CORLEONE – L’Assessore regionale alla salute, Massimo Russo, ha accolto l’invito che la Cgil di Corleone, insieme ai rappresentanti dei comuni del Corleonese, gli aveva rivolto lo scorso 12 aprile di visitare Corleone e il suo ospedale. Ed ha accolto pure la proposta di visitare una “eccellenza” di Corleone: la cooperativa sociale “Lavoro e non Solo”, che opera sui terreni confiscati alla mafia. Stamattina, l’assessore, insieme al sen. Giuseppe Lumia (Pd), ha varcato la soglia di Casa “Caponnetto” intorno alle 11.00, accolto dal presidente Calogero Parisi, dal segretario della Camera del lavoro di Corleone Dino Paternostro, da operatori dell’ospedale, e da una delegazione di amministratori comunali. Ne è seguito un incontro interessante, nel corso del quale Russo ha conosciuto – tra l’altro – l’ottimo lavoro per il recupero di cittadini con disagi psichici fatto dalla cooperativa. Interessante la proposta suggerita da Lumia ed accolta dall’assessore: «Al più presto l’assessorato organizzerà a Corleone un convegno regionale sul recupero del disagio psichico, lanciando il modello-Corleone».
A seguire, l’assessore Russo e il senatore Lumia hanno visitato l’ospedale, a cominciare – come ha insistito la Cgil – dall’ala da completare. «Mi impegno – ha detto l’assessore al direttore dell’ospedale “Dei Bianchi” – che finanzieremo per intero il completamento di questa nuova ala e la ristrutturazione del vecchio presidio». Russo, quindi, ha voluto visitare i reparti e poi ha incontrato gli operatori nel salone del presidio sanitario. Ad illustrare il pacchetto delle richieste è stato chiamato Leo Cuppuleri, della Fp-Cgil, che ha sottolineato come l’assessore sia stato di parola ripristinando il Servizio di Psichiatria, che era stato soppresso. «Adesso – ha detto Cuppuleri – bisognerà formalizzare l’impegno a tenere in vita l’ostetricia e ginecologia, almeno come unità operativa semplice, ad attivare il servizio di pediatria h24, ha dotare il presidio della necessaria strumentazione e a stabilizzare il personale, puntando alla qualificazione di alcune professionalità specifiche». È intervenuto anche il sindaco Antonino Iannazzo, che ha riconosciuto l’impegno dell’assessore a favore dell’ospedale di Corleone, puntualizzando comunque che bisogna definire nel dettaglio i posti-letto della Psichiatria, la U.O. di ostetricia e ginecologia e il resto. Fortunatamente ha “dimenticato” di rivendicare il “merito” di avere (improvvidamente e in rottura con gli altri sindaci e i sindacati) incontrato il presidente dell’Ars Francesco Cascio… per rivendicare cosa non si capisce, dati i rapporti politici non proprio idilliaci tra il Pdl “lealista”, cui appartiene Cascio, e il governo Lombardo.
L’assessore Massimo Russo ha sottolineato che, grazie all’impegno di tutti, si è ormai riusciti a mettere in ordine i conti della sanità siciliana. Poi ha ribadito l’impegno a sostenere lo sforzo della nuova Corleone, dotando l’ospedale del personale, delle attrezzature e delle strutture edilizie necessarie, nell’ambito della scelta strategica degli ospedali riuniti Corleone-Partinico. «Con l’atto aziendale, la pianta organica e il nuovo piano sanitario regionale – ha concluso – affronteremo i problemi ancora aperti».
lunedì 31 maggio 2010
domenica 30 maggio 2010
La partita tra la Nazionale Magistrati e il Corleone: "Per non dimentare, la memoria scende in campo", ma i cittadini disertano l'appuntamento
CORLEONE – Ieri pomeriggio, per la prima volta, la Rappresentativa della Nazionale Magistrati ha disputato una partita di calcio con la Polisportiva Corleone, per ricordare Giovanni Falcone, paolo Borsellino e tutte le vittime della violenza mafiosa. «Per non dimenticare, la memoria scende in campo», è stato un evento voluto dal presidente regionale della FIGC, Sandro Morgana, dal presidente della Polisportiva Corleone, Gabriele Gulotta, e dal sostituto procuratore generale presso la corte d’appello di Palermo, Raimondo Cerami, e patrocinato dal Comune di Corleone, dalla Provincia regionale e dalla Camera penale di Palermo. Per la cronaca, la partita è finita col punteggio di 4 a 1 a favore dei giallo-rossi del Corleone (Di Miceli, Lipari, Musicò e Chiarello per i padroni di casa; Riccardo Guida, giudice a Prato, per i Magistrati), ma la cosa importante non è il punteggio della gara di ieri, bensì la manifestazione di «vicinanza della magistratura italiana alla gente di Corleone e della Sicilia», come ha sottolineato il dott. Cerami. «In particolare nella città di Corleone – ha osservato il dott. Morgana – che in passato ha tanto sofferto, un appuntamento come questo risveglia valori particolarmente positivi». «Abbiamo voluto tenere vivo il ricordo di Falcone e Borsellino – ha detto il presidente Gulotta – attraverso lo sport, palestra di vita, valvola di sfogo sano per i giovani, strumento per confrontarsi con gli altri». «Questa bella giornata – ha detto il sindaco Iannazzo – è un altro tassello di una sempre più solida coscienza sociale della nostra città». Unici grandi assenti al “Santa Lucia” i cittadini: nella tribunetta, infatti, c’erano poche decine di aficionados, molto meno di quanti vanno normalmente a vedere una partita di calcio del Corleone. Hanno disertato la manifestazione, oppure non sono stati coinvolti dalla Polisportiva e dall’Amministrazione comunale?
Dopo la partita di calcio al “Santa Lucia”, nei locali del Cidma c’è stata la proiezione del cortometraggio “Corleone. Storie di valori in campo” e la presentazione del libro “Il cinema di mafia” di C. Franco e F.P. Di Fresco. Infine, una tavola rotonda su “Violenza dentro e fuori lo sport: rimedi e prospettive”, alla quale hanno partecipato Raimondo Cerami, Nino Iannazzo, Fabio Tricoli, Sandro Morgana, Federico Cimò, Mario Milone, Carmelo Franco e Pippo Cipriani. Surreale buona parte del dibattito, dove si è fatto a gara per dire che a Corleone “c’era” la mafia, mentre adesso… A mettere i piedi nel piatto ci ha pensato l’avv. Mario Milone, che ha definito Corleone “un paese con tante contraddizioni”. “Una prima contraddizione è che non ci sono giovani sportivi in questa sala e ce n’erano pochi al campo sportivo”, ha sottolineato il legale. Difetti organizzativi o altro? Contraddizione, secondo Milone, è anche l’isolamento in cui versa Corleone, tagliata fuori dalla grande viabilità della Palermo-Agrigento e della Palermo-Sciacca. E contraddizione è anche la sofferenza del presidio ospedaliero. A spandere un po’ d’ottimismo ci ha pensato l’ex sindaco di Corleone, Pippo Cipriani, secondo cui “non bisogna sottovalutare il valore e il significato di questa giornata della memoria, celebrata proprio qui a Corleone, dove vi sono ancora mafiosi e parenti dei grandi boss di mafia carcerati”.
Dino Paternostro
NELLA FOTO: L'intervento dell'avv. Mario Milone nel salone del Cidma
Dopo la partita di calcio al “Santa Lucia”, nei locali del Cidma c’è stata la proiezione del cortometraggio “Corleone. Storie di valori in campo” e la presentazione del libro “Il cinema di mafia” di C. Franco e F.P. Di Fresco. Infine, una tavola rotonda su “Violenza dentro e fuori lo sport: rimedi e prospettive”, alla quale hanno partecipato Raimondo Cerami, Nino Iannazzo, Fabio Tricoli, Sandro Morgana, Federico Cimò, Mario Milone, Carmelo Franco e Pippo Cipriani. Surreale buona parte del dibattito, dove si è fatto a gara per dire che a Corleone “c’era” la mafia, mentre adesso… A mettere i piedi nel piatto ci ha pensato l’avv. Mario Milone, che ha definito Corleone “un paese con tante contraddizioni”. “Una prima contraddizione è che non ci sono giovani sportivi in questa sala e ce n’erano pochi al campo sportivo”, ha sottolineato il legale. Difetti organizzativi o altro? Contraddizione, secondo Milone, è anche l’isolamento in cui versa Corleone, tagliata fuori dalla grande viabilità della Palermo-Agrigento e della Palermo-Sciacca. E contraddizione è anche la sofferenza del presidio ospedaliero. A spandere un po’ d’ottimismo ci ha pensato l’ex sindaco di Corleone, Pippo Cipriani, secondo cui “non bisogna sottovalutare il valore e il significato di questa giornata della memoria, celebrata proprio qui a Corleone, dove vi sono ancora mafiosi e parenti dei grandi boss di mafia carcerati”.
Dino Paternostro
NELLA FOTO: L'intervento dell'avv. Mario Milone nel salone del Cidma
sabato 29 maggio 2010
Il popolo delle primarie tradito dai dirigenti
di Francesco Palazzo
C´è un virus che si è inserito nel corpo del Pd regionale e di tutto il centrosinistra. Riguarda proprio lo strumento principe che il centrosinistra si è dato per far decidere i cittadini e non tenerli lontani dalle stanze del potere. Parliamo delle primarie. Per carità, sull´uso fattone sinora si possono avanzare tanti rilievi. Se passiamo in rassegna gli appuntamenti siciliani passati, possiamo vedere che non sempre si è trattato di vere e proprie competizioni. Spesso, o quasi sempre, il vincitore, o la vincitrice, erano già abbondantemente annunciati. Tuttavia sono stati sempre momenti di partecipazione e di festa, tanto che ogni volta ci si sorprende delle lunghe file ai gazebo. Sorpresa, per la verità, abbastanza eccentrica, visto che è proprio il popolo che vota centrosinistra a richiedere con insistenza di poter decidere direttamente. Poi, magari, non si è saputo capitalizzare questo fiume umano che ogni volta si è presentato pagando l´obolo. Se, per caso, chiedessimo come sono state utilizzate le liste dei votanti, ci renderemmo conto che giacciono in qualche cassetto. Eppure una base di decine e decine di migliaia di persone potrebbe costituire un volano portentoso per costruire veramente i partiti sul territorio e non solo sui giornali. Sinora però si erano sempre rispettati i risultati delle consultazioni. Negli ultimi tempi, invece, sono accadute due vicende che ripongono tutto in discussione. Sono due circostanze abbastanza importanti, verso le quali sia il Pd che l´intero centrosinistra non hanno posto la dovuta attenzione. E non è che siano accadute in piccoli centri di secondaria importanza. Parliamo di Enna, capoluogo di provincia, e di Gela, sesto comune della Sicilia. I fatti sono noti. A Enna il deputato Vladimiro Crisafulli si è candidato alle primarie per concorrere alla guida della sua città. Le ha vinte con il 61 per cento, poi ha fatto un passo indietro dopo che alcuni esponenti del suo partito avevano investito della vicenda la segreteria nazionale. Cosa avranno pensato gli ennesi che si erano mobilitati per questa elezione primaria? Forse che la democrazia partecipata è solo un passaggio che può essere macinato negli scontri interni di un partito e di una coalizione. Se la prossima volta non si presenteranno a votare ai gazebo, potremmo fargliene una colpa? Certamente no. A Gela abbiamo registrato un caso contrario. Il parlamentare regionale e presidente della commissione Antimafia, Calogero Speziale, volendo partecipare alle amministrative della sua città e desiderando competere per ricoprire quella che fu la poltrona di Rosario Crocetta, si è anche lui confrontato con le primarie. Uscito perdente, seppure per pochi voti, ha comunque deciso di partecipare alle elezioni contro il suo partito. Due casi che sottolineano, se ve ne fosse ancora bisogno, lo stato confusionale in cui versa il Pd. E, appresso a lui, tutto quello che fu il centrosinistra. Perché non si possono annullare, di fatto, le primarie a Enna, con il timbro della dirigenza nazionale del partito, e poi chiederne il sacro rispetto a Gela, minacciando espulsioni dal Pd. Delle due l´una. O le primarie sono uno strumento di importanza centrale nella vita del partito, e allora se ne rispetta sempre il responso, così come si fa con le elezioni vere e proprie. Oppure sono un altro modo di condurre, successivamente ai risultati, le lotte politiche all´interno del partito. Se ne è visto un esempio, abbastanza lampante, dopo le primarie con cui si è scelto il segretario regionale dei democratici. Dove il congresso, che doveva soltanto registrare il risultato uscito fuori dai gazebo, se lo è cucinato come ha voluto. Con i risvolti politici a livello regionale che ben conosciamo. Se le primarie sono soltanto un pretesto per consumare faide interne, non ci può meravigliare se prevalgono, su tutto, gli umori personali e gli interessi di cordata. I due casi di Enna e Gela declinano in tal senso. Sarebbe il caso che il Pd regionale, tra una riforma e l´altra, ci riflettesse un attimo. Altrimenti prevarrà, ci vuole poco a
ipotizzarlo, la progressiva disaffezione verso una pratica di democrazia diretta della quale non ci si fiderà più.
C´è un virus che si è inserito nel corpo del Pd regionale e di tutto il centrosinistra. Riguarda proprio lo strumento principe che il centrosinistra si è dato per far decidere i cittadini e non tenerli lontani dalle stanze del potere. Parliamo delle primarie. Per carità, sull´uso fattone sinora si possono avanzare tanti rilievi. Se passiamo in rassegna gli appuntamenti siciliani passati, possiamo vedere che non sempre si è trattato di vere e proprie competizioni. Spesso, o quasi sempre, il vincitore, o la vincitrice, erano già abbondantemente annunciati. Tuttavia sono stati sempre momenti di partecipazione e di festa, tanto che ogni volta ci si sorprende delle lunghe file ai gazebo. Sorpresa, per la verità, abbastanza eccentrica, visto che è proprio il popolo che vota centrosinistra a richiedere con insistenza di poter decidere direttamente. Poi, magari, non si è saputo capitalizzare questo fiume umano che ogni volta si è presentato pagando l´obolo. Se, per caso, chiedessimo come sono state utilizzate le liste dei votanti, ci renderemmo conto che giacciono in qualche cassetto. Eppure una base di decine e decine di migliaia di persone potrebbe costituire un volano portentoso per costruire veramente i partiti sul territorio e non solo sui giornali. Sinora però si erano sempre rispettati i risultati delle consultazioni. Negli ultimi tempi, invece, sono accadute due vicende che ripongono tutto in discussione. Sono due circostanze abbastanza importanti, verso le quali sia il Pd che l´intero centrosinistra non hanno posto la dovuta attenzione. E non è che siano accadute in piccoli centri di secondaria importanza. Parliamo di Enna, capoluogo di provincia, e di Gela, sesto comune della Sicilia. I fatti sono noti. A Enna il deputato Vladimiro Crisafulli si è candidato alle primarie per concorrere alla guida della sua città. Le ha vinte con il 61 per cento, poi ha fatto un passo indietro dopo che alcuni esponenti del suo partito avevano investito della vicenda la segreteria nazionale. Cosa avranno pensato gli ennesi che si erano mobilitati per questa elezione primaria? Forse che la democrazia partecipata è solo un passaggio che può essere macinato negli scontri interni di un partito e di una coalizione. Se la prossima volta non si presenteranno a votare ai gazebo, potremmo fargliene una colpa? Certamente no. A Gela abbiamo registrato un caso contrario. Il parlamentare regionale e presidente della commissione Antimafia, Calogero Speziale, volendo partecipare alle amministrative della sua città e desiderando competere per ricoprire quella che fu la poltrona di Rosario Crocetta, si è anche lui confrontato con le primarie. Uscito perdente, seppure per pochi voti, ha comunque deciso di partecipare alle elezioni contro il suo partito. Due casi che sottolineano, se ve ne fosse ancora bisogno, lo stato confusionale in cui versa il Pd. E, appresso a lui, tutto quello che fu il centrosinistra. Perché non si possono annullare, di fatto, le primarie a Enna, con il timbro della dirigenza nazionale del partito, e poi chiederne il sacro rispetto a Gela, minacciando espulsioni dal Pd. Delle due l´una. O le primarie sono uno strumento di importanza centrale nella vita del partito, e allora se ne rispetta sempre il responso, così come si fa con le elezioni vere e proprie. Oppure sono un altro modo di condurre, successivamente ai risultati, le lotte politiche all´interno del partito. Se ne è visto un esempio, abbastanza lampante, dopo le primarie con cui si è scelto il segretario regionale dei democratici. Dove il congresso, che doveva soltanto registrare il risultato uscito fuori dai gazebo, se lo è cucinato come ha voluto. Con i risvolti politici a livello regionale che ben conosciamo. Se le primarie sono soltanto un pretesto per consumare faide interne, non ci può meravigliare se prevalgono, su tutto, gli umori personali e gli interessi di cordata. I due casi di Enna e Gela declinano in tal senso. Sarebbe il caso che il Pd regionale, tra una riforma e l´altra, ci riflettesse un attimo. Altrimenti prevarrà, ci vuole poco a
ipotizzarlo, la progressiva disaffezione verso una pratica di democrazia diretta della quale non ci si fiderà più.
LA REPUBBLICA PALERMO, SABATO 29 MAGGIO 2010
NELLA FOTO: da sx. Rosario Crocetta, Calogero Speziale.
NELLA FOTO: da sx. Rosario Crocetta, Calogero Speziale.
venerdì 28 maggio 2010
Convegni merende e tanta musica: torna il "Consumo critico" di Addiopizzo
E' iniziato oggi a Villa Trabia la tre giorni organizzata dall'associazione antiracket. Stasera concerto di Giovanni Sollima
Riflessione e intrattenimento insieme per un appuntamento che è ormai un'abitudine per i palermitani e non sono per loro. Ricomincia la "Fiera del consumo critico" organizzata dall'associazione antiracket Addiopizzo, in programma da domani a domenica a Villa Trabia (via Salinas 3, Palermo). Un'iniziativa rigorosamente a ingresso libero, quella che propone, per la sua quinta edizione dibattiti, laboratori, seminari e concerti.La Villa è suddivisa in sette aree tematiche: "Bere e gustare", "Vivere verde", "Viaggio a mio agio", "Vivere quotidiano", "Frivolo e bello", "Piacere e benessere" e "Il bollino dei produttori". Sono previste anche molte attività dedicate ai più giovani, come la "Merenda critica" e varie attività sportive. La sera, spazio a teatro e musica: domani alle 20 si inizia con lo spettacolo teatrale "Label questioni di etichetta" in riferimento al consumo alimentare ragionato. A seguire, dalle 21.30, è il momento dei concerti: quello della cantautrice palermitana Matilde Politi, il momento folk con i 'Nkantu d'Aziz e a conclusione i Waines, ormai una vera e propria realtà della scena blues-rock palermitana. Sabato alle 20, la scena sarà tutta per l'attore Salvo Piparo; seguiranno poi i live di artisti come i Triste Color, Rosa, il Duo Danny Fresh Tedesco e, poco prima della chiusura affidata agli Skarafunia, il concerto più atteso, quello del violoncellista Giovanni Sollima.Domenica a partire dalle 19, la scena sarà interamente occupata dalla JazzSpring Orchestra. Per maggiori informazioni è possibile scaricare il programma completo all'indirizzo www. addiopizzo. org
Riflessione e intrattenimento insieme per un appuntamento che è ormai un'abitudine per i palermitani e non sono per loro. Ricomincia la "Fiera del consumo critico" organizzata dall'associazione antiracket Addiopizzo, in programma da domani a domenica a Villa Trabia (via Salinas 3, Palermo). Un'iniziativa rigorosamente a ingresso libero, quella che propone, per la sua quinta edizione dibattiti, laboratori, seminari e concerti.La Villa è suddivisa in sette aree tematiche: "Bere e gustare", "Vivere verde", "Viaggio a mio agio", "Vivere quotidiano", "Frivolo e bello", "Piacere e benessere" e "Il bollino dei produttori". Sono previste anche molte attività dedicate ai più giovani, come la "Merenda critica" e varie attività sportive. La sera, spazio a teatro e musica: domani alle 20 si inizia con lo spettacolo teatrale "Label questioni di etichetta" in riferimento al consumo alimentare ragionato. A seguire, dalle 21.30, è il momento dei concerti: quello della cantautrice palermitana Matilde Politi, il momento folk con i 'Nkantu d'Aziz e a conclusione i Waines, ormai una vera e propria realtà della scena blues-rock palermitana. Sabato alle 20, la scena sarà tutta per l'attore Salvo Piparo; seguiranno poi i live di artisti come i Triste Color, Rosa, il Duo Danny Fresh Tedesco e, poco prima della chiusura affidata agli Skarafunia, il concerto più atteso, quello del violoncellista Giovanni Sollima.Domenica a partire dalle 19, la scena sarà interamente occupata dalla JazzSpring Orchestra. Per maggiori informazioni è possibile scaricare il programma completo all'indirizzo www. addiopizzo. org
mercoledì 26 maggio 2010
Roberto Tagliavia: "Vi racconto degli interessi mafiosi sul feudo di Verbuncaudo..."
di Roberto Tagliavia
Falcone parte dall’acquisto di questo esteso feudo per avviare il maxiprocesso contro Michele Greco (detto il Papa) e altri. Le indagini accertano che, con uno strano giro di assegni, Michele Greco acquista da Luigi Gioia (deputato e fratello del più noto Giovanni Gioia, a sua volta ministro ed esponente democristiano di spicco) il feudo di Verbumcaudio.
