dopo la pubblicazione di un ponderoso volume con le mie dichiarazioni ai giudici senza una riga di interpretazione o di critica, siamo arrivati al “Circo Massimo”? Addirittura in copertina, seppure il pezzo non sia una cronaca ma un editoriale. Già era accaduto con il libro ‘Nel nome del padre’, con l’utilizzo di una mia immagine senza neanche chiedere una autorizzazione. Capisco che anche voi ‘tenete famiglia’. Non entro nel merito dell’editoriale perché non posso impedire a chicchessia di criticarmi.
Noto la presenza di alcuni autori, giornalisti solitamente propensi ad una giusta visione garantista delle vicende giudiziarie, e che in passato si sono sempre contraddistinti per le interviste ad imputati autodefinitisi innocenti perseguitati. Questi stessi per una volta ne hanno trovato uno, Massimo Ciancimino, che non nega i propri addebiti ma -anzi- offre spunti di approfondimento per la magistratura. E che fa, il bravo giornalista? Lo delegittima! Che delusione! Non è che ha dovuto scegliere tra Massimo e qualcuno di quelli da lui tirati in ballo? Grazie ancora per l’ospitalità. Un caro saluto.
Ho appena finito di leggere l’articolo di Felice Cavallaro su ‘I love Sicilia’ e credo sia giusto “riportare la barra dritta”, come dice lo stesso inviato di punta del Corriere della Sera nella sua rubrica ‘L’Infelice’. Mi verrebbe subito da controbattere alla descrizione,totalmente fuorviante, che viene fornita sulla mia persona. Mi viene detto che sono “sbruffone”, “beffardo e canzonatorio”. Ho la netta sensazione che stavolta, il vostro editorialista di punta abbia toppato. E vi spiego perché.
Lungi da me l’idea di volermi giustificare o dare spiegazioni, anche se certamente avrei preferito potere replicare, punto su punto, ad alcune imprecisioni o cattiverie che sono state dette sul mio conto. Evidentemente, siamo alle solite: tutti pronti a puntare il dito su chi parla su, chi racconta le reali collusioni del proprio padre con Cosa nostra – cosa non facile vi assicuro – e non solo.
Vengo criticato come sempre sul mio comportamento progressivo al limite della “paraculaggine” con noti ed illustri esponenti della Procura di Palermo e di Caltanissetta. Niente e nulla su tanti che ancora oggi, pur sapendo tante cose utili alle inchieste dei giudici, tacciono in un confortante e sempre rassicurante silenzio. Io ho il torto di parlare, di raccontare scomode verità. Ma per questo sono uno “sbruffone”, io. Ma che cosa ne sapete voi su che cosa realmente comporta vivere sotto scorta, cambiare casa continuamente, con una richiesta di separazione ( per fortuna superata ) fatta da mia moglie dopo una lettera anonima giunta nella mia abitazione di Bologna dove veniva scritto che mio figlio VitoAndrea, che ha appena cinque anni, avrebbe fatto la fine del piccolo Giuseppe Di Matteo? Per chi non lo ricordasse, è il figlio del pentito Santino Di Matteo che dopo essere stato segregato per anni in diversi casolari, è stato strangolato e poi sciolto nell’acido.
Vi assicuro che la mia vita non è una vita facile, tutt’altro. Ma io continuo a parlare e a raccontare ai giudici ciò che so. A rispondere, puntualmente, alle loro domande. E non a “spizzichi e bocconi”, come mi accusano. Io rispondo a ciò che mi viene chiesto. So di averer intrapreso una strada troppo rischiosa, con il rischio di compromettere anche l’incolumità di mio figlio. No, preferite dire che viene “il mal di pancia” a vedermi uscire da Feltrinelli dopo avere firmato qualche copia del mio libro ‘Don Vito’.
Nulla, invece, sulle tante volte in cui per motivi di sicurezza mi viene consigliato di non andare al mare, di non accompagnare mio figlio a scuola di evitare di passeggiare con lui. Nulla sulle lettere dei condomini che non ti vogliono. Nulla su come continuare a giustificare alla propria famiglia le continue minacce e i proiettili. Nulla sul fatto che tutto quello che sarà il mio guadagno sul libro che considero una mia creatura e a cui sono molto affezionato, andrà speso interamente per la ristrutturazione di una villa liberty a Palermo. Un mio vecchio sogno. Ahimè, se nessun invito mi viene rivolto da potenti circoli e dai giornalisti legati al mondo della cultura della Destra Italiana.
Poi, per amore di verità, per quanto riguarda l’episodio di una ipotetica presentazione del libro a Como, e sul presunto rifiuto mio alla presenza alla manifestazione dell’avvocato Michele Costa, rimango basito, non so nulla. Sarebbe stato per me un onore sedere accanto al figlio di un persona come il giudice Costa, come lo è stato sia per Salvatore Borsellino sia per Nando Dalla Chiesa. Non conosco l’avvocato Costa, ho più volte letto di sue dichiarazioni nei miei confronti. Non mi è stata mai data facoltà di replica, anzi posso dire che una volta mi era stato chiesto da Radio Radicale un confronto, ma è stato l’avvocato Costa che si è sottratto al confronto perché io andavo visto non come persona ma solo come ” il figlio di un mafioso” . Ho rispettato comunque e continuerò a rispettare la posizione dell’avvocato Costa, sperando un domani in un possibile confronto. E’ tutto molto triste, la strada del silenzio non solo paga ma rende tutti innocenti.
Confesso che l’articolo di Felice Cavallaro mi ha lasciato l’amaro in bocca. C’e’ astio nei miei confronti, e non ne percepisco le ragioni. Vengo descritto come una persona che non sono. Non vorrei pensare, cari amici di ‘I love Sicilia’, che per voi sia arrivato il tempo del ‘riposizionamento’, del ‘contrordine’. Dopo tante copertine su Massimo, dopo la pubblicazione di un ponderoso volume con le mie dichiarazioni ai giudici senza una riga di interpretazione o di critica, siamo arrivati al “Circo Massimo”? Addirittura in copertina, seppure il pezzo non sia una cronaca ma un editoriale. Già era accaduto con il libro ‘Nel nome del padre’, con l’utilizzo di una mia immagine senza neanche chiedere una autorizzazione. Capisco che anche voi ‘tenete famiglia’. Non entro nel merito dell’editoriale perché non posso impedire a chicchessia di criticarmi.
Noto la presenza di alcuni autori, giornalisti solitamente propensi ad una giusta visione garantista delle vicende giudiziarie, e che in passato si sono sempre contraddistinti per le interviste ad imputati autodefinitisi innocenti perseguitati. Questi stessi per una volta ne hanno trovato uno, Massimo Ciancimino, che non nega i propri addebiti ma -anzi- offre spunti di approfondimento per la magistratura. E che fa, il bravo giornalista? Lo delegittima! Che delusione! Non è che ha dovuto scegliere tra Massimo e qualcuno di quelli da lui tirati in ballo? Grazie ancora per l’ospitalità. Un caro saluto.
giovedì 24 giugno 2010
APPELLO PER SALVARE LA CITTA' DI PALERMO DAL DEGRADO
Da molti mesi la società civile palermitana vive un profondo disagio nei confronti di chi ci amministra. Vi sono state raccolte di firme, petizioni, appelli, aggregazioni di gruppi di cittadini che vogliono ragionare su un futuro migliore e possibile. La nostra città, dopo 9 anni di cura Cammarata, versa in uno stato di agonia. Non funziona più nulla e ognuno si arrangia come può in una realtà senza regole e senza certezze in cui cresce sempre di più la illegalità, spesso favorita dalla stessa azione amministrativa.
Palermo è una città umiliata nella sua immagine e nella sua vita quotidiana: è come se il Comune avesse cessato di esistere. Mentre i cittadini pagano le malefatte dell'Amministrazione comunale e delle aziende collegate, AMIA in testa, Cammarata e la sua giunta non sono più in grado di gestire neppure l'ordinaria amministrazione. Così la vecchia alleanza scricchiola e parti significative del centrodestra, corresponsabili di questo disastro, prendono le distanze dalla giunta e dal Sindaco. I conti dell'Amministrazione riflettono in pieno questo quadro drammatico: blocco della spesa, debiti in crescita esponenziale e contenziosi in espansione con cittadini e imprese che aspettano, ormai invano, il dovuto.
Quando un Comune è ormai alla bancarotta, non paga i suoi debiti, non assolve ai suoi compiti istituzionali, l'aumento in modo indiscriminato e arbitrario dei tributi e il taglio dei più elementari servizi non risolvono il problema. Tutto ciò deve allarmare ogni cittadino responsabile.
A poco è servito fin qui l'aiuto del Governo nazionale che oggi, con la sua manovra economica, colpisce ulteriormente i comuni, le regioni e il mezzogiorno. Un sindaco pluri-indagato, una giunta e una coalizione complici, incapaci di far valere le ragioni della nostra città, hanno dilapidato le risorse e stanno manomettendo il territorio, facendo pagare in modo spregiudicato ai cittadini il costo di questo loro malgoverno; una città al collasso, sommersa dai rifiuti, con gravi rischi per la salute dei cittadini, ora minacciati anche dall'inquinamento della falda, l'azzeramento di tutte le attività a sostegno delle fasce più deboli e l'elenco potrebbe ancora continuare. Non passa giorno che nelle strade del centro sfilino gruppi di cittadini che urlano la loro rabbia per l'assenza di risposte ai loro bisogni e ai loro diritti ma anche testimoni della loro impotenza di fronte a tanto disastro! Con questa Amministrazione non si può più nemmeno dialogare, essa non è più credibile, non è più legittimata neppure dagli stessi cittadini che l'hanno eletta. Ce n'è abbastanza per dire: ora basta! Un grande fermento, nato dall'indignazione e carico di volontà di cambiare il governo della città, è sempre più presente nel territorio.
Ma l'indignazione da sola non è più sufficiente! Bisogna costruire un'alternativa. È un dovere morale ricercare un metodo utile che unisca tutte le forze del cambiamento per il bene della nostra città. Al Consiglio comunale, una opposizione in ordine sparso si arrabatta per svolgere il suo mandato, rappresentando una città sempre più stanca e avvilita. Dopo due anni di battaglie constata la propria impotenza di fronte a spregiudicate logiche clientelari ma cresce la consapevolezza che non si tratta più di gridare "Cammarata vattene", ma di costruire un percorso virtuoso per restituire a questa città il volto umano e produttivo che i cittadini e gli imprenditori onesti vogliono.
È per questo che vogliamo dire a tutti, cittadini, mondo della cultura e della ricerca, associazioni, movimenti, e ai tanti esclusi sociali, di riappropriarci del nostro diritto al futuro, ad una amministrazione corretta, a un nuovo rapporto tra politica, conoscenza e morale.
È necessario creare le condizioni per un governo della nostra città sulla base di un progetto comune, che faccia, innanzitutto, proposte concrete di soluzione dei tanti problemi che rendono più difficile la nostra vita, a cominciare da quello del lavoro e della liberazione dalla precarietà.
La mobilitazione deve partire dalla scelta di una nuova classe dirigente, capace di mettersi a servizio degli interessi generali della città, scelta con lo strumento più democratico che conosciamo: le primarie.
Sarà così una mobilitazione "per". Non solo per mandare via la giunta dell'ignominia e il suo sindaco, ma anche per costruire una alternativa che restituisca dignità e cultura ad una città mortificata e offesa.
Alle primarie si dovrà arrivare attraverso un percorso plurale e democratico, aperto e partecipato. Così, in una città di fatto senza governo, i Palermitani potranno dettare l'agenda politica, con nuovi spazi di partecipazione democratica e nuovi punti di riferimento alternativi e credibili, per condividere e costruire quel progetto di città che sarà il programma di governo di chi avremo scelto come Sindaco.
Con questo appello vogliamo altresì chiedere al Consiglio comunale un segnale forte di coerenza, di non cedere a inutili e dannosi compromessi, di rompere con questa esperienza politico-amministrativa che dal suo protrarsi sarà solo causa di ulteriori danni alla nostra comunità; per costruire assieme, società civile e opposizione politica, abbattendo gli steccati, un "Consiglio Comunale alternativo" nello stesso Palazzo di Città, riappropriandoci della Casa Comune dei cittadini.
Ci rivolgiamo a tutti perché consideriamo la nostra città un Bene Comune.
