IL TESTO INTEGRALE DELL’APPELLO
La Sicilia ha bisogno di una svolta radicale. Le dimissioni del governatore Cuffaro lasciano intatto il sistema clientelare che conosciamo e che oggi grazie ai fermenti che la società siciliana sta vivendo, potrebbe finalmente essere scardinato.
E’ necessario che la politica faccia un salto di qualità scegliendo come candidato alla presidenza dell’isola chi per storia e identità personale possa raccogliere e attrarre attorno a se le energie migliori della Sicilia al di là delle logiche di schieramento e di partito. Un candidato che sappia rivoluzionare i meccanismi e le logiche della politica, in sintonia con il meraviglioso percorso di cambiamento culturale in corso tra pezzi della società siciliana. Rita Borsellino ha queste caratteristiche. Se i partiti vogliono davvero voltare pagina, se il centrosinistra lo vuole, allora sappia guardare con occhi attenti a cosa accade fuori dai palazzi e alla storia di questa terra.
FIRME
Vincenzo Consolo
Roberto Alajmo
Gianni Allegra
Roberto Andò
Emma Dante
Daniela Dolci
Catena Fiorello
Leo Gullotta
Lucia Sardo
Pasquale Scimeca
Corrado Stajano
giovedì 31 gennaio 2008
Giornalista aggredito da figlio del boss Partinico
Giuseppe Maniaci, direttore di una tv privata, preso a calci e pugni da un minorenne che avrebbe tentato anche di strangolarlo annodandogli la cravatta intorno al collo. "Una vendetta per un servizio", spiega il cronista
PARTINICO (PALERMO) - La polizia di Stato ha denunciato per lesioni e minacce il figlio minorenne di un boss mafioso di Partinico condannato all'ergastolo con sentenza definitiva. E' accusato, insieme con un complice ancora da identificare, di aver aggredito a calci e pugni il giornalista Giuseppe Maniaci, direttore della tv privata Telejato, ieri sera, in via Di Benedetto, a Partinico. Secondo una prima ricostruzione degli investigatori, il figlio del boss, che ha 16 anni, avrebbe anche tentato di strangolare il giornalista annodandogli la cravatta intorno al collo. Per tutta la notte i poliziotti hanno eseguito numerose perquisizioni in abitazioni. Gli agenti hanno sequestrato una Fiat Punto che sarebbe stata utilizzata dal ragazzo di 16 anni e dal complice per allontanarsi dopo l'aggressione."L'ultima goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato un servizio trasmesso ieri sull'abbattimento delle ultime stalle, in contrada Valguarnera, appartenute ai boss di Partinico". Questa l'ipotesi del giornalista, Giuseppe Maniaci. "Ho ancora i lividi - ha aggiunto - ma alle 14 leggerò il telegiornale". "La brutale aggressione mafiosa subita dal giornalista Pino Maniaci, malmenato a calci e pugni da due giovani, uno dei quali riconosciuto dalla vittima come uno dei figli di un boss di Partinico, è l'ennesimo gravissimo attentato alla libertà di informazione", dice Enrico Bellavia, segretario dell'Assostampa di Palermo."Tutti i giornalisti - aggiunge Bellavia - sono vicini a Maniaci che con pochi mezzi e grande determinazione, subendo anche un bombardamento giudiziario senza precedenti (270 querele, buona parte delle quali relative alla sua opera di denuncia sui fumi della distilleria Bertolino) costituisce un baluardo di informazione insostituibile in un territorio difficile e infido, dove la mafia ha spadroneggiato condizionando la vita pubblica".
30/01/2008
LA SOLIDARIETA'
Giornalista Telejato aggredito, solidarietà Russo (PD)
“Conosco bene Maniaci e conosco suo impegno professionale in un territorio difficile come quello nel quale lavora. L’aggressione nei suoi confronti è un atto grave, ma sono certo che non gli impedirà di continuare a lavorare con coraggio, come ha sempre fatto”. Lo dice Tonino Russo, vicesegretario regionale del Partito Democratico in Sicilia che esprime solidarietà a Giuseppe Maniaci, direttore di Telejato, aggredito ieri sera nel Palermitano.
“MI auguro – aggiunge – che i responsabili di questa ignobile aggressione siano puniti e che si faccia presto piena luce su ciò che è accaduto”.
Cracolici (PD), solidarietà al direttore Telejato
“Fare informazione libera continua ad essere una scelta rischiosa in Sicilia. L’aggressione al direttore di Telejato è un atto vile e vigliacco, che riaccende i riflettori sulla difficoltà e sui rischi dell’essere giornalisti ‘scomodi’ e di denuncia nella nostra regione”. Lo dice Antonello Cracolici, capogruppo del Partito Democratico all’Ars, che esprime solidarietà a Pino Maniaci, direttore di Telejato, vittima di un’aggressione.
“A lui e ai suoi colleghi di Telejato – aggiunge – rivolgo l’invito ad andare avanti nel loro lavoro quotidiano, nonostante episodi gravi ed inqietanti come questo, che non devono essere sottovalutati sotto alcun punto di vista”.