Luigi Gioia vende nella qualità di amministratore unico della Siciliana Alberghi e Turismo (SAT) spa il cui patrimonio, di cui Verbumcaudo è parte, è costituito al 100% dall’asse ereditario immobiliare del Conte Salvatore Tagliavia. Inquietante la modalità dell’acquisto, con alcuni assegni a firma di personaggi legati alla camorra del clan Nuvoletta. Inquietante lo stesso contratto, concordato con un personaggio del calibro di Greco, al punto da indurre Falcone a concludere nella sentenza di rinvio a giudizio che …così verosimilmente la mafia ha privato la famiglia Tagliavia di tutti i suoi beni (ndr - Ma se c’era questa ipotesi di reato perché non è stata perseguita?!). In realtà le cose non stavano così e, proprio a far data dalla scoperta di quella vicenda, inizia un contenzioso interno alla SAT nei confronti dell’amministratore sul modo di gestire i beni dei Tagliavia. Un capitolo triste di disattenzione collettiva e politica su una vicenda - per altro più volte riportata dalla stampa, che dimostrava come non fosse affatto vera la tesi di una assuefazione dell’intera borghesia imprenditoriale palermitana a quell’andazzo – che avrebbe potuto insegnare molto sui nodi del diritto societario (vedi per es. il falso in bilancio) che ostacolano una più efficace azione antimafia. Tuttavia, in quel confronto interno fu più volte posta la questione relativa a Verbumcaudo: come potesse essere valido un contratto concluso con un “mafioso”, visto che una delle due parti era in una posizione tale da condizionare la libera determinazione dell’altro contraente, e perché, essendo il contratto per tale ragione nullo, Verbumcaudo non fosse rientrato nel patrimonio SAT; oppure, se i due contraenti erano stati entrambi complici nel voler privare i soci dei loro beni, come mai non si era proceduto a rimuovere e sostituire, anche d’autorità, l’amministratore infedele? Invece non successe né l’una né l’altra cosa. Il bene venne requisito al mafioso Greco e affidato ai Carabinieri per destinarlo a poligono di tiro (ndr – Fu mai usato per tale scopo?). L’amministratore Gioia non venne rimosso e, forte di una maggioranza del 60% all’interno della SAT, continuò ad amministrare come meglio credeva gli altri beni dell’eredità Tagliavia, tra cui il fondo Costa ai Ciaculli e il fondo Favarella, sempre a Ciaculli, più noto come il feudo di Michele Greco (che in realtà era lì solo come affittuario), contro le proteste degli azionisti Tagliavia (40%) che non approveranno per anni e anni i bilanci della società, denunciandone le irregolarità.
Il sequestro è del 1985 e solo anni dopo i Carabinieri, secondo la relazione della commissione consiliare di Polizzi, si dichiarano non interessati a trattenere il bene che, di fatto, è comunque rimasto nelle disponibilità del sovrastante lasciato lì dai Greco. In questo arco di tempo solo il Banco di Sicilia rivendica il bene, in quanto posto a garanzia di un prestito richiesto dai Greco: il Banco vince la causa presso il tribunale di Termini ma la vicenda, per quanto mi risulta, resta quiescente per anni, riemergendo solo dopo il 2005 come ostacolo all’assegnazione del bene. E qui è il punto: tutto sembra fatto per garantire la disponibilità dei beni ai Greco o ai loro sodali. Il sequestro, così come la permanenza dell’amministratore Gioia nella SAT, si risolve, quindi, in un congelamento della situazione fino a quando il trascorrere del tempo ne avrà sterilizzato la memoria, grazie a termini di prescrizione, di usucapione o, più semplicemente, per perdita dell’attenzione e dell’interesse, consentendo di consolidare il passaggio dai legittimi proprietari al circuito della proprietà mafiosa. Quanto avvenuto è gravissimo! E’ una risposta al tentativo, con la legge La Torre, di sottrarre i beni alla mafia e che fa ulteriormente intravedere un patto sciagurato fra Stato e malavita. Come attivare allora un diverso controllo sociale? Sappiamo, per di più, che l’assegnazione di questi beni ad associazioni, cooperative e altro non esaurisce le difficoltà della loro gestione e produttività. La dimensione dell’impresa ha bisogno di risorse economiche e di filiere che possono essere sostenute da competenze e collegamenti per evitare il rischio, alla fine, di un riassorbimento del bene nel circuito della mala economia. Questa vicenda apre, dunque, una necessaria riflessione su un aspetto che fin qui non è stato parte di una adeguata e moderna politica antimafia ma che è ormai ineludibile: la responsabilità sociale dell’impresa e della proprietà. Partiamo dai fondamentali: se ti rubano il portafoglio e la forza pubblica individua e arresta il ladro, cosa pensereste voi se il portafoglio non vi fosse restituito? Se vi dicessero che non siete stati bravi a guardarvi e quindi, per evitare il rischio di ulteriori furti, il bene vi venisse tolto per sempre? Restereste alquanto frastornati e, verosimilmente, maturereste la scelta di non denunciare e di non collaborare e, semmai, di giungere a un accordo con il ladro per un recupero parziale. Bene, cosa immaginate che abbia provato quando, defraudato di un bene, quell’atto è stato riconosciuto valido, ancorché illegittimo, e il bene sottratto a ogni diritto ereditario o di azionista? Cosa pensate che abbia provato quando, finalmente mutati gli equilibri nella SAT (per diverse vicende interne) ed entrato nel collegio dei liquidatori, ho cercato di attivare quell’azione di recupero per vie legali - non eseguita da Gioia né dagli amministratori succedutigli negli anni - per sentirmi rispondere che erano scaduti i termini e ogni diritto era prescritto? E cosa pensare oggi, dopo la scoperta che quel bene non è affatto rientrato nel circuito dell’economia sana, impedendoci un uso produttivo, con le opportune sinergie, nel quadro delle attività imprenditoriali degli eredi Tagliavia? Cosa dovrei dire nel vedere un bene sottratto per oltre 25 anni, sia dalla mafia che dallo Stato, senza alcuna utilità sociale e col risultato di un impoverimento generale e, magari, con la beffa finale, nei tempi lunghi, della vittoria dei malversatori? Un conto è, infatti, che si equestrino beni acquisiti sul mercato con risorse finanziarie illegali (frutto di rapine, truffe, sfruttamento, traffici illeciti ecc.) così riciclate, perché così si colpisce l’esito della scelta malavitosa del mafioso. Altro è il caso in cui un bene viene sottratto con la prepotenza mafiosa, con l’inganno e con la complicità di chi avrebbe dovuto tutelare quel bene. Se non introduciamo questa distinzione temo che nel tempo si formerà una cintura di vittime della malversazione che anziché reagire si piegheranno in silenzio (ndr – nel nichilismo di chi non è né con la Mafia né con lo Stato), che non collaboreranno al recupero a un uso economicamente corretto e socialmente responsabile dei beni, ma che potrebbero essere indotti a convenire con i mafiosi piuttosto che combatterli. La valorizzazione economica sana della proprietà può costituire, invece, una difesa e una opportuna barriera nel corpo sociale all’espandersi della criminalità mafiosa. In questo senso il compito dello Stato non è quello di considerare le vittime delle malversazioni come minori incapaci di intendere e di volere ma, proprio per la violenza subita, tra i più consapevoli e vigili sostenitori del rispetto delle regole. Uno Stato che responsabilizzi la proprietà e la sostenga, vigilando sul rispetto delle regole nell’uso della proprietà stessa diventa davvero uno Stato di diritto. E’ questa la logica di una lotta alla mafia non delegata alle sole forze dell’ordine o alla magistratura, ma alimentata dalla democrazia, dal controllo sociale, dalla partecipazione, dall’interesse e dalla responsabilità dei singoli, dell’impresa e, soprattutto, dalla sua capacità di fare buona economia. Di fronte, invece, alla sterilizzazione dei beni sequestrati e, in particolare, alla vicenda di Verbumcaudo c’è da domandarsi quanta buona economia e quanto lavoro sarebbe stato possibile derivare, nel frattempo in questi lunghi 25 anni, da una tradizione imprenditoriale che, invece, è stata piegata dalla pesante presenza di uomini come Michele Greco, dalla gestione poco trasparente della SAT (come accertato da una ispezione giudiziale), e da uno Stato ambiguo e irresoluto. Oggi il risveglio dell’interesse dell’antimafia deve saper produrre un passo avanti più serio, che guardi alla restituzione dei beni a una economia sana, efficace, socialmente utile, senza scorciatoie o fughe propagandistiche, senza lungaggini burocratiche. Lo dico perché in questa storia altri capitoli sono tuttora aperti: sarebbe bene non risvegliarsi fra venticinque anni.
(Pubblicato su asud’europa 17 maggio 2010)
Falcone parte dall’acquisto di questo esteso feudo per avviare il maxiprocesso contro Michele Greco (detto il Papa) e altri. Le indagini accertano che, con uno strano giro di assegni, Michele Greco acquista da Luigi Gioia (deputato e fratello del più noto Giovanni Gioia, a sua volta ministro ed esponente democristiano di spicco) il feudo di Verbumcaudio.
Luigi Gioia vende nella qualità di amministratore unico della Siciliana Alberghi e Turismo (SAT) spa il cui patrimonio, di cui Verbumcaudo è parte, è costituito al 100% dall’asse ereditario immobiliare del Conte Salvatore Tagliavia. Inquietante la modalità dell’acquisto, con alcuni assegni a firma di personaggi legati alla camorra del clan Nuvoletta. Inquietante lo stesso contratto, concordato con un personaggio del calibro di Greco, al punto da indurre Falcone a concludere nella sentenza di rinvio a giudizio che …così verosimilmente la mafia ha privato la famiglia Tagliavia di tutti i suoi beni (ndr - Ma se c’era questa ipotesi di reato perché non è stata perseguita?!). In realtà le cose non stavano così e, proprio a far data dalla scoperta di quella vicenda, inizia un contenzioso interno alla SAT nei confronti dell’amministratore sul modo di gestire i beni dei Tagliavia. Un capitolo triste di disattenzione collettiva e politica su una vicenda - per altro più volte riportata dalla stampa, che dimostrava come non fosse affatto vera la tesi di una assuefazione dell’intera borghesia imprenditoriale palermitana a quell’andazzo – che avrebbe potuto insegnare molto sui nodi del diritto societario (vedi per es. il falso in bilancio) che ostacolano una più efficace azione antimafia. Tuttavia, in quel confronto interno fu più volte posta la questione relativa a Verbumcaudo: come potesse essere valido un contratto concluso con un “mafioso”, visto che una delle due parti era in una posizione tale da condizionare la libera determinazione dell’altro contraente, e perché, essendo il contratto per tale ragione nullo, Verbumcaudo non fosse rientrato nel patrimonio SAT; oppure, se i due contraenti erano stati entrambi complici nel voler privare i soci dei loro beni, come mai non si era proceduto a rimuovere e sostituire, anche d’autorità, l’amministratore infedele? Invece non successe né l’una né l’altra cosa. Il bene venne requisito al mafioso Greco e affidato ai Carabinieri per destinarlo a poligono di tiro (ndr – Fu mai usato per tale scopo?). L’amministratore Gioia non venne rimosso e, forte di una maggioranza del 60% all’interno della SAT, continuò ad amministrare come meglio credeva gli altri beni dell’eredità Tagliavia, tra cui il fondo Costa ai Ciaculli e il fondo Favarella, sempre a Ciaculli, più noto come il feudo di Michele Greco (che in realtà era lì solo come affittuario), contro le proteste degli azionisti Tagliavia (40%) che non approveranno per anni e anni i bilanci della società, denunciandone le irregolarità.
Il sequestro è del 1985 e solo anni dopo i Carabinieri, secondo la relazione della commissione consiliare di Polizzi, si dichiarano non interessati a trattenere il bene che, di fatto, è comunque rimasto nelle disponibilità del sovrastante lasciato lì dai Greco. In questo arco di tempo solo il Banco di Sicilia rivendica il bene, in quanto posto a garanzia di un prestito richiesto dai Greco: il Banco vince la causa presso il tribunale di Termini ma la vicenda, per quanto mi risulta, resta quiescente per anni, riemergendo solo dopo il 2005 come ostacolo all’assegnazione del bene. E qui è il punto: tutto sembra fatto per garantire la disponibilità dei beni ai Greco o ai loro sodali. Il sequestro, così come la permanenza dell’amministratore Gioia nella SAT, si risolve, quindi, in un congelamento della situazione fino a quando il trascorrere del tempo ne avrà sterilizzato la memoria, grazie a termini di prescrizione, di usucapione o, più semplicemente, per perdita dell’attenzione e dell’interesse, consentendo di consolidare il passaggio dai legittimi proprietari al circuito della proprietà mafiosa. Quanto avvenuto è gravissimo! E’ una risposta al tentativo, con la legge La Torre, di sottrarre i beni alla mafia e che fa ulteriormente intravedere un patto sciagurato fra Stato e malavita. Come attivare allora un diverso controllo sociale? Sappiamo, per di più, che l’assegnazione di questi beni ad associazioni, cooperative e altro non esaurisce le difficoltà della loro gestione e produttività. La dimensione dell’impresa ha bisogno di risorse economiche e di filiere che possono essere sostenute da competenze e collegamenti per evitare il rischio, alla fine, di un riassorbimento del bene nel circuito della mala economia. Questa vicenda apre, dunque, una necessaria riflessione su un aspetto che fin qui non è stato parte di una adeguata e moderna politica antimafia ma che è ormai ineludibile: la responsabilità sociale dell’impresa e della proprietà. Partiamo dai fondamentali: se ti rubano il portafoglio e la forza pubblica individua e arresta il ladro, cosa pensereste voi se il portafoglio non vi fosse restituito? Se vi dicessero che non siete stati bravi a guardarvi e quindi, per evitare il rischio di ulteriori furti, il bene vi venisse tolto per sempre? Restereste alquanto frastornati e, verosimilmente, maturereste la scelta di non denunciare e di non collaborare e, semmai, di giungere a un accordo con il ladro per un recupero parziale. Bene, cosa immaginate che abbia provato quando, defraudato di un bene, quell’atto è stato riconosciuto valido, ancorché illegittimo, e il bene sottratto a ogni diritto ereditario o di azionista? Cosa pensate che abbia provato quando, finalmente mutati gli equilibri nella SAT (per diverse vicende interne) ed entrato nel collegio dei liquidatori, ho cercato di attivare quell’azione di recupero per vie legali - non eseguita da Gioia né dagli amministratori succedutigli negli anni - per sentirmi rispondere che erano scaduti i termini e ogni diritto era prescritto? E cosa pensare oggi, dopo la scoperta che quel bene non è affatto rientrato nel circuito dell’economia sana, impedendoci un uso produttivo, con le opportune sinergie, nel quadro delle attività imprenditoriali degli eredi Tagliavia? Cosa dovrei dire nel vedere un bene sottratto per oltre 25 anni, sia dalla mafia che dallo Stato, senza alcuna utilità sociale e col risultato di un impoverimento generale e, magari, con la beffa finale, nei tempi lunghi, della vittoria dei malversatori? Un conto è, infatti, che si equestrino beni acquisiti sul mercato con risorse finanziarie illegali (frutto di rapine, truffe, sfruttamento, traffici illeciti ecc.) così riciclate, perché così si colpisce l’esito della scelta malavitosa del mafioso. Altro è il caso in cui un bene viene sottratto con la prepotenza mafiosa, con l’inganno e con la complicità di chi avrebbe dovuto tutelare quel bene. Se non introduciamo questa distinzione temo che nel tempo si formerà una cintura di vittime della malversazione che anziché reagire si piegheranno in silenzio (ndr – nel nichilismo di chi non è né con la Mafia né con lo Stato), che non collaboreranno al recupero a un uso economicamente corretto e socialmente responsabile dei beni, ma che potrebbero essere indotti a convenire con i mafiosi piuttosto che combatterli. La valorizzazione economica sana della proprietà può costituire, invece, una difesa e una opportuna barriera nel corpo sociale all’espandersi della criminalità mafiosa. In questo senso il compito dello Stato non è quello di considerare le vittime delle malversazioni come minori incapaci di intendere e di volere ma, proprio per la violenza subita, tra i più consapevoli e vigili sostenitori del rispetto delle regole. Uno Stato che responsabilizzi la proprietà e la sostenga, vigilando sul rispetto delle regole nell’uso della proprietà stessa diventa davvero uno Stato di diritto. E’ questa la logica di una lotta alla mafia non delegata alle sole forze dell’ordine o alla magistratura, ma alimentata dalla democrazia, dal controllo sociale, dalla partecipazione, dall’interesse e dalla responsabilità dei singoli, dell’impresa e, soprattutto, dalla sua capacità di fare buona economia. Di fronte, invece, alla sterilizzazione dei beni sequestrati e, in particolare, alla vicenda di Verbumcaudo c’è da domandarsi quanta buona economia e quanto lavoro sarebbe stato possibile derivare, nel frattempo in questi lunghi 25 anni, da una tradizione imprenditoriale che, invece, è stata piegata dalla pesante presenza di uomini come Michele Greco, dalla gestione poco trasparente della SAT (come accertato da una ispezione giudiziale), e da uno Stato ambiguo e irresoluto. Oggi il risveglio dell’interesse dell’antimafia deve saper produrre un passo avanti più serio, che guardi alla restituzione dei beni a una economia sana, efficace, socialmente utile, senza scorciatoie o fughe propagandistiche, senza lungaggini burocratiche. Lo dico perché in questa storia altri capitoli sono tuttora aperti: sarebbe bene non risvegliarsi fra venticinque anni.
(Pubblicato su asud’europa 17 maggio 2010)
lunedì 24 maggio 2010
Il Presidente dell’Ars Cascio incontra gli amministratori locali di Corleone, Palazzo Adriano, Campofiorito, Lercara Friddi, Giuliana e Marineo
Le gravi problematiche di assistenza sanitaria, che affliggono i territori di Corleone, Palazzo Adriano, Campofiorito, Giuliana, Lercara Freddi e Marineo, sono state al centro dell’incontro intercorso questa mattina, a Palazzo dei Normanni, tra il Presidente dell’Ars, Francesco Cascio, il Sindaco ed il Vicesindaco di Corleone – rispettivamente Antonino Iannazzo e Pio Siragusa - ed i presidenti dei Consigli comunali dei territori in oggetto. Gli amministratori locali del comprensorio palermitano, che coinvolge i suddetti Comuni, hanno manifestato a Cascio grande preoccupazione per le drastiche conseguenze abbattutesi nei presidi ospedalieri di loro pertinenza, a causa del decreto n. 751 emanato, lo scorso 12 marzo, dall’assessore regionale alla Sanità, Massimo Russo, che ha determinato, in particolare, l’azzeramento dei posto letto di area medica nell’ospedale di Palazzo Adriano; la chiusura del servizio psichiatrico di diagnosi e cura dell’ospedale di Corleone ed il trasferimento, da quest’ultimo al nosocomio di Partitico, dell’unità operativa complessa di ginecologia ed ostetricia. “Tutto ciò – dice, a nome della delegazione, il Presidente del Consiglio Comunale di Corleone, Mario Lanza – ha generato gravissimi disagi per l’utenza, perciò chiediamo che venga ripristinato quanto ci è stato tolto, e che siano altresì potenziate le strutture, con adeguate attrezzature, per garantire gli standard qualitativi di assistenza che i cittadini si attendono e – continua – ci siamo rivolti al Presidente Cascio, perché si faccia interlocutore presso l’assessorato nella speranza di ottenere la massima sensibilità sulla questione”. Il Presidente dell’Ars, Francesco Cascio, a margine dell’incontro, si è detto disponibile ad interloquire con l’Assessore Russo per agevolare la ricerca di soluzioni idonee alla definizione della difficile situazione.
Grazia Elfio
www.ilgiornaledipachino.com
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domenica 23 maggio 2010
Video su Giovanni Falcone e Paolo Borsellino
Attentato a Giovanni Falcone 23 Maggio 1992
La strage di Capaci
Falcone e Borsellino, i nostri eroi
Ancora Falcone e Borsellino
La strage di Capaci
Falcone e Borsellino, i nostri eroi
Ancora Falcone e Borsellino
La P2 e il ddl intercettazioni
di Concita De Gregorio
Qualche sera fa, in via Veneto, entrava Edward Luttwak all’hotel Flora, usciva Licio Gelli dall’Excelsior. Il Flora era il quartier generale tedesco negli anni di guerra. L’Excelsior, in anni più recenti, teatro di un’altra guerra, silenziosa e lunga. Una guerra di cospirazione. Le due auto blu si sono incrociate. Gelli, 91 anni compiuti ad aprile, scende a Roma molto più di rado. Non tutti i mercoledì come era solito fare. Ha qualche piccolo problema di salute, spiega uno dei tre intermediari che tra Pistoia, Arezzo e Montecatini occorre interpellare in sequenza per avere notizie dello «zio», così vogliono lo si chiami al telefono, mai nomi al telefono, si sa. Riceve a villa Wanda, si spinge a Roma «solo per questioni delicatissime e urgenti di massimo livello».
Quale possa essere stata la questione delicatissima e urgente di queste settimane, le cronache dominate dalla cricca di Anemone e dall’urgenza che il presidente del Consiglio avverte per una legge bavaglio che ammutolisca giornali e tg, si può chiedere, ma non è lecito sapere. «Che domanda impertinente». La stessa risposta che Licio Gelli mi dette sette anni fa, quando il 28 settembre andai a intervistarlo a villa Wanda. Sente ancora Silvio Berlusconi, lo vede? «Che domanda impertinente». In quella lunga conversazione mi disse cose che a ripensarci oggi - la privacy, il ddl sulle intercettazioni - conservano un loro interesse: il suo Piano di Rinascita democratica diceva che era necessario redigere «una nuova legislazione sulla stampa in senso protettivo della dignità del cittadino, sul modello inglese». La privacy. Disse: «Guardo il Paese, leggo i giornali e penso: ecco qua che tutto si realizza poco a poco, pezzo a pezzo. Forse sì, dovrei avere i diritti d’autore. La giustizia, la tv, l’ordine pubblico. Ho scritto tutto trent’anni fa». Ancora dal Piano di Rinascita della Loggia massonica P2, Silvio Berlusconi aveva la tessera numero 1816. «Qualora le circostanze permettessero di contare sull’ascesa al governo di un uomo politico (o di una equipe) già in sintonia con lo spirito del club è chiaro che i tempi di procedimento riceverebbero una forte accelerazione». Le circostanze lo permettono. Chi ha condiviso quel progetto è oggi alla guida del Paese. Non solo alla guida suprema. È nei gangli vitali delle burocrazie, nelle segreterie felpate, nei ministeri, nelle anticamere. È un club, come lo definiva Gelli, i cui nomi fanno capolino di continuo tra le carte delle inchieste sulla corruzione, nomi a volte anonimi per il grande pubblico ma notissimi, invece, tra chi conta.