Primi firmatari:
Gianni Allegra, Nino Alongi, Emilio Arcuri, Letizia Battaglia, Beno Biundo, Augusto Cavadi, Donatella Costa, Carmelo Di Gesaro, Steni Di Piazza, Sergio Di Vita, Giovanni Ferro, Giovanni Fiandaca, Michele Figurelli, Aurelio Grimaldi, Mario Guglielmino, Nicola Giuliano Leone, Nadia Lo Presti, Alberto Mangano, Fausto Melluso, Vito Mercadante, Antonello Micalizzi, Gianni Notari, Antonino Pellicane, Erina Pellitteri, Aldo Penna, Antonio Riolo, Nino Rocca, Anna Maria Sagona, Giuseppe Sunseri, Daniela Thomas, Alberto Tulumello, Fulvio Vassallo, Emanuele Villa
Palermo è una città umiliata nella sua immagine e nella sua vita quotidiana: è come se il Comune avesse cessato di esistere. Mentre i cittadini pagano le malefatte dell'Amministrazione comunale e delle aziende collegate, AMIA in testa, Cammarata e la sua giunta non sono più in grado di gestire neppure l'ordinaria amministrazione. Così la vecchia alleanza scricchiola e parti significative del centrodestra, corresponsabili di questo disastro, prendono le distanze dalla giunta e dal Sindaco. I conti dell'Amministrazione riflettono in pieno questo quadro drammatico: blocco della spesa, debiti in crescita esponenziale e contenziosi in espansione con cittadini e imprese che aspettano, ormai invano, il dovuto.
Quando un Comune è ormai alla bancarotta, non paga i suoi debiti, non assolve ai suoi compiti istituzionali, l'aumento in modo indiscriminato e arbitrario dei tributi e il taglio dei più elementari servizi non risolvono il problema. Tutto ciò deve allarmare ogni cittadino responsabile.
A poco è servito fin qui l'aiuto del Governo nazionale che oggi, con la sua manovra economica, colpisce ulteriormente i comuni, le regioni e il mezzogiorno. Un sindaco pluri-indagato, una giunta e una coalizione complici, incapaci di far valere le ragioni della nostra città, hanno dilapidato le risorse e stanno manomettendo il territorio, facendo pagare in modo spregiudicato ai cittadini il costo di questo loro malgoverno; una città al collasso, sommersa dai rifiuti, con gravi rischi per la salute dei cittadini, ora minacciati anche dall'inquinamento della falda, l'azzeramento di tutte le attività a sostegno delle fasce più deboli e l'elenco potrebbe ancora continuare. Non passa giorno che nelle strade del centro sfilino gruppi di cittadini che urlano la loro rabbia per l'assenza di risposte ai loro bisogni e ai loro diritti ma anche testimoni della loro impotenza di fronte a tanto disastro! Con questa Amministrazione non si può più nemmeno dialogare, essa non è più credibile, non è più legittimata neppure dagli stessi cittadini che l'hanno eletta. Ce n'è abbastanza per dire: ora basta! Un grande fermento, nato dall'indignazione e carico di volontà di cambiare il governo della città, è sempre più presente nel territorio.
Ma l'indignazione da sola non è più sufficiente! Bisogna costruire un'alternativa. È un dovere morale ricercare un metodo utile che unisca tutte le forze del cambiamento per il bene della nostra città. Al Consiglio comunale, una opposizione in ordine sparso si arrabatta per svolgere il suo mandato, rappresentando una città sempre più stanca e avvilita. Dopo due anni di battaglie constata la propria impotenza di fronte a spregiudicate logiche clientelari ma cresce la consapevolezza che non si tratta più di gridare "Cammarata vattene", ma di costruire un percorso virtuoso per restituire a questa città il volto umano e produttivo che i cittadini e gli imprenditori onesti vogliono.
È per questo che vogliamo dire a tutti, cittadini, mondo della cultura e della ricerca, associazioni, movimenti, e ai tanti esclusi sociali, di riappropriarci del nostro diritto al futuro, ad una amministrazione corretta, a un nuovo rapporto tra politica, conoscenza e morale.
È necessario creare le condizioni per un governo della nostra città sulla base di un progetto comune, che faccia, innanzitutto, proposte concrete di soluzione dei tanti problemi che rendono più difficile la nostra vita, a cominciare da quello del lavoro e della liberazione dalla precarietà.
La mobilitazione deve partire dalla scelta di una nuova classe dirigente, capace di mettersi a servizio degli interessi generali della città, scelta con lo strumento più democratico che conosciamo: le primarie.
Sarà così una mobilitazione "per". Non solo per mandare via la giunta dell'ignominia e il suo sindaco, ma anche per costruire una alternativa che restituisca dignità e cultura ad una città mortificata e offesa.
Alle primarie si dovrà arrivare attraverso un percorso plurale e democratico, aperto e partecipato. Così, in una città di fatto senza governo, i Palermitani potranno dettare l'agenda politica, con nuovi spazi di partecipazione democratica e nuovi punti di riferimento alternativi e credibili, per condividere e costruire quel progetto di città che sarà il programma di governo di chi avremo scelto come Sindaco.
Con questo appello vogliamo altresì chiedere al Consiglio comunale un segnale forte di coerenza, di non cedere a inutili e dannosi compromessi, di rompere con questa esperienza politico-amministrativa che dal suo protrarsi sarà solo causa di ulteriori danni alla nostra comunità; per costruire assieme, società civile e opposizione politica, abbattendo gli steccati, un "Consiglio Comunale alternativo" nello stesso Palazzo di Città, riappropriandoci della Casa Comune dei cittadini.
Ci rivolgiamo a tutti perché consideriamo la nostra città un Bene Comune.
Primi firmatari:
Gianni Allegra, Nino Alongi, Emilio Arcuri, Letizia Battaglia, Beno Biundo, Augusto Cavadi, Donatella Costa, Carmelo Di Gesaro, Steni Di Piazza, Sergio Di Vita, Giovanni Ferro, Giovanni Fiandaca, Michele Figurelli, Aurelio Grimaldi, Mario Guglielmino, Nicola Giuliano Leone, Nadia Lo Presti, Alberto Mangano, Fausto Melluso, Vito Mercadante, Antonello Micalizzi, Gianni Notari, Antonino Pellicane, Erina Pellitteri, Aldo Penna, Antonio Riolo, Nino Rocca, Anna Maria Sagona, Giuseppe Sunseri, Daniela Thomas, Alberto Tulumello, Fulvio Vassallo, Emanuele Villa
martedì 22 giugno 2010
Corleone. L'assessore regionale alla sanità Russo ha... raddoppiato i posti-letto di Psichiatria? Lanza e Iannazzo protestano...
DINO PATERNOSTRO
Se voleva essere una protesta, non c’era quasi nessuno a protestare. Se voleva essere una proposta, è arrivata fuori tempo massimo. Ieri sera, il Pdl corleonese guidato (si fa per dire) dal duo Nino Iannazzo/Mario Lanza (rispettivamente, sindaco e presidente del consiglio comunale di Corleone) hanno consumato il rito stanco (e, per la verità, un po’ ridicolo) della strumentalizzazione politica dei problemi dell’ospedale. Intanto perché (alla faccia della necessità e dell’urgenza!) hanno convocato per ieri (21 giugno 2010) una seduta del consiglio comunale in sessione “straordinaria ed urgente”, alla presenza dei sindaci e dei consiglieri della zona, che era stata decisa con voto unanime di tutti i consiglieri lo scorso 31 marzo, per protestare contro l’assessore regionale alla sanità, Massimo Russo, che aveva cancellato il servizio di Psichiatria e ridotto a semplice “punto nascita” l’U.O. di Ostetricia e Ginecologia. Per quasi tre mesi hanno “dormito”. All’improvviso, però, si sono svegliati, hanno capito che l’opinione pubblica e gli operatori sanitari si stavano convincendo che a sbloccare positivamente la vertenza-ospedale (che loro avevano lasciato incancrenire) erano stati la Cgil e il senatore Giuseppe Lumia (Pd), e allora si sono inventati la seduta straordinaria, convocata platealmente sulla strada antistante l’ospedale, per gridare “al lupo, al lupo”.
Iannazzo e Lanza hanno fatto finta di dimenticare (ma i cittadini e gli operatori sanitari non l’hanno dimenticato!) che nel frattempo (grazie all’iniziativa politica della Cgil e del senatore Lumia) l’assessore Russo ha incontrato già due volte gli operatori sanitari, i sindacati e i sindaci del Corleonese per avviare il confronto sui problemi dell’Ospedale. Una prima volta lo scorso 12 aprile a Palermo, nella sede dell’assessorato in piazza Ottavio Ziino; mentre una seconda volta, lo scorso 31 maggio, è stato lo stesso assessore a venire a Corleone, nei locali dell’ospedale. E hanno dimenticato (Iannazzo e Lanza) che, grazie a questo confronto, il servizio di Psichiatria è stato ripristinato, passando da 8 a 15 posti-letto, anche se bisognerà vigilare affinché la tabella e i numeri siano calati nell’atto aziendale dell’Asp di Palermo. Hanno dimenticato che c’è l’impegno dell’assessore (assunto pubblicamente, anche in loro presenza) ad istituire l’U.O.S. di Ostetricia e Ginecologia, ad attivare il servizio di Pediatria, a dotare l’ospedale delle attrezzature sanitarie necessarie, a completare la nuova ala e a ristrutturare il vecchio ospedale (12 milioni di euro l’investimento previsto).
E adesso c’è un’ulteriore novità. Nell’incontro del 31 maggio, la Cgil aveva chiesto all’assessore di dimostrare concretamente che non era sua intenzione depotenziare l’ospedale. «Attivi nel nostro presidio un servizio di eccellenza, che faccia diventare Corleone punto di riferimento per un bacino d’utenza che vada oltre quello tradizionale dell’ospedale», era stata la richiesta di Leo Cuppuleri, responsabile Fp-Cgil. E Russo sembra che abbia deciso di stipulare una convenzione con la Fondazione Maugeri per istituire a Corleone un servizio di eccellenza di riabilitazione e lungodegenza. Già la settimana scorsa una delegazione composta dal direttore sanitario dell’ospedale, da un dirigente dell’Asp di Palermo e dal rappresentante della fondazione ha effettuato un primo sopralluogo nell’ospedale di Corleone, che ha avuto esito favorevole.
Allora, tutto risolto? Assolutamente no. Ma non siamo a quell’anno-zero, a cui ci avevano ridotto Iannazzo e Lanza da tre anni a questa parte e fino agli inizi di quest’anno, quando si facevano battere la mano sulla spalla da Iacolino e Lagalla, mentre con l’altra sopprimevano la direzione sanitaria di Corleone e accorpavano l’ospedale di Corleone all’ospedale di Partinico. Adesso il confronto è iniziato, le proposte concordate con gli operatori sono state avanzate, l’assessore le ha sostanzialmente accolte. Si tratta di vigilare affinché gli impegni presi siano rispettati. Questo non è il tempo delle proteste guaiate e strumentali, ma del confronto serio e rigoroso. Questo non è il tempo delle improvvide fughe solitarie, come quella che Lanza e Iannazzo hanno fatto dal presidente dell’Ars Francesco Cascio (per il solo gusto di fare un comunicato-stampa, dal momento in cui tutti sanno che chiedere a Cascio di parlare con Russo per difendere l’ospedale di Corleone, sarebbe come affidare un bambino ad un pedofilo). Queste “fughe” solitarie rischiano solo di rompere l’unità faticosamente costruita tra le forze politiche, sindacali e sociali del nostro territorio. È tempo, invece, di ritrovare l’unità d’intenti, avendo a cuore gli interessi delle nostre popolazioni.
P.S. Ho detto queste cose nel mio intervento di ieri sera in consiglio comunale, scatenando le “ire” del duo Lanza-Iannazzo, ormai abituati ad essere circondati solo da “yes-man”. Ma dovrebbero saperlo – per dirla col Guccini di Cyrano - che “spiacere e il mio piacere…”
NELLA FOTO. L'intervento di Mario Lanza, presidente del consiglio comunale di Corleone.
domenica 20 giugno 2010
Corleone. Tanti cittadini hanno firmato per il refendum all'assemblea sull'acqua pubblica
Sono stati un bel pomeriggio ed una bella serata quelli di ieri a Corleone. Il Comitato per l’acqua pubblica, composto dalla Cgil, dalla Cisl, da Corleone-Dialogos, dal Germoglio e da alcuni singoli cittadini, è tornato in piazza Falcone e Borsellino per continuare la raccolta delle firme per il referendum nazionale per la ripubblicizzazione dell’acqua. Ed ancora una volta ha fatto il…pieno di firme di cittadini. Circa 200 firme raccolte, che, insieme alle 300 di due domeniche fa, diventano 500. E ancora non è finita. Stavolta, però, in piazza è stato anche organizzato un dibattito (molto partecipato), nel quale sono intervenuti Giuseppe Crapisi, presidente di Corleone-Dialogos, Dino Paternostro, segretario della Camera del lavoro, Angelo Campagna, del movimento “Liberacqua”, Nino Garofalo, sindaco di Prizzi, Filippo Contorno, sindaco Bisacquino, l’on. Davide Faraone e il sen. Giuseppe Lumia, del Pd. Gli intervenuti hanno spiegato il valore dell’acqua pubblica (Garofalo e Contorno hanno spiegato perché i loro comuni - a differenza del comune di Corleone – ndr - non hanno voluto cedere le reti idriche ad Acque Potabili Siciliane Spa), invitando i cittadini a firmare per il referendum. «Abbiamo invitato pure il sindaco Iannazzo, ma non crediamo che verrà» ha ironizzato Giuseppe Crapisi. In effetti del sindaco, accusato da Dino Paternostro di avere “svenduto” Corleone per un “piatto di lenticchie”, nemmeno l’ombra. Domenico Giannopolo, ex sindaco di Caltavuturo, animatore della battaglia di alcuni enti locali contro la privatizzazione dell’acqua, ha suggerito di proporre al consiglio comunale di Corleone la modifica dello statuto, per sancire che l’acqua non dev’essere un bene economico. L’on. Faraone ha sottolineato l’importanza della norma sulla ripubblicazione dell’acqua approvata con la legge finanziaria, che inverte una tendenza, apre una strada e sostiene la battaglia i sindaci del “no” alla privatizzazione. Il sen. Lumia, da parte sua, ha sottolineato il valore dell’acqua pubblica ed ha espresso sostegno alla raccolta di firme per il referendum. «La strada è quella dell’iniziativa e della lotta per conquistare diritti», ha sottolineato l’esponente del Pd. Infine, Lumia ha informato i cittadini che, grazie all’iniziativa della Cgil e del Pd (e al suo impegno di autorevole dirigente del Pd – ndr), l’assessore regionale alla sanità Massimo Russo (il 12 aprile aveva ricevuto una delegazione di Corleone a Palermo, il 31 maggio era venuto in visita a Corleone) ha ripristinato, raddoppiandoli, i posti-letto di Psichiatria presso l’ospedale di Corleone (ne aveva 8, che erano stati soppressi, adesso ne ha 15), si è impegnato a istituire l’Unità Operativa semplice di Ostetricia e Ginecologia, sta finanziando il completamento delle due ali dell’ospedale, sta disponendo l’acquisto di attrezzature all’avanguardia. E, ciliegina sulla torta, sta definendo una convenzione con un importate istituto di livello nazionale (è stato già effettuato positivamente un sopralluogo in ospedale) per attivare a Corleone un servizio altamente specializzato.