PARTINICO (PALERMO) - La polizia di Stato ha denunciato per lesioni e minacce il figlio minorenne di un boss mafioso di Partinico condannato all'ergastolo con sentenza definitiva. E' accusato, insieme con un complice ancora da identificare, di aver aggredito a calci e pugni il giornalista Giuseppe Maniaci, direttore della tv privata Telejato, ieri sera, in via Di Benedetto, a Partinico. Secondo una prima ricostruzione degli investigatori, il figlio del boss, che ha 16 anni, avrebbe anche tentato di strangolare il giornalista annodandogli la cravatta intorno al collo. Per tutta la notte i poliziotti hanno eseguito numerose perquisizioni in abitazioni. Gli agenti hanno sequestrato una Fiat Punto che sarebbe stata utilizzata dal ragazzo di 16 anni e dal complice per allontanarsi dopo l'aggressione."L'ultima goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato un servizio trasmesso ieri sull'abbattimento delle ultime stalle, in contrada Valguarnera, appartenute ai boss di Partinico". Questa l'ipotesi del giornalista, Giuseppe Maniaci. "Ho ancora i lividi - ha aggiunto - ma alle 14 leggerò il telegiornale". "La brutale aggressione mafiosa subita dal giornalista Pino Maniaci, malmenato a calci e pugni da due giovani, uno dei quali riconosciuto dalla vittima come uno dei figli di un boss di Partinico, è l'ennesimo gravissimo attentato alla libertà di informazione", dice Enrico Bellavia, segretario dell'Assostampa di Palermo."Tutti i giornalisti - aggiunge Bellavia - sono vicini a Maniaci che con pochi mezzi e grande determinazione, subendo anche un bombardamento giudiziario senza precedenti (270 querele, buona parte delle quali relative alla sua opera di denuncia sui fumi della distilleria Bertolino) costituisce un baluardo di informazione insostituibile in un territorio difficile e infido, dove la mafia ha spadroneggiato condizionando la vita pubblica".
30/01/2008
LA SOLIDARIETA'
Giornalista Telejato aggredito, solidarietà Russo (PD)
“Conosco bene Maniaci e conosco suo impegno professionale in un territorio difficile come quello nel quale lavora. L’aggressione nei suoi confronti è un atto grave, ma sono certo che non gli impedirà di continuare a lavorare con coraggio, come ha sempre fatto”. Lo dice Tonino Russo, vicesegretario regionale del Partito Democratico in Sicilia che esprime solidarietà a Giuseppe Maniaci, direttore di Telejato, aggredito ieri sera nel Palermitano.
“MI auguro – aggiunge – che i responsabili di questa ignobile aggressione siano puniti e che si faccia presto piena luce su ciò che è accaduto”.
Cracolici (PD), solidarietà al direttore Telejato
“Fare informazione libera continua ad essere una scelta rischiosa in Sicilia. L’aggressione al direttore di Telejato è un atto vile e vigliacco, che riaccende i riflettori sulla difficoltà e sui rischi dell’essere giornalisti ‘scomodi’ e di denuncia nella nostra regione”. Lo dice Antonello Cracolici, capogruppo del Partito Democratico all’Ars, che esprime solidarietà a Pino Maniaci, direttore di Telejato, vittima di un’aggressione.
“A lui e ai suoi colleghi di Telejato – aggiunge – rivolgo l’invito ad andare avanti nel loro lavoro quotidiano, nonostante episodi gravi ed inqietanti come questo, che non devono essere sottovalutati sotto alcun punto di vista”.
Caso De Mauro ad una svolta?
Non è del boss della 'ndrangheta, Salvatore Belvedere, il cadavere sepolto nel cimitero di Confluenti. Accertamenti scientifici sui familiari del giornalista scomparso a Palermo nel 1970 per la comparazione della salma riesumata in Calabria
PALERMO - Non è del boss della 'ndrangheta, Salvatore Belvedere, il cadavere sepolto nel cimitero di Conflenti, in provincia di Lamezia Terme. Lo ha accertato l'esame svolto, su ordine della Procura di Catanzaro, dal medico legale che deve ancora chiarire però, se i resti siano del giornalista Mauro De Mauro, scomparso a Palermo il 16 settembre del 1970. Per quest'ultimo esame, il perito incaricato dalla Dda di Catanzaro ha ottenuto una proroga che scade alla fine di febbraio.La prossima settimana verrà eseguita, dunque, la comparazione del Dna dei resti della salma con quello dei familiari del cronista. Il cadavere riesumato ed esaminato era stata identificato, nel 1971, come quello di Belvedere. Era stato sepolto, dopo il riconoscimento, nel cimitero di Conflenti. Il corpo era stato ritrovato carbonizzato.L'analisi accerterà quindi se, come rivelato da un collaboratore di giustizia ai magistrati di Catanzaro, il corpo sia, invece, del giornalista, le cui spoglie non sono mai state ritrovate. La comparazione, che ha escluso si tratti del cadavere di Belvedere, era fondamentale per ulteriori accertamenti dopo le dichiarazioni di un pentito.Per la scomparsa del cronista de L'Ora, Mauro De Mauro, è in corso a Palermo un processo, davanti alla corte d'assise presieduta da Giancarlo Trizzino, a carico del capomafia Salvatore Riina. La famiglia De Mauro è costituita parte civile attraverso l'avvocato Francesco Crescimanno che ha nominato come consulente legale, incaricato di partecipare ai rilievi sulla salma sepolta nel cimitero di Conflenti, il professore Paolo Procaccianti, direttore dell'istituto di medicina legale di Palermo.