Martedì scorso a «Ballarò» Antonio Di Pietro, reduce da Firenze dove era stato sentito dai magistrati come testimone, ha risposto alla domanda «che cosa le hanno chiesto, lei cosa ha detto». «Non posso dire cosa ho detto, ma molte sarebbero le domande da farsi. Per esempio chiediamoci cosa ci fa Bisignani a palazzo Grazioli». Cosa ci fa? Ha domandato il conduttore, Floris. «Eh, cosa ci fa...». Luigi Bisignani, grande esperto della storia della P2.
Dunque i palazzi sono ancora questi, la storia non si capisce se non si riparte da lì. Per dirlo con le parole del Venerabile maestro: «Se le radici sono buone la pianta germoglia». Ha germogliato.
Brevi estratti dal Piano di Rinascita, che magari chi ha meno di trent’anni non lo ricorda o non l’ha letto mai. A proposito di stampa e tv. «Acquisire 2 o 3 giornalisti per ciascun quotidiano o periodico in modo tale che nessuno sappia dell’altro. L’azione dovrà essere condotta a macchia d’olio o meglio a catena da non più di 3 o 4 elementi che conoscano l’ambiente». Le gratifiche economiche adeguate. «Dissolvere la Rai tv», «abolire il monopolio Rai». Fin qui, ha germogliato. Punto centrale: «Controllare la pubblica opinione media nel vivo del paese». La prosa non è delle più felici ma il senso preciso: la pubblica opinione media, la massa dei cittadini. Nel vivo del paese: un controllo capillare. Addomesticare la pubblica opinione attraverso le tv. Procedere di seguito ad «alcuni ritocchi alla Costituzione».
Anche sui ritocchi ci siamo
Lavorare a dividere il sindacato, disarticolare la magistratura: questa è la parte più corposa del piano. Anche quella più meticolosamente perseguita. Sarebbe interessante fermarsi su altri dettagli: la «legislazione che subordini il diritto di residenza alla dimostrazione di possedere un posto di lavoro e un reddito sufficiente», per esempio, di cui Bossi è oggi paladino. Bossi, di cui Gelli dice: «Si è creato la sua fortezza con la Padania, ha portato molti parlamentari, è stato bravo. Ma aveva molti debiti...». La stampa, per finire. «Nuova legislazione sulla stampa in senso protettivo della dignità del cittadino sul modello inglese (oggi diciamo privacy). Obbligo di pubblicare ogni anno bilanci e retribuzioni. Abolire tutte le provvidenze agevolative».
Creare un’Agenzia centrale che controlli le notizie locali. Acquisire alcuni settimanali da battaglia, settimanali popolari. Oggi diremmo rotocalchi. Quelli che vendono migliaia di copie e si trovano nelle sale d’attesa dal dentista, dal pediatra, dal barbiere: quelli che arrivano più lontano dei settimanali d’inchiesta, del resto - con le nuove leggi sulla privacy o dignità del cittadino che dir si voglia - destinati a scomparire. Di Berlusconi, quel giorno di sette anni fa, Gelli mi disse: «Berlusconi è un uomo fuori dal comune. Ricordo bene che già allora, ai tempi dei nostri primi incontri, aveva questa caratteristica: sapeva realizzare i suoi progetti. Un uomo del fare. Di questo c’è bisogno in Italia: non di parole, di azioni». Della corruzione, delle tangenti, degli appalti e delle cricche: «In fondo Mani pulite è stata solo una faccenda di corna. Lei crede che la corruzione sia scomparsa? Non vede che è ovunque, peggio di prima, molto più di prima?».
L’Unità, 23 maggio 2010
Qualche sera fa, in via Veneto, entrava Edward Luttwak all’hotel Flora, usciva Licio Gelli dall’Excelsior. Il Flora era il quartier generale tedesco negli anni di guerra. L’Excelsior, in anni più recenti, teatro di un’altra guerra, silenziosa e lunga. Una guerra di cospirazione. Le due auto blu si sono incrociate. Gelli, 91 anni compiuti ad aprile, scende a Roma molto più di rado. Non tutti i mercoledì come era solito fare. Ha qualche piccolo problema di salute, spiega uno dei tre intermediari che tra Pistoia, Arezzo e Montecatini occorre interpellare in sequenza per avere notizie dello «zio», così vogliono lo si chiami al telefono, mai nomi al telefono, si sa. Riceve a villa Wanda, si spinge a Roma «solo per questioni delicatissime e urgenti di massimo livello».
Quale possa essere stata la questione delicatissima e urgente di queste settimane, le cronache dominate dalla cricca di Anemone e dall’urgenza che il presidente del Consiglio avverte per una legge bavaglio che ammutolisca giornali e tg, si può chiedere, ma non è lecito sapere. «Che domanda impertinente». La stessa risposta che Licio Gelli mi dette sette anni fa, quando il 28 settembre andai a intervistarlo a villa Wanda. Sente ancora Silvio Berlusconi, lo vede? «Che domanda impertinente». In quella lunga conversazione mi disse cose che a ripensarci oggi - la privacy, il ddl sulle intercettazioni - conservano un loro interesse: il suo Piano di Rinascita democratica diceva che era necessario redigere «una nuova legislazione sulla stampa in senso protettivo della dignità del cittadino, sul modello inglese». La privacy. Disse: «Guardo il Paese, leggo i giornali e penso: ecco qua che tutto si realizza poco a poco, pezzo a pezzo. Forse sì, dovrei avere i diritti d’autore. La giustizia, la tv, l’ordine pubblico. Ho scritto tutto trent’anni fa». Ancora dal Piano di Rinascita della Loggia massonica P2, Silvio Berlusconi aveva la tessera numero 1816. «Qualora le circostanze permettessero di contare sull’ascesa al governo di un uomo politico (o di una equipe) già in sintonia con lo spirito del club è chiaro che i tempi di procedimento riceverebbero una forte accelerazione». Le circostanze lo permettono. Chi ha condiviso quel progetto è oggi alla guida del Paese. Non solo alla guida suprema. È nei gangli vitali delle burocrazie, nelle segreterie felpate, nei ministeri, nelle anticamere. È un club, come lo definiva Gelli, i cui nomi fanno capolino di continuo tra le carte delle inchieste sulla corruzione, nomi a volte anonimi per il grande pubblico ma notissimi, invece, tra chi conta.
Martedì scorso a «Ballarò» Antonio Di Pietro, reduce da Firenze dove era stato sentito dai magistrati come testimone, ha risposto alla domanda «che cosa le hanno chiesto, lei cosa ha detto». «Non posso dire cosa ho detto, ma molte sarebbero le domande da farsi. Per esempio chiediamoci cosa ci fa Bisignani a palazzo Grazioli». Cosa ci fa? Ha domandato il conduttore, Floris. «Eh, cosa ci fa...». Luigi Bisignani, grande esperto della storia della P2.
Dunque i palazzi sono ancora questi, la storia non si capisce se non si riparte da lì. Per dirlo con le parole del Venerabile maestro: «Se le radici sono buone la pianta germoglia». Ha germogliato.
Brevi estratti dal Piano di Rinascita, che magari chi ha meno di trent’anni non lo ricorda o non l’ha letto mai. A proposito di stampa e tv. «Acquisire 2 o 3 giornalisti per ciascun quotidiano o periodico in modo tale che nessuno sappia dell’altro. L’azione dovrà essere condotta a macchia d’olio o meglio a catena da non più di 3 o 4 elementi che conoscano l’ambiente». Le gratifiche economiche adeguate. «Dissolvere la Rai tv», «abolire il monopolio Rai». Fin qui, ha germogliato. Punto centrale: «Controllare la pubblica opinione media nel vivo del paese». La prosa non è delle più felici ma il senso preciso: la pubblica opinione media, la massa dei cittadini. Nel vivo del paese: un controllo capillare. Addomesticare la pubblica opinione attraverso le tv. Procedere di seguito ad «alcuni ritocchi alla Costituzione».
Anche sui ritocchi ci siamo
Lavorare a dividere il sindacato, disarticolare la magistratura: questa è la parte più corposa del piano. Anche quella più meticolosamente perseguita. Sarebbe interessante fermarsi su altri dettagli: la «legislazione che subordini il diritto di residenza alla dimostrazione di possedere un posto di lavoro e un reddito sufficiente», per esempio, di cui Bossi è oggi paladino. Bossi, di cui Gelli dice: «Si è creato la sua fortezza con la Padania, ha portato molti parlamentari, è stato bravo. Ma aveva molti debiti...». La stampa, per finire. «Nuova legislazione sulla stampa in senso protettivo della dignità del cittadino sul modello inglese (oggi diciamo privacy). Obbligo di pubblicare ogni anno bilanci e retribuzioni. Abolire tutte le provvidenze agevolative».
Creare un’Agenzia centrale che controlli le notizie locali. Acquisire alcuni settimanali da battaglia, settimanali popolari. Oggi diremmo rotocalchi. Quelli che vendono migliaia di copie e si trovano nelle sale d’attesa dal dentista, dal pediatra, dal barbiere: quelli che arrivano più lontano dei settimanali d’inchiesta, del resto - con le nuove leggi sulla privacy o dignità del cittadino che dir si voglia - destinati a scomparire. Di Berlusconi, quel giorno di sette anni fa, Gelli mi disse: «Berlusconi è un uomo fuori dal comune. Ricordo bene che già allora, ai tempi dei nostri primi incontri, aveva questa caratteristica: sapeva realizzare i suoi progetti. Un uomo del fare. Di questo c’è bisogno in Italia: non di parole, di azioni». Della corruzione, delle tangenti, degli appalti e delle cricche: «In fondo Mani pulite è stata solo una faccenda di corna. Lei crede che la corruzione sia scomparsa? Non vede che è ovunque, peggio di prima, molto più di prima?».
L’Unità, 23 maggio 2010
sabato 22 maggio 2010
Gli 007 delle stragi
di Lirio Abbate
Un uomo dei servizi assieme ai mafiosi nel garage dove veniva preparata la bomba contro Borsellino. Ecco la svolta nelle indagini sui massacri del '92
Uomini che avrebbero fatto parte degli apparati di sicurezza hanno avuto un ruolo nel 1992, accanto ai mafiosi, negli attentati in cui morirono Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e con loro i poliziotti delle scorte. Agenti 007 infedeli avrebbero preso parte alle fasi preparatorie dei progetti di morte con i quali i corleonesi di Totò Riina dichiaravano guerra allo Stato. È l'ultimo scenario inquietante che emerge dalle inchieste avviate dalla Procura di Caltanissetta sul ruolo di "soggetti" esterni a Cosa nostra nelle stragi che hanno cambiato la storia d'Italia. I pm hanno individuato e identificato gli uomini dell'intelligence che avrebbero affiancato i killer mafiosi. Fino a pochi anni fa la presenza di funzionari dei servizi dietro agli attentati di Capaci e via d'Amelio appariva come un'ipotesi investigativa tutta da provare mentre oggi questa incredibile connection potrebbe trasformarsi in realtà processuale. Il collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza, ricostruendo le fasi dell'attentato a Paolo Borsellino, svela ai pm di aver visto nel garage in cui venne sistemata la Fiat 126 da trasformare in autobomba, "un soggetto dell'età di circa 50 anni": un uomo che non conosceva, ma che era insieme ai mafiosi con i quali mostrava anche confidenza. Lo vide il giorno prima della strage, quando stavano riempiendo l'utilitaria di esplosivo. Adesso Spatuzza ha riconosciuto quell'uomo in un album di foto che i magistrati gli hanno mostrato. Il pentito lo ha indicato subito, senza alcuna esitazione. Un colpo di scena, perché si tratterebbe proprio di un agente dei servizi segreti che all'epoca svolgeva compiti operativi in Sicilia. L'immagine è stata riconosciuta da Massimo Ciancimino, che lo ha indicato come uno dei personaggi in contatto con don Vito Ciancimino. Lo stesso uomo dell'intelligence che frequentava l'ex sindaco mafioso di Palermo avrebbe dunque partecipato alla preparazione dell'autobomba di Borsellino.
Spatuzza ha descritto ai magistrati il gruppo di mafiosi che alla vigilia della strage di via d'Amelio si riunì assieme al misterioso cinquantenne mai visto prima: c'erano i boss Fifetto Cannella, Nino Mangano e poi Renzino Tinnirello e persino Ciccio Tagliavia che all'epoca era latitante. Tutti affiliati che facevano riferimento al capomafia di Brancaccio: Giuseppe Graviano, lo stesso che disse a Spatuzza "ci siamo messi il Paese nelle mani" grazie a Berlusconi e Dell'Utri che stavano per entrare in politica.
L'opera di qualche 007 deviato sbuca fuori anche nelle indagini per la strage di Capaci. Lo svela il collaboratore di giustizia Gioacchino La Barbera, il mafioso che venne incaricato dai corleonesi di compiere sopralluoghi per l'attentato lungo l'autostrada in modo da individuare il luogo più adatto per colpire il giudice Falcone. Il pentito ha riferito agli inquirenti che in quella attività preparatoria avrebbero partecipato soggetti "non presentati ritualmente" e pertanto, secondo gli inquirenti, "verosilmilmente estranei a Cosa nostra". L'ipotesi di una entità esterna che avrebbe affiancato le cosche nell'attentato di Capaci era stata sollevata nei mesi scorsi dal procuratore nazionale, Piero Grasso, davanti ai parlamentari della Commissione Antimafia presieduta da Giuseppe Pisanu. "Non c'è dubbio che la strage di Falcone e della sua scorta sia stata commessa da Cosa nostra. Rimane però l'intuizione, il sospetto, chiamiamolo come vogliamo, che ci sia qualche entità esterna che abbia potuto agevolare o nell'ideazione, nell'istigazione, o comunque possa aver dato un appoggio all'attività della mafia". Grasso lo scorso ottobre in Commissione antimafia aveva posto un quesito: perché si passò dall'ipotesi di colpire Falcone sparandogli mentre passeggiava per le vie di Roma a quella dell'attentato con 500 chili di esplosivo sull'autostrada a Capaci? Una scelta, quella dell'attentato devastante, che ha una modalità "chiaramente stragista ed eversiva". Il capo della procura nazionale ha chiesto di approfondire "chi ha indicato a Riina questa modalità con cui si uccise Falcone", perché "finché non si risponderà a questa domanda sarà difficile cominciare ad entrare nell'effettivo accertamento della verità che è dietro a questi fatti".
L'inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Caltanissetta, condotta dal procuratore Sergio Lari, dagli aggiunti Gozzo e Bertone e dai pm Marino e Luciani, vuole dare una risposta al quesito di Grasso, andando anche oltre. I pm nisseni - fra mille difficoltà che vanno dalla mancanza di magistrati a quella del personale giudiziario - puntano con grandi sacrifici anche ad un altro lato oscuro delle trame palermitane che affonda nel periodo della guerra di mafia degli anni Ottanta. Fino al fallito attentato a Giovanni Falcone nella villa sul mare dell'Addaura. Anche in questo contesto emerge il ruolo di apparati deviati dello Stato. E sbuca nelle indagini un ex poliziotto, riconosciuto per il volto coperto di bruciature: alcuni pentiti lo chiamano "il mostro". L'agente era in contatto con funzionari dell'Alto Commissariato antimafia dagli anni Ottanta fino al luglio 1992. Un poliziotto dalla faccia deturpata che avrebbe avuto un ruolo in alcuni omicidi e agguati. Si tratta di un uomo che fino alla fine degli anni Settanta è stato in servizio alla Squadra mobile di Palermo. Dopo essere stato identificato, su di lui sono in corso indagini per ricostruire quello che ha fatto nel periodo della mattanza, quando nel capoluogo siciliano venivano uccise centinaia di persone l'anno, compresi poliziotti e carabinieri. Secondo i collaboratori, il "mostro era un duro" con il vizio della cocaina e abitava a Palermo in una strada che si affaccia sul mare, nei pressi del Foro Italico. L'ex mafioso Vito Lo Forte lo chiamava il "bruciato", perché aveva il volto ustionato, ed ha spiegato che si muoveva con una moto Suzuki e un fuoristrada Range Rover. Ed aveva rapporti con Gaetano e Pietro Scotto, entrambi coinvolti nell'attentato a Borsellino. Per molte di queste indagini i magistrati hanno ottenuto la collaborazione degli attuali vertici dei servizi segreti civili e militari che hanno aperto gli archivi mettendo a disposizione i materiali decisivi per la svolta. Comprese le foto degli agenti - coperte da segreto di Stato - che per decenni hanno lavorato in Sicilia sotto copertura e che adesso sono state inoltrate ai pm nisseni: saranno mostrate a collaboratori e testimoni. E anche il Comitato parlamentare di controllo sull'intelligence (Copasir) vuole far chiarezza sul ruolo degli agenti deviati nella stagione di fuoco che ha segnato la fine della Repubblica. Per questo Gianni De Gennaro, direttore del Dis e responsabile dei nostri apparati di informazione, ha chiesto alla Procura di Caltanissetta di ricevere notizie sugli sviluppi dell'istruttoria, in modo da intervenire sugli agenti coinvolti che fossero ancora impegnati in compiti operativi.
(L’Espresso, 20 maggio 2010)
Un uomo dei servizi assieme ai mafiosi nel garage dove veniva preparata la bomba contro Borsellino. Ecco la svolta nelle indagini sui massacri del '92
Uomini che avrebbero fatto parte degli apparati di sicurezza hanno avuto un ruolo nel 1992, accanto ai mafiosi, negli attentati in cui morirono Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e con loro i poliziotti delle scorte. Agenti 007 infedeli avrebbero preso parte alle fasi preparatorie dei progetti di morte con i quali i corleonesi di Totò Riina dichiaravano guerra allo Stato. È l'ultimo scenario inquietante che emerge dalle inchieste avviate dalla Procura di Caltanissetta sul ruolo di "soggetti" esterni a Cosa nostra nelle stragi che hanno cambiato la storia d'Italia. I pm hanno individuato e identificato gli uomini dell'intelligence che avrebbero affiancato i killer mafiosi. Fino a pochi anni fa la presenza di funzionari dei servizi dietro agli attentati di Capaci e via d'Amelio appariva come un'ipotesi investigativa tutta da provare mentre oggi questa incredibile connection potrebbe trasformarsi in realtà processuale. Il collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza, ricostruendo le fasi dell'attentato a Paolo Borsellino, svela ai pm di aver visto nel garage in cui venne sistemata la Fiat 126 da trasformare in autobomba, "un soggetto dell'età di circa 50 anni": un uomo che non conosceva, ma che era insieme ai mafiosi con i quali mostrava anche confidenza. Lo vide il giorno prima della strage, quando stavano riempiendo l'utilitaria di esplosivo. Adesso Spatuzza ha riconosciuto quell'uomo in un album di foto che i magistrati gli hanno mostrato. Il pentito lo ha indicato subito, senza alcuna esitazione. Un colpo di scena, perché si tratterebbe proprio di un agente dei servizi segreti che all'epoca svolgeva compiti operativi in Sicilia. L'immagine è stata riconosciuta da Massimo Ciancimino, che lo ha indicato come uno dei personaggi in contatto con don Vito Ciancimino. Lo stesso uomo dell'intelligence che frequentava l'ex sindaco mafioso di Palermo avrebbe dunque partecipato alla preparazione dell'autobomba di Borsellino.
Spatuzza ha descritto ai magistrati il gruppo di mafiosi che alla vigilia della strage di via d'Amelio si riunì assieme al misterioso cinquantenne mai visto prima: c'erano i boss Fifetto Cannella, Nino Mangano e poi Renzino Tinnirello e persino Ciccio Tagliavia che all'epoca era latitante. Tutti affiliati che facevano riferimento al capomafia di Brancaccio: Giuseppe Graviano, lo stesso che disse a Spatuzza "ci siamo messi il Paese nelle mani" grazie a Berlusconi e Dell'Utri che stavano per entrare in politica.
L'opera di qualche 007 deviato sbuca fuori anche nelle indagini per la strage di Capaci. Lo svela il collaboratore di giustizia Gioacchino La Barbera, il mafioso che venne incaricato dai corleonesi di compiere sopralluoghi per l'attentato lungo l'autostrada in modo da individuare il luogo più adatto per colpire il giudice Falcone. Il pentito ha riferito agli inquirenti che in quella attività preparatoria avrebbero partecipato soggetti "non presentati ritualmente" e pertanto, secondo gli inquirenti, "verosilmilmente estranei a Cosa nostra". L'ipotesi di una entità esterna che avrebbe affiancato le cosche nell'attentato di Capaci era stata sollevata nei mesi scorsi dal procuratore nazionale, Piero Grasso, davanti ai parlamentari della Commissione Antimafia presieduta da Giuseppe Pisanu. "Non c'è dubbio che la strage di Falcone e della sua scorta sia stata commessa da Cosa nostra. Rimane però l'intuizione, il sospetto, chiamiamolo come vogliamo, che ci sia qualche entità esterna che abbia potuto agevolare o nell'ideazione, nell'istigazione, o comunque possa aver dato un appoggio all'attività della mafia". Grasso lo scorso ottobre in Commissione antimafia aveva posto un quesito: perché si passò dall'ipotesi di colpire Falcone sparandogli mentre passeggiava per le vie di Roma a quella dell'attentato con 500 chili di esplosivo sull'autostrada a Capaci? Una scelta, quella dell'attentato devastante, che ha una modalità "chiaramente stragista ed eversiva". Il capo della procura nazionale ha chiesto di approfondire "chi ha indicato a Riina questa modalità con cui si uccise Falcone", perché "finché non si risponderà a questa domanda sarà difficile cominciare ad entrare nell'effettivo accertamento della verità che è dietro a questi fatti".