Sui problemi dell’ospedale, lunedì alle ore 19.00, in via don G. Colletto, proprio di fronte al Presidio, si terrà una seduta straordinaria del consiglio comunale, aperto ai consigli comunali della zona.
Sui problemi dell’ospedale, lunedì alle ore 19.00, in via don G. Colletto, proprio di fronte al Presidio, si terrà una seduta straordinaria del consiglio comunale, aperto ai consigli comunali della zona.
martedì 15 giugno 2010
Giuseppe Lumia (Pd): "Il feudo Verbuncaudio è stato sempre controllato dalla mafia. E' ora di dire basta!"
Palermo, 15 giugno 2010 – “Il feudo Verbumcaudo, confiscato ai Greco, è sempre stato controllato dalla mafia e continua ad esserlo anche oggi, grazie al condizionamento del territorio esercitato dal clan Madonia di Vallelunga (Caltanissetta) attraverso i boss della famiglia Privitera. Gli appetiti di Cosa nostra non si sono placati neanche dopo la confisca. La mafia, infatti, continua ad intimidire e a minacciare perché con l’escamotage dell’ipoteca pensa di poter rimettere le mani sul bene, ricomprandolo all’asta”. Lo dichiara il senatore del Pd Giuseppe Lumia, componente della commissione antimafia, che oggi ha partecipato a Polizzi Generosa (Pa) all’occupazione simbolica del feudo per chiedere che il bene resti in mano pubblica. “Per prima cosa – aggiunge Lumia – è indispensabile che le banche cancellino l’ipoteca sul bene, dimostrando così il loro impegno concreto contro la mafia e per la legalità. Allo stesso tempo bisogna correggere la legge per liberare i beni confiscati da questo meccanismo, che rischia di diventare il cavallo di Troia della mafia per rientrare in possesso dei patrimoni che gli erano stati sottratti”. “Inoltre – conclude l’esponente del Pd – il giudice civile di Termini Imerese deve rispettare le disposizioni del giudice penale, il quale ha assegnato il bene al Comune di Polizzi che, a sua volta, lo ha affidato alla Cooperativa Placido Rizzo di Libera".
lunedì 14 giugno 2010
Pomigliano, no della Fiom all'accordo "ricatto" della Fiat
La Fiom ribadisce il suo "no" ad uno stravolgimento delle leggi e del contratto nazionale, ma lancia una proposta alla Fiat per salvare lo stabilimento di Pomigliano e gli investimenti promossi dal Lingotto sul sito campano (Tutti i punti discussi dell'accordo). Con l'utilizzo dei 18 turni e delle flessibilità necessarie è possibile, rilancia il segretario generale dei metalmeccanici della Cgil, Maurizio Landini, «garantire una produzione annua superiore alle 280 mila Panda» indicate come obiettivo dall'azienda, con un 18mo turno strutturale, e senza lo straordinario. È questa la proposta che arriva dalla Fiom al termine del Comitato centrale, convocato dalle tute blu per dare una risposta alla Fiat in vista della nuova convocazione dei sindacati per domani. Un tavolo a cui la Fiom non è stata chiamata ma che vedrà comunque un suo osservatore al tavolo. «Se la Fiat sceglie di applicare in tal modo il Ccnl e le leggi, la Fiom ne prende atto senza alcuna opposizione, disponibili ovviamente a una applicazione anche delle parti più rigorose e severe» chiarisce il 'parlamentino’ della Fiom nel documento finale approvato all'unanimità. «Non accedere a questa soluzione renderebbe evidente che per la Fiat l'obiettivo non è nè quello della produzione nè quello della flessibilità o compatibilità produttiva, ma come evidenziato dalle dichiarazioni dei ministri Sacconi e Tremonti l'obiettivo diventerebbe quello di voler affermare il superamento del contratto e dello Statuto dei lavoratori». Una strada che per la Fiom resta impercorribile.
Per capirne meglio la sostanza, è necessario addentrarsi nei dettagli della proposta Fiat, tra le condizioni che il gruppo torinese ritiene irrinunciabili per produrre automobili sul suolo italiano e che il sindacato dei metalmeccanici Cgil giudica «inaccettabili». La più eclatante è quella che introduce provvedimenti disciplinari fino al licenziamento per il lavoratore che aderisce a uno sciopero che, in qualsiasi modo, metta in discussione l’accordo. Ad esempio perchè contesta i ritmi di lavoro o gli straordinari: «La valutazione è a totale discrezione dell’azienda, che in questo modo deroga all’articolo 40 della nostra Costituzione» spiega il responsabile auto della Fiom, Enzo Masini.
Una disposizione che va di pari passo con le sanzioni per i singoli sindacati e le singole Rsu che proclamino le suddette iniziative di lotta. Azzardo per il quale saranno puntite con il blocco dei versamenti dei contributi sindacali e la sospensione dei permessi sindacali previsti dalla legge 300 del 1970, anche detta Statuto dei lavoratori. Ed ancora: quando si verificheranno picchi di assenteismo anomalo, l’azienda non pagherà la quota di malattia che le impone il contratto nazionale, «come se già non avesse tutti gli strumenti per fare controlli e punire gli abusi». Né pagherà i tre giorni trascorsi al seggio elettorale dai rappresentanti di lista, come invece vorrebbe la legge elettorale. Infine, il testo Fiat deroga alla legge 66/03 che recepisce la direttiva Ue in materia di orari di lavoro, e richiede di lavorare anche otto ore consecutive senza la mezz’ora di pausa per la mensa, contata come straordinario. Ecco il nuovo corso sognato dalla Confindustria e dal governo. E di cui «Pomigliano sarà solo la prova generale».
14 giugno 2010
Per capirne meglio la sostanza, è necessario addentrarsi nei dettagli della proposta Fiat, tra le condizioni che il gruppo torinese ritiene irrinunciabili per produrre automobili sul suolo italiano e che il sindacato dei metalmeccanici Cgil giudica «inaccettabili». La più eclatante è quella che introduce provvedimenti disciplinari fino al licenziamento per il lavoratore che aderisce a uno sciopero che, in qualsiasi modo, metta in discussione l’accordo. Ad esempio perchè contesta i ritmi di lavoro o gli straordinari: «La valutazione è a totale discrezione dell’azienda, che in questo modo deroga all’articolo 40 della nostra Costituzione» spiega il responsabile auto della Fiom, Enzo Masini.
Una disposizione che va di pari passo con le sanzioni per i singoli sindacati e le singole Rsu che proclamino le suddette iniziative di lotta. Azzardo per il quale saranno puntite con il blocco dei versamenti dei contributi sindacali e la sospensione dei permessi sindacali previsti dalla legge 300 del 1970, anche detta Statuto dei lavoratori. Ed ancora: quando si verificheranno picchi di assenteismo anomalo, l’azienda non pagherà la quota di malattia che le impone il contratto nazionale, «come se già non avesse tutti gli strumenti per fare controlli e punire gli abusi». Né pagherà i tre giorni trascorsi al seggio elettorale dai rappresentanti di lista, come invece vorrebbe la legge elettorale. Infine, il testo Fiat deroga alla legge 66/03 che recepisce la direttiva Ue in materia di orari di lavoro, e richiede di lavorare anche otto ore consecutive senza la mezz’ora di pausa per la mensa, contata come straordinario. Ecco il nuovo corso sognato dalla Confindustria e dal governo. E di cui «Pomigliano sarà solo la prova generale».
14 giugno 2010
NELL'AVAMPOSTO DELL'INFORMAZIONE
di Matteo Cosenza
Il Quotidiano della Calabria
BASTEREBBERO l'incipit e il finale per capire il valore del libro di Roberta Mani e Roberto Rossi, due giornalisti accomunati da un impegno nel gruppo di lavoro“Ossigeno per l'informazione” della Fnsi, che sono venuti a raccontare quello che nel titolo chiamano “Avamposto” (editore Marsilio, da oggi in libreria). Sottotitolo: “Nella Calabria dei giornalisti infami”. E siamo all'incipit.
«Ciao papà, che significa 'mpamu?»
«E perché, chi te l'ha detto?»
«A scuola. Un mio compagno.»
«Ah. E che t'ha detto?»
«Statti muta tu, ca io non ci parlo con i figli i' mpamu!»
L'infame è un giornalista che sta dalla parte degli sbirri. E' peggio degli sbirri perché questi fanno il loro lavoro, il giornalista sceglie da che parte stare. Il dialogo effettivamente avvenuto a Cinquefrondi in una scuola elementare dice più di una biblioteca di studi sociologici. E’ evidente come si formi l'humus culturale, il brodo di cultura nel quale l'illegalità e la prepotenza prosperano. Il seme dell'illegalità si trasmette in famiglia - è il caso di dire - da padre in figlio, perché la bambina è convinta per davvero che il padre della sua compagna di banco sia un infame, un traditore della sua gente, uno che si è messo dalla parte dei nemici che per lei sono la legge e i suoi rappresentanti. E' evidente anche come sia difficile fare il giornalista in un contesto del genere. E naturalmente la cosa non riguarda solo i giornalisti ma quanti si ribellano alla logica dell'anti-stato semplicemente facendo il loro dovere.
Hanno fatto bene gli autori di questo viaggio che si legge come un romanzo, ma che è un'inchiesta ed anche un saggio e sicuramente costituisce un documento che fissa date, luoghi e persone, a partire da questo episodio raccontato da Michele Albanese, un giornalista del “Quotidiano”. E' lunga la serie di giornalisti intimiditi in Italia, ma – confessano Mani e Rossi - è in Calabria che si registra il primato negativo. Nel loro libro ripercorrono storie su storie di cui sono stati protagonisti e vittime giornalisti dei quotidiani calabresi (dal nostro alla “Gazzetta” a “Calabria ora”) o anche impavidi free lance, che non hanno piegato la schiena e hanno fatto con onore il loro mestiere. Le loro vicende si intrecciano con la storia della 'ndrangheta calabrese, con le gesta delle cosche più feroci, con le faide, gli omicidi, le sparizioni.
E' facile - racconta uno di loro - per l'inviato del quotidiano nazionale venire in Calabria, starci qualche giorno, farsi un'idea di un fatto o della situazione, tornarsene al suo giornale a Roma, Milano o Torino e scrivere. Altra cosa è stare qui, restare nel piccolo comune dal quale si fanno le corrispondenze e scrivere del boss che abita nel palazzo accanto, dei picciotti che ritrovi al bancone del bar, del padre o dello zio della bambina che va a scuola con tua figlia. E non è necessario neanche strafare per scrivere di più, basta che racconti solo quello che accade e puoi trovarti nei guai.
Succede anche che i giornalisti diventino i compagni di viaggio di quanti reclamano giustizia e verità. La mamma che cerca il figlio scomparso, Mario Congiusta che dedica la sua esistenza a onorare il nome del figlio Gianluca che si vuole uccidere due volte, Doris Lo Moro che a 29 anni, dopo l'omicidio del padre e del fratello, scopre che tutto è cambiato e cerca in quelli che saranno suoi colleghi una giustizia che non ci sarà, sono figure centrali del libro come lo sono gli uomini della “malapianta”, e per ognuno di loro c'è un testimone che racconta con il suo lavoro la disperazione e l'invocazione della giustizia delle vittime condannate alla solitudine quasi fossero carnefici.