30/01/2008
PALERMO - Non è del boss della 'ndrangheta, Salvatore Belvedere, il cadavere sepolto nel cimitero di Conflenti, in provincia di Lamezia Terme. Lo ha accertato l'esame svolto, su ordine della Procura di Catanzaro, dal medico legale che deve ancora chiarire però, se i resti siano del giornalista Mauro De Mauro, scomparso a Palermo il 16 settembre del 1970. Per quest'ultimo esame, il perito incaricato dalla Dda di Catanzaro ha ottenuto una proroga che scade alla fine di febbraio.La prossima settimana verrà eseguita, dunque, la comparazione del Dna dei resti della salma con quello dei familiari del cronista. Il cadavere riesumato ed esaminato era stata identificato, nel 1971, come quello di Belvedere. Era stato sepolto, dopo il riconoscimento, nel cimitero di Conflenti. Il corpo era stato ritrovato carbonizzato.L'analisi accerterà quindi se, come rivelato da un collaboratore di giustizia ai magistrati di Catanzaro, il corpo sia, invece, del giornalista, le cui spoglie non sono mai state ritrovate. La comparazione, che ha escluso si tratti del cadavere di Belvedere, era fondamentale per ulteriori accertamenti dopo le dichiarazioni di un pentito.Per la scomparsa del cronista de L'Ora, Mauro De Mauro, è in corso a Palermo un processo, davanti alla corte d'assise presieduta da Giancarlo Trizzino, a carico del capomafia Salvatore Riina. La famiglia De Mauro è costituita parte civile attraverso l'avvocato Francesco Crescimanno che ha nominato come consulente legale, incaricato di partecipare ai rilievi sulla salma sepolta nel cimitero di Conflenti, il professore Paolo Procaccianti, direttore dell'istituto di medicina legale di Palermo.
30/01/2008
Mafia, beni per 300 milioni di euro sequestrati al prestanome del boss Matteo Messina Denaro
Secondo la Dia, dietro all'imprenditore siciliano Giuseppe Grigoli, l'ultimo padrino latitante di Cosa Nostra Matteo Messina Denaro. Oltre a società e supermercati, sequestrati 133 terreni e 220 fabbricati
PALERMO - Beni per un valore di 300 milioni di euro sono stati sequestrati dalla Direzione investigativa antimafia all'imprenditore della grande distribuzione Giuseppe Grigoli, ritenuto un prestanome del boss trapanese Matteo Messina Denaro, ultimo capo storico di Cosa Nostra ancora latitante. Già il 20 dicembre scorso a Grigoli, 59 anni, erano stati sequestrati una società e decine di supermercati a marchio Despar in tutta la Sicilia. Ulteriori indagini hanno consentito di individuare adesso un'altra società oltre a un patrimonio immobiliare immenso, costituito da centinaia di terreni e di fabbricati in tutta la Sicilia. Il provvedimento cautelare è stato firmato dal gip Donatella Puleo, a conclusione delle indagini coordinate dai procuratori aggiunti Giuseppe Pignatone e Roberto Scarpinato e dai sostituti Michele Prestipino, Marzia Sabella, Roberto Piscitello e Costantino De Robbio. Il sequestro riguarda in particolare quote sociali della società "Grigoli distribuzione srl", per un valore di 14 milioni di euro, e inoltre 133 terreni per un'estensione complessiva di 60 ettari, e 220 fabbricati. Si tratta in parte degli immobili in cui si trovano magazzini e decine di punti vendita "Despar" che fanno capo a Grigoli, e sequestrati come attività economiche il 20 dicembre alla società "Gruppo 6 Gdo", controllata dallo stesso imprenditore. Grigoli, originario di Castelvetrano, in provincia di Trapani, è stato arrestato nel dicembre scorso con l'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Gli investigatori sono giunti a lui anche grazie all'analisi dei pizzini ritrovati nel covo dove, lo scorso anno, è stato arrestato Bernardo Provenzano. In particolare, in alcuni dei messaggi scambiati dal boss corleonese con Messina Denaro e l'agrigentino Giuseppe Falsone, si discuteva della presenza nell'agrigentino di supermercati riconducibili a Grigoli.