L'inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Caltanissetta, condotta dal procuratore Sergio Lari, dagli aggiunti Gozzo e Bertone e dai pm Marino e Luciani, vuole dare una risposta al quesito di Grasso, andando anche oltre. I pm nisseni - fra mille difficoltà che vanno dalla mancanza di magistrati a quella del personale giudiziario - puntano con grandi sacrifici anche ad un altro lato oscuro delle trame palermitane che affonda nel periodo della guerra di mafia degli anni Ottanta. Fino al fallito attentato a Giovanni Falcone nella villa sul mare dell'Addaura. Anche in questo contesto emerge il ruolo di apparati deviati dello Stato. E sbuca nelle indagini un ex poliziotto, riconosciuto per il volto coperto di bruciature: alcuni pentiti lo chiamano "il mostro". L'agente era in contatto con funzionari dell'Alto Commissariato antimafia dagli anni Ottanta fino al luglio 1992. Un poliziotto dalla faccia deturpata che avrebbe avuto un ruolo in alcuni omicidi e agguati. Si tratta di un uomo che fino alla fine degli anni Settanta è stato in servizio alla Squadra mobile di Palermo. Dopo essere stato identificato, su di lui sono in corso indagini per ricostruire quello che ha fatto nel periodo della mattanza, quando nel capoluogo siciliano venivano uccise centinaia di persone l'anno, compresi poliziotti e carabinieri. Secondo i collaboratori, il "mostro era un duro" con il vizio della cocaina e abitava a Palermo in una strada che si affaccia sul mare, nei pressi del Foro Italico. L'ex mafioso Vito Lo Forte lo chiamava il "bruciato", perché aveva il volto ustionato, ed ha spiegato che si muoveva con una moto Suzuki e un fuoristrada Range Rover. Ed aveva rapporti con Gaetano e Pietro Scotto, entrambi coinvolti nell'attentato a Borsellino. Per molte di queste indagini i magistrati hanno ottenuto la collaborazione degli attuali vertici dei servizi segreti civili e militari che hanno aperto gli archivi mettendo a disposizione i materiali decisivi per la svolta. Comprese le foto degli agenti - coperte da segreto di Stato - che per decenni hanno lavorato in Sicilia sotto copertura e che adesso sono state inoltrate ai pm nisseni: saranno mostrate a collaboratori e testimoni. E anche il Comitato parlamentare di controllo sull'intelligence (Copasir) vuole far chiarezza sul ruolo degli agenti deviati nella stagione di fuoco che ha segnato la fine della Repubblica. Per questo Gianni De Gennaro, direttore del Dis e responsabile dei nostri apparati di informazione, ha chiesto alla Procura di Caltanissetta di ricevere notizie sugli sviluppi dell'istruttoria, in modo da intervenire sugli agenti coinvolti che fossero ancora impegnati in compiti operativi.
(L’Espresso, 20 maggio 2010)
Umberto Santino: "Ecco perchè il Centro Impastato non parteciperà alle manifestazioni per ricordare la strage di Capaci"
Il Centro Impastato non parteciperà alle iniziative che si terranno il 23 maggio in ricordo della strage in cui sono morti i magistrati Giovanni Falcone e Francesca Morvillo e gli agenti di scorta Rocco Di Cillo, Antonino Montinaro e Vito Schifani, perché ritiene offensiva per la loro memoria la passerella a cui prenderanno parte i ministri Gelmini, Maroni e Alfano, rappresentanti di un governo che è fuori dalla legalità costituzionale, con il continuo ricorso da parte del suo capo alle leggi ad personam per sottrarsi alla giustizia.
Il “patto per la legalità” di cui parla il programma della giornata organizzata dalla Fondazione Giovanni e Francesca Falcone con la sponsorizzazione del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, retto da una signora senza arte né parte, premiata solo per la sua devozione al ducetto di Arcore, si rispetta solo e unicamente se si rispettano i principi fondamentali della Costituzione repubblicana, quotidianamente calpestata dal governo e dal suo capo. Qualsiasi dichiarazione di buone intenzioni è solo vuota retorica se viene da personaggi complici di un presidente del Consiglio che ogni giorno denigra e offende la magistratura e copre le malefatte intollerabili della “cricca” di speculatori di professione che si è creata attorno a lui.
Per Berlusconi e Dell’Utri un capomafia condannato all’ergastolo come Vittorio Mangano è un “eroe” perché ha taciuto sul suo ruolo presso la villa di Arcore. Questo è l’elogio più spudorato dell’omertà mafiosa che sia mai venuto da uomini di potere.
Spiace che a fare da coro ai ministri ci siano magistrati impegnati nella lotta contro la mafia e ad ascoltarli e applaudirli ci siano tanti giovani che dovrebbero capire che questo governo è il più favorevole all’affermazione del modello mafioso dall’Unità d’Italia a oggi, perché della mafia condivide interessi e codici culturali, considerando l’illegalità sistematica una risorsa e l’impunità conseguita con tutti i mezzi uno status symbol.
Il ministro Maroni, esponente di un partito esplicitamente razzista come la Lega Nord, si vanta dei successi ottenuti con l’arresto di capimafia e gregari. Questi successi sono dovuti unicamente a uomini delle forze dell’ordine e della magistratura, che compiono quotidianamente il loro dovere, nonostante la povertà dei mezzi sempre più ridotti per colpa del ministero e del governo, e nonostante le politiche filomafiose che stanno raggiungendo la massima espressione con la limitazione drastica di uno strumento indispensabile come le intercettazioni telefoniche e il bavaglio a quel che rimane di un’informazione non asservita.
L’anno scorso abbiamo dovuto assistere allo spettacolo penoso del sequestro dello striscione dei Cobas con la scritta “La mafia ringrazia lo Stato per la distruzione della scuola pubblica”. Chi scrive ha assistito a questo spettacolo e chiamato dal magistrato come persona informata dei fatti ha dichiarato che a volere il sequestro sono stati i responsabili della Fondazione Falcone, la cui segretaria ha visto fare la spola dal palco agli uomini della Digos. La ragione di tanto accanimento: non dispiacere alla signorina Gelmini, star della passerella già lo scorso anno e principale responsabile, su ordine del suo datore di lavoro, dello sfascio della scuola pubblica, uno dei pochi presidi ancora in piedi di una società democratica.
Con questo tipi di antimafia, supersponsorizzata con i soliti metodi personalistici e clientelari, vuotamente spettacolare e predicatoria, succube di un governo antidemocratico, non abbiamo nulla da spartire e ci auguriamo che quanti partecipano alle manifestazioni in buona fede si rendano conto che per onorare degnamente i caduti nella lotta contro la mafia bisogna fare un patto per la legalità democratica, con un principio fondamentale: la coerenza tra le cose che si dicono e quelle che si fanno.
Umberto Santino
Presidente del Centro Impastato
Il “patto per la legalità” di cui parla il programma della giornata organizzata dalla Fondazione Giovanni e Francesca Falcone con la sponsorizzazione del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, retto da una signora senza arte né parte, premiata solo per la sua devozione al ducetto di Arcore, si rispetta solo e unicamente se si rispettano i principi fondamentali della Costituzione repubblicana, quotidianamente calpestata dal governo e dal suo capo. Qualsiasi dichiarazione di buone intenzioni è solo vuota retorica se viene da personaggi complici di un presidente del Consiglio che ogni giorno denigra e offende la magistratura e copre le malefatte intollerabili della “cricca” di speculatori di professione che si è creata attorno a lui.
Per Berlusconi e Dell’Utri un capomafia condannato all’ergastolo come Vittorio Mangano è un “eroe” perché ha taciuto sul suo ruolo presso la villa di Arcore. Questo è l’elogio più spudorato dell’omertà mafiosa che sia mai venuto da uomini di potere.
Spiace che a fare da coro ai ministri ci siano magistrati impegnati nella lotta contro la mafia e ad ascoltarli e applaudirli ci siano tanti giovani che dovrebbero capire che questo governo è il più favorevole all’affermazione del modello mafioso dall’Unità d’Italia a oggi, perché della mafia condivide interessi e codici culturali, considerando l’illegalità sistematica una risorsa e l’impunità conseguita con tutti i mezzi uno status symbol.
Il ministro Maroni, esponente di un partito esplicitamente razzista come la Lega Nord, si vanta dei successi ottenuti con l’arresto di capimafia e gregari. Questi successi sono dovuti unicamente a uomini delle forze dell’ordine e della magistratura, che compiono quotidianamente il loro dovere, nonostante la povertà dei mezzi sempre più ridotti per colpa del ministero e del governo, e nonostante le politiche filomafiose che stanno raggiungendo la massima espressione con la limitazione drastica di uno strumento indispensabile come le intercettazioni telefoniche e il bavaglio a quel che rimane di un’informazione non asservita.
L’anno scorso abbiamo dovuto assistere allo spettacolo penoso del sequestro dello striscione dei Cobas con la scritta “La mafia ringrazia lo Stato per la distruzione della scuola pubblica”. Chi scrive ha assistito a questo spettacolo e chiamato dal magistrato come persona informata dei fatti ha dichiarato che a volere il sequestro sono stati i responsabili della Fondazione Falcone, la cui segretaria ha visto fare la spola dal palco agli uomini della Digos. La ragione di tanto accanimento: non dispiacere alla signorina Gelmini, star della passerella già lo scorso anno e principale responsabile, su ordine del suo datore di lavoro, dello sfascio della scuola pubblica, uno dei pochi presidi ancora in piedi di una società democratica.
Con questo tipi di antimafia, supersponsorizzata con i soliti metodi personalistici e clientelari, vuotamente spettacolare e predicatoria, succube di un governo antidemocratico, non abbiamo nulla da spartire e ci auguriamo che quanti partecipano alle manifestazioni in buona fede si rendano conto che per onorare degnamente i caduti nella lotta contro la mafia bisogna fare un patto per la legalità democratica, con un principio fondamentale: la coerenza tra le cose che si dicono e quelle che si fanno.
Umberto Santino
Presidente del Centro Impastato
Manfredi Borsellino: "La mia vita tra due stragi. A Capaci morì anche mio padre"
Domani si celebra l'anniversario della strage: il figlio di Paolo Borsellino ricorda in un libro il terribile presagio che piombò nella sua famiglia. "Ho iniziato a piangere la sua scomparsa con lui accanto mentre vegliavamo la salma di Falcone nella camera ardente"
di MANFREDI BORSELLINO
Il primo pomeriggio di quel 23 maggio studiavo a casa dei miei genitori, preparavo l'esame di diritto commerciale, ero esattamente allo "zenit" del mio percorso universitario. Mio padre era andato, da solo e a piedi, eludendo come solo lui sapeva fare i ragazzi della scorta, dal barbiere Paolo Biondo, nella via Zandonai, dove nel bel mezzo del "taglio" fu raggiunto dalla telefonata di un collega che gli comunicava dell'attentato a Giovanni Falcone lungo l'autostrada Palermo-Punta Raisi. Ricordo bene che mio padre, ancora con tracce di schiuma da barba sul viso, avendo dimenticato le chiavi di casa bussò alla porta mentre io ero già pietrificato innanzi la televisione che in diretta trasmetteva le prime notizie sull'accaduto. Aprii la porta ad un uomo sconvolto, non ebbi il coraggio di chiedergli nulla né lui proferì parola. Si cambiò e raccomandandomi di non allontanarmi da casa si precipitò, non ricordo se accompagnato da qualcuno o guidando lui stesso la macchina di servizio, nell'ospedale dove prima Giovanni Falcone, poi Francesca Morvillo, gli sarebbero spirati tra le braccia.
Quel giorno per me e per tutta la mia famiglia segnò un momento di non ritornoEra l'inizio della fine di nostro padre che poco a poco, giorno dopo giorno, fino a quel tragico 19 luglio, salvo rari momenti, non sarebbe stato più lo stesso, quell'uomo dissacrante e sempre pronto a non prendersi sul serio che tutti conoscevamo.
Ho iniziato a piangere la morte di mio padre con lui accanto mentre vegliavamo la salma di Falcone nella camera ardente allestita all'interno del Palazzo di Giustizia. Non potrò mai dimenticare che quel giorno piangevo la scomparsa di un collega ed amico fraterno di mio padre ma in realtà è come se con largo anticipo stessi già piangendo la sua. Dal 23 maggio al 19 luglio divennero assai ricorrenti i sogni di attentati e scene di guerra nella mia città ma la mattina rimuovevo tutto, come se questi incubi non mi riguardassero e soprattutto non riguardassero mio padre, che invece nel mio subconscio era la vittima.
Dopo la strage di Capaci, eccetto che nei giorni immediatamente successivi, proseguii i miei studi, sostenendo gli esami di diritto commerciale, scienze delle finanze, diritto tributario e diritto privato dell'economia. In mio padre avvertivo un graduale distacco, lo stesso che avrebbero percepito le mie sorelle, ma lo attribuivo (e giustificavo) al carico di lavoro e di preoccupazioni che lo assalivano in quei giorni. Solo dopo la sua morte seppi da padre Cesare Rattoballi che era un distacco voluto, calcolato, perché gradualmente, e quindi senza particolari traumi, noi figli ci abituassimo alla sua assenza e ci trovassimo un giorno in qualche modo "preparati" qualora a lui fosse toccato lo stesso destino dell'amico e collega Giovanni.
La mattina del 19 luglio, complice il fatto che si trattava di una domenica ed ero oramai libero da impegni universitari, mi alzai abbastanza tardi, perlomeno rispetto all'orario in cui solitamente si alzava mio padre che amava dire che si alzava ogni giorno (compresa la domenica) alle 5 del mattino per "fottere" il mondo con due ore di anticipo. In quei giorni di luglio erano nostri ospiti, come d'altra parte ogni estate, dei nostri zii con la loro unica figlia, Silvia, ed era proprio con lei che mio padre di buon mattino ci aveva anticipati nel recarsi a Villagrazia di Carini dove si trova la residenza estiva dei miei nonni materni e dove, nella villa accanto alla nostra, ci aveva invitati a pranzo il professore "Pippo" Tricoli, titolare della cattedra di Storia contemporanea dell'Università di Palermo e storico esponente dell'Msi siciliano, un uomo di grande spessore culturale ed umano con la cui famiglia condividevamo ogni anno spensierate stagioni estive.
Mio padre, in verità, tentò di scuotermi dalla mia "loffia" domenicale tradendo un certo desiderio di "fare strada" insieme, ma non ci riuscì. L'avremmo raggiunto successivamente insieme agli zii ed a mia madre. Mia sorella Lucia sarebbe stata impegnata tutto il giorno a ripassare una materia universitaria di cui avrebbe dovuto sostenere il relativo esame il giorno successivo (cosa che fece!) a casa di una sua collega, mentre Fiammetta, come è noto, era in Thailandia con amici di famiglia e sarebbe rientrata in Italia solo tre giorni dopo la morte di suo padre. Non era la prima estate che, per ragioni di sicurezza, rinunciavamo alle vacanze al mare; ve ne erano state altre come quella dell'85, quando dopo gli assassini di Montana e Cassarà eravamo stati "deportati" all'Asinara, o quella dell'anno precedente, nel corso della quale mio padre era stato destinatario di pesanti minacce di morte da parte di talune famiglie mafiose del trapanese.
Ma quella era un'estate particolare, rispetto alle precedenti mio padre ci disse che non era più nelle condizioni di sottrarsi all'apparato di sicurezza cui, soprattutto dolo la morte di Falcone, lo avevano sottoposto, e di riflesso non avrebbe potuto garantire a noi figli ed a mia madre quella libertà di movimento che negli anni precedenti era riuscito ad assicurarci.
Così quell'estate la villa dei nonni materni, nella quale avevamo trascorso sin dalla nostra nascita forse i momenti più belli e spensierati, era rimasta chiusa. Troppo "esposta" per la sua adiacenza all'autostrada per rendere possibile un'adeguata protezione di chi vi dimorava.
Ricordo una bellissima giornata, quando arrivai mio padre si era appena allontanato con la barchetta di un suo amico per quello che sarebbe stato l'ultimo bagno nel "suo" mare e non posso dimenticare i ragazzi della sua scorta, gli stessi di via D'Amelio, sulla spiaggia a seguire mio padre con lo sguardo e a godersi quel sole e quel mare. Anche il pranzo in casa Tricoli fu un momento piacevole per tutti, era un tipico pranzo palermitano a base di panelle, crocché, arancine e quanto di più pesante la cucina siciliana possa contemplare, insomma per stomaci forti. Ricordo che in Tv vi erano le immagini del Tour de France ma mio padre, sebbene fosse un grande appassionato di ciclismo, dopo il pranzo, nel corso del quale non si era risparmiato nel "tenere comizio" come suo solito, decise di appisolarsi in una camera della nostra villa. In realtà non dormì nemmeno un minuto, trovammo sul portacenere accanto al letto un cumulo di cicche di sigarette che lasciava poco spazio all'immaginazione.
Dopo quello che fu tutto fuorché un riposo pomeridiano mio padre raccolse i suoi effetti, compreso il costume da bagno (restituitoci ancora bagnato dopo l'eccidio) e l'agenda rossa della quale tanto si sarebbe parlato negli anni successivi, e dopo avere salutato tutti si diresse verso la sua macchina parcheggiata sul piazzale limitrofo le ville insieme a quelle della scorta. Mia madre lo salutò sull'uscio della villa del professore Tricoli, io l'accompagnai portandogli la borsa sino alla macchina, sapevo che aveva l'appuntamento con mia nonna per portarla dal cardiologo per cui non ebbi bisogno di chiedergli nulla. Mi sorrise, gli sorrisi, sicuri entrambi che di lì a poche ore ci saremmo ritrovati a casa a Palermo con gli zii. Ho realizzato che mio padre non c'era più mentre quel pomeriggio giocavo a ping pong e vidi passarmi accanto il volto funereo di mia cugina Silvia, aveva appena appreso dell'attentato dalla radio. Non so perché ma prima di decidere il da farsi io e mia madre ci preoccupammo di chiudere la villa. Quindi, mentre affidavo mia madre ai miei zii ed ai Tricoli, sono salito sulla moto di un amico d'infanzia che villeggia lì vicino ed a grande velocità ci recammo in via D'Amelio.
Non vidi mio padre, o meglio i suoi "resti", perché quando giunsi in via D'Amelio fui riconosciuto dall'allora presidente della Corte d'Appello, il dottor Carmelo Conti, che volle condurmi presso il centro di Medicina legale dove poco dopo fui raggiunto da mia madre e dalla mia nonna paterna.
Seppi successivamente che mia sorella Lucia non solo volle vedere ciò che era rimasto di mio padre, ma lo volle anche ricomporre e vestire all'interno della camera mortuaria. Mia sorella Lucia, la stessa che poche ore dopo la morte del padre avrebbe sostenuto un esame universitario lasciando incredula la commissione, ci riferì che nostro padre è morto sorridendo, sotto i suoi baffi affumicati dalla fuliggine dell'esplosione ha intravisto il suo solito ghigno, il suo sorriso di sempre; a differenza di quello che si può pensare mia sorella ha tratto una grande forza da quell'ultima immagine del padre, è come se si fossero voluti salutare un'ultima volta.
La mia vita, come d'altra parte quella delle mie sorelle e di mia madre, è certamente cambiata dopo quel 19 luglio, siamo cresciuti tutti molto in fretta ed abbiamo capito, da subito, che dovevamo sottrarci senza "se" e senza "ma" a qualsivoglia sollecitazione ci pervenisse dal mondo esterno e da quello mediatico in particolare. Sapevamo che mio padre non avrebbe gradito che noi ci trasformassimo in "familiari superstiti di una vittima della mafia", che noi vivessimo come figli o moglie di ....., desiderava che noi proseguissimo i nostri studi, ci realizzassimo nel lavoro e nella vita, e gli dessimo quei nipoti che lui tanto desiderava. A me in particolare mi chiedeva "Paolino" sin da quando avevo le prime fidanzate, non oso immaginare la sua gioia se fosse stato con noi il 20 dicembre 2007, quando è nato Paolo Borsellino, il suo primo e, per il momento, unico nipote maschio.
Oggi vorrei dire a mio padre che la nostra vita è sì cambiata dopo che ci ha lasciati ma non nel senso che lui temeva: siamo rimasti gli stessi che eravamo e che lui ben conosceva, abbiamo percorso le nostre strade senza "farci largo" con il nostro cognome, divenuto "pesante" in tutti i sensi, abbiamo costruito le nostre famiglie cui sono rivolte la maggior parte delle nostre attenzioni come lui ci ha insegnato, non ci siamo "montati la testa", rischio purtroppo ricorrente quando si ha la fortuna e l'onore di avere un padre come lui, insomma siamo rimasti con i piedi per terra. E vorrei anche dirgli che la mamma dopo essere stata il suo principale sostegno è stata in questi lunghi anni la nostra forza, senza di lei tutto sarebbe stato più difficile e molto probabilmente nessuno di noi tre ce l'avrebbe fatta. Mi piace pensare che oggi sono quello che sono, ovverosia un dirigente di polizia appassionato del suo lavoro che nel suo piccolo serve lo Stato ed i propri concittadini come, in una dimensione ben più grande ed importante, faceva suo padre, indipendentemente dall'evento drammatico che mi sono trovato a vivere.