Ci vuole coraggio ma a volte anche avendo paura - e chi non ne ha! - si può diventare eroi solo perché la propria dignità non consente altre scelte. Tra le storie ne ritagliamo una esemplare. Agostino D'Urso è il fotografo del “Quotidiano” a Crotone. Un giorno viene mandato a fotografare le scritte comparse nei pressi del cimitero inneggianti al boss Luca Megna di Papanice assassinato qualche giorno prima. Lo fa così come avrebbe fatto se avesse dovuto fotografare una conferenza stampa al Comune o una manifestazione in una scuola. Lo intercettano, vogliono che distrugga le foto, poi hanno qualche dubbio perché con queste macchine moderne non si sa mai cosa resta nella memoria. E allora lo costringono a salire sulla loro macchina, lo portano in giro fino a raggiungere lo studio di un fotografo per completare la distruzione. Poi lo rimettono in auto, gli fanno fare un giro lungo, per viottoli di campagna («Mi paralizzo dalla paura. Comincio a pensare. Dove mi portano questi?») fino a lasciarlo ad un certo punto da dove a piedi potrà raggiungere la sua auto. Il sequestro di persona è terminato. Ma che ti fa Agostino? Manco fosse a Stoccolma va in Questura e denuncia il sequestratore che riconosce tra le foto (è un boss), lo fa arrestare e condannare, con il consenso della moglie, anche se per notti e notti non hanno dormito angosciati dagli incubi. Un eroe? Voi che dite?
La chiusura del libro è affidata alle parole di un magistrato che doveva saltare con la dinamite, Pierpaolo Bruni, che non fiata sul contenuto delle sue inchieste né sulla sua vita blindata. Parla invece anche lui di compagni di viaggio scelti con certosina discrezione: «Le minacce ai giornalisti sono un fatto inquietante. In questi territori le principali libertà costituzionali sono condizionate: il voto, la libera impresa, il diritto di cronaca, la libertà di manifestazione del pensiero. La democrazia azzerata. Viviamo in un avamposto. Ai margini della vita civile. Poche torrette coi tricolori lisi, in difesa dei valori democratici. Accerchiati da un cultura ostile, dai soldati che hanno scelto di disertare, da cacciatori che puntano i fucili nella parte sbagliata, da lupi pronti al massacro».
Matteo Cosenza
direttore del "Quotidiano della Calabria"
Il Quotidiano della Calabria
BASTEREBBERO l'incipit e il finale per capire il valore del libro di Roberta Mani e Roberto Rossi, due giornalisti accomunati da un impegno nel gruppo di lavoro“Ossigeno per l'informazione” della Fnsi, che sono venuti a raccontare quello che nel titolo chiamano “Avamposto” (editore Marsilio, da oggi in libreria). Sottotitolo: “Nella Calabria dei giornalisti infami”. E siamo all'incipit.
«Ciao papà, che significa 'mpamu?»
«E perché, chi te l'ha detto?»
«A scuola. Un mio compagno.»
«Ah. E che t'ha detto?»
«Statti muta tu, ca io non ci parlo con i figli i' mpamu!»
L'infame è un giornalista che sta dalla parte degli sbirri. E' peggio degli sbirri perché questi fanno il loro lavoro, il giornalista sceglie da che parte stare. Il dialogo effettivamente avvenuto a Cinquefrondi in una scuola elementare dice più di una biblioteca di studi sociologici. E’ evidente come si formi l'humus culturale, il brodo di cultura nel quale l'illegalità e la prepotenza prosperano. Il seme dell'illegalità si trasmette in famiglia - è il caso di dire - da padre in figlio, perché la bambina è convinta per davvero che il padre della sua compagna di banco sia un infame, un traditore della sua gente, uno che si è messo dalla parte dei nemici che per lei sono la legge e i suoi rappresentanti. E' evidente anche come sia difficile fare il giornalista in un contesto del genere. E naturalmente la cosa non riguarda solo i giornalisti ma quanti si ribellano alla logica dell'anti-stato semplicemente facendo il loro dovere.
Hanno fatto bene gli autori di questo viaggio che si legge come un romanzo, ma che è un'inchiesta ed anche un saggio e sicuramente costituisce un documento che fissa date, luoghi e persone, a partire da questo episodio raccontato da Michele Albanese, un giornalista del “Quotidiano”. E' lunga la serie di giornalisti intimiditi in Italia, ma – confessano Mani e Rossi - è in Calabria che si registra il primato negativo. Nel loro libro ripercorrono storie su storie di cui sono stati protagonisti e vittime giornalisti dei quotidiani calabresi (dal nostro alla “Gazzetta” a “Calabria ora”) o anche impavidi free lance, che non hanno piegato la schiena e hanno fatto con onore il loro mestiere. Le loro vicende si intrecciano con la storia della 'ndrangheta calabrese, con le gesta delle cosche più feroci, con le faide, gli omicidi, le sparizioni.
E' facile - racconta uno di loro - per l'inviato del quotidiano nazionale venire in Calabria, starci qualche giorno, farsi un'idea di un fatto o della situazione, tornarsene al suo giornale a Roma, Milano o Torino e scrivere. Altra cosa è stare qui, restare nel piccolo comune dal quale si fanno le corrispondenze e scrivere del boss che abita nel palazzo accanto, dei picciotti che ritrovi al bancone del bar, del padre o dello zio della bambina che va a scuola con tua figlia. E non è necessario neanche strafare per scrivere di più, basta che racconti solo quello che accade e puoi trovarti nei guai.
Succede anche che i giornalisti diventino i compagni di viaggio di quanti reclamano giustizia e verità. La mamma che cerca il figlio scomparso, Mario Congiusta che dedica la sua esistenza a onorare il nome del figlio Gianluca che si vuole uccidere due volte, Doris Lo Moro che a 29 anni, dopo l'omicidio del padre e del fratello, scopre che tutto è cambiato e cerca in quelli che saranno suoi colleghi una giustizia che non ci sarà, sono figure centrali del libro come lo sono gli uomini della “malapianta”, e per ognuno di loro c'è un testimone che racconta con il suo lavoro la disperazione e l'invocazione della giustizia delle vittime condannate alla solitudine quasi fossero carnefici.
Ci vuole coraggio ma a volte anche avendo paura - e chi non ne ha! - si può diventare eroi solo perché la propria dignità non consente altre scelte. Tra le storie ne ritagliamo una esemplare. Agostino D'Urso è il fotografo del “Quotidiano” a Crotone. Un giorno viene mandato a fotografare le scritte comparse nei pressi del cimitero inneggianti al boss Luca Megna di Papanice assassinato qualche giorno prima. Lo fa così come avrebbe fatto se avesse dovuto fotografare una conferenza stampa al Comune o una manifestazione in una scuola. Lo intercettano, vogliono che distrugga le foto, poi hanno qualche dubbio perché con queste macchine moderne non si sa mai cosa resta nella memoria. E allora lo costringono a salire sulla loro macchina, lo portano in giro fino a raggiungere lo studio di un fotografo per completare la distruzione. Poi lo rimettono in auto, gli fanno fare un giro lungo, per viottoli di campagna («Mi paralizzo dalla paura. Comincio a pensare. Dove mi portano questi?») fino a lasciarlo ad un certo punto da dove a piedi potrà raggiungere la sua auto. Il sequestro di persona è terminato. Ma che ti fa Agostino? Manco fosse a Stoccolma va in Questura e denuncia il sequestratore che riconosce tra le foto (è un boss), lo fa arrestare e condannare, con il consenso della moglie, anche se per notti e notti non hanno dormito angosciati dagli incubi. Un eroe? Voi che dite?
La chiusura del libro è affidata alle parole di un magistrato che doveva saltare con la dinamite, Pierpaolo Bruni, che non fiata sul contenuto delle sue inchieste né sulla sua vita blindata. Parla invece anche lui di compagni di viaggio scelti con certosina discrezione: «Le minacce ai giornalisti sono un fatto inquietante. In questi territori le principali libertà costituzionali sono condizionate: il voto, la libera impresa, il diritto di cronaca, la libertà di manifestazione del pensiero. La democrazia azzerata. Viviamo in un avamposto. Ai margini della vita civile. Poche torrette coi tricolori lisi, in difesa dei valori democratici. Accerchiati da un cultura ostile, dai soldati che hanno scelto di disertare, da cacciatori che puntano i fucili nella parte sbagliata, da lupi pronti al massacro».
Matteo Cosenza
direttore del "Quotidiano della Calabria"
venerdì 11 giugno 2010
Disobbedienza civile
di Roberto Morrione
Ci siamo e ci saremo. Libera Informazione è in prima linea nella battaglia in corso per far ritirare il disegno di legge sulle intercettazioni. E’ chiaro fin d’ora che, se la norma verrà approvata al termine dei percorsi fra le due Camere, senza che ne sia annullato totalmente il contenuto anticostituzionale e liberticida, riterremo obbligata la scelta della disobbedienza civile. Con il nostro impegno quotidiano, con gli stessi valori che ci hanno fatto nascere, quelli di una “informazione che è libera o non è”, siamo infatti ogni giorno parte attiva dello schieramento che combatte l’illegalità e la disuguaglianza di fronte alla legge. Una battaglia che vede finalmente schierati, al fianco dell’opposizione in Parlamento e dei nuovi dissensi sollevati da Fini all’interno della maggioranza, i giornali di ogni tendenza, come dimostra l’assemblea unitaria dei direttori della stampa italiana, i magistrati, i sindacati, le rappresentanze delle forze di polizia, gli editori, gli scrittori e gli artisti già colpiti pesantemente dalla dissennata politica culturale del governo, le associazioni del volontariato, numerose amministrazioni pubbliche. Fino ad arrivare a quella ostilità espressa a livello europeo e clamorosamente dall’amministrazione degli Stati Uniti, memore degli insegnamenti di Giovanni Falcone e del peso che l’efficace uso giudiziario delle intercettazioni da parte dei magistrati italiani ha nella lotta internazionale al crimine organizzato e al terrorismo.
Una grande manifestazione nazionale che unisca in piazza tutte queste forze sociali, culturali e politiche, è a questo punto davvero urgente.
L’obiettivo di fondo resta quello di far comprendere a quella larga parte degli italiani che hanno nelle televisioni dominate dal premier l’unica fonte d’informazione, come insegnano i notiziari ammaestrati e subalterni al potere del TG 1 di Minzolini, che respingere il disegno governativo non è solo difendere il diritto-dovere dei giornalisti sancito dalla Costituzione, ma soprattutto tutelare il diritto dei cittadini a conoscere la realtà in cui vivono, le illegalità dei ceti dirigenti, la corruzione dilagante, l’estensione dei crimini organizzati e comuni che minano la sicurezza di tutti. Un silenzio tombale, al di là dei gravissimi danni giudiziari, minerebbe le fondamenta della democrazia, impedendo agli italiani di giudicare i propri rappresentanti sotto il profilo morale e civile ancor prima che direttamente politico. L’anticamera dunque di una dittatura, che peraltro proprio nella soppressione della libertà di stampa ha avuto la base essenziale nella tragica storia del fascismo, come l’ha ancora ad altre latitudini. Se questo vale a ogni livello, ancor più ne sentiamo il dovere morale e civile a partire dalla memoria di chi ha perso la vita per difendere lo Stato contro la violenza e la prevaricazione delle mafie e il sistema di corruzione e contiguità di cui si sono avvalse e si avvalgono.
Le centinaia di famiglie delle vittime che attendono ancora giustizia e verità per coloro, uomini e donne, caduti per mano mafiosa e interessi quasi sempre rimasti oscuri, come potrebbero avere ancora fiducia in uno Stato che, invece di onorare questo immenso debito morale, indebolisse per legge l’azione dei pubblici ministeri, le tante inchieste ancora aperte o possibili e insieme calasse per anni la scure del silenzio sulla stampa e i libri che attraverso le cronache e le analisi giudiziarie rappresentano l’unica possibilità di mantenere viva una memoria collettiva? Che speranze potrebbe avere per il futuro il padre dell’agente Agostino, massacrato con la moglie perché a Palermo dava la caccia ai latitanti di Cosa Nostra e, almeno secondo le recenti rivelazioni sul fallito attentato dell’Addaura, per avere salvato in quell’occasione la vita a Giovanni Falcone? Il padre attende da 21 anni la verità su chi gli uccise il figlio, a partire da quegli agenti segreti, traditori dello Stato, che ebbero un ruolo nella vicenda e la sua barba, che promise di non tagliare fino al raggiungimento della verità, è diventata lunga e bianca…Solo un esempio, ma che ci porta nel cuore del gravissimo intreccio di questa nuova legge con inchieste che cercano di fare luce, da Palermo a Caltanissetta, da Firenze a Milano, sulle stragi non solo mafiose, ma anche di “parti dello Stato” come è ormai certo, che insanguinarono la Sicilia e l’Italia fra il ’92 e il ’94, per poi cessare quando il panorama del Paese cambiò e un nuovo soggetto politico, Forza Italia (è ipocrita nascondersi dietro giri di parole) secondo le clamorose affermazioni di numerosi pentiti e testimoni di giustizia, trattò con la mafia per prendere il posto di antichi referenti. Uomini dei servizi, cioè dello Stato, avrebbero avuto ruoli centrali, anche se tuttora oscuri, in molti dei delitti “alti” compiuti da Cosa Nostra, passando per le stragi di Capaci e Via D’Amelio, proseguendo nelle trattative con i capi corleonesi, prima Riina, poi Provenzano, intersecando i sanguinosi attentati ai beni artistici a Firenze, Milano, Roma.