(31 gennaio 2008)
PALERMO - Beni per un valore di 300 milioni di euro sono stati sequestrati dalla Direzione investigativa antimafia all'imprenditore della grande distribuzione Giuseppe Grigoli, ritenuto un prestanome del boss trapanese Matteo Messina Denaro, ultimo capo storico di Cosa Nostra ancora latitante. Già il 20 dicembre scorso a Grigoli, 59 anni, erano stati sequestrati una società e decine di supermercati a marchio Despar in tutta la Sicilia. Ulteriori indagini hanno consentito di individuare adesso un'altra società oltre a un patrimonio immobiliare immenso, costituito da centinaia di terreni e di fabbricati in tutta la Sicilia. Il provvedimento cautelare è stato firmato dal gip Donatella Puleo, a conclusione delle indagini coordinate dai procuratori aggiunti Giuseppe Pignatone e Roberto Scarpinato e dai sostituti Michele Prestipino, Marzia Sabella, Roberto Piscitello e Costantino De Robbio. Il sequestro riguarda in particolare quote sociali della società "Grigoli distribuzione srl", per un valore di 14 milioni di euro, e inoltre 133 terreni per un'estensione complessiva di 60 ettari, e 220 fabbricati. Si tratta in parte degli immobili in cui si trovano magazzini e decine di punti vendita "Despar" che fanno capo a Grigoli, e sequestrati come attività economiche il 20 dicembre alla società "Gruppo 6 Gdo", controllata dallo stesso imprenditore. Grigoli, originario di Castelvetrano, in provincia di Trapani, è stato arrestato nel dicembre scorso con l'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Gli investigatori sono giunti a lui anche grazie all'analisi dei pizzini ritrovati nel covo dove, lo scorso anno, è stato arrestato Bernardo Provenzano. In particolare, in alcuni dei messaggi scambiati dal boss corleonese con Messina Denaro e l'agrigentino Giuseppe Falsone, si discuteva della presenza nell'agrigentino di supermercati riconducibili a Grigoli.
(31 gennaio 2008)
Cuffaro sospeso da Prodi. Provocazione o atto dovuto?
Il decreto del presidente del Consiglio è stato notificato all'Ars in applicazione di una legge che interrompe l'attività degli amministratori se condannati, anche in primo grado, per favoreggiamento. L'ex governatore: "Una provocazione politica, mi ero già dimesso". Palazzo Chigi: "Un atto dovuto"
PALERMO - "Ho appreso che il presidente del consiglio dei ministri ha firmato il decreto con il quale si dispone la mia sospensione da presidente della Regione siciliana". E' quello che ha comunicato alla stampa il dimissionario presidente della Regione siciliana Salvatore Cuffaro.
"Credo - aggiunge - che tale atto sia solo da considerare come una provocazione politica poichè, come è noto, ho già lasciato spontaneamente la carica con le mie dimissioni irrevocabili. Sono esterrefatto e nel contempo preoccupato per la grave violazione di legge oltre che per l'ennesima scelta operata ignorando le prerogative dello Statuto siciliano, che è legge costituzionale, e della autonomia speciale della nostra Regione".
Il decreto del presidente del Consiglio Romano Prodi che sospende il presidente della Regione Siciliana Salvatore Cuffaro è stato notificato all'Assemblea regionale siciliana. Il provvedimento nasce in applicazione di una legge che sospende gli amministratori se condannati, anche in primo grado, per favoreggiamento.
Cuffaro, infatti, si è dimesso sabato scorso dopo le polemiche seguite alla sua condanna a cinque anni per favoreggiamento con la interdizione perpetua dai pubblici uffici. Dopo la condanna il procuratore di Palermo Francesco Messineo ha inviato la richiesta di sospensione per Cuffaro al commissario dello Stato Alberto Di Pace, come previsto dalla legge. Il commissario ha trasmesso la documentazione al dipartimento degli Affari regionali della presidenza del Consiglio.
Il governatore, dopo la condanna emessa il 18 gennaio, aveva superato nell'aula dell'Assemblea regionale siciliana la mozione di sfiducia presentata dal Centrosinistra e bocciata dalla maggioranza dei deputati regionali. Poi però sono montate le polemiche, anche da parte di esponenti della Cdl, perchè il governatore era stato fotografato con un vassoio di cannoli quasi a voler festeggiare la sentenza che ha escluso l'aggravante mafiosa. Cuffaro si è ripresentato all'Ars sabato scorso dimettendosi.
Immediata la risposta di Palazzo Chigi. "Il decreto di 'accertamento della sospensione' nei confronti del Presidente della Regione Siciliana Salvatore Cuffaro, firmato dal Presidente del Consiglio dei Ministri Romano Prodi, su proposta dei ministri dell'Interno e degli Affari Regionali, è - si legge nella nota -un atto dovuto in doveroso adempimento dell'articolo 15 della legge n° 55 del 1990 che recita : "sono sospesi di diritto dalle cariche coloro che hanno riportato una condanna non definitivà per il delitto, tra altri, di cui all'art. 378 del Codice Penale in relazione all'art. 416 bis dello stesso codice".
"Nel caso specifico il Procuratore della Repubblica del Tribunale di Palermo ha trasmesso in data 22 gennaio 2008 al Commissario dello Stato presso la Regione Sicilia la sentenza dello stesso Tribunale ai sensi dell'articolo 15, comma 4-ter, della legge 55, che recita: 'A cura della cancelleria del tribunale...i provvedimenti giudiziari che comportano la sospensione sono comunicati al Commissario del Governo. Il Commissario del Governo ne dà immediata comunicazione al Presidente del Consiglio dei Ministri il quale, sentiti il Ministro per gli affari Regionali e il Ministro dell'Interno, adotta il provvedimento che accerta la sospensione per la Regione Siciliana. Le competenze del Commissario del Governo sono esercitate dal Commissario dello Stato".