D'altra parte è certo quello che non sarei mai voluto diventare dopo la morte di mio padre, ovverosia una persona che in un modo o nell'altro avrebbe "sfruttato" questo rapporto di sangue, avrebbe "cavalcato" l'evento traendone vantaggi personali non dovuti, avrebbe ricoperto cariche o assunto incarichi in quanto figlio di .... o perché di cognome fa Borsellino. (...) Ai miei figli, ancora troppo piccoli perché possa iniziare a parlargli del nonno, vorrei farglielo conoscere proprio tramite i suoi insegnamenti, raccontandogli piccoli ma significativi episodi tramite i quali trasmettergli i valori portanti della sua vita. Caro papà, ogni sera prima di addormentarci ti ringraziamo per il dono più grande, il modo in cui ci hai insegnato a vivere.
Il testo di Manfredi Borsellino è ospitato nel volume "Era d'estate" edito da Pietro Vittorietti
di MANFREDI BORSELLINO
Il primo pomeriggio di quel 23 maggio studiavo a casa dei miei genitori, preparavo l'esame di diritto commerciale, ero esattamente allo "zenit" del mio percorso universitario. Mio padre era andato, da solo e a piedi, eludendo come solo lui sapeva fare i ragazzi della scorta, dal barbiere Paolo Biondo, nella via Zandonai, dove nel bel mezzo del "taglio" fu raggiunto dalla telefonata di un collega che gli comunicava dell'attentato a Giovanni Falcone lungo l'autostrada Palermo-Punta Raisi. Ricordo bene che mio padre, ancora con tracce di schiuma da barba sul viso, avendo dimenticato le chiavi di casa bussò alla porta mentre io ero già pietrificato innanzi la televisione che in diretta trasmetteva le prime notizie sull'accaduto. Aprii la porta ad un uomo sconvolto, non ebbi il coraggio di chiedergli nulla né lui proferì parola. Si cambiò e raccomandandomi di non allontanarmi da casa si precipitò, non ricordo se accompagnato da qualcuno o guidando lui stesso la macchina di servizio, nell'ospedale dove prima Giovanni Falcone, poi Francesca Morvillo, gli sarebbero spirati tra le braccia.
Quel giorno per me e per tutta la mia famiglia segnò un momento di non ritornoEra l'inizio della fine di nostro padre che poco a poco, giorno dopo giorno, fino a quel tragico 19 luglio, salvo rari momenti, non sarebbe stato più lo stesso, quell'uomo dissacrante e sempre pronto a non prendersi sul serio che tutti conoscevamo.
Ho iniziato a piangere la morte di mio padre con lui accanto mentre vegliavamo la salma di Falcone nella camera ardente allestita all'interno del Palazzo di Giustizia. Non potrò mai dimenticare che quel giorno piangevo la scomparsa di un collega ed amico fraterno di mio padre ma in realtà è come se con largo anticipo stessi già piangendo la sua. Dal 23 maggio al 19 luglio divennero assai ricorrenti i sogni di attentati e scene di guerra nella mia città ma la mattina rimuovevo tutto, come se questi incubi non mi riguardassero e soprattutto non riguardassero mio padre, che invece nel mio subconscio era la vittima.
Dopo la strage di Capaci, eccetto che nei giorni immediatamente successivi, proseguii i miei studi, sostenendo gli esami di diritto commerciale, scienze delle finanze, diritto tributario e diritto privato dell'economia. In mio padre avvertivo un graduale distacco, lo stesso che avrebbero percepito le mie sorelle, ma lo attribuivo (e giustificavo) al carico di lavoro e di preoccupazioni che lo assalivano in quei giorni. Solo dopo la sua morte seppi da padre Cesare Rattoballi che era un distacco voluto, calcolato, perché gradualmente, e quindi senza particolari traumi, noi figli ci abituassimo alla sua assenza e ci trovassimo un giorno in qualche modo "preparati" qualora a lui fosse toccato lo stesso destino dell'amico e collega Giovanni.
La mattina del 19 luglio, complice il fatto che si trattava di una domenica ed ero oramai libero da impegni universitari, mi alzai abbastanza tardi, perlomeno rispetto all'orario in cui solitamente si alzava mio padre che amava dire che si alzava ogni giorno (compresa la domenica) alle 5 del mattino per "fottere" il mondo con due ore di anticipo. In quei giorni di luglio erano nostri ospiti, come d'altra parte ogni estate, dei nostri zii con la loro unica figlia, Silvia, ed era proprio con lei che mio padre di buon mattino ci aveva anticipati nel recarsi a Villagrazia di Carini dove si trova la residenza estiva dei miei nonni materni e dove, nella villa accanto alla nostra, ci aveva invitati a pranzo il professore "Pippo" Tricoli, titolare della cattedra di Storia contemporanea dell'Università di Palermo e storico esponente dell'Msi siciliano, un uomo di grande spessore culturale ed umano con la cui famiglia condividevamo ogni anno spensierate stagioni estive.
Mio padre, in verità, tentò di scuotermi dalla mia "loffia" domenicale tradendo un certo desiderio di "fare strada" insieme, ma non ci riuscì. L'avremmo raggiunto successivamente insieme agli zii ed a mia madre. Mia sorella Lucia sarebbe stata impegnata tutto il giorno a ripassare una materia universitaria di cui avrebbe dovuto sostenere il relativo esame il giorno successivo (cosa che fece!) a casa di una sua collega, mentre Fiammetta, come è noto, era in Thailandia con amici di famiglia e sarebbe rientrata in Italia solo tre giorni dopo la morte di suo padre. Non era la prima estate che, per ragioni di sicurezza, rinunciavamo alle vacanze al mare; ve ne erano state altre come quella dell'85, quando dopo gli assassini di Montana e Cassarà eravamo stati "deportati" all'Asinara, o quella dell'anno precedente, nel corso della quale mio padre era stato destinatario di pesanti minacce di morte da parte di talune famiglie mafiose del trapanese.
Ma quella era un'estate particolare, rispetto alle precedenti mio padre ci disse che non era più nelle condizioni di sottrarsi all'apparato di sicurezza cui, soprattutto dolo la morte di Falcone, lo avevano sottoposto, e di riflesso non avrebbe potuto garantire a noi figli ed a mia madre quella libertà di movimento che negli anni precedenti era riuscito ad assicurarci.
Così quell'estate la villa dei nonni materni, nella quale avevamo trascorso sin dalla nostra nascita forse i momenti più belli e spensierati, era rimasta chiusa. Troppo "esposta" per la sua adiacenza all'autostrada per rendere possibile un'adeguata protezione di chi vi dimorava.
Ricordo una bellissima giornata, quando arrivai mio padre si era appena allontanato con la barchetta di un suo amico per quello che sarebbe stato l'ultimo bagno nel "suo" mare e non posso dimenticare i ragazzi della sua scorta, gli stessi di via D'Amelio, sulla spiaggia a seguire mio padre con lo sguardo e a godersi quel sole e quel mare. Anche il pranzo in casa Tricoli fu un momento piacevole per tutti, era un tipico pranzo palermitano a base di panelle, crocché, arancine e quanto di più pesante la cucina siciliana possa contemplare, insomma per stomaci forti. Ricordo che in Tv vi erano le immagini del Tour de France ma mio padre, sebbene fosse un grande appassionato di ciclismo, dopo il pranzo, nel corso del quale non si era risparmiato nel "tenere comizio" come suo solito, decise di appisolarsi in una camera della nostra villa. In realtà non dormì nemmeno un minuto, trovammo sul portacenere accanto al letto un cumulo di cicche di sigarette che lasciava poco spazio all'immaginazione.
Dopo quello che fu tutto fuorché un riposo pomeridiano mio padre raccolse i suoi effetti, compreso il costume da bagno (restituitoci ancora bagnato dopo l'eccidio) e l'agenda rossa della quale tanto si sarebbe parlato negli anni successivi, e dopo avere salutato tutti si diresse verso la sua macchina parcheggiata sul piazzale limitrofo le ville insieme a quelle della scorta. Mia madre lo salutò sull'uscio della villa del professore Tricoli, io l'accompagnai portandogli la borsa sino alla macchina, sapevo che aveva l'appuntamento con mia nonna per portarla dal cardiologo per cui non ebbi bisogno di chiedergli nulla. Mi sorrise, gli sorrisi, sicuri entrambi che di lì a poche ore ci saremmo ritrovati a casa a Palermo con gli zii. Ho realizzato che mio padre non c'era più mentre quel pomeriggio giocavo a ping pong e vidi passarmi accanto il volto funereo di mia cugina Silvia, aveva appena appreso dell'attentato dalla radio. Non so perché ma prima di decidere il da farsi io e mia madre ci preoccupammo di chiudere la villa. Quindi, mentre affidavo mia madre ai miei zii ed ai Tricoli, sono salito sulla moto di un amico d'infanzia che villeggia lì vicino ed a grande velocità ci recammo in via D'Amelio.
Non vidi mio padre, o meglio i suoi "resti", perché quando giunsi in via D'Amelio fui riconosciuto dall'allora presidente della Corte d'Appello, il dottor Carmelo Conti, che volle condurmi presso il centro di Medicina legale dove poco dopo fui raggiunto da mia madre e dalla mia nonna paterna.
Seppi successivamente che mia sorella Lucia non solo volle vedere ciò che era rimasto di mio padre, ma lo volle anche ricomporre e vestire all'interno della camera mortuaria. Mia sorella Lucia, la stessa che poche ore dopo la morte del padre avrebbe sostenuto un esame universitario lasciando incredula la commissione, ci riferì che nostro padre è morto sorridendo, sotto i suoi baffi affumicati dalla fuliggine dell'esplosione ha intravisto il suo solito ghigno, il suo sorriso di sempre; a differenza di quello che si può pensare mia sorella ha tratto una grande forza da quell'ultima immagine del padre, è come se si fossero voluti salutare un'ultima volta.
La mia vita, come d'altra parte quella delle mie sorelle e di mia madre, è certamente cambiata dopo quel 19 luglio, siamo cresciuti tutti molto in fretta ed abbiamo capito, da subito, che dovevamo sottrarci senza "se" e senza "ma" a qualsivoglia sollecitazione ci pervenisse dal mondo esterno e da quello mediatico in particolare. Sapevamo che mio padre non avrebbe gradito che noi ci trasformassimo in "familiari superstiti di una vittima della mafia", che noi vivessimo come figli o moglie di ....., desiderava che noi proseguissimo i nostri studi, ci realizzassimo nel lavoro e nella vita, e gli dessimo quei nipoti che lui tanto desiderava. A me in particolare mi chiedeva "Paolino" sin da quando avevo le prime fidanzate, non oso immaginare la sua gioia se fosse stato con noi il 20 dicembre 2007, quando è nato Paolo Borsellino, il suo primo e, per il momento, unico nipote maschio.
Oggi vorrei dire a mio padre che la nostra vita è sì cambiata dopo che ci ha lasciati ma non nel senso che lui temeva: siamo rimasti gli stessi che eravamo e che lui ben conosceva, abbiamo percorso le nostre strade senza "farci largo" con il nostro cognome, divenuto "pesante" in tutti i sensi, abbiamo costruito le nostre famiglie cui sono rivolte la maggior parte delle nostre attenzioni come lui ci ha insegnato, non ci siamo "montati la testa", rischio purtroppo ricorrente quando si ha la fortuna e l'onore di avere un padre come lui, insomma siamo rimasti con i piedi per terra. E vorrei anche dirgli che la mamma dopo essere stata il suo principale sostegno è stata in questi lunghi anni la nostra forza, senza di lei tutto sarebbe stato più difficile e molto probabilmente nessuno di noi tre ce l'avrebbe fatta. Mi piace pensare che oggi sono quello che sono, ovverosia un dirigente di polizia appassionato del suo lavoro che nel suo piccolo serve lo Stato ed i propri concittadini come, in una dimensione ben più grande ed importante, faceva suo padre, indipendentemente dall'evento drammatico che mi sono trovato a vivere.
D'altra parte è certo quello che non sarei mai voluto diventare dopo la morte di mio padre, ovverosia una persona che in un modo o nell'altro avrebbe "sfruttato" questo rapporto di sangue, avrebbe "cavalcato" l'evento traendone vantaggi personali non dovuti, avrebbe ricoperto cariche o assunto incarichi in quanto figlio di .... o perché di cognome fa Borsellino. (...) Ai miei figli, ancora troppo piccoli perché possa iniziare a parlargli del nonno, vorrei farglielo conoscere proprio tramite i suoi insegnamenti, raccontandogli piccoli ma significativi episodi tramite i quali trasmettergli i valori portanti della sua vita. Caro papà, ogni sera prima di addormentarci ti ringraziamo per il dono più grande, il modo in cui ci hai insegnato a vivere.
Il testo di Manfredi Borsellino è ospitato nel volume "Era d'estate" edito da Pietro Vittorietti
domenica 16 maggio 2010
Intervista all'assessore di Prizzi, Nino Greco. "Quando si è in gioco, si deve mettere in conto qualche attacco diretto..."
D. Assessore Greco, che sta succedendo a Prizzi? Sentiamo di manifesti, tensioni, fibrillazioni ...
R. Normale dialettica politica, magari di basso profilo, ma da annoverare nel normale confronto tra chi amministra e chi sta all’opposizione.
D. Ma lei è stato chiamato direttamente in causa ...
R. Si, ma non è di questo che vorrei parlare, se mi permette. Preferirei parlare di politica, di futuro, di prospettive del nostro territorio. Sa, quando ci si mette in gioco si deve mettere in conto qualche attacco diretto. Più si lavora, più si acquista visibilità e più si scatena la gelosia di chi è frustrato per la propria marginalità, specialmente quando cominciano a venir fuori i risultati. Credo che l’opposizione di Prizzi, col manifesto che lei citava, abbia toccato il fondo, che abbia fatto un altro autogol. La gente sa cosa hanno fatto quando amministravano e sa pure che l’indennità dell’amministratore non è un ammortizzatore sociale, come forse qualche signor 50% crede, sa anche, la gente, che è un problema di qualità, di impegno, di serietà e di correttezza. Ma, ripeto, replicherò in altra sede. Ora vorrei parlare di politica.
D. Mi dica allora del vostro progetto politico, delle differenze con quello di altri, se ce ne sono ...
R. Guardi, io ho un mio modello di Comune e di comunità che probabilmente sarà difficile realizzare. Abbiamo trovato un paese allo sbando e dunque abbiamo avuto e abbiamo grosse difficoltà a rimetterlo in piedi. Si può parlare però di quelle differenze più facilmente percepibili ... D. Per esempio?
R. Per esempio la vicenda della privatizzazione dell’acqua. Noi abbiamo impostato la nostra campagna elettorale contro la privatizzazione, al contrario dell’attuale opposizione che era già pronta a consegnare le reti ai privati. Ci siamo messi di traverso, rischiando direttamente e personalmente perché le leggi non erano a nostro favore. Abbiamo aderito al Forum dell’acqua, partecipato a manifestazioni, raccolto firme... E ad oggi l’acqua, a Prizzi, è ancora pubblica, la finanziaria regionale ci ha dato ragione, stiamo raccogliendo le firme per il referendum. Lei sa cosa è successo, per esempio, a Corleone. Sono state consegnate le reti ai privati e le bollette sono schizzate alle stelle. Gli unici ad averne un vantaggio, se ci sono, sono quanti, parenti o amici, sono stati eventualmente assunti. E’ proprio quello che noi non vogliamo fare, sistemare quattro o cinque amici e rovinare un intero paese.
D. Mi spieghi meglio ...
R. C’è poco da spiegare. In politica si scontrano visioni del mondo assolutamente diverse, spesso inconciliabili ... Una di queste guarda agli altri, al bene comune, l’altra guarda a se stessi, al potere, alla visibilità, non so se anche ai propri interessi.
D. Vuole dire che voi non avete fatto promesse, neanche in campagna elettorale?
R. Posso parlare di me, ovviamente, anche se penso che il discorso valga per tutto il gruppo di cui mi onoro di far parte. In verità qualche promessa l’ho fatta, in pubblico e con determinazione: quella di non prendere in giro nessuno, quella di non promettere nulla che non possa mantenere, quella di lavorare con il massimo impegno, la massima serietà, la massima correttezza ... Promesse che sto cercando di mantenere.
D. In un suo intervento sul suo Blog parla di opposizione allo sbando ...
R. Sa, il gruppo di opposizione, a parte un paio di transfughi, appartiene praticamente ad un unico gruppo politico che fa riferimento all’UDC, a quella che fu l’ex corrente antinoriana, per così dire. Ora, come tutti sappiamo, l’UDC è in difficoltà a livello nazionale e a livello regionale, senza parlare delle note vicende giudiziarie di alcuni esponenti, e dunque al momento ha poco peso politico. Capirà che in questo momento, per gente abituata a fare il bello e il cattivo tempo, sono tempi bui, non c’è trippa per gatti.
D. Sì, ma questo che c’entra con quello che accade a Prizzi?
R. C’entra. Perché ovviamente sul territorio stanno cominciando a ricadere risultati che danno fastidio all’opposizione: cantieri, lavori pubblici, finanziamenti ...
D. E perché dovrebbero dare fastidio?
R. E’ anche qui una questione di stile, di mentalità. Le faccio un esempio: un importante esponente della corrente avversa all’attuale amministrazione ha promesso pubblicamente la realizzazione di una piscina a Prizzi, entro tre anni. Io, ovviamente, non ci credo. Ma farò di tutto, tutto quello che posso, per agevolarne la realizzazione. Altri giocano un gioco diverso, pensano forse che tutto quello di cui non sono protagonisti non debba essere fatto o debba essere denigrato, in barba al pubblico interesse.
D. In conclusione ...
R. Niente ... Ancora una volta, nel piccolo della politica prizzese, la dimostrazione di due modi di essere, di due sensibilità opposte, quella di chi tende all’interesse pubblico, anche a scapito del proprio, e quella di chi vive la politica pensando di lasciare tutto com’è, senza progressi, in un offuscamento che rischia di portarci ancora più indietro nel tempo. E’ un peccato, perché devo riconoscere che le intelligenze non mancherebbero. E’ un peccato, perché lavorando insieme e veramente per il bene comune, pur nelle differenze, si potrebbero fare grandi cose ...
D. Qualche esempio di questo modo di fare?
R. Ma, sa, gli “ordini” del Sindaco Garofalo sono stati sempre chiari: favorire tutti i processi di crescita sociale e culturale, anche quando la “visibilità” dovesse ricadere su altri soggetti. Da qui, per esempio, i contributi ad alcune associazioni o il tentativo di progettare insieme per l’interesse collettivo che mi hanno visto impegnato direttamente. Dall’altra parte, invece, è stato alzato un muro. Per esempio, pochi mesi fa è stata respinta la proposta di un mutuo per il completamento dell’area artigianale. Pensi, duemilioni di euro già assegnati che rischiano di perdersi ... al giorno d’oggi non sono cose da poco. E dire che il primo stralcio era stato pensato e voluto proprio da quelli che oggi sono all’opposizione. Ma, a quanto pare, “i prizzesi non hanno mentalità imprenditoriale”, come è stato detto, e, aggiungo io, evidente non si vuole neanche che ce l’abbiano, e dunque “non vale la pena di indebitarsi per questo”. Potrei parlare anche dell’adeguamento del campo di calcio, ma forse non ne vale neanche la pena.
D. Dunque?
R. Dunque i miei paesani, che sono sornioni ma attenti, apparentemente distratti, ma intelligenti, hanno, se vogliono, tutti gli elementi per capire, per giudicare. Poi ciascuno può decidere come vuole. Sa, alla fine si mangia quello che si paga.
La risposta di Greco agli attacchi personali, pubblicata sul suo Blog
NELLA FOTO: L'assessore Nino Greco
R. Normale dialettica politica, magari di basso profilo, ma da annoverare nel normale confronto tra chi amministra e chi sta all’opposizione.
D. Ma lei è stato chiamato direttamente in causa ...
R. Si, ma non è di questo che vorrei parlare, se mi permette. Preferirei parlare di politica, di futuro, di prospettive del nostro territorio. Sa, quando ci si mette in gioco si deve mettere in conto qualche attacco diretto. Più si lavora, più si acquista visibilità e più si scatena la gelosia di chi è frustrato per la propria marginalità, specialmente quando cominciano a venir fuori i risultati. Credo che l’opposizione di Prizzi, col manifesto che lei citava, abbia toccato il fondo, che abbia fatto un altro autogol. La gente sa cosa hanno fatto quando amministravano e sa pure che l’indennità dell’amministratore non è un ammortizzatore sociale, come forse qualche signor 50% crede, sa anche, la gente, che è un problema di qualità, di impegno, di serietà e di correttezza. Ma, ripeto, replicherò in altra sede. Ora vorrei parlare di politica.
D. Mi dica allora del vostro progetto politico, delle differenze con quello di altri, se ce ne sono ...
R. Guardi, io ho un mio modello di Comune e di comunità che probabilmente sarà difficile realizzare. Abbiamo trovato un paese allo sbando e dunque abbiamo avuto e abbiamo grosse difficoltà a rimetterlo in piedi. Si può parlare però di quelle differenze più facilmente percepibili ... D. Per esempio?
R. Per esempio la vicenda della privatizzazione dell’acqua. Noi abbiamo impostato la nostra campagna elettorale contro la privatizzazione, al contrario dell’attuale opposizione che era già pronta a consegnare le reti ai privati. Ci siamo messi di traverso, rischiando direttamente e personalmente perché le leggi non erano a nostro favore. Abbiamo aderito al Forum dell’acqua, partecipato a manifestazioni, raccolto firme... E ad oggi l’acqua, a Prizzi, è ancora pubblica, la finanziaria regionale ci ha dato ragione, stiamo raccogliendo le firme per il referendum. Lei sa cosa è successo, per esempio, a Corleone. Sono state consegnate le reti ai privati e le bollette sono schizzate alle stelle. Gli unici ad averne un vantaggio, se ci sono, sono quanti, parenti o amici, sono stati eventualmente assunti. E’ proprio quello che noi non vogliamo fare, sistemare quattro o cinque amici e rovinare un intero paese.