Le nuove testimonianze del pentito Spatuzza e di Massimo Ciancimino, ritenuti a diverso titolo attendibili dalle Procure coinvolte, vanno decisamente in questa direzione. Negli ultimi giorni si sono succedute allarmate dichiarazioni del procuratore nazionale antimafia Grasso, di Walter Veltroni, di Carlo Azeglio Ciampi, mentre il Copasir presieduto da Massimo D’Alema ha aperto indagini per individuare gli agenti segreti “felloni”, sentendo i vertici dei servizi e il procuratore di Caltanissetta Lari. Il PDL, ovviamente, ha parlato di dietrologia “ideologica” a scopo propagandistico e ci si è chiesto, anche in settori di sinistra molto aggressivi nei confronti di Berlusconi e della sua politica, come il quotidiano “Il Fatto”, che valore possano avere testimonianze dal significato incerto, dopo anni e anni di silenzio della politica e di mancata verifica di denunce di queste complicità inutilmente emerse da magistrati inquirenti e addirittura in sentenze, oltrechè da numerose testimonianze di pentiti. Una posizione che certo va rispettata, ma che non condividiamo, per i ruoli istituzionali e le personalità di coloro che si sono così esposti pubblicamente, perché queste dichiarazioni non indeboliscono, ma avallano sia pure a posteriori le inquietanti ipotesi di trame “di Stato” emerse appunto con una certa sistematicità in sede giudiziaria e anche in numerose ricostruzioni giornalistiche e di documentati libri d’inchiesta. Che Ciampi racconti dettagliatamente la sua paura di un tentativo di golpe nel ’92, quando in concomitanza con l’attentato al Velabro a Roma si interruppero senza spiegazioni di alcun tipo tutte le comunicazioni con Palazzo Chigi, è un fatto e non una illazione…”Senza verità non c’è democrazia”, ha concluso Ciampi chiedendo che il parlamento si faccia carico di questo compito. Operazione davvero difficile di questi tempi, con la durissima battaglia aperta sulla Giustizia e l’informazione, ma ci associamo con convinzione.
Ci siamo e ci saremo. Libera Informazione è in prima linea nella battaglia in corso per far ritirare il disegno di legge sulle intercettazioni. E’ chiaro fin d’ora che, se la norma verrà approvata al termine dei percorsi fra le due Camere, senza che ne sia annullato totalmente il contenuto anticostituzionale e liberticida, riterremo obbligata la scelta della disobbedienza civile. Con il nostro impegno quotidiano, con gli stessi valori che ci hanno fatto nascere, quelli di una “informazione che è libera o non è”, siamo infatti ogni giorno parte attiva dello schieramento che combatte l’illegalità e la disuguaglianza di fronte alla legge. Una battaglia che vede finalmente schierati, al fianco dell’opposizione in Parlamento e dei nuovi dissensi sollevati da Fini all’interno della maggioranza, i giornali di ogni tendenza, come dimostra l’assemblea unitaria dei direttori della stampa italiana, i magistrati, i sindacati, le rappresentanze delle forze di polizia, gli editori, gli scrittori e gli artisti già colpiti pesantemente dalla dissennata politica culturale del governo, le associazioni del volontariato, numerose amministrazioni pubbliche. Fino ad arrivare a quella ostilità espressa a livello europeo e clamorosamente dall’amministrazione degli Stati Uniti, memore degli insegnamenti di Giovanni Falcone e del peso che l’efficace uso giudiziario delle intercettazioni da parte dei magistrati italiani ha nella lotta internazionale al crimine organizzato e al terrorismo.
Una grande manifestazione nazionale che unisca in piazza tutte queste forze sociali, culturali e politiche, è a questo punto davvero urgente.
L’obiettivo di fondo resta quello di far comprendere a quella larga parte degli italiani che hanno nelle televisioni dominate dal premier l’unica fonte d’informazione, come insegnano i notiziari ammaestrati e subalterni al potere del TG 1 di Minzolini, che respingere il disegno governativo non è solo difendere il diritto-dovere dei giornalisti sancito dalla Costituzione, ma soprattutto tutelare il diritto dei cittadini a conoscere la realtà in cui vivono, le illegalità dei ceti dirigenti, la corruzione dilagante, l’estensione dei crimini organizzati e comuni che minano la sicurezza di tutti. Un silenzio tombale, al di là dei gravissimi danni giudiziari, minerebbe le fondamenta della democrazia, impedendo agli italiani di giudicare i propri rappresentanti sotto il profilo morale e civile ancor prima che direttamente politico. L’anticamera dunque di una dittatura, che peraltro proprio nella soppressione della libertà di stampa ha avuto la base essenziale nella tragica storia del fascismo, come l’ha ancora ad altre latitudini. Se questo vale a ogni livello, ancor più ne sentiamo il dovere morale e civile a partire dalla memoria di chi ha perso la vita per difendere lo Stato contro la violenza e la prevaricazione delle mafie e il sistema di corruzione e contiguità di cui si sono avvalse e si avvalgono.
Le centinaia di famiglie delle vittime che attendono ancora giustizia e verità per coloro, uomini e donne, caduti per mano mafiosa e interessi quasi sempre rimasti oscuri, come potrebbero avere ancora fiducia in uno Stato che, invece di onorare questo immenso debito morale, indebolisse per legge l’azione dei pubblici ministeri, le tante inchieste ancora aperte o possibili e insieme calasse per anni la scure del silenzio sulla stampa e i libri che attraverso le cronache e le analisi giudiziarie rappresentano l’unica possibilità di mantenere viva una memoria collettiva? Che speranze potrebbe avere per il futuro il padre dell’agente Agostino, massacrato con la moglie perché a Palermo dava la caccia ai latitanti di Cosa Nostra e, almeno secondo le recenti rivelazioni sul fallito attentato dell’Addaura, per avere salvato in quell’occasione la vita a Giovanni Falcone? Il padre attende da 21 anni la verità su chi gli uccise il figlio, a partire da quegli agenti segreti, traditori dello Stato, che ebbero un ruolo nella vicenda e la sua barba, che promise di non tagliare fino al raggiungimento della verità, è diventata lunga e bianca…Solo un esempio, ma che ci porta nel cuore del gravissimo intreccio di questa nuova legge con inchieste che cercano di fare luce, da Palermo a Caltanissetta, da Firenze a Milano, sulle stragi non solo mafiose, ma anche di “parti dello Stato” come è ormai certo, che insanguinarono la Sicilia e l’Italia fra il ’92 e il ’94, per poi cessare quando il panorama del Paese cambiò e un nuovo soggetto politico, Forza Italia (è ipocrita nascondersi dietro giri di parole) secondo le clamorose affermazioni di numerosi pentiti e testimoni di giustizia, trattò con la mafia per prendere il posto di antichi referenti. Uomini dei servizi, cioè dello Stato, avrebbero avuto ruoli centrali, anche se tuttora oscuri, in molti dei delitti “alti” compiuti da Cosa Nostra, passando per le stragi di Capaci e Via D’Amelio, proseguendo nelle trattative con i capi corleonesi, prima Riina, poi Provenzano, intersecando i sanguinosi attentati ai beni artistici a Firenze, Milano, Roma.
Le nuove testimonianze del pentito Spatuzza e di Massimo Ciancimino, ritenuti a diverso titolo attendibili dalle Procure coinvolte, vanno decisamente in questa direzione. Negli ultimi giorni si sono succedute allarmate dichiarazioni del procuratore nazionale antimafia Grasso, di Walter Veltroni, di Carlo Azeglio Ciampi, mentre il Copasir presieduto da Massimo D’Alema ha aperto indagini per individuare gli agenti segreti “felloni”, sentendo i vertici dei servizi e il procuratore di Caltanissetta Lari. Il PDL, ovviamente, ha parlato di dietrologia “ideologica” a scopo propagandistico e ci si è chiesto, anche in settori di sinistra molto aggressivi nei confronti di Berlusconi e della sua politica, come il quotidiano “Il Fatto”, che valore possano avere testimonianze dal significato incerto, dopo anni e anni di silenzio della politica e di mancata verifica di denunce di queste complicità inutilmente emerse da magistrati inquirenti e addirittura in sentenze, oltrechè da numerose testimonianze di pentiti. Una posizione che certo va rispettata, ma che non condividiamo, per i ruoli istituzionali e le personalità di coloro che si sono così esposti pubblicamente, perché queste dichiarazioni non indeboliscono, ma avallano sia pure a posteriori le inquietanti ipotesi di trame “di Stato” emerse appunto con una certa sistematicità in sede giudiziaria e anche in numerose ricostruzioni giornalistiche e di documentati libri d’inchiesta. Che Ciampi racconti dettagliatamente la sua paura di un tentativo di golpe nel ’92, quando in concomitanza con l’attentato al Velabro a Roma si interruppero senza spiegazioni di alcun tipo tutte le comunicazioni con Palazzo Chigi, è un fatto e non una illazione…”Senza verità non c’è democrazia”, ha concluso Ciampi chiedendo che il parlamento si faccia carico di questo compito. Operazione davvero difficile di questi tempi, con la durissima battaglia aperta sulla Giustizia e l’informazione, ma ci associamo con convinzione.
"E ADESSO ARRESTATECI TUTTI!"
di Stefano Corradino
"Giuro che se e quando la legge bavaglio sarà approvata mi impegnerò a fare prevalere sempre e comunque il dovere di informare e il diritto di essere informati". Alcune settimane fa davanti a Montecitorio abbiamo diffuso centinaia di volantini. Quello che per Ippocrate era il giuramento di un medico da prestare prima di iniziare la professione, per noi di Articolo21 era ed è un appello ai colleghi, e un impegno sottoscritto con i cittadini: nessuna legge, nessuna imposizione incostituzionale, nessuna sanzione potranno impedirci di pubblicare notizie di pubblico interesse e di rilevanza sociale. Non è solo la legge istitutiva dell'ordine dei giornalisti che ci obbliga a farlo. Sono i valori costituzionali, le sentenze europee, la Dichiarazione Universale dei diritti dell'uomo, il diritto dovere di chi fa informazione di dare le notizie rispettando quel codice etico secondo cui l'editore di un giornale, di una tv, di una radio di un blog è il lettore, il telespettatore prima ancora di un qualsiasi padrone.
Dopo una serie di ritocchi che non ne modificano la perversa filosofia il provvedimento è giunto a Palazzo Madama blindato. L'ennesimo ricorso al voto di fiducia che esautora il Parlamento dal diritto-dovere di controllare. Del resto, in più di un'occasione, il presidente del Consiglio lo ha giudicato troppo dispersivo, a volte troppo "affollato", a volte addirittura inutile o "pletorico".
Si giustifica la legge con due motivazioni inconstitenti: quel diritto alla privacy che il sottosegretario Santanchè vorrebbe estendere ai mafiosi (quelli con cui l'ex ministro Lunardi voleva convivere) e lo spropositato uso delle intercettazioni rispetto agli altri paesi europei. Ebbene la riservatezza dei cittadini può essere garantita con una semplice clausola che obbliga a stralciare tutto quello che, in una conversazione telefonica, non rientra nell'oggetto delle indagini. Quanto all'uso smodato delle intercettazioni a nessuno viene in mente che forse, il nostro Paese, detiene il triste primato di corrotti e corruttori? Quale altro Paese ha conosciuto stagioni di stragi (impunite) mafiose e terroristiche? In quale altro Parlamento siedono così tanti indagati? In quale altro Stato dell'Unione europea due giovani vengono malmenati fino alla morte perchè poi ci si affretti ad archiviare i tragici episodi?
Mercoledì 16 giugno dalle ore 18, al Circolo di Montecitorio Articolo21 ha deciso di indire un' assemblea straordinaria per discutere modi e tempi di una grande manifestazione nazionale contro i tagli e i bavagli. Contro una legge sulle intercettazioni che vorrebbe impedire ai cittadini di conoscere la verità sui fatti di cronaca che hanno lacerato e insanguinato la convivenza civile. Abbiamo deciso, in quell'occasione, di dare il nostro premio per la libertà di informazione a Ilaria Cucchi e Patrizia Aldrovandi per la loro battaglia alla ricerca della verità. Perchè, come entrambe hanno detto più volte, se questa legge fosse stata in vigore, del fratello Stefano e del figlio Federico non conoscerebbero le ragioni del decesso, le responsabilità di un omicidio.