"Le dimissioni del Presidente Cuffaro non risultavano, quindi, atto sufficiente ad interrompere un procedimento previsto dalla normativa vigente, in mancanza del quale si sarebbe potuto ipotizzare anche un' omissione da parte dello stesso Presidente del Consiglio dei Ministri. Non esiste dunque alcuna motivazione politica, nè azione indotta da altri intendimenti- conclude la nota- se non il rispetto della legge".
30/01/2008
PALERMO - "Ho appreso che il presidente del consiglio dei ministri ha firmato il decreto con il quale si dispone la mia sospensione da presidente della Regione siciliana". E' quello che ha comunicato alla stampa il dimissionario presidente della Regione siciliana Salvatore Cuffaro.
"Credo - aggiunge - che tale atto sia solo da considerare come una provocazione politica poichè, come è noto, ho già lasciato spontaneamente la carica con le mie dimissioni irrevocabili. Sono esterrefatto e nel contempo preoccupato per la grave violazione di legge oltre che per l'ennesima scelta operata ignorando le prerogative dello Statuto siciliano, che è legge costituzionale, e della autonomia speciale della nostra Regione".
Il decreto del presidente del Consiglio Romano Prodi che sospende il presidente della Regione Siciliana Salvatore Cuffaro è stato notificato all'Assemblea regionale siciliana. Il provvedimento nasce in applicazione di una legge che sospende gli amministratori se condannati, anche in primo grado, per favoreggiamento.
Cuffaro, infatti, si è dimesso sabato scorso dopo le polemiche seguite alla sua condanna a cinque anni per favoreggiamento con la interdizione perpetua dai pubblici uffici. Dopo la condanna il procuratore di Palermo Francesco Messineo ha inviato la richiesta di sospensione per Cuffaro al commissario dello Stato Alberto Di Pace, come previsto dalla legge. Il commissario ha trasmesso la documentazione al dipartimento degli Affari regionali della presidenza del Consiglio.
Il governatore, dopo la condanna emessa il 18 gennaio, aveva superato nell'aula dell'Assemblea regionale siciliana la mozione di sfiducia presentata dal Centrosinistra e bocciata dalla maggioranza dei deputati regionali. Poi però sono montate le polemiche, anche da parte di esponenti della Cdl, perchè il governatore era stato fotografato con un vassoio di cannoli quasi a voler festeggiare la sentenza che ha escluso l'aggravante mafiosa. Cuffaro si è ripresentato all'Ars sabato scorso dimettendosi.
Immediata la risposta di Palazzo Chigi. "Il decreto di 'accertamento della sospensione' nei confronti del Presidente della Regione Siciliana Salvatore Cuffaro, firmato dal Presidente del Consiglio dei Ministri Romano Prodi, su proposta dei ministri dell'Interno e degli Affari Regionali, è - si legge nella nota -un atto dovuto in doveroso adempimento dell'articolo 15 della legge n° 55 del 1990 che recita : "sono sospesi di diritto dalle cariche coloro che hanno riportato una condanna non definitivà per il delitto, tra altri, di cui all'art. 378 del Codice Penale in relazione all'art. 416 bis dello stesso codice".
"Nel caso specifico il Procuratore della Repubblica del Tribunale di Palermo ha trasmesso in data 22 gennaio 2008 al Commissario dello Stato presso la Regione Sicilia la sentenza dello stesso Tribunale ai sensi dell'articolo 15, comma 4-ter, della legge 55, che recita: 'A cura della cancelleria del tribunale...i provvedimenti giudiziari che comportano la sospensione sono comunicati al Commissario del Governo. Il Commissario del Governo ne dà immediata comunicazione al Presidente del Consiglio dei Ministri il quale, sentiti il Ministro per gli affari Regionali e il Ministro dell'Interno, adotta il provvedimento che accerta la sospensione per la Regione Siciliana. Le competenze del Commissario del Governo sono esercitate dal Commissario dello Stato".
"Le dimissioni del Presidente Cuffaro non risultavano, quindi, atto sufficiente ad interrompere un procedimento previsto dalla normativa vigente, in mancanza del quale si sarebbe potuto ipotizzare anche un' omissione da parte dello stesso Presidente del Consiglio dei Ministri. Non esiste dunque alcuna motivazione politica, nè azione indotta da altri intendimenti- conclude la nota- se non il rispetto della legge".
30/01/2008
sabato 26 gennaio 2008
Giornalisti sotto assedio e minacciati. Dedicato a loro il premio "Mario Francese" 2008
Animata tavola rotonda sull'emergenza informazione nell'Isola. Villa Cattolica ha ospitato l'incontro conclusivo dell'iniziativa organizzata dall'Ordine di Sicilia per ricordare il cronista ucciso dalla mafia nel 1979. Il premio assegnato all'autore di un reportage televisivo su Gianfranco Siani del "Mattino" di Napoli, assassinato nel 1985. Targhe alle redazioni siciliane di Ansa e Rai, e ai giornalisti Lirio Abbate, Nino Amadore, Dino Paternostro, Federico Orlando e Francesco Massaro. Riconoscimenti anche a tre tesi di laurea. Inaugurata la mostra "una vita in cronaca" e intitolata a Francese una via di Aspra.