D. Mi spieghi meglio ...
R. C’è poco da spiegare. In politica si scontrano visioni del mondo assolutamente diverse, spesso inconciliabili ... Una di queste guarda agli altri, al bene comune, l’altra guarda a se stessi, al potere, alla visibilità, non so se anche ai propri interessi.
D. Vuole dire che voi non avete fatto promesse, neanche in campagna elettorale?
R. Posso parlare di me, ovviamente, anche se penso che il discorso valga per tutto il gruppo di cui mi onoro di far parte. In verità qualche promessa l’ho fatta, in pubblico e con determinazione: quella di non prendere in giro nessuno, quella di non promettere nulla che non possa mantenere, quella di lavorare con il massimo impegno, la massima serietà, la massima correttezza ... Promesse che sto cercando di mantenere.
D. In un suo intervento sul suo Blog parla di opposizione allo sbando ...
R. Sa, il gruppo di opposizione, a parte un paio di transfughi, appartiene praticamente ad un unico gruppo politico che fa riferimento all’UDC, a quella che fu l’ex corrente antinoriana, per così dire. Ora, come tutti sappiamo, l’UDC è in difficoltà a livello nazionale e a livello regionale, senza parlare delle note vicende giudiziarie di alcuni esponenti, e dunque al momento ha poco peso politico. Capirà che in questo momento, per gente abituata a fare il bello e il cattivo tempo, sono tempi bui, non c’è trippa per gatti.
D. Sì, ma questo che c’entra con quello che accade a Prizzi?
R. C’entra. Perché ovviamente sul territorio stanno cominciando a ricadere risultati che danno fastidio all’opposizione: cantieri, lavori pubblici, finanziamenti ...
D. E perché dovrebbero dare fastidio?
R. E’ anche qui una questione di stile, di mentalità. Le faccio un esempio: un importante esponente della corrente avversa all’attuale amministrazione ha promesso pubblicamente la realizzazione di una piscina a Prizzi, entro tre anni. Io, ovviamente, non ci credo. Ma farò di tutto, tutto quello che posso, per agevolarne la realizzazione. Altri giocano un gioco diverso, pensano forse che tutto quello di cui non sono protagonisti non debba essere fatto o debba essere denigrato, in barba al pubblico interesse.
D. In conclusione ...
R. Niente ... Ancora una volta, nel piccolo della politica prizzese, la dimostrazione di due modi di essere, di due sensibilità opposte, quella di chi tende all’interesse pubblico, anche a scapito del proprio, e quella di chi vive la politica pensando di lasciare tutto com’è, senza progressi, in un offuscamento che rischia di portarci ancora più indietro nel tempo. E’ un peccato, perché devo riconoscere che le intelligenze non mancherebbero. E’ un peccato, perché lavorando insieme e veramente per il bene comune, pur nelle differenze, si potrebbero fare grandi cose ...
D. Qualche esempio di questo modo di fare?
R. Ma, sa, gli “ordini” del Sindaco Garofalo sono stati sempre chiari: favorire tutti i processi di crescita sociale e culturale, anche quando la “visibilità” dovesse ricadere su altri soggetti. Da qui, per esempio, i contributi ad alcune associazioni o il tentativo di progettare insieme per l’interesse collettivo che mi hanno visto impegnato direttamente. Dall’altra parte, invece, è stato alzato un muro. Per esempio, pochi mesi fa è stata respinta la proposta di un mutuo per il completamento dell’area artigianale. Pensi, duemilioni di euro già assegnati che rischiano di perdersi ... al giorno d’oggi non sono cose da poco. E dire che il primo stralcio era stato pensato e voluto proprio da quelli che oggi sono all’opposizione. Ma, a quanto pare, “i prizzesi non hanno mentalità imprenditoriale”, come è stato detto, e, aggiungo io, evidente non si vuole neanche che ce l’abbiano, e dunque “non vale la pena di indebitarsi per questo”. Potrei parlare anche dell’adeguamento del campo di calcio, ma forse non ne vale neanche la pena.
D. Dunque?
R. Dunque i miei paesani, che sono sornioni ma attenti, apparentemente distratti, ma intelligenti, hanno, se vogliono, tutti gli elementi per capire, per giudicare. Poi ciascuno può decidere come vuole. Sa, alla fine si mangia quello che si paga.
La risposta di Greco agli attacchi personali, pubblicata sul suo Blog
NELLA FOTO: L'assessore Nino Greco
I consiglieri di opposizione di "Solidarietà e lavoro – Uniti per Prizzi" di Prizzi: "Diciamo le cose come stanno!"
Diciamo le cose come stanno e smettiamola di far finta di niente! Il Gruppo Consiliare Solidarietà e lavoro – Uniti per Prizzi ha il piacere di mostravi come vengono spesi i soldi pubblici dalla nostra Amministrazione comunale!
In un periodo in cui si chiede a tutti di stringere la cinghia e addirittura si fanno pubblici appelli alla cittadinanza prizzese affinché si elargisca il 5 x 1000 dell’IRPEF al Comune di Prizzi, è molto curioso notare che, proprio da coloro i quali dovrebbe venire il buon esempio, ci risultano dei comportamenti che, francamente, sembrano essere un po’ in controtendenza con il clima di austerità e di rigore che vige nel nostro paese.
Infatti, non tutti sanno che il nostro Sindaco, ad esempio, per il solo mese di Agosto 2009 ha percepito “un’indennità di carica” di € 1.303,80. È anche vero che lo stesso Sindaco, per i mesi successivi, ha rinunciato a tale indennità, ma rimane comunque il fatto di averla ampiamente percepita per tutti i mesi precedenti dall’inizio del suo mandato.
I nostri Assessori, invece, mantenendo abilmente un basso profilo ma rimanendo ugualmente molto determinati, percepiscono tuttora, e non hanno assolutamente alcuna intenzione di rinunciarvi, un’indennità di carica mensile pari a € 586,71 che di questi tempi non è affatto poca cosa!
Altro capitolo doloroso per i poveri cittadini prizzesi, sono le cosiddette “spese di viaggio” agli Assessori, ovviamente, auto - elargite con estrema magnanimità! Pensate…ci sono casi di Assessori, come ad esempio l’Assessore Greco, che arrivano a percepire un rimborso mensile per le spese di viaggio addirittura pari a circa 700,00 € che sommate ad un’indennità di carica di € 586,71 arrivano a costituire un importo superiore ad € 1.200,00 cioè uno stipendio medio che va a sommarsi a quello già percepito con il proprio lavoro.
Sorvolando sull’opportunità o meno di questi rimborsi che comunque rimane dubbia, di fronte a questi dati sconcertanti, viene innanzitutto da chiedersi se era proprio il caso per il nostro Sindaco di avvalersi della collaborazione di Assessori che, essendo residenti fuori Prizzi, era ovvio che avrebbero costituito necessariamente un aggravio sulla voce “rimborso per spese di viaggio”. Non ci sembra di esagerare se affermiamo che probabilmente il nostro Sindaco è stato un po’ avventato nella scelta dei propri collaboratori, come se a Prizzi non ci fossero persone altrettanto valide, collaboratori che comunque non si sono certo dannati l’anima per rinunciare a questa manna letteralmente caduta dal cielo!
Non ci sembrano questi i criteri da seguire per una buona amministrazione della cosa pubblica!
Per pura cronaca, va ricordato che i nostri Consiglieri del Gruppo Politico di cui ci pregiamo di far parte, hanno già rinunciato da circa un anno a percepire il proprio gettone di presenza, poiché ci è sembrato giusto dare per primi l’esempio all’intera cittadinanza.
A Prizzi, come tutti sappiamo, ci sono persone che a malapena riescono a sbarcare il lunario, mentre come abbiamo ampiamente dimostrato, dati alla mano, altri soggetti, bontà loro, sono distanti mille miglia da queste situazioni!
Gruppo Consiliare Solidarietà e lavoro – Uniti per Prizzi
LA RISPOSTA DELL'ASSESSORE NINO GRECO
In un periodo in cui si chiede a tutti di stringere la cinghia e addirittura si fanno pubblici appelli alla cittadinanza prizzese affinché si elargisca il 5 x 1000 dell’IRPEF al Comune di Prizzi, è molto curioso notare che, proprio da coloro i quali dovrebbe venire il buon esempio, ci risultano dei comportamenti che, francamente, sembrano essere un po’ in controtendenza con il clima di austerità e di rigore che vige nel nostro paese.
Infatti, non tutti sanno che il nostro Sindaco, ad esempio, per il solo mese di Agosto 2009 ha percepito “un’indennità di carica” di € 1.303,80. È anche vero che lo stesso Sindaco, per i mesi successivi, ha rinunciato a tale indennità, ma rimane comunque il fatto di averla ampiamente percepita per tutti i mesi precedenti dall’inizio del suo mandato.
I nostri Assessori, invece, mantenendo abilmente un basso profilo ma rimanendo ugualmente molto determinati, percepiscono tuttora, e non hanno assolutamente alcuna intenzione di rinunciarvi, un’indennità di carica mensile pari a € 586,71 che di questi tempi non è affatto poca cosa!
Altro capitolo doloroso per i poveri cittadini prizzesi, sono le cosiddette “spese di viaggio” agli Assessori, ovviamente, auto - elargite con estrema magnanimità! Pensate…ci sono casi di Assessori, come ad esempio l’Assessore Greco, che arrivano a percepire un rimborso mensile per le spese di viaggio addirittura pari a circa 700,00 € che sommate ad un’indennità di carica di € 586,71 arrivano a costituire un importo superiore ad € 1.200,00 cioè uno stipendio medio che va a sommarsi a quello già percepito con il proprio lavoro.
Sorvolando sull’opportunità o meno di questi rimborsi che comunque rimane dubbia, di fronte a questi dati sconcertanti, viene innanzitutto da chiedersi se era proprio il caso per il nostro Sindaco di avvalersi della collaborazione di Assessori che, essendo residenti fuori Prizzi, era ovvio che avrebbero costituito necessariamente un aggravio sulla voce “rimborso per spese di viaggio”. Non ci sembra di esagerare se affermiamo che probabilmente il nostro Sindaco è stato un po’ avventato nella scelta dei propri collaboratori, come se a Prizzi non ci fossero persone altrettanto valide, collaboratori che comunque non si sono certo dannati l’anima per rinunciare a questa manna letteralmente caduta dal cielo!
Non ci sembrano questi i criteri da seguire per una buona amministrazione della cosa pubblica!
Per pura cronaca, va ricordato che i nostri Consiglieri del Gruppo Politico di cui ci pregiamo di far parte, hanno già rinunciato da circa un anno a percepire il proprio gettone di presenza, poiché ci è sembrato giusto dare per primi l’esempio all’intera cittadinanza.
A Prizzi, come tutti sappiamo, ci sono persone che a malapena riescono a sbarcare il lunario, mentre come abbiamo ampiamente dimostrato, dati alla mano, altri soggetti, bontà loro, sono distanti mille miglia da queste situazioni!
Gruppo Consiliare Solidarietà e lavoro – Uniti per Prizzi
LA RISPOSTA DELL'ASSESSORE NINO GRECO
giovedì 13 maggio 2010
Le norme del governo contro le intercettazioni finiranno per bloccare le indagini. E la mafia ringrazia
di Paolo Biondani
Le norme del governo contro le intercettazioni finiranno per bloccare le indagini e favorire i criminali. Parla il procuratore capo di Torino Giancarlo Caselli
Cosa significa in una moderna società civile la parola democrazia? «La democrazia si nutre di controlli, che devono essere effettivi, non di facciata. C'è un controllo sociale che si esercita attraverso un'informazione incisiva rispetto al potere perché libera e pluralista. E c'è un controllo di legalità, affidato a una magistratura libera ed efficace perché indipendente. Sono questi principi fondamentali ad essere messi in pericolo dal progetto di legge contro le intercettazioni. Libertà di pensiero e diritto dei cittadini all'informazione, possibilità dei magistrati di indagare su tutti i reati e controllo effettivo del potere: sono le basi che, insieme, sostengono uno Stato di diritto. Chi ha il potere deve accettare controlli, altrimenti la democrazia degenera in tirannide della maggioranza». Giancarlo Caselli, magistrato simbolo della lotta al terrorismo e alla mafia, oggi procuratore capo di Torino, è molto preoccupato per gli effetti del piano di riforma fortemente voluto dal governo per limitare o vietare le intercettazioni e mettere il bavaglio alla cronaca giudiziaria.
Qual è la prima cosa che i cittadini devono sapere sulla legge in esame al Senato?
«Che è una minaccia proprio per la sicurezza dei cittadini. Gli emendamenti sono in continuo aggiornamento, ma il disegno è già chiaro: diminuiranno pesantemente il numero e l'ampiezza delle intercettazioni, indispensabili per la lotta alla criminalità. C'è un obiettivo che viene da lontano: la mortificazione dei pm, additati come nemici, per renderli subalterni al potere politico proprio mentre questo rivendica una sostanziale immunità. Per farlo, non si esita ad ostacolare di fatto le indagini anche sui reati più odiosi: non vorrei entrare nei tecnicismi, ma le procure rischiano di restare senza prove anche per omicidi, rapine, estorsioni, usura e bancarotte milionarie».
La destra che invoca legge ed ordine sembra accontentarsi della modifica che torna ad autorizzare le intercettazioni anche senza «evidenti indizi di colpevolezza».
«Era un limite talmente grossolano da rendere inevitabile una retromarcia: è ovvio che le intercettazioni si fanno proprio per scoprire il colpevole. Ma l'aggancio alla colpevolezza in realtà rientra dalla finestra, con il richiamo alle regole sui riscontri e col divieto di intercettare i telefoni non in uso agli indagati. Ma proprio le intercettazioni su persone vicine all'indagato spesso sono le più preziose. Così si crea un circolo vizioso, che si ripete per le ambientali: le microspie si potranno nascondere solo nel luogo del delitto, ma l'esperienza dimostra che i colpevoli parlano dei loro reati dove si sentono al sicuro, ad esempio in uffici, bar o auto. Anche il divieto di usarle come prove di reati diversi, perfino se più gravi, è pericolosissimo: se intercettando un rapinatore scopriamo un omicidio, non potremo più arrestare l'assassino».
Il governo in compenso nega di voler bloccare le inchieste su mafia e terrorismo.
«Riciclaggio, usura, estorsione, bancarotta sono reati non necessariamente mafiosi. Ma se non possiamo più intercettare se non in casi eccezionali, come facciamo a scoprire quando dietro c'è la mafia? Il problema è gravissimo, perché oggi la mafia è soprattutto economia illlegale».
E dell'"emendamento D'Addario", che vieta ai privati di registrare perfino i colloqui a cui partecipano, che ne pensa?
«È una norma assurda, ma a suo modo rivelatrice. I ricatti e le intimidazioni criminali iniziano con allusioni e minacce indirette, difficilmente denunciabili: la violenza arriva dopo. Se incriminiamo chi cerca di documentarle, rischiamo di lasciare liberi i colpevoli per punire le vittime».
(L'Espresso, 13 maggio 2010)
Le norme del governo contro le intercettazioni finiranno per bloccare le indagini e favorire i criminali. Parla il procuratore capo di Torino Giancarlo Caselli
Cosa significa in una moderna società civile la parola democrazia? «La democrazia si nutre di controlli, che devono essere effettivi, non di facciata. C'è un controllo sociale che si esercita attraverso un'informazione incisiva rispetto al potere perché libera e pluralista. E c'è un controllo di legalità, affidato a una magistratura libera ed efficace perché indipendente. Sono questi principi fondamentali ad essere messi in pericolo dal progetto di legge contro le intercettazioni. Libertà di pensiero e diritto dei cittadini all'informazione, possibilità dei magistrati di indagare su tutti i reati e controllo effettivo del potere: sono le basi che, insieme, sostengono uno Stato di diritto. Chi ha il potere deve accettare controlli, altrimenti la democrazia degenera in tirannide della maggioranza». Giancarlo Caselli, magistrato simbolo della lotta al terrorismo e alla mafia, oggi procuratore capo di Torino, è molto preoccupato per gli effetti del piano di riforma fortemente voluto dal governo per limitare o vietare le intercettazioni e mettere il bavaglio alla cronaca giudiziaria.
Qual è la prima cosa che i cittadini devono sapere sulla legge in esame al Senato?
«Che è una minaccia proprio per la sicurezza dei cittadini. Gli emendamenti sono in continuo aggiornamento, ma il disegno è già chiaro: diminuiranno pesantemente il numero e l'ampiezza delle intercettazioni, indispensabili per la lotta alla criminalità. C'è un obiettivo che viene da lontano: la mortificazione dei pm, additati come nemici, per renderli subalterni al potere politico proprio mentre questo rivendica una sostanziale immunità. Per farlo, non si esita ad ostacolare di fatto le indagini anche sui reati più odiosi: non vorrei entrare nei tecnicismi, ma le procure rischiano di restare senza prove anche per omicidi, rapine, estorsioni, usura e bancarotte milionarie».
La destra che invoca legge ed ordine sembra accontentarsi della modifica che torna ad autorizzare le intercettazioni anche senza «evidenti indizi di colpevolezza».
«Era un limite talmente grossolano da rendere inevitabile una retromarcia: è ovvio che le intercettazioni si fanno proprio per scoprire il colpevole. Ma l'aggancio alla colpevolezza in realtà rientra dalla finestra, con il richiamo alle regole sui riscontri e col divieto di intercettare i telefoni non in uso agli indagati. Ma proprio le intercettazioni su persone vicine all'indagato spesso sono le più preziose. Così si crea un circolo vizioso, che si ripete per le ambientali: le microspie si potranno nascondere solo nel luogo del delitto, ma l'esperienza dimostra che i colpevoli parlano dei loro reati dove si sentono al sicuro, ad esempio in uffici, bar o auto. Anche il divieto di usarle come prove di reati diversi, perfino se più gravi, è pericolosissimo: se intercettando un rapinatore scopriamo un omicidio, non potremo più arrestare l'assassino».
Il governo in compenso nega di voler bloccare le inchieste su mafia e terrorismo.
«Riciclaggio, usura, estorsione, bancarotta sono reati non necessariamente mafiosi. Ma se non possiamo più intercettare se non in casi eccezionali, come facciamo a scoprire quando dietro c'è la mafia? Il problema è gravissimo, perché oggi la mafia è soprattutto economia illlegale».
E dell'"emendamento D'Addario", che vieta ai privati di registrare perfino i colloqui a cui partecipano, che ne pensa?
«È una norma assurda, ma a suo modo rivelatrice. I ricatti e le intimidazioni criminali iniziano con allusioni e minacce indirette, difficilmente denunciabili: la violenza arriva dopo. Se incriminiamo chi cerca di documentarle, rischiamo di lasciare liberi i colpevoli per punire le vittime».
(L'Espresso, 13 maggio 2010)
mercoledì 12 maggio 2010
Umberto Santino. A proposito della casa del capomafia Badalamenti assegnata all’Associazione Impastato e delle indagini sul delitto Impastato
Il 9 scorso "la Repubblica" ha pubblicato un servizio in cui si annuncia che la casa confiscata al capomafia Gaetano Badalamenti è stata assegnata all’Associazione Peppino Impastato di Cinisi.
Il 9 sera c’è stata la presa di possesso simbolica da parte dei familiari di Peppino, del Centro Impastato di Palermo, dell’Associazione di Cinisi e del Forum sociale antimafia, a cui abbiamo voluto che prendesse parte il nipote di Placido Rizzotto. Nella ricostruzione di "Repubblica" manca qualsiasi riferimento al ruolo che alcuni compagni di Peppino e in particolare il Centro Impastato di Palermo hanno avuto nel salvare la memoria di Impastato da chi lo voleva terrorista e suicida e nel richiedere e ottenere giustizia. Pare che tutto il merito sia del film "I cento passi", e ciò anche in relazione con le recenti affermazioni di Saviano, secondo cui il processo ai responsabili dell’omicidio si sarebbe fatto in seguito all’uscita del film, mentre come dicevamo in un comunicato, pubblicato solo parzialmente dal quotidiano, erano già in corso due processi ai mandanti del delitto e la Commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia era vicina ad ultimare i lavori sul depistaggio delle indagini ad opera di rappresentanti delle forze dell’ordine e della magistratura. “La Repubblica” riporta anche la seguente dichiarazione del fratello di Peppino, Giovanni: “Chiedo che le indagini sulla morte di Peppino vengano riaperte. Bisogna fare luce sui depistaggi che hanno favorito Badalamenti”.
La Commissione antimafia nella relazione approvata nel dicembre del 2000 ha chiarito che ufficiali dei carabinieri e magistrati hanno depistato le indagini e favorito in tal modo i responsabili dell’assassinio e questo è stato un risultato storico del lavoro dei familiari, di alcuni compagni e del Centro Impastato di Palermo. Lo consideriamo un dato già acquisito. Se ci saranno aspetti da approfondire, se emergeranno novità (ma non pare che finora ne siano emerse), il Centro si impegnerà perché si accerti la più completa verità sulle vicende che hanno portato al depistaggio delle indagini sull’omicidio di Peppino. I processi a Palazzolo e a Badalamenti, grazie anche all’ottimo lavoro svolto dal Pubblico Ministero Franca Imbergamo, si sono conclusi nel 2001 e nel 2002 con le condanne a trent’anni del primo e all’ergastolo del secondo. In seguito i due capimafia sono deceduti. Resta invece aperta la questione della morte del padre di Peppino, verosimilmente in un incidente per camuffare un omicidio. Nella prefazione al libro di Giovanni Impastato, Resistere a Mafiopoli, scrivevo che la decisione di riaprire le indagini, che non si sono mai svolte, spetta ai familiari.