Vi chiediamo di esserci mercoledì prossimo. Lo chiediamo a tutti coloro che credono nella libertà e nell'indipendenza dell'informazione. A tutti quelli che pensano che la giustizia debba essere eguale per tutti e non diseguale in ragione del potere o dei soldi. Chiediamo di esserci a quanti sono ogni giorno più indignati ma non accettano di rassegnarsi.
corradino@articolo21.info
"Giuro che se e quando la legge bavaglio sarà approvata mi impegnerò a fare prevalere sempre e comunque il dovere di informare e il diritto di essere informati". Alcune settimane fa davanti a Montecitorio abbiamo diffuso centinaia di volantini. Quello che per Ippocrate era il giuramento di un medico da prestare prima di iniziare la professione, per noi di Articolo21 era ed è un appello ai colleghi, e un impegno sottoscritto con i cittadini: nessuna legge, nessuna imposizione incostituzionale, nessuna sanzione potranno impedirci di pubblicare notizie di pubblico interesse e di rilevanza sociale. Non è solo la legge istitutiva dell'ordine dei giornalisti che ci obbliga a farlo. Sono i valori costituzionali, le sentenze europee, la Dichiarazione Universale dei diritti dell'uomo, il diritto dovere di chi fa informazione di dare le notizie rispettando quel codice etico secondo cui l'editore di un giornale, di una tv, di una radio di un blog è il lettore, il telespettatore prima ancora di un qualsiasi padrone.
Dopo una serie di ritocchi che non ne modificano la perversa filosofia il provvedimento è giunto a Palazzo Madama blindato. L'ennesimo ricorso al voto di fiducia che esautora il Parlamento dal diritto-dovere di controllare. Del resto, in più di un'occasione, il presidente del Consiglio lo ha giudicato troppo dispersivo, a volte troppo "affollato", a volte addirittura inutile o "pletorico".
Si giustifica la legge con due motivazioni inconstitenti: quel diritto alla privacy che il sottosegretario Santanchè vorrebbe estendere ai mafiosi (quelli con cui l'ex ministro Lunardi voleva convivere) e lo spropositato uso delle intercettazioni rispetto agli altri paesi europei. Ebbene la riservatezza dei cittadini può essere garantita con una semplice clausola che obbliga a stralciare tutto quello che, in una conversazione telefonica, non rientra nell'oggetto delle indagini. Quanto all'uso smodato delle intercettazioni a nessuno viene in mente che forse, il nostro Paese, detiene il triste primato di corrotti e corruttori? Quale altro Paese ha conosciuto stagioni di stragi (impunite) mafiose e terroristiche? In quale altro Parlamento siedono così tanti indagati? In quale altro Stato dell'Unione europea due giovani vengono malmenati fino alla morte perchè poi ci si affretti ad archiviare i tragici episodi?
Mercoledì 16 giugno dalle ore 18, al Circolo di Montecitorio Articolo21 ha deciso di indire un' assemblea straordinaria per discutere modi e tempi di una grande manifestazione nazionale contro i tagli e i bavagli. Contro una legge sulle intercettazioni che vorrebbe impedire ai cittadini di conoscere la verità sui fatti di cronaca che hanno lacerato e insanguinato la convivenza civile. Abbiamo deciso, in quell'occasione, di dare il nostro premio per la libertà di informazione a Ilaria Cucchi e Patrizia Aldrovandi per la loro battaglia alla ricerca della verità. Perchè, come entrambe hanno detto più volte, se questa legge fosse stata in vigore, del fratello Stefano e del figlio Federico non conoscerebbero le ragioni del decesso, le responsabilità di un omicidio.
Vi chiediamo di esserci mercoledì prossimo. Lo chiediamo a tutti coloro che credono nella libertà e nell'indipendenza dell'informazione. A tutti quelli che pensano che la giustizia debba essere eguale per tutti e non diseguale in ragione del potere o dei soldi. Chiediamo di esserci a quanti sono ogni giorno più indignati ma non accettano di rassegnarsi.
corradino@articolo21.info
giovedì 10 giugno 2010
L'intervento al Senato di Giuseppe Lumia (Pd) sulla legge-bavaglio delle intercettazioni
di GIUSEPPE LUMIA
Non ci siamo. Abbiamo fatto di tutto, nel Paese, in Commissione, in Aula, per impedire che con il provvedimento sulle intercettazioni ancora una volta si colpisse la nostra Costituzione e si minassero anche la forza e la qualità dell'Italia nel colpire direttamente i boss mafiosi e nel garantire la sicurezza nel nostro Paese. Certo, non ci sfugge che quello alla privacy è un diritto di nuova generazione, moderno, avanzato, che sempre più orienterà la legislazione di tutte le democrazie avanzate. Con questo provvedimento non tutelate la privacy; con questo provvedimento la riservatezza non viene assolutamente sottoposta a protezione democratica; con questo provvedimento fate altro: tutelate gli interessi delle classi dirigenti, di pochi oligarchi e di una parte ristretta del sistema politico italiano.
Negli ultimi anni, abbiamo lungamente discusso su un altro diritto di nuova generazione, anch'esso rilevante, forte, dirompente, che è entrato nel vivo della nostra democrazia, ha orientato il cammino nelle campagne elettorali e ha determinato un forte consenso, di cui avete beneficiato in modo abbastanza rilevante: mi riferisco al diritto alla sicurezza. Anche questo diritto viene colpito, e al riguardo vi assumete una responsabilità ancora più grave, perché il Paese oggi è cresciuto. Oggi tutta la politica riconosce che con la sicurezza bisogna fare i conti e che questo diritto di nuova generazione deve trovare spazio nella nostra legislazione. Così, invece, date un colpo mortale alla sicurezza. Gli operatori, le forze di polizia e l'intera magistratura vi indicano che con la sicurezza avremo le armi spu ntate: i reati gravi non avranno assolutamente la possibilità di essere conosciuti, di far avviare veri processi e di colpire i veri responsabili.
Lo stesso discorso vale per l'informazione. L'informazione: un diritto antico, ma sempre moderno e avanzato; anzi, anche questo, al pari dei diritti alla privacy e alla sicurezza, acquista sempre più rilevanza. Si tratta di un diritto che diventa una risorsa per le democrazie, non un problema, un limite o una pietra d'inciampo; ripeto che esso rappresenta una grande risorsa affinché la nostra democrazia acquisti trasparenza, vi sia più controllo di legalità e si avvii anche un'azione diretta sulle classi dirigenti per evitare che queste si chiudano, diventino autoreferenziali e scadano in atteggiamenti di impunità.
Per tale motivo, abbiamo chiesto che sia tutelato anche il diritto all'informazione e denunciamo come il vostro provvedimento sulle intercettazioni sia un altro vulnus alla nostra Carta costituzionale, alla nostra democrazia, ai diritti che si sviluppano, che acquistano maturità e che diventano un grande punto di riferimento per la vita sociale, economica e democratica del nostro Paese.
Così emerge la verità, è di fronte a noi: niente privacy, niente sicurezza, niente tutela del diritto all'informazione, ma invece un altro meccanismo, che spiego in un atteggiamento molto semplice: voi siete attenti a tutelare una parte delle classi dirigenti che nel potere individuano lo strumento per avere più impunità e nello stesso tempo più privilegi. Impunità, sì, percorsi preferenziali, protezione per impedire che il controllo di legalità possa intervenire anche su chi è titolare democraticamente dell'esercizio del potere. Più privilegi: una sorta di area di libero scambio dove tutto è possibile, dove tutto si può mercificare: dal diritto alla casa alla possibilità di depredare le risorse pubbliche. Tutto si può fare, tutto si può corrompere, tutto si può scambiare, tutto si può mercificare e tutto diventa intermediazione burocratica e clientelare e spesso affaristico-mafiosa.
Le grandi democrazie, le democrazie avanzate, quelle mature, quelle forti e qualificate agiscono su altri percorsi. Le grandi democrazie, in sostanza, stabiliscono un altro bilanciamento. Più potere? Certo, nelle grandi democrazie abbiamo avuto degli spostamenti verso gli Esecutivi, che si sono rafforzati per rispondere in modo più veloce al cambiamento sociale, per non farsi fagocitare dagli altri poteri presenti nella società; ma in quel caso tutte le volte che si dà un grammo in più di potere si danno molti grammi nel campo della responsabilità: più potere, più responsabilità.
Così il bilanciamento della democrazia produce percorsi virtuosi, rafforza la politica e fa delle istituzioni democratiche un punto di riferimento anche quando bisogna affrontare periodi terribili, periodi di crisi, come in questo momento, periodi che attraversano tutte le società avanzate. Sappiamo che più la democrazia è matura, più è avanzata e più nei momenti maggiormente difficili e di crisi emergono le nuove classi dirigenti, hanno spazio nuove opzioni. Le classi dirigenti si concentrano su queste priorità e non ricercano un maggiore potere per avere più privilegi e più impunità.
Potere e responsabilità: lì dobbiamo trovare le soluzioni, anche alla privacy; lì dobbiamo trovare una soluzione per far accrescere nel nostro Paese la dimensione della sicurezza; lì dobbiamo agire sull'informazione.
E non usate l'argomento che la lotta alle mafie è stata messa al riparo: non è così, vi sbagliate di grosso. Abbiamo naturalmente fatto in modo che, grazie alla reazione che c'è stata, siano state apportate delle correzioni, ma i problemi rimangono, anche nella lotta alle mafie. Non le avete assolutamente sottoposte a un rigoroso e sistemico meccanismo di doppio binario. Le mafie, per essere colpite, non possono assolutamente essere affrontate con quello che prevedete sempre per i reati di confine. Quando si colpiscono reati come racket, usura e riciclaggio, che all'inizio non sono inquadrabili nei reati di mafia attraverso anche l'articolo 7 della legge n. 203 del 1991, che riguarda il favoreggiamento all'organizzazione mafiosa, bisogna sapere che non basta una proroga, dopo settantacinque giorni, ogni 72 ore: un mecca nismo macchinoso che ostacola le indagini e favorisce i boss.
Così anche per ciò che attiene alle intercettazioni ambientali, rispetto alle quali avete stabilito, secondo le logiche mediocri dell'Italietta, che si possono fare «purché il luogo non sia privato». Una soluzione ridicola, che non ci aiuta, che ci espone. Come è accaduto, ad esempio, in Germania in occasione della vicenda di Duisburg, quando nell'agosto del 2007, in un locale, ci fu una riunione di 'ndrangheta e non furono disposte le intercettazioni ambientali perché non si era in condizioni di avere un indizio certo che lì si potesse consumare un reato. Alla fine, quel Paese è stato esposto ad una strage di mafia senza precedenti, che ha umiliato anche il nostro Paese, visto che ha riguardato la 'ndrangheta, una delle più potenti organizzazioni, presente non solo in Calabria ma in tutto il resto del Paese e così in Europa e in altri contesti internazionali. La vostra soluzione prevede che le intercettazioni ambientali possono essere disposte «purché il luogo non sia privato»: e quando i boss mafiosi sono in auto? Quando utilizzano le loro case? Come agiamo in queste occasioni? Come possiamo conquistare spazio e dare ancor più rilevanza all'azione delle forze dell'ordine e della magistratura?
In Commissione parlamentare antimafia, così come in Commissione giustizia, tutti i migliori operatori dell'antimafia, tutte le cariche più importanti dell'antimafia hanno espresso giudizi estremamente negativi. Vi hanno detto: attenzione, anche la procedura che prevedete, la collegialità che prevedete, mette in serio pericolo la possibilità di utilizzare le intercettazioni in modo veloce, in modo tale da poter seguire l'andamento dell'organizzazione mafiosa e colpirla per tempo, anzi in modo che attraverso le indagini si possa arrivare un attimo prima che arrivino loro per spostare, insomma, la capacità di indagine, di repressione dello Stato democratico verso l'antimafia del giorno prima abbandonando l'antimafia del giorno dopo.
Per anni avete detto che bisognava ritornare alle indagini autonome, che bisognava valorizzare la professionalità delle forze dell'ordine, che bisognava responsabilizzare la magistratura a seguire, a fare in modo che ci fosse una capacità forte e qualificata nell'individuare reati e colpire le organizzazioni mafiose e avete criticato l'utilizzo dei collaboratori di giustizia perché ritenevate che bisognava spostarsi su più moderni e avanzati sistemi di indagine e si indicava, tutti in coro, le intercettazioni per fare questo salto di qualità. Ebbene, adesso sono smascherate le vere intenzioni: prima si riduce il corretto utilizzo del ruolo dei collaboratori per penetrare la segretezza, l'impunità e l'omertà che costituiscono i fondamenti dell'organizzazione mafiosa; dopo, quando ci si sposta sul sis tema delle intercettazioni per individuare, per fare in modo che lo Stato democratico acquisisca una capacità autonoma anche al di là del corretto utilizzo dei collaboratori, quando si è ormai raggiunta una soglia tanto qualificata, ecco che intervenite e spuntate anche questo sistema.
Adesso la verità viene fuori, adesso siamo tutti di fronte a gravi responsabilità. Noi denunciamo, noi abbiamo indicato altre proposte, noi chiediamo che il nostro Paese sappia mettere in relazione il diritto alla riservatezza con quello alla sicurezza e con quello all'informazione. Vi sfideremo nei prossimi giorni, qui in Senato, sul tema della lotta alle mafie ed ancora una volta vi dimostreremo che proposte moderne, avanzate, condivise non rientrano in questo provvedimento. Noi faremo di tutto perché nel Paese, nelle istituzioni questa vostra proposta non ci indebolisca e non ci esponga.