Nel nome di Mario Francese una pluralità di voci si sono date appuntamento a Bagheria in occasione del premio intitolato alla memoria del cronista del Giornale di Sicilia, assassinato dalla mafia il 26 gennaio del 1979. Circa 200 tra giovani, giornalisti, appassionati del mondo dell’informazione hanno affollato stamani la sala convegni di Villa Cattolica.Sono le immagini in bianco e nero di Gianfranco Siani, cronista de "Il Mattino" vittima della camorra ad aprire l’edizione di quest’anno. Gianluigi De Stefano è il realizzatore del reportage andato in onda su Raidue nell'ambito della trasmissione "La storia siamo noi" ed è anche il vincitore del Premio Francese 2008 per “il qualificato esempio di informazione agile e approfondita”.“Ci piaceva con Giovanni Minoli, l’idea di raccontare la storia di una persona che si conosce poco", dice De Stefano: "Volevamo portare all’attenzione del pubblico il fatto che un giornalista che cerca la verità, che combatte il malaffare e si occupa di tematiche complesse, difficili e rischiose, può essere un eroe civile al pari di un magistrato o di un generale che combatte la mafia”.E il rischio che un giornalista per fare il suo lavoro debba essere un eroe lo testimoniano anche gli altri premiati di quest’anno: cronisti che hanno subito intimidazioni come Lirio Abbate dell’Ansa, o hanno visto le loro auto incendiate e distrutte come Federico Orlando di Tv 7 Partinico e Nino Amadore, corrispondente per la Sicilia de "Il sole 24 ore". C’è anche Dino Paternostro, corrispondente da Corleone per "La Sicilia" che non esita a sottolineare la capacità di resistenza di un cronista di provincia sottoposto spesso a tante pressioni sociali. E c’è Francesco Massaro del "Giornale di Sicilia" che crede “nel piccolo contributo dei giornalisti nel cambiare il mondo”.Ulteriori riconoscimenti per "l’alta qualità di informazione sui fatti di mafia", sono andati alla redazione siciliana della Rai, rappresentata dal caporedattore Vincenzo Morgante, che ha dedicato il premio ai magistrati, agli agenti di polizia e agli imprenditori che "si schierano con coraggio nella lotta contro Cosa nostra", e alla redazione siciliana dell’Ansa, diretta da Franco Nuccio: le parole del caporedattore dell'Agenzia riportano la platea alla scrivania di Mario Francese, alla sua macchina per scrivere, ricordi che lo fanno tornare presente in sala. Per la sezione tesi di laurea, i tre premi sono andati a: Valerio Droga (allievo della scuola di giornalismo "Mario Francese" dell'Università di Palermo) per una tesi sul genocidio armeno; Vincenzo Plenzick, con un lavoro sulla loggia P2 ed Egle Bernardette Zapparrata con una tesi su La7. Sono stati anche segnalati e premiati i lavori di Mariangela Vacanti ed Ermes Dovico (anche loro della scuola "Mario Francese"), Francesco Remondetta, Gaeteno Scavuzzo e Valentina D’Anna. Un’animata tavola rotonda ha fatto poi incontrare professionisti della notizia, magistrati, scrittori e funzionari di pubblica sicurezza. Franco Nicastro, presidente dell’Ordine dei giornalisti di Sicilia, non ha esitato a denunciare che ”l’emergenza informazione nell'Isola continua, perché la notizia è assediata: minacce, ostilità, indagini della magistratura, autocensura”. E ha aggiunto: “Siamo qui, nel nome di Mario Francese, per far sentire la nostra voce”. A Mario Francese nel primo pomeriggio è stata anche dedicata una via di Aspra, frazione di Bagheria (Palermo), dove il giornalista trascorreva le vacanze estive. Il figlio Giulio, di fronte alla nuova targa di intitolazione, ha commentato: “Mi sembra di essere tornato a casa”. Biagio Sciortino, sindaco di Bagheria ha letto la manifestazione come una “testimonianza di coraggio di una città che vuole cominciare un nuovo percorso di legalità”.Villa Cattolica ospiterà fino al 9 febbraio la mostra "Una vita in cronaca": si tratta di 29 pannelli che ricostruiscono le tappe umane e professionali del giornalista siracusano ucciso ventinove nni fa. L'esposizione, ad ingresso libero, è aperta tutti i giorni dalle 9 alle 13 e dalle 16 alle 19, ad eccezione del lunedì. Dall'11 febbraio i pannelli torneranno alla scuola "Mario Francese", dove sono esposti permanentemente all'edificio 15, in viale delle Scienze, a Palermo.(www.ateneonline.it - 25 gen 08 - foto di J. Tumbarello)
Sicilia. Si è dimesso il presidente della Regione Totò Cuffaro
Il Governatore ha annunciato la sua scelta "irrevocabile" in aula all'Ars: "Alle poltrone preferisco la via dell'umiltà". Il Presidente della Regione siciliana è stato condannato a 5 anni di reclusione per favoreggiamento semplice nel processo sulle talpe della Dda di Palermo.
PALERMO - Il Governatore della Sicilia, Salvatore Cuffaro, ha annunciato in aula le sue dimissioni "irrevocabili", dopo le polemiche legate alla condanna a cinque anni di reclusione per favoreggiamento semplice che gli è stata inflitta venerdì scorso dal tribunale di Palermo.