Umberto Santino
Presidente del Centro Impastato
NELLA FOTO: U. Santino
Il 9 sera c’è stata la presa di possesso simbolica da parte dei familiari di Peppino, del Centro Impastato di Palermo, dell’Associazione di Cinisi e del Forum sociale antimafia, a cui abbiamo voluto che prendesse parte il nipote di Placido Rizzotto. Nella ricostruzione di "Repubblica" manca qualsiasi riferimento al ruolo che alcuni compagni di Peppino e in particolare il Centro Impastato di Palermo hanno avuto nel salvare la memoria di Impastato da chi lo voleva terrorista e suicida e nel richiedere e ottenere giustizia. Pare che tutto il merito sia del film "I cento passi", e ciò anche in relazione con le recenti affermazioni di Saviano, secondo cui il processo ai responsabili dell’omicidio si sarebbe fatto in seguito all’uscita del film, mentre come dicevamo in un comunicato, pubblicato solo parzialmente dal quotidiano, erano già in corso due processi ai mandanti del delitto e la Commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia era vicina ad ultimare i lavori sul depistaggio delle indagini ad opera di rappresentanti delle forze dell’ordine e della magistratura. “La Repubblica” riporta anche la seguente dichiarazione del fratello di Peppino, Giovanni: “Chiedo che le indagini sulla morte di Peppino vengano riaperte. Bisogna fare luce sui depistaggi che hanno favorito Badalamenti”.
La Commissione antimafia nella relazione approvata nel dicembre del 2000 ha chiarito che ufficiali dei carabinieri e magistrati hanno depistato le indagini e favorito in tal modo i responsabili dell’assassinio e questo è stato un risultato storico del lavoro dei familiari, di alcuni compagni e del Centro Impastato di Palermo. Lo consideriamo un dato già acquisito. Se ci saranno aspetti da approfondire, se emergeranno novità (ma non pare che finora ne siano emerse), il Centro si impegnerà perché si accerti la più completa verità sulle vicende che hanno portato al depistaggio delle indagini sull’omicidio di Peppino. I processi a Palazzolo e a Badalamenti, grazie anche all’ottimo lavoro svolto dal Pubblico Ministero Franca Imbergamo, si sono conclusi nel 2001 e nel 2002 con le condanne a trent’anni del primo e all’ergastolo del secondo. In seguito i due capimafia sono deceduti. Resta invece aperta la questione della morte del padre di Peppino, verosimilmente in un incidente per camuffare un omicidio. Nella prefazione al libro di Giovanni Impastato, Resistere a Mafiopoli, scrivevo che la decisione di riaprire le indagini, che non si sono mai svolte, spetta ai familiari.
Umberto Santino
Presidente del Centro Impastato
NELLA FOTO: U. Santino
lunedì 10 maggio 2010
Con la cooperativa "Valle del Marro" sulle terre confiscate alle cosche, adesso c'è un lavoro vero per i "reduci" di Rosarno
Moussa stringe la mano al prefetto Mario Morcone. Poi lo fa Yakouba. E infine Godwin. Sorridono i tre giovani immigrati. Reduci dagli scontri di Rosarno del 7 gennaio, prima sfruttati da caporali e imprenditori agricoli, poi feriti dalla manovalanza della 'ndrangheta, da oggi lavorano sui campi della cooperativa Valle del Marro, che coltiva terreni confiscati alle cosche. Dal lavoro nero al lavoro doppiamente pulito. Davvero una bella giornata. E, fortunata coincidenza, proprio oggi su questi terreni è in visita il prefetto Morcone, da pochi giorni direttore dell'Agenzia nazionale per la gestione dei beni sequestrati e confiscati, dopo essere stato per quattro anni Capo del Dipartimento per l'immigrazione del ministero dell'Interno. È il suo primo incontro con le realtà che gestiscono i beni strappati alle mafie e ha scelto proprio la cooperativa, nata nel 2004 dalla collaborazione tra la Diocesi di Oppido-Palmi e l'associazione Libera di don Luigi Ciotti, e sostenuta dal Progetto Policoro della Cei, per l'imprenditorialità giovanile al Sud. E trova anche questa bella sorpresa. "Buon lavoro ragazzi", dice ai tre giovani africani che rispondono con un sorriso. Quel sorriso che finalmente accompagna la loro giornata lavorativa da quando questa mattina alle 7 hanno firmato il registro delle presenze, come tutti gli altri lavoratori della cooperativa. Non lo avevano mai fatto. Eppure sono in Italia da 2-3 anni. Provenienti dalla Libia, sbarcati a Lampedusa, poi lavoro nero tra Sicilia, Puglia e Campania, prima di giungere a Rosarno, e finire negli scontri. Moussa, del Burkina Faso, ci fa vedere le lunghe cicatrici delle coltellate sulla schiena. Gli altri due i lividi delle bastonate. Ma Yakuoba, della Guinea, ricorda anche lo sfruttamento. "A Foggia mi davano 3 euro per riempire di pomodori quello là", e ci indica una grande cassone che contiene circa 4-5 quintali. E quanti ne riempivi in un giorno? "Tre o quattro". Cioè 9-12 euro al giorno. Da oggi, invece, lavora, come da contratto agricolo, per 900 euro al mese. Il primo mese grazie a una borsa lavoro finanziata dalla parrocchia di Santa Marina di Polistena, il cui parroco, don Pino De Masi, oltre ad essere vicario generale della Diocesi e responsabile di Libera della Piana di Gioia Tauro, è un po' il "papà" della cooperativa. Poi gli stipendi saranno sostenuti dalla cooperativa oltre che dal volontariato, per arrivare almeno a dicembre. Un vero lavoro di squadra che comprende anche la casa e lezioni di italiano nel pomeriggio. "Li seguivamo anche quando erano a Rosarno - dicono Giacomo Zappia e Domenico Fazari, presidente e vicepresidente della Valle del Marro -. Portavamo cibo, coperte e vestiti. Ma quella era solo carità, oggi è giustizia, è lavoro vero. Lo abbiamo fatto perché siamo in debito con loro. Non solo per lo sfruttamento che hanno subito ma perché hanno avuto il coraggio di ribellarsi alla 'ndrangheta. Qui nessuno lo fa. Loro ci hanno insegnato che è possibile farlo". Il prefetto Morcone approva. Spiega che è qui per conoscere la cooperativa, la sua attività e soprattutto i suoi problemi, per aiutare a risolverli. "C'è ostilità della gente?". "No, anche grazie a noi ha riacquistato il gusto di amare il proprio territorio". "Ha riacquistato coraggio. Ma ha dato coraggio anche a noi. La gente ci è vicina. Anzi qui è un continuo via vai di giovani che ci chiedono lavoro". Piuttosto il problema sono le amministrazioni comunali, spesso condizionate dalla 'ndrangheta, se non di peggio. Il prefetto lo tocca con mano nella sua visita. Infatti dopo una prima tappa in località Ponte Vecchio dove si coltivano peperoncini e melanzane, si sale nei bellissimi uliveti di Castellace, nel comune di Oppido Mamertina. Ed è proprio qui che i giovani della Valle del Marro fanno vedere a Morcone un caso gravissimo. È un terreno confiscato ai Mammoliti e assegnato alla cooperativa. Malgrado questo il potente e violento clan ci ha costruito una strada con alte mura per raggiungere le proprie ville. Tutto abusivo, ma nessuno in questi anni è mai intervenuto. Tantomeno il comune che dell'uliveto è diventato proprietario dopo la confisca. Inoltre i mafiosi prima di abbandonare l'uliveto lo hanno in parte tagliato, hanno vandalizzato una piccola casa e riempito di detriti un pozzo artesiano profondo 60 metri. Ma oggi su questa strada passano, finalmente, le auto delle istituzioni. Il prefetto scende, vuole vedere di persona. Si informa su tutto. Anche questo non era mai successo. Da oggi, su questo difficile fronte, i giovani della cooperativa sono meno soli. Lo Stato, chi lo rappresenta, è al loro fianco. Davvero è una gran bella giornata.
Da: L'avvenire del 6 maggio 2010
Da: L'avvenire del 6 maggio 2010
Peppino Impastato: lo uccise solo la mafia?
di Attilio Bolzoni
A 32 anni dalla morte, emergono nuovi interrogativi sull'omicidio del giovane giornalista antimafia. Perché molti dettagli fanno pensare che non sia stata solo Cosa Nostra. E quelli che depistarono le indagini sono gli stessi che poi si occuparono delle misteriose "trattative" seguite alle stragi del '92
Trentadue anni fa un giovane giornalista siciliano, Peppino Impastato, fu dilaniato da una bomba sui binari della ferrovia Trapani-Palermo. Per il suo omicidio è stato condannato all'ergastolo il boss dei Corleonesi Gaetano Badalamenti. Eppure, in quel delitto, molti sono ancora i punti oscuri. A iniziare dalle modalità dell'omicidio, diverso dai rituali mafiosi. Ma soprattutto è interessante il fatto che i depistaggi dell'inchiesta (inizialmente si cercarono gli autori del delitto tra gli amici della vittima) sia stato attuato dagli stessi personaggi che oggi emergono come protagonisti di quella trattativa tra mafia e Stato che seguì la stagione delle stragi. In altri termini, emerge l'ipotesi che il delitto Impastato sia stato voluto da quella "zona grigia" tra Cosa Nostra e lo Stato che sta emergendo in questi mesi.La questione viene posta da questa pagina del nuovo libro di Attilio Bolzoni, "FAQ. mafia" (in uscita per Bompiani il prossimo 19 maggio) che 'L'espresso' anticipa qui di seguito in esclusiva. Data la rilevanza del "sasso" lanciato da Bolzoni in queste righe, "L'espresso" lo ha anche intervistato in merito, approfondendo gli interrogativi sul caso Impastato: potete vedere e ascoltare l'intervista cliccando qui"
Ci sono stati depistaggi per proteggere mafiosi importanti?
Il più sfacciato è stato quello dell'inchiesta sull'omicidio di Peppino Impastato. Lo hanno fatto 'suicidare', lo hanno fatto diventare un terrorista. E invece era stato assassinato. Per ordine dei boss e, forse, anche di qualcun altro. Peppino Impastato è morto il 9 maggio del 1978 sui binari della ferrovia Trapani-Palermo, dilaniato da una bomba. Nello stesso giorno del ritrovamento del cadavere di Aldo Moro in via Caetani, a Roma. Peppino aveva 30 anni, era figlio di un mafioso di Cinisi, militava nell'estrema sinistra e lavorava a Radio Aut, una radio libera. L'indagine sulla sua morte è stata truccata fin dalle prime ore. Dai carabinieri.
L'esplosivo usato per il presunto attentato era esplosivo da cava, eppure nei giorni successivi alla morte di Peppino i carabinieri non fecero neppure una perquisizione nelle cave intorno a Cinisi, che erano tutte di proprietà dei mafiosi. Inoltre, nella prima informativa non fecero menzione di una pietra ritrovata sul luogo del delitto: quella che probabilmente uccise Peppino Impastato prima che venisse 'sistemato' sui binari per sembrare un terrorista suicida. E ancora: nel primo rapporto che i carabinieri presentarono alla procura di Palermo, scrissero: "Anche se si volesse insistere su un'ipotesi delittuosa, bisognerebbe comunque escludere che Giuseppe Impastato sia stato ucciso dalla mafia". La mafia a Cinisi era Gaetano Badalamenti, il boss che Peppino Impastato attaccava ogni giorno dai microfoni di Radio Aut, irridendolo col nome di Tano Seduto ; lo stesso Badalamenti che aveva stretto rapporti con alcuni alti ufficiali dell'Arma. Era lui il boss da proteggere. E, probabilmente, Gaetano Badalamenti non era l'unico a volere morto Peppino Impastato. Tutta l'inchiesta, fin dall'inizio, si è concentrata esclusivamente sulla ricerca di accuse contro la vittima. C'è stato un depistaggio sistematico - e forse pianificato ancor prima dell'omicidio - che è sempre apparso "sproporzionato" per coprire soltanto un mafioso, sia pure un grande capo di Cosa Nostra come Gaetano Badalamenti. Anche il delitto Impastato, dopo tanti anni, sembra uno di quegli omicidi dove è probabile che si sia registrata una "convergenza di interessi". Il fascicolo giudiziario su Peppino Impastato è rimasto per almeno dieci anni "a carico di ignoti". Ci sono voluti altri dieci anni per riaprire le indagini. E altri quattro ancora per condannare Gaetano Badalamenti come mandante del delitto. Un po' di giustizia è stata fatta nel 2002: in un altro secolo. Ma ci sono ancora molti misteri. Testimoni che non sono stati mai ascoltati. E protagonisti di quell'inchiesta che, tanto tempo dopo, sono scivolati nelle indagini sulle trattative fra mafia e Stato a cavallo delle stragi del 1992".
Tratto da 'FAQ MAFIA', Bompiani, collana diretta da Sergio Claudio Perroni (pp. 252, euro 12. In uscita il 19 maggio)
L’Espresso, (07 maggio 2010)
A 32 anni dalla morte, emergono nuovi interrogativi sull'omicidio del giovane giornalista antimafia. Perché molti dettagli fanno pensare che non sia stata solo Cosa Nostra. E quelli che depistarono le indagini sono gli stessi che poi si occuparono delle misteriose "trattative" seguite alle stragi del '92
Trentadue anni fa un giovane giornalista siciliano, Peppino Impastato, fu dilaniato da una bomba sui binari della ferrovia Trapani-Palermo. Per il suo omicidio è stato condannato all'ergastolo il boss dei Corleonesi Gaetano Badalamenti. Eppure, in quel delitto, molti sono ancora i punti oscuri. A iniziare dalle modalità dell'omicidio, diverso dai rituali mafiosi. Ma soprattutto è interessante il fatto che i depistaggi dell'inchiesta (inizialmente si cercarono gli autori del delitto tra gli amici della vittima) sia stato attuato dagli stessi personaggi che oggi emergono come protagonisti di quella trattativa tra mafia e Stato che seguì la stagione delle stragi. In altri termini, emerge l'ipotesi che il delitto Impastato sia stato voluto da quella "zona grigia" tra Cosa Nostra e lo Stato che sta emergendo in questi mesi.La questione viene posta da questa pagina del nuovo libro di Attilio Bolzoni, "FAQ. mafia" (in uscita per Bompiani il prossimo 19 maggio) che 'L'espresso' anticipa qui di seguito in esclusiva. Data la rilevanza del "sasso" lanciato da Bolzoni in queste righe, "L'espresso" lo ha anche intervistato in merito, approfondendo gli interrogativi sul caso Impastato: potete vedere e ascoltare l'intervista cliccando qui"
Ci sono stati depistaggi per proteggere mafiosi importanti?
Il più sfacciato è stato quello dell'inchiesta sull'omicidio di Peppino Impastato. Lo hanno fatto 'suicidare', lo hanno fatto diventare un terrorista. E invece era stato assassinato. Per ordine dei boss e, forse, anche di qualcun altro. Peppino Impastato è morto il 9 maggio del 1978 sui binari della ferrovia Trapani-Palermo, dilaniato da una bomba. Nello stesso giorno del ritrovamento del cadavere di Aldo Moro in via Caetani, a Roma. Peppino aveva 30 anni, era figlio di un mafioso di Cinisi, militava nell'estrema sinistra e lavorava a Radio Aut, una radio libera. L'indagine sulla sua morte è stata truccata fin dalle prime ore. Dai carabinieri.
L'esplosivo usato per il presunto attentato era esplosivo da cava, eppure nei giorni successivi alla morte di Peppino i carabinieri non fecero neppure una perquisizione nelle cave intorno a Cinisi, che erano tutte di proprietà dei mafiosi. Inoltre, nella prima informativa non fecero menzione di una pietra ritrovata sul luogo del delitto: quella che probabilmente uccise Peppino Impastato prima che venisse 'sistemato' sui binari per sembrare un terrorista suicida. E ancora: nel primo rapporto che i carabinieri presentarono alla procura di Palermo, scrissero: "Anche se si volesse insistere su un'ipotesi delittuosa, bisognerebbe comunque escludere che Giuseppe Impastato sia stato ucciso dalla mafia". La mafia a Cinisi era Gaetano Badalamenti, il boss che Peppino Impastato attaccava ogni giorno dai microfoni di Radio Aut, irridendolo col nome di Tano Seduto ; lo stesso Badalamenti che aveva stretto rapporti con alcuni alti ufficiali dell'Arma. Era lui il boss da proteggere. E, probabilmente, Gaetano Badalamenti non era l'unico a volere morto Peppino Impastato. Tutta l'inchiesta, fin dall'inizio, si è concentrata esclusivamente sulla ricerca di accuse contro la vittima. C'è stato un depistaggio sistematico - e forse pianificato ancor prima dell'omicidio - che è sempre apparso "sproporzionato" per coprire soltanto un mafioso, sia pure un grande capo di Cosa Nostra come Gaetano Badalamenti. Anche il delitto Impastato, dopo tanti anni, sembra uno di quegli omicidi dove è probabile che si sia registrata una "convergenza di interessi". Il fascicolo giudiziario su Peppino Impastato è rimasto per almeno dieci anni "a carico di ignoti". Ci sono voluti altri dieci anni per riaprire le indagini. E altri quattro ancora per condannare Gaetano Badalamenti come mandante del delitto. Un po' di giustizia è stata fatta nel 2002: in un altro secolo. Ma ci sono ancora molti misteri. Testimoni che non sono stati mai ascoltati. E protagonisti di quell'inchiesta che, tanto tempo dopo, sono scivolati nelle indagini sulle trattative fra mafia e Stato a cavallo delle stragi del 1992".
Tratto da 'FAQ MAFIA', Bompiani, collana diretta da Sergio Claudio Perroni (pp. 252, euro 12. In uscita il 19 maggio)
L’Espresso, (07 maggio 2010)
Peppino Impastato non è morto invano
di Lirio Abbate
Sono passati trentadue anni da quando il giornalista di Radio Aut, che da Cinisi denunciava gli intrecci tra mafia e politica, fu ucciso sulle rotaie della ferrovia Trapani-Palermo. Non sono trascorsi invano. Il suo esempio alla denuncia e alla ribellione contro Cosa nostra trascina i giovani di oggi a dire no alla mafia. E conduce sempre più a sostenere la libertà di informare per la quale Peppino è stato ucciso
Sono passati trentadue anni da quando il giornalista di Radio Aut, che da Cinisi denunciava gli intrecci tra mafia e politica, fu ucciso sulle rotaie della ferrovia Trapani-Palermo. Non sono trascorsi invano. Il suo esempio alla denuncia e alla ribellione contro Cosa nostra trascina i giovani di oggi a dire no alla mafia. E conduce sempre più a sostenere la libertà di informare per la quale Peppino è stato ucciso
Quella di Peppino Impastato è una storia di coraggio e di riscatto consumata in una terra difficile ma straordinaria. Un ragazzo che negli anni Settanta aveva deciso di dichiarare guerra alla mafia denunciandone gli intrecci illeciti con la politica e i traffici di droga. Lo faceva attraverso Radio Aut, un'antenna libera che Peppino e i suoi amici avevano acceso nel piccolo paese di Cinisi, alle porte di Palermo. In poco tempo con la sua informazione era diventato una spina nel fianco del capomafia che viveva a cento passi da casa sua. E nell'isolamento di un paese interamente controllato dal potente boss Gaetano Badalamenti, Peppino costituiva per la sua sola esistenza un affronto per il capomafia, rappresentando ogni sua parola una sfida allo strapotere dei mafiosi. Era la libera informazione che non piaceva a Cosa nostra. Come oggi non piace a chi propone leggi bavaglio per i giornalisti. Per questo Impastato andava eliminato con la violenza, e dopo la sua morte calunniato per evitare che diventasse un martire, un simbolo dell?antimafia, creando la messinscena di un Peppino eversore, vittima dei preparativi di un fallito attentato terroristico sui binari della ferrovia. Era un militante della sinistra extraparlamentare Peppino, e quando viene ucciso ha trent'anni. Lo assassinano in modo atroce, mettendogli nel petto - dopo averlo legato sulle rotaie della ferrovia - una carica di tritolo. Fece rumore, l'esplosione. Un gran fragore ruppe il silenzio la notte dell'8 maggio 1978. Eppure nessuno volle sentire quel botto: Cinisi, già famosa per aver dato i natali a Badalamenti, rimase impassibile, coi suoi uomini d'onore dislocati nei punti strategici del paese a guardare lo svolgimento delle indagini non senza ostentare un ghigno di soddisfazione. Gli investigatori non vollero sentire neppure la società civile siciliana, e i giornali, come certa magistratura catalogarono immediatamente quel delitto di mafia, il primo della lunga mattanza, come un “incidente” capitato ad un ”terrorista” che stava per compiere un attentato e nello stesso giorno in cui le Brigate rosse restituivano agli italiani il corpo di Aldo Moro. Già, perché Peppino Impastato aveva almeno due “peccati d'origine”: il primo, non era uomo delle istituzioni ma un cittadino semplice; il secondo, era comunista e poco importava se la sua attività di militante, di giornalista che faceva contro informazione dai microfoni della piccola “Radio Aut” , era rivolta esclusivamente a denunciare gli interessi dei mafiosi, di don Tano e dei suoi accoliti politicanti travestiti da amministratori pubblici. Sono trentadue anni, adesso. Non sono trascorsi invano. E nemmeno Peppino è morto invano. Il suo esempio alla denuncia e alla ribellione da Cosa nostra trascina i giovani di oggi a dire no alla mafia. E conduce sempre più a sostenere la libertà di informare per la quale Peppino è stato ucciso.