Non ci siamo. Abbiamo fatto di tutto, nel Paese, in Commissione, in Aula, per impedire che con il provvedimento sulle intercettazioni ancora una volta si colpisse la nostra Costituzione e si minassero anche la forza e la qualità dell'Italia nel colpire direttamente i boss mafiosi e nel garantire la sicurezza nel nostro Paese. Certo, non ci sfugge che quello alla privacy è un diritto di nuova generazione, moderno, avanzato, che sempre più orienterà la legislazione di tutte le democrazie avanzate. Con questo provvedimento non tutelate la privacy; con questo provvedimento la riservatezza non viene assolutamente sottoposta a protezione democratica; con questo provvedimento fate altro: tutelate gli interessi delle classi dirigenti, di pochi oligarchi e di una parte ristretta del sistema politico italiano.
Negli ultimi anni, abbiamo lungamente discusso su un altro diritto di nuova generazione, anch'esso rilevante, forte, dirompente, che è entrato nel vivo della nostra democrazia, ha orientato il cammino nelle campagne elettorali e ha determinato un forte consenso, di cui avete beneficiato in modo abbastanza rilevante: mi riferisco al diritto alla sicurezza. Anche questo diritto viene colpito, e al riguardo vi assumete una responsabilità ancora più grave, perché il Paese oggi è cresciuto. Oggi tutta la politica riconosce che con la sicurezza bisogna fare i conti e che questo diritto di nuova generazione deve trovare spazio nella nostra legislazione. Così, invece, date un colpo mortale alla sicurezza. Gli operatori, le forze di polizia e l'intera magistratura vi indicano che con la sicurezza avremo le armi spu ntate: i reati gravi non avranno assolutamente la possibilità di essere conosciuti, di far avviare veri processi e di colpire i veri responsabili.
Lo stesso discorso vale per l'informazione. L'informazione: un diritto antico, ma sempre moderno e avanzato; anzi, anche questo, al pari dei diritti alla privacy e alla sicurezza, acquista sempre più rilevanza. Si tratta di un diritto che diventa una risorsa per le democrazie, non un problema, un limite o una pietra d'inciampo; ripeto che esso rappresenta una grande risorsa affinché la nostra democrazia acquisti trasparenza, vi sia più controllo di legalità e si avvii anche un'azione diretta sulle classi dirigenti per evitare che queste si chiudano, diventino autoreferenziali e scadano in atteggiamenti di impunità.
Per tale motivo, abbiamo chiesto che sia tutelato anche il diritto all'informazione e denunciamo come il vostro provvedimento sulle intercettazioni sia un altro vulnus alla nostra Carta costituzionale, alla nostra democrazia, ai diritti che si sviluppano, che acquistano maturità e che diventano un grande punto di riferimento per la vita sociale, economica e democratica del nostro Paese.
Così emerge la verità, è di fronte a noi: niente privacy, niente sicurezza, niente tutela del diritto all'informazione, ma invece un altro meccanismo, che spiego in un atteggiamento molto semplice: voi siete attenti a tutelare una parte delle classi dirigenti che nel potere individuano lo strumento per avere più impunità e nello stesso tempo più privilegi. Impunità, sì, percorsi preferenziali, protezione per impedire che il controllo di legalità possa intervenire anche su chi è titolare democraticamente dell'esercizio del potere. Più privilegi: una sorta di area di libero scambio dove tutto è possibile, dove tutto si può mercificare: dal diritto alla casa alla possibilità di depredare le risorse pubbliche. Tutto si può fare, tutto si può corrompere, tutto si può scambiare, tutto si può mercificare e tutto diventa intermediazione burocratica e clientelare e spesso affaristico-mafiosa.
Le grandi democrazie, le democrazie avanzate, quelle mature, quelle forti e qualificate agiscono su altri percorsi. Le grandi democrazie, in sostanza, stabiliscono un altro bilanciamento. Più potere? Certo, nelle grandi democrazie abbiamo avuto degli spostamenti verso gli Esecutivi, che si sono rafforzati per rispondere in modo più veloce al cambiamento sociale, per non farsi fagocitare dagli altri poteri presenti nella società; ma in quel caso tutte le volte che si dà un grammo in più di potere si danno molti grammi nel campo della responsabilità: più potere, più responsabilità.
Così il bilanciamento della democrazia produce percorsi virtuosi, rafforza la politica e fa delle istituzioni democratiche un punto di riferimento anche quando bisogna affrontare periodi terribili, periodi di crisi, come in questo momento, periodi che attraversano tutte le società avanzate. Sappiamo che più la democrazia è matura, più è avanzata e più nei momenti maggiormente difficili e di crisi emergono le nuove classi dirigenti, hanno spazio nuove opzioni. Le classi dirigenti si concentrano su queste priorità e non ricercano un maggiore potere per avere più privilegi e più impunità.
Potere e responsabilità: lì dobbiamo trovare le soluzioni, anche alla privacy; lì dobbiamo trovare una soluzione per far accrescere nel nostro Paese la dimensione della sicurezza; lì dobbiamo agire sull'informazione.
E non usate l'argomento che la lotta alle mafie è stata messa al riparo: non è così, vi sbagliate di grosso. Abbiamo naturalmente fatto in modo che, grazie alla reazione che c'è stata, siano state apportate delle correzioni, ma i problemi rimangono, anche nella lotta alle mafie. Non le avete assolutamente sottoposte a un rigoroso e sistemico meccanismo di doppio binario. Le mafie, per essere colpite, non possono assolutamente essere affrontate con quello che prevedete sempre per i reati di confine. Quando si colpiscono reati come racket, usura e riciclaggio, che all'inizio non sono inquadrabili nei reati di mafia attraverso anche l'articolo 7 della legge n. 203 del 1991, che riguarda il favoreggiamento all'organizzazione mafiosa, bisogna sapere che non basta una proroga, dopo settantacinque giorni, ogni 72 ore: un mecca nismo macchinoso che ostacola le indagini e favorisce i boss.
Così anche per ciò che attiene alle intercettazioni ambientali, rispetto alle quali avete stabilito, secondo le logiche mediocri dell'Italietta, che si possono fare «purché il luogo non sia privato». Una soluzione ridicola, che non ci aiuta, che ci espone. Come è accaduto, ad esempio, in Germania in occasione della vicenda di Duisburg, quando nell'agosto del 2007, in un locale, ci fu una riunione di 'ndrangheta e non furono disposte le intercettazioni ambientali perché non si era in condizioni di avere un indizio certo che lì si potesse consumare un reato. Alla fine, quel Paese è stato esposto ad una strage di mafia senza precedenti, che ha umiliato anche il nostro Paese, visto che ha riguardato la 'ndrangheta, una delle più potenti organizzazioni, presente non solo in Calabria ma in tutto il resto del Paese e così in Europa e in altri contesti internazionali. La vostra soluzione prevede che le intercettazioni ambientali possono essere disposte «purché il luogo non sia privato»: e quando i boss mafiosi sono in auto? Quando utilizzano le loro case? Come agiamo in queste occasioni? Come possiamo conquistare spazio e dare ancor più rilevanza all'azione delle forze dell'ordine e della magistratura?
In Commissione parlamentare antimafia, così come in Commissione giustizia, tutti i migliori operatori dell'antimafia, tutte le cariche più importanti dell'antimafia hanno espresso giudizi estremamente negativi. Vi hanno detto: attenzione, anche la procedura che prevedete, la collegialità che prevedete, mette in serio pericolo la possibilità di utilizzare le intercettazioni in modo veloce, in modo tale da poter seguire l'andamento dell'organizzazione mafiosa e colpirla per tempo, anzi in modo che attraverso le indagini si possa arrivare un attimo prima che arrivino loro per spostare, insomma, la capacità di indagine, di repressione dello Stato democratico verso l'antimafia del giorno prima abbandonando l'antimafia del giorno dopo.
Per anni avete detto che bisognava ritornare alle indagini autonome, che bisognava valorizzare la professionalità delle forze dell'ordine, che bisognava responsabilizzare la magistratura a seguire, a fare in modo che ci fosse una capacità forte e qualificata nell'individuare reati e colpire le organizzazioni mafiose e avete criticato l'utilizzo dei collaboratori di giustizia perché ritenevate che bisognava spostarsi su più moderni e avanzati sistemi di indagine e si indicava, tutti in coro, le intercettazioni per fare questo salto di qualità. Ebbene, adesso sono smascherate le vere intenzioni: prima si riduce il corretto utilizzo del ruolo dei collaboratori per penetrare la segretezza, l'impunità e l'omertà che costituiscono i fondamenti dell'organizzazione mafiosa; dopo, quando ci si sposta sul sis tema delle intercettazioni per individuare, per fare in modo che lo Stato democratico acquisisca una capacità autonoma anche al di là del corretto utilizzo dei collaboratori, quando si è ormai raggiunta una soglia tanto qualificata, ecco che intervenite e spuntate anche questo sistema.
Adesso la verità viene fuori, adesso siamo tutti di fronte a gravi responsabilità. Noi denunciamo, noi abbiamo indicato altre proposte, noi chiediamo che il nostro Paese sappia mettere in relazione il diritto alla riservatezza con quello alla sicurezza e con quello all'informazione. Vi sfideremo nei prossimi giorni, qui in Senato, sul tema della lotta alle mafie ed ancora una volta vi dimostreremo che proposte moderne, avanzate, condivise non rientrano in questo provvedimento. Noi faremo di tutto perché nel Paese, nelle istituzioni questa vostra proposta non ci indebolisca e non ci esponga.
mercoledì 2 giugno 2010
Le celebrazioni dell’Unità d’Italia a Prizzi. Alcune riflessioni critiche
di ROSA FARAGI
La manifestazione di sabato 5 giugno rievocativa del 150° anniversario dell’Unità d’Italia a Prizzi, intende porre l’attenzione, sia sugli aspetti più conosciuti del Risorgimento, sia su quelli meno noti o sottaciuti. L’obiettivo è quello di collocare i fatti nella giusta dimensione storica, ma anche e soprattutto, di ampliarne la conoscenza, ad un numero sempre maggiore di cittadini. Tale manifestazione inoltre, non vuole essere una semplice rievocazione, ma, un momento critico di riflessione. L’Unità d’Italia non è stata la fine di un processo storico, ma l’inizio di un percorso lungo e difficile, che ancora oggi, non è stato del tutto completato. Massimo D’ Azzeglio scriveva: “ Abbiamo fatto l’Italia, ora, dobbiamo fare gli italiani”. Sono passati 150 anni, e ancora, non abbiamo fatto gli italiani!
Troppi localismi ed interessi particolari rendono difficile questo processo di formazione di un popolo. Il mezzogiorno, non può pensare di vivere con sussidi e clientelismi, come le popolazioni del nord non possono arroccarsi sulla difesa del loro benessere e dei loro egoismi. Il clientelismo è stato un mezzo, di cui il potere centrale si è avvalso per tenere il mezzogiorno asservito al potere politico. La classe politica siciliana, troppo preoccupata al mantenimento del proprio potere e dei propri privilegi personali, ha utilizzato i poteri che l’autonomia speciale le conferiva, più per creare intorno a se una classe dirigente burocratica e parassitaria, che per sviluppare un’ economia sana che creasse lavoro produttivo e che rendesse la Sicilia realmente autonoma dal potere centrale. Gli Sciacalli e i Gattopardi che si sono succeduti, hanno fatto sì “che tutto cambiasse affinchè tutto restasse sempre uguale.” I sussidi, i falsi invalidi, le raccomandazioni e la corruzione mafiosa erano, e sono ancora oggi, il mezzo per relegare il Sud d’Italia ad una economia parassitaria e non di sviluppo. Tuttavia, anche le popolazioni del Nord, devono ricordare ,che dopo l’annessione del Regno delle due Sicilie, lo Stato piemontese, fece razzie al sud, trafugando persino pezzi di industrie e tutto l ’oro dalle casse del Regno borbonico per ripianare le loro esauste finanze ed avviare lassù il processo d’industrializzazione, già da noi avviato e subito dopo fatto morire, con l’avallo dei rappresentanti politici meridionali asserviti agli interessi del nord. Il Centocinquantenario del “Risorgimento” rappresenta , dunque, una grande occasione di dibattito critico, non sottovalutando quei fatti poco nobili che hanno oscurato il processo unitario. Non semplice retorica e ridondanza coreografica, ma momento di crescita umana e di necessaria coesione sociale, nel ricordo della difficile, drammatica ed affascinante costruzione della nostra Nazione. Il periodo storico, contraddittorio e controverso è senz’altro ricco di valori simbolici e merita in ogni caso rispetto, nel ricordo dei tanti uomini generosi che diedero la loro vita per un ideale. La stessa rivisitazione storica di Garibaldi tra “Eroe o Cialtrone” come qualcuno ha scritto, mi sembra eccessivamente ingrata, verso un uomo, che nel bene o nel male, al suo primo editto da Comandante in campo le Forze Nazionali in Sicilia, così dispose: “Considerando che un popolo libero deve distruggere qualunque usanza derivante dal passato servaggio decreta: art.1 –E’ abolito il titolo di eccellenza per chicchessia. Art.2 – Non si ammette il baciamano da uomo ad altro uomo. Palermo 13 Giugno 1860. G.Garibaldi”.