"Non potevo lasciare che ogni mia decisione fosse assunta senza conoscere la volontà dell'Assemblea Regionale. Le odierne dimissioni non sono, dunque, frutto di alcun automatismo. Esse costituiscono, invece, una scelta personale, assunta per ragioni umane e politiche". Ha detto nel suo discorso all'Ars, il presidente della Regione Salvatore Cuffaro, spiegando così i motivi che lo hanno indotto a dimettersi dalla carica.
"Insieme a tantissime manifestazioni di affetto e sostegno politico ho visto diffondersi, in questi giorni, una crescente ostilità verso la mia persona. Un sentimento che non mi appartiene nè culturalmente nè politicamente ed al quale in questi anni non ho saputo nè voluto dare spazio".
"E siccome, il popolo, più che i salotti o le manovre di palazzo, è sempre stato l'elemento centrale della mia esperienza politica - ha aggiunto - anche in questa circostanza così delicata non voglio sottrarmi a un confronto leale con esso".
"In questi anni alla guida del governo regionale - ha proseguito Cuffaro - ho sempre cercato di tessere le ragioni dell'unità e del bene comune, in una terra straordinaria e difficile come la nostra. Sarebbe, perciò, risultato insopportabile alla mia coscienza l'idea di potere costituire, con la scelta di rimanere in carica, un fattore di divisione e contrapposizione sociale. Tutto ciò avrebbe alimentato ulteriori polemiche, poco utili, peraltro, a riaffermare il vero significato di atti e di eventi che, dal giorno della sentenza, ho visto quotidianamente distorti".
"Francamente preferisco la via dell'umiltà. Lo faccio per non tradire quegli ideali ai quali sono stato educato, lo faccio per la mia famiglia e lo faccio come ultimo atto di rispetto verso i siciliani, che in questi anni ho servito con dedizione, semplicità e con quella onestà che sono certo mi verrà completamente riconosciuta".
"Fino a quando non ci sarà una sentenza definitiva - ha spiegato - ci sarà una verità processuale e una verità sostanziale. Con la mia decisione rispetterò la prima, in coerenza con il comportamento che ho tenuto in questi anni nei confronti della magistratura e delle istituzioni, ma con determinazione - ha concluso il Governatore - mi batterò, in tutte le sedi, per l'affermazione della verità sostanziale, a difesa della mia vita pubblica e privata".
"Ho vissuto anni di intensa sofferenza confortato, oltre che dall'affetto di tanti siciliani, dalla cristiana consapevolezza che nella vita di un uomo essa non è mai vana".
"Mi ha confortato - ha aggiunto - il riconoscimento, anche da parte del giudice, di quanto nel mio cuore era stato sempre certo: ossia l'assoluta estraneità del mio agire e del mio sentire, pubblico e privato, alle finalità di un'organizzazione come la mafia".
"Ma tale sollievo - osserva il Governatore - non mi ha mai sottratto a quell'intensa riflessione che oggi mi vede nuovamente di fronte a voi per comunicarvi le mie irrevocabili dimissioni dalla carica di Presidente della Regione".
Cuffaro spiega infine: "già al momento della sentenza sentivo dentro di me il dovere di compiere questo passo, ma ho deciso di attendere sino all'approvazione del Bilancio e della Legge Finanziaria, per senso di responsabilità verso una terra che continuerò ad amare e che in questi anni ho servito fedelmente, consegnando ad essa tutto il mio tempo e le mie energie".
Il presidente della Regione Salvatore Cuffaro ha aggiunto che comunicherà le proprie dimissioni al presidente della Repubblica. Cuffaro ha concluso il suo discorso tra gli applausi di numerosi parlamentari e di tutti i presenti sul banco del governo.
26/01/2008
PALERMO - Il Governatore della Sicilia, Salvatore Cuffaro, ha annunciato in aula le sue dimissioni "irrevocabili", dopo le polemiche legate alla condanna a cinque anni di reclusione per favoreggiamento semplice che gli è stata inflitta venerdì scorso dal tribunale di Palermo.
"Non potevo lasciare che ogni mia decisione fosse assunta senza conoscere la volontà dell'Assemblea Regionale. Le odierne dimissioni non sono, dunque, frutto di alcun automatismo. Esse costituiscono, invece, una scelta personale, assunta per ragioni umane e politiche". Ha detto nel suo discorso all'Ars, il presidente della Regione Salvatore Cuffaro, spiegando così i motivi che lo hanno indotto a dimettersi dalla carica.
"Insieme a tantissime manifestazioni di affetto e sostegno politico ho visto diffondersi, in questi giorni, una crescente ostilità verso la mia persona. Un sentimento che non mi appartiene nè culturalmente nè politicamente ed al quale in questi anni non ho saputo nè voluto dare spazio".
"E siccome, il popolo, più che i salotti o le manovre di palazzo, è sempre stato l'elemento centrale della mia esperienza politica - ha aggiunto - anche in questa circostanza così delicata non voglio sottrarmi a un confronto leale con esso".
"In questi anni alla guida del governo regionale - ha proseguito Cuffaro - ho sempre cercato di tessere le ragioni dell'unità e del bene comune, in una terra straordinaria e difficile come la nostra. Sarebbe, perciò, risultato insopportabile alla mia coscienza l'idea di potere costituire, con la scelta di rimanere in carica, un fattore di divisione e contrapposizione sociale. Tutto ciò avrebbe alimentato ulteriori polemiche, poco utili, peraltro, a riaffermare il vero significato di atti e di eventi che, dal giorno della sentenza, ho visto quotidianamente distorti".