L’Espresso, 07 maggio 2010
L’Espresso, 07 maggio 2010
Napolitano a Trapani, a 150 anni dallo sbarco dei Mille
di RINO GIACALONE
Il presidente in visita nella provincia dove si racconta che la mafia non esiste....Nella sua «agenda» per la visita in tre Comuni della Provincia di Trapani, Marsala, Salemi e Calatafimi, in occasione dei 150 anni dallo sbarco a Marsala dei Mille del generale Giuseppe Garibaldi, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano troverà anche l’argomento mafia e lotta a Cosa Nostra. E questo perchè questa sollecitazione gli giungerà da due parti, in maniera opposta e diversa però. Da un lato il sindaco di Salemi Vittorio Sgarbi che prima che sindaco resta il più famoso pirotecnico (per le sue esternazioni colorate e vivaci) polemista d’Italia ma anche uomo che vive e promuove le arti fuori dai classici sistemi, rendendole vive quanto provocatorie, e in questo caso Salemi è diventato per lui più che una città da amministrare (incombenze che lascia ai locali) un palcoscenico e scenario di un possibile reality. Sgarbi confermando un intento che risale già ai primi mesi della sua elezione a sindaco, profitterà della presenza di martedì prossimo di Napolitano a Salemi (la cittadina del Belice fu proclamata da Garibaldi prima capitale d’Italia nell’occasione in cui il generale dichiarò la dittatura dopo avere vinto le prime battaglie contro i Borboni dopo lo sbarco a Marsala) per inaugurare il «museo della mafia». Una idea che lui esternò, col consenso del fotografo e allora suo assessore Oliviero Toscani, tempo addietro, quando andava dicendo che in fin dei conti la mafia non esisteva più, facendo, a prova di ciò, l’elenco dei mafiosi arrestati, i risultati delle forze dell’ordine contro il pizzo mafioso, l’assenza di tentativi di condizionare le amministrazioni, chiedendo in giro se c’era qualcuno che conosceva qualche mafioso, ricevendo risposte tutte negative. E dunque secondo questo ragionamento la mafia era roba da museo. Ora quello che è successo nel frattempo in provincia di Trapani in particolare, dove procede inarrestabile la «caccia» al super latitante Matteo Messina Denaro, strada lastricata da decine e decine di arresti, insospettabili complici trovati a dare copertura al capo mafia, probabilmente ha fatto raddrizzare il tiro a Vittorio Sgarbi che presentando alla stampa il «museo della mafia» ha affermato che vuole rappresentare un preciso pensiero, «vogliamo immaginare che la mafia sia morta» ha detto. Bello auspicio, ma guai a non fare i conti con la realtà. E questi conti li invitano a fare i sindacati di Polizia che con un loro documento diretto al presidente della Repubblica (e questo è il secondo spunto che porta a vedere scritto nell’agenda del Capo dello Stato l’argomento lotta a Cosa Nostra) dicono che le cose non vanno mica tanto bene nella provincia che non solo è regno e nascondiglio del boss belicino Messina Denaro, ma che, a parte Matteo Messina Denaro, è indicata da tempo come lo «zoccolo duro» di Cosa Nostra, per la storica presenza di una mafia radicata nella borghesia, una provincia dove l’illegalità è riuscita a diventare sistema, conquistando quasi parvenza di legalità. Dicono i sindacati di Polizia, tutti, nessuno escluso: come è possibile combattere mafia e mafiosi se poi il ministero dell’Interno taglia le risorse, non rinnova le attrezzature, lascia pericolosi vuoti di organico nei cinque commissariati della provincia, a cominciare da quello di Castelvetrano dove la barriera dovrebbe essere più alta perchè è quei che Messina Denaro se non si nasconde trova terreno fertile per la sua latitanza e appoggi incredibili. Una storia è recentissima, riguarda i fondi messi a disposizione per pagare straordinari e missioni ai poliziotti della Questura. Non solo a quelli impegnati nella ricerca del latitante e nella lotta alla mafia, ma a tutti i poliziotti, per tutti i servizi. Il fondo è lo stesso del 2009, 50 mila euro, a febbraio questi fondi risultavano già spesi per gli agenti impegnati nelle indagini antimafia. La stessa cosa precisa precisa era successa già l’anno scorso. Materialmente quest’anno questi fondi sono stati liquidati a chi attendeva da due anni il pagamento di missioni e straordinari. La lotta alla mafia però continua e il presidente Napolitano dovrebbe ringraziare uno per uno tutte le donne e gli uomini delle forze dell’ordine impegnati su questo fronte che nonostante tutto, nonostante si sentano dire che la mafia non esiste, continuano ogni giorno questa «guerra» che continua. È una «guerra» oramai che la mafia combatte senza armi, non spara più, ma che Cosa Nostra prosegue cercando di aumentare ogni giorno che passa il grado di infiltrazione nel tessuto politico, economico, imprenditoriale. Una mafia che vuole essere sommersa ma che il lavoro di magistrati e investigatori riescono a non far restare tale. Una mafia che però continua a trovare sponde assurde di complicità, perchè c’è un tessuto sociale che è corrotto che continua a pensare che la mafia sia solo quella che mostra coppole e lupare, quella che finirà esposta nel museo creato da Sgarbi a Salemi. «Era forse meglio fare un museo dell’antimafia» ha detto pochi giorni addietro don Luigi Ciotti presidente di Libera durante un incontro ad Erice con gli studenti. questore di Trapani Giuseppe Gualtieri, il poliziotto che da capo della Mobile di Palermo nell’aprile 2006 catturò il super boss Bernardo Provenzano, fa spesso una analisi precisa della presenza mafiosa nel trapanese: «Manca la condivisione di tutti quanti. È vero che larghe fasce di cittadini hanno preso coscienza del fenomeno e sono dalla nostra parte, gran parte dei politici hanno capito che la mafia è una palla al piede, ci sono gli amministratori pubblici che vogliono realizzare le opere, ma bisogna avere la consapevolezza che si può avere sviluppo solo con la legalità, ma bisogna volerlo e volerlo tutti, perchè se qualcuno prende una scorciatoia è favorito sul mercato rispetto a chi non la prende. Le indagini hanno dimostrato che senza il burocrate complice, il politico ammiccante, l’imprenditore colluso, l’imbroglio non si può fare, se ogni categoria, anche dentro le Istituzioni, fa la sua parte con il massimo della sobrietà possibile questa battaglia si vince tranquillamente, la mafia sarà la patologia del sistema e non la fisiologica normalità, noi vogliamo che la mafia, che continuerà ad esserci non siamo degli illusi, resti un fenomeno da curare e non impregni il mondo di lavoro dove deve starci la gente di buona volontà e che vuole crescere. Dobbiamo riuscire a continuare ad affermare un principio sicurezza è un concetto globale, la lotta alla mafia è la primaria battaglia che dobbiamo vincere perchè dietro la mafia si nascondono tutta una serie di piccole illegalità e disagi sociali, che sfociano anche nella piccola criminalità, nel vandalismo, nel teppismo. Per cui bisogna iniziare dalla “causa” (mafia) e non dall’“effetto” (criminalità quotidiana)».Per non parlare di mafia, spesso alcuni finiscono col discutere (ovviamente non bene) di antimafia e chi parla di antimafia viene tacciato di essere «professionista» riprendendo in modo distorto quell’articolo dello scrittore Leonardo Sciascia comparso sul Corriere della Sera il giorno della nomina di Paolo Borsellino a capo della Procura di Marsala. Quasi fosse l’antimafia «il problema»: «Diciamo intanto – osservò in una intervista il questore Gualtieri – che chi diceva (davanti ai morti ammazzati e alle vittime straziate dal tritolo mafioso ndr) che la mafia non esisteva probabilmente aveva magari un suo tornaconto politico e poi di conseguenza economico; oggi la categoria di chi dice che la mafia è sconfitta è molto più eterogenea, c’è chi lo dice con orgoglio e con grande buonafede, e c’è chi invece chi lo dice perchè magari gli conviene spostare l’attenzione sul problema mafia e magari dirottarla verso alcuni altri reati e problematiche sociali, con ovviamente il conseguente abbassamento della guardia nei confronti della lotta alla mafia, ottenendo anche maggior libertà. Io direi, e sono ottimista, i molti sono in buona fede, i pochi magari perchè attrezzati e molto più “professionisti” nel sostenere questa tesi, sono in malafede».Ma c’è uno Stato che forse questa lotta alla mafia non la vuole fare fino in fondo se boss del calibro del mazarese Giovanni Bastone proprio di recente è uscito dal 41 bis e dal carcere nonostante l’ergastolo, perchè ritenuto ammalato, nonostante le vittime che si porta sulla coscienza, anche quelle delle stragi del 1993, oppure c’è una legislazione che non colpisce i nuovi (si fa per dire) affari della mafia, le truffe, le false fatture, il controllo dei fondi pubblici, gli appalti pilotati: «Le operazioni sono la cura del male, poi serve la profilassi - ha affermato il vice questore e capo della Mobile di Trapani Giuseppe Linares - la nuova mentalità con la quale si guarda alle operazioni antimafia, la presa di coscienza che viene da semplici cittadini ed imprese, deve tradursi in strumenti, serve un adeguamento del sistema normativo per aiutare questo processo virtuoso». Oggi un mafioso colto a turbare un appalto rischia di non fare un giorno di carcere e di cavarsela con una ammenda se non viene provata la partecipazione a Cosa Nostra.Domani sera il presidente Napolitano dormirà, ospite del prefetto Stefano Trotta in quella prefettura che nel 2003 ebbe un prefetto, Fulvio Sodano che perchè difendeva i beni confiscati, per sottrarli al tentativo della mafia di riprenderseli, fu tacciato da un senatore della Repubblica, allora sottosegretario all’Interno, di essere una «favoreggiatore», favoreggiatore di quella impresa confiscata. Peccato che a Salemi non è stato fatto il museo dell’antimafia, perchè Sodano, al quale si augura di combattere e vincere la malattia che lo affligge, avrebbe meritato la presenza. Oggi c’è il museo della mafia dove ci si è messo pure Sgarbi per risposta provocatoria ai familiari degli esattori Salvo che hanno contestato la presenza dei loro congiunti, i cugini Nino e Ignazio, il primo morto a causa di un male incurabile, l’altro ucciso da un altrettanto male incurabile, quello però fatto del piombo mafioso, fu ammazzato nel settembre del 1992. Sgarbi è voluto entrarci ricordando una indagine che lo riguardò (a Reggio Calabria) e dalla quale fu prosciolto. A questo punto avrebbe dovuto metterci anche le pagine che riguardano quello che lui nonostante tutto continua a considerare il suo mentore (politico), ossia l’ex deputato regionale Pino Giammarinaro, boss (politico) di Salemi, assolto da un processo di mafia (grazie alla legge sul giusto processo che impedì l’uso dei verbali dei pentiti) e finito sorvegliato speciale. Ma Giammarinaro in questa provincia dove forse non a caso si dice che la mafia è battuta e la si vuole immaginare morta continua ad essere un intoccabile e continua a fare politica. Dovrebbe colpire l’anomalia che lo fa senza mai comparire.Oggi ricordiamo lo sbarco dei Mille e di Garibaldi dell’11 maggio 1860. L’Italia Unita purtroppo resta tale più per le mafie che dalle Alpi alla Sicilia ne condizionano la vita che non per altro, resta su tutto il resto l’Italia a due velocità. Una ragione in più per lavorare per ricostruire quell'Unità e non per disfarla.
Rino Giacalone
Il presidente in visita nella provincia dove si racconta che la mafia non esiste....Nella sua «agenda» per la visita in tre Comuni della Provincia di Trapani, Marsala, Salemi e Calatafimi, in occasione dei 150 anni dallo sbarco a Marsala dei Mille del generale Giuseppe Garibaldi, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano troverà anche l’argomento mafia e lotta a Cosa Nostra. E questo perchè questa sollecitazione gli giungerà da due parti, in maniera opposta e diversa però. Da un lato il sindaco di Salemi Vittorio Sgarbi che prima che sindaco resta il più famoso pirotecnico (per le sue esternazioni colorate e vivaci) polemista d’Italia ma anche uomo che vive e promuove le arti fuori dai classici sistemi, rendendole vive quanto provocatorie, e in questo caso Salemi è diventato per lui più che una città da amministrare (incombenze che lascia ai locali) un palcoscenico e scenario di un possibile reality. Sgarbi confermando un intento che risale già ai primi mesi della sua elezione a sindaco, profitterà della presenza di martedì prossimo di Napolitano a Salemi (la cittadina del Belice fu proclamata da Garibaldi prima capitale d’Italia nell’occasione in cui il generale dichiarò la dittatura dopo avere vinto le prime battaglie contro i Borboni dopo lo sbarco a Marsala) per inaugurare il «museo della mafia». Una idea che lui esternò, col consenso del fotografo e allora suo assessore Oliviero Toscani, tempo addietro, quando andava dicendo che in fin dei conti la mafia non esisteva più, facendo, a prova di ciò, l’elenco dei mafiosi arrestati, i risultati delle forze dell’ordine contro il pizzo mafioso, l’assenza di tentativi di condizionare le amministrazioni, chiedendo in giro se c’era qualcuno che conosceva qualche mafioso, ricevendo risposte tutte negative. E dunque secondo questo ragionamento la mafia era roba da museo. Ora quello che è successo nel frattempo in provincia di Trapani in particolare, dove procede inarrestabile la «caccia» al super latitante Matteo Messina Denaro, strada lastricata da decine e decine di arresti, insospettabili complici trovati a dare copertura al capo mafia, probabilmente ha fatto raddrizzare il tiro a Vittorio Sgarbi che presentando alla stampa il «museo della mafia» ha affermato che vuole rappresentare un preciso pensiero, «vogliamo immaginare che la mafia sia morta» ha detto. Bello auspicio, ma guai a non fare i conti con la realtà. E questi conti li invitano a fare i sindacati di Polizia che con un loro documento diretto al presidente della Repubblica (e questo è il secondo spunto che porta a vedere scritto nell’agenda del Capo dello Stato l’argomento lotta a Cosa Nostra) dicono che le cose non vanno mica tanto bene nella provincia che non solo è regno e nascondiglio del boss belicino Messina Denaro, ma che, a parte Matteo Messina Denaro, è indicata da tempo come lo «zoccolo duro» di Cosa Nostra, per la storica presenza di una mafia radicata nella borghesia, una provincia dove l’illegalità è riuscita a diventare sistema, conquistando quasi parvenza di legalità. Dicono i sindacati di Polizia, tutti, nessuno escluso: come è possibile combattere mafia e mafiosi se poi il ministero dell’Interno taglia le risorse, non rinnova le attrezzature, lascia pericolosi vuoti di organico nei cinque commissariati della provincia, a cominciare da quello di Castelvetrano dove la barriera dovrebbe essere più alta perchè è quei che Messina Denaro se non si nasconde trova terreno fertile per la sua latitanza e appoggi incredibili. Una storia è recentissima, riguarda i fondi messi a disposizione per pagare straordinari e missioni ai poliziotti della Questura. Non solo a quelli impegnati nella ricerca del latitante e nella lotta alla mafia, ma a tutti i poliziotti, per tutti i servizi. Il fondo è lo stesso del 2009, 50 mila euro, a febbraio questi fondi risultavano già spesi per gli agenti impegnati nelle indagini antimafia. La stessa cosa precisa precisa era successa già l’anno scorso. Materialmente quest’anno questi fondi sono stati liquidati a chi attendeva da due anni il pagamento di missioni e straordinari. La lotta alla mafia però continua e il presidente Napolitano dovrebbe ringraziare uno per uno tutte le donne e gli uomini delle forze dell’ordine impegnati su questo fronte che nonostante tutto, nonostante si sentano dire che la mafia non esiste, continuano ogni giorno questa «guerra» che continua. È una «guerra» oramai che la mafia combatte senza armi, non spara più, ma che Cosa Nostra prosegue cercando di aumentare ogni giorno che passa il grado di infiltrazione nel tessuto politico, economico, imprenditoriale. Una mafia che vuole essere sommersa ma che il lavoro di magistrati e investigatori riescono a non far restare tale. Una mafia che però continua a trovare sponde assurde di complicità, perchè c’è un tessuto sociale che è corrotto che continua a pensare che la mafia sia solo quella che mostra coppole e lupare, quella che finirà esposta nel museo creato da Sgarbi a Salemi. «Era forse meglio fare un museo dell’antimafia» ha detto pochi giorni addietro don Luigi Ciotti presidente di Libera durante un incontro ad Erice con gli studenti. questore di Trapani Giuseppe Gualtieri, il poliziotto che da capo della Mobile di Palermo nell’aprile 2006 catturò il super boss Bernardo Provenzano, fa spesso una analisi precisa della presenza mafiosa nel trapanese: «Manca la condivisione di tutti quanti. È vero che larghe fasce di cittadini hanno preso coscienza del fenomeno e sono dalla nostra parte, gran parte dei politici hanno capito che la mafia è una palla al piede, ci sono gli amministratori pubblici che vogliono realizzare le opere, ma bisogna avere la consapevolezza che si può avere sviluppo solo con la legalità, ma bisogna volerlo e volerlo tutti, perchè se qualcuno prende una scorciatoia è favorito sul mercato rispetto a chi non la prende. Le indagini hanno dimostrato che senza il burocrate complice, il politico ammiccante, l’imprenditore colluso, l’imbroglio non si può fare, se ogni categoria, anche dentro le Istituzioni, fa la sua parte con il massimo della sobrietà possibile questa battaglia si vince tranquillamente, la mafia sarà la patologia del sistema e non la fisiologica normalità, noi vogliamo che la mafia, che continuerà ad esserci non siamo degli illusi, resti un fenomeno da curare e non impregni il mondo di lavoro dove deve starci la gente di buona volontà e che vuole crescere. Dobbiamo riuscire a continuare ad affermare un principio sicurezza è un concetto globale, la lotta alla mafia è la primaria battaglia che dobbiamo vincere perchè dietro la mafia si nascondono tutta una serie di piccole illegalità e disagi sociali, che sfociano anche nella piccola criminalità, nel vandalismo, nel teppismo. Per cui bisogna iniziare dalla “causa” (mafia) e non dall’“effetto” (criminalità quotidiana)».Per non parlare di mafia, spesso alcuni finiscono col discutere (ovviamente non bene) di antimafia e chi parla di antimafia viene tacciato di essere «professionista» riprendendo in modo distorto quell’articolo dello scrittore Leonardo Sciascia comparso sul Corriere della Sera il giorno della nomina di Paolo Borsellino a capo della Procura di Marsala. Quasi fosse l’antimafia «il problema»: «Diciamo intanto – osservò in una intervista il questore Gualtieri – che chi diceva (davanti ai morti ammazzati e alle vittime straziate dal tritolo mafioso ndr) che la mafia non esisteva probabilmente aveva magari un suo tornaconto politico e poi di conseguenza economico; oggi la categoria di chi dice che la mafia è sconfitta è molto più eterogenea, c’è chi lo dice con orgoglio e con grande buonafede, e c’è chi invece chi lo dice perchè magari gli conviene spostare l’attenzione sul problema mafia e magari dirottarla verso alcuni altri reati e problematiche sociali, con ovviamente il conseguente abbassamento della guardia nei confronti della lotta alla mafia, ottenendo anche maggior libertà. Io direi, e sono ottimista, i molti sono in buona fede, i pochi magari perchè attrezzati e molto più “professionisti” nel sostenere questa tesi, sono in malafede».Ma c’è uno Stato che forse questa lotta alla mafia non la vuole fare fino in fondo se boss del calibro del mazarese Giovanni Bastone proprio di recente è uscito dal 41 bis e dal carcere nonostante l’ergastolo, perchè ritenuto ammalato, nonostante le vittime che si porta sulla coscienza, anche quelle delle stragi del 1993, oppure c’è una legislazione che non colpisce i nuovi (si fa per dire) affari della mafia, le truffe, le false fatture, il controllo dei fondi pubblici, gli appalti pilotati: «Le operazioni sono la cura del male, poi serve la profilassi - ha affermato il vice questore e capo della Mobile di Trapani Giuseppe Linares - la nuova mentalità con la quale si guarda alle operazioni antimafia, la presa di coscienza che viene da semplici cittadini ed imprese, deve tradursi in strumenti, serve un adeguamento del sistema normativo per aiutare questo processo virtuoso». Oggi un mafioso colto a turbare un appalto rischia di non fare un giorno di carcere e di cavarsela con una ammenda se non viene provata la partecipazione a Cosa Nostra.Domani sera il presidente Napolitano dormirà, ospite del prefetto Stefano Trotta in quella prefettura che nel 2003 ebbe un prefetto, Fulvio Sodano che perchè difendeva i beni confiscati, per sottrarli al tentativo della mafia di riprenderseli, fu tacciato da un senatore della Repubblica, allora sottosegretario all’Interno, di essere una «favoreggiatore», favoreggiatore di quella impresa confiscata. Peccato che a Salemi non è stato fatto il museo dell’antimafia, perchè Sodano, al quale si augura di combattere e vincere la malattia che lo affligge, avrebbe meritato la presenza. Oggi c’è il museo della mafia dove ci si è messo pure Sgarbi per risposta provocatoria ai familiari degli esattori Salvo che hanno contestato la presenza dei loro congiunti, i cugini Nino e Ignazio, il primo morto a causa di un male incurabile, l’altro ucciso da un altrettanto male incurabile, quello però fatto del piombo mafioso, fu ammazzato nel settembre del 1992. Sgarbi è voluto entrarci ricordando una indagine che lo riguardò (a Reggio Calabria) e dalla quale fu prosciolto. A questo punto avrebbe dovuto metterci anche le pagine che riguardano quello che lui nonostante tutto continua a considerare il suo mentore (politico), ossia l’ex deputato regionale Pino Giammarinaro, boss (politico) di Salemi, assolto da un processo di mafia (grazie alla legge sul giusto processo che impedì l’uso dei verbali dei pentiti) e finito sorvegliato speciale. Ma Giammarinaro in questa provincia dove forse non a caso si dice che la mafia è battuta e la si vuole immaginare morta continua ad essere un intoccabile e continua a fare politica. Dovrebbe colpire l’anomalia che lo fa senza mai comparire.Oggi ricordiamo lo sbarco dei Mille e di Garibaldi dell’11 maggio 1860. L’Italia Unita purtroppo resta tale più per le mafie che dalle Alpi alla Sicilia ne condizionano la vita che non per altro, resta su tutto il resto l’Italia a due velocità. Una ragione in più per lavorare per ricostruire quell'Unità e non per disfarla.
Rino Giacalone
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