Francamente inserire Garibaldi tra coloro che hanno approfittato della grande passione, entusiasmo, idealità di tanti giovani ci sembra eccessivamente ingeneroso e antistorico. Vorremmo ricordare il fatto che Garibaldi dopo aver conquistato il Regno Delle Due Sicilie si ritirò in un ‘isola amena con il suo cavallo e due chili di fagioli. Chissà quanti politici e intellettuali che si innalzano a paladini degli interessi del popolo siciliano e che mettono in cattiva luce Garibaldi e gli eroi risorgimentali, farebbero lo stesso?
La manifestazione di sabato 5 giugno rievocativa del 150° anniversario dell’Unità d’Italia a Prizzi, intende porre l’attenzione, sia sugli aspetti più conosciuti del Risorgimento, sia su quelli meno noti o sottaciuti. L’obiettivo è quello di collocare i fatti nella giusta dimensione storica, ma anche e soprattutto, di ampliarne la conoscenza, ad un numero sempre maggiore di cittadini. Tale manifestazione inoltre, non vuole essere una semplice rievocazione, ma, un momento critico di riflessione. L’Unità d’Italia non è stata la fine di un processo storico, ma l’inizio di un percorso lungo e difficile, che ancora oggi, non è stato del tutto completato. Massimo D’ Azzeglio scriveva: “ Abbiamo fatto l’Italia, ora, dobbiamo fare gli italiani”. Sono passati 150 anni, e ancora, non abbiamo fatto gli italiani!
Troppi localismi ed interessi particolari rendono difficile questo processo di formazione di un popolo. Il mezzogiorno, non può pensare di vivere con sussidi e clientelismi, come le popolazioni del nord non possono arroccarsi sulla difesa del loro benessere e dei loro egoismi. Il clientelismo è stato un mezzo, di cui il potere centrale si è avvalso per tenere il mezzogiorno asservito al potere politico. La classe politica siciliana, troppo preoccupata al mantenimento del proprio potere e dei propri privilegi personali, ha utilizzato i poteri che l’autonomia speciale le conferiva, più per creare intorno a se una classe dirigente burocratica e parassitaria, che per sviluppare un’ economia sana che creasse lavoro produttivo e che rendesse la Sicilia realmente autonoma dal potere centrale. Gli Sciacalli e i Gattopardi che si sono succeduti, hanno fatto sì “che tutto cambiasse affinchè tutto restasse sempre uguale.” I sussidi, i falsi invalidi, le raccomandazioni e la corruzione mafiosa erano, e sono ancora oggi, il mezzo per relegare il Sud d’Italia ad una economia parassitaria e non di sviluppo. Tuttavia, anche le popolazioni del Nord, devono ricordare ,che dopo l’annessione del Regno delle due Sicilie, lo Stato piemontese, fece razzie al sud, trafugando persino pezzi di industrie e tutto l ’oro dalle casse del Regno borbonico per ripianare le loro esauste finanze ed avviare lassù il processo d’industrializzazione, già da noi avviato e subito dopo fatto morire, con l’avallo dei rappresentanti politici meridionali asserviti agli interessi del nord. Il Centocinquantenario del “Risorgimento” rappresenta , dunque, una grande occasione di dibattito critico, non sottovalutando quei fatti poco nobili che hanno oscurato il processo unitario. Non semplice retorica e ridondanza coreografica, ma momento di crescita umana e di necessaria coesione sociale, nel ricordo della difficile, drammatica ed affascinante costruzione della nostra Nazione. Il periodo storico, contraddittorio e controverso è senz’altro ricco di valori simbolici e merita in ogni caso rispetto, nel ricordo dei tanti uomini generosi che diedero la loro vita per un ideale. La stessa rivisitazione storica di Garibaldi tra “Eroe o Cialtrone” come qualcuno ha scritto, mi sembra eccessivamente ingrata, verso un uomo, che nel bene o nel male, al suo primo editto da Comandante in campo le Forze Nazionali in Sicilia, così dispose: “Considerando che un popolo libero deve distruggere qualunque usanza derivante dal passato servaggio decreta: art.1 –E’ abolito il titolo di eccellenza per chicchessia. Art.2 – Non si ammette il baciamano da uomo ad altro uomo. Palermo 13 Giugno 1860. G.Garibaldi”.
Francamente inserire Garibaldi tra coloro che hanno approfittato della grande passione, entusiasmo, idealità di tanti giovani ci sembra eccessivamente ingeneroso e antistorico. Vorremmo ricordare il fatto che Garibaldi dopo aver conquistato il Regno Delle Due Sicilie si ritirò in un ‘isola amena con il suo cavallo e due chili di fagioli. Chissà quanti politici e intellettuali che si innalzano a paladini degli interessi del popolo siciliano e che mettono in cattiva luce Garibaldi e gli eroi risorgimentali, farebbero lo stesso?
Un piccolo giallo nel Risorgimento a Prizzi
Prizzi entra nella storia del risorgimento per un piccolo giallo. Giuseppe Cesare Abba nel suo libro: “Da Quarto a Volturno” che è una specie di diario della spedizione dei mille racconta: “ Villafrati, 26 giugno 186O. Ho visto partire in gran fretta il battaglione Bassini. A Prizzi, che deve essere un villaggio poco lontano, vi è gente che si è messa a far sangue e roba, come se, non vi fosse nessuno a comandare. Se a Prizzi gli occorrerà di dover parlare di legge, ha nel battaglione i dottori a dozzine; se vorrà fare una arringa, i letterati gli stanno attorno; ma egli, breve e tagliente, parlerà con la spada. Chi laggiù ha le mani lorde badi ai fatti suoi.”
Chi era questo colonnello Bassini che doveva riportare l’ordine a Prizzi? Angelo Bassini era nato a Pavia il 29 Luglio 1815 e morì sempre a Pavia il 3 gennaio 1889. Dopo aver disertato dall’esercito austriaco, prese parte alla prima guerra di indipendenza nel 1848 e alla difesa di Roma l’anno successivo. Nel 1859 fu con Garibaldi nella seconda guerra di indipendenza. Nel 186O gli fu assegnata l’ottava compagnia; tale compagnia, aveva una caratteristica particolare: era formata quasi esclusivamente di bergamaschi, molti dei quali erano laureati in medicina e in legge.
Garibaldi stesso definì questa compagnia, la compagnia di ferro. Nella battaglia di Calatafimi, si comportò eroicamente subendo ben 7 morti e 21 feriti ( nel complesso in tale battaglia, i garibaldini ebbero 25 morti e 99 feriti gravi, 8 dei quali morirono in seguito). Cesare Abba descrive così il Bassini: “ questo brontolone, gaio, senza cingilli, di corteccia grossa, ha un cuore che parla dalla faccia burbera e bonaria…avrà forse un mezzo secolo ormai, eppure è più giovane di noi…i suoi ufficiali, tutti signori di lombardia , gli stanno sotto come un padre. In un altro libro “ La Storia dei Mille”, sempre Cesare Abba, parlando del Bassini, lo continua a descrivere come una persona che sapeva poco, discorreva poco, ostinato nell’idea che si piantava nel corpo. Era però coraggioso e generoso e i suoi uomini lo rispettavano. Sempre Cesare Abba, ritorna nel suo “Diario” a parlare di Prizzi, precisamente, a Roccapalumba nel 1860 in questo modo: “Bassini ci ha raggiunto, mortificato lui, gli ufficiali e i soldati. Furono accolti a Prizzi come principi: luminarie, cene, balli e belle donne che gridavano ancora da lungi: benedetti! beddi!
Perché si era sparsa la voce che a Prizzi stavano succedendo “cose di sangue e roba”? Probabilmente, i possidenti e i nobili locali, vedendo le autorità borboniche abbandonare il paese e, temendo per le loro vite e le loro proprietà, chiesero l’intervento dei garibaldini. Certamente, esagerarono non poco, nella speranza che la loro richiesta di aiuto fosse esaudita prontamente, e infatti, ottennero il risultato che volevano. I garibaldini del colonnello Bassini accorsero prontamente, ma, trovarono una situazione diversa da quella che si aspettavano, infatti, due giorni dopo, si unirono al grosso delle truppe a Roccapalumba mortificati. Che Bassini, non fosse un tenero, lo dimostra il fatto che qualche giorno dopo, precisamente il 3 luglio, il Bassini fu inviato a Resuttano, dove questa volta, non trovarono ad accoglierlo “cene, balli e belle donne”, ma, colpi di fucile e una folla inferocita, sobillata dai latifondisti e dai nostalgici borbonici. Questa volta la repressione fu dura, sembra infatti che vi furono 11 morti da parte dei manifestanti. Tornando a Prizzi, lo spirito del Risorgimento, fu accolto dai prizzesi con grande entusiasmo e con grande speranza, ma tali speranze, ben presto, si trasformarono in profonda delusione, infatti, il 17 settembre 1866, Prizzi si rivoltò contro i piemontesi, ma questa è un’altra storia, che rientra, nelle speranze tradite del Risorgimento, che è alla base della “questione meridionale”.
Chi era questo colonnello Bassini che doveva riportare l’ordine a Prizzi? Angelo Bassini era nato a Pavia il 29 Luglio 1815 e morì sempre a Pavia il 3 gennaio 1889. Dopo aver disertato dall’esercito austriaco, prese parte alla prima guerra di indipendenza nel 1848 e alla difesa di Roma l’anno successivo. Nel 1859 fu con Garibaldi nella seconda guerra di indipendenza. Nel 186O gli fu assegnata l’ottava compagnia; tale compagnia, aveva una caratteristica particolare: era formata quasi esclusivamente di bergamaschi, molti dei quali erano laureati in medicina e in legge.
Garibaldi stesso definì questa compagnia, la compagnia di ferro. Nella battaglia di Calatafimi, si comportò eroicamente subendo ben 7 morti e 21 feriti ( nel complesso in tale battaglia, i garibaldini ebbero 25 morti e 99 feriti gravi, 8 dei quali morirono in seguito). Cesare Abba descrive così il Bassini: “ questo brontolone, gaio, senza cingilli, di corteccia grossa, ha un cuore che parla dalla faccia burbera e bonaria…avrà forse un mezzo secolo ormai, eppure è più giovane di noi…i suoi ufficiali, tutti signori di lombardia , gli stanno sotto come un padre. In un altro libro “ La Storia dei Mille”, sempre Cesare Abba, parlando del Bassini, lo continua a descrivere come una persona che sapeva poco, discorreva poco, ostinato nell’idea che si piantava nel corpo. Era però coraggioso e generoso e i suoi uomini lo rispettavano. Sempre Cesare Abba, ritorna nel suo “Diario” a parlare di Prizzi, precisamente, a Roccapalumba nel 1860 in questo modo: “Bassini ci ha raggiunto, mortificato lui, gli ufficiali e i soldati. Furono accolti a Prizzi come principi: luminarie, cene, balli e belle donne che gridavano ancora da lungi: benedetti! beddi!
Perché si era sparsa la voce che a Prizzi stavano succedendo “cose di sangue e roba”? Probabilmente, i possidenti e i nobili locali, vedendo le autorità borboniche abbandonare il paese e, temendo per le loro vite e le loro proprietà, chiesero l’intervento dei garibaldini. Certamente, esagerarono non poco, nella speranza che la loro richiesta di aiuto fosse esaudita prontamente, e infatti, ottennero il risultato che volevano. I garibaldini del colonnello Bassini accorsero prontamente, ma, trovarono una situazione diversa da quella che si aspettavano, infatti, due giorni dopo, si unirono al grosso delle truppe a Roccapalumba mortificati. Che Bassini, non fosse un tenero, lo dimostra il fatto che qualche giorno dopo, precisamente il 3 luglio, il Bassini fu inviato a Resuttano, dove questa volta, non trovarono ad accoglierlo “cene, balli e belle donne”, ma, colpi di fucile e una folla inferocita, sobillata dai latifondisti e dai nostalgici borbonici. Questa volta la repressione fu dura, sembra infatti che vi furono 11 morti da parte dei manifestanti. Tornando a Prizzi, lo spirito del Risorgimento, fu accolto dai prizzesi con grande entusiasmo e con grande speranza, ma tali speranze, ben presto, si trasformarono in profonda delusione, infatti, il 17 settembre 1866, Prizzi si rivoltò contro i piemontesi, ma questa è un’altra storia, che rientra, nelle speranze tradite del Risorgimento, che è alla base della “questione meridionale”.
Prof.ssa Rosa Faragi
NELLA FOTO: il colonnello Angelo Bassini
NELLA FOTO: il colonnello Angelo Bassini
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