"Francamente preferisco la via dell'umiltà. Lo faccio per non tradire quegli ideali ai quali sono stato educato, lo faccio per la mia famiglia e lo faccio come ultimo atto di rispetto verso i siciliani, che in questi anni ho servito con dedizione, semplicità e con quella onestà che sono certo mi verrà completamente riconosciuta".
"Fino a quando non ci sarà una sentenza definitiva - ha spiegato - ci sarà una verità processuale e una verità sostanziale. Con la mia decisione rispetterò la prima, in coerenza con il comportamento che ho tenuto in questi anni nei confronti della magistratura e delle istituzioni, ma con determinazione - ha concluso il Governatore - mi batterò, in tutte le sedi, per l'affermazione della verità sostanziale, a difesa della mia vita pubblica e privata".
"Ho vissuto anni di intensa sofferenza confortato, oltre che dall'affetto di tanti siciliani, dalla cristiana consapevolezza che nella vita di un uomo essa non è mai vana".
"Mi ha confortato - ha aggiunto - il riconoscimento, anche da parte del giudice, di quanto nel mio cuore era stato sempre certo: ossia l'assoluta estraneità del mio agire e del mio sentire, pubblico e privato, alle finalità di un'organizzazione come la mafia".
"Ma tale sollievo - osserva il Governatore - non mi ha mai sottratto a quell'intensa riflessione che oggi mi vede nuovamente di fronte a voi per comunicarvi le mie irrevocabili dimissioni dalla carica di Presidente della Regione".
Cuffaro spiega infine: "già al momento della sentenza sentivo dentro di me il dovere di compiere questo passo, ma ho deciso di attendere sino all'approvazione del Bilancio e della Legge Finanziaria, per senso di responsabilità verso una terra che continuerò ad amare e che in questi anni ho servito fedelmente, consegnando ad essa tutto il mio tempo e le mie energie".
Il presidente della Regione Salvatore Cuffaro ha aggiunto che comunicherà le proprie dimissioni al presidente della Repubblica. Cuffaro ha concluso il suo discorso tra gli applausi di numerosi parlamentari e di tutti i presenti sul banco del governo.
26/01/2008
giovedì 24 gennaio 2008
Esplode a Mosca l'italiano-mania!
GIOVANNI PERRINO*
Mosca, si sa, è una città un pò freeze ma è anche vero che la metropoli è diventata negli ultimi anni una delle città più cool d’Europa.
Con la crescita dell’economia, volano i consumi. I moscoviti, sepolta la tradizionale nordica riservatezza, adorano l’european way of life: dalle auto ai viaggi, al cibo, al vestiario, la città, man mano che diventa più curata ed elegante, assume un look decisamente internazionale.
Certo nessun moscovita è disposto a cedere di un millimetro sul valore della cultura e delle tradizioni di un Paese come la Russia che ne è ricchissimo, ma oggi queste vengono vissute non più in un contesto asfittico come nel passato, bensì in una rete di relazioni dialettiche dove la severità irrinunciabile dell’identità nazionale si incontra con il buon gusto e le raffinate selezioni tanto nei confronti dei beni di consumo quanto nelle scelte di vita.
Mosca, capitale di un Paese immenso, é la metropoli che concentra i simboli del potere politico, economico e culturale e anche per tali motivi detiene un innegabile ruolo di leadership nel Paese.
Mentre prima l’orologio della Torre Spasskaja sul Cremlino trasmetteva a tutta la Russia il suono delle sue ore, oggi invece trasmette fino alle citta’ piu’ lontane un ritmo frenetico.
La città consuma i suoi miti, li brucia, li assimila voracemente e li trasmette al resto del Paese come da sempre avviene coi rintocchi del magico orologio.
Le altre città, a parte la raffinata San Pietroburgo, tendono l’orecchio, assorbono, importano, assimilano. Così é tutto un fiorire di mode, avanguardie artistiche e culturali che per Mosca transita e da Mosca si irradia fino all’Estremo Oriente e per il Caucaso alla riviera del Mar Nero fino a Soci che nel 2014 ospiterá le Olimpiadi Invernali.
Non è il caso di ripercorrere le affinità artistiche e culturali che da sempre hanno calamitato Italia e Russia. Una splendida mostra di pittura di tre anni or sono ebbe il felice titolo di “ La reciproca meraviglia”, a sottolineare proprio il secolare interfacciarsi delle due culture e il rincorrersi fecondo delle reciproche esperienze artistiche.
Mai come oggi l’interscambio economico tra Italia e Russia cresce a ritmi vertiginosi: l’import é aumentato del 30% solo nel corrente anno, percorrendo non solo i sentieri tradizionali della moda e del cibo, ma anche quelli delle tecnologie avanzate e della meccanica, ai quali si affianca un vero e proprio boom del turismo e della finanza.
Come un buon Chianti o un raffinato tailleur, era naturale che il boom economico soffiasse anche sulla diffusione della lingua italiana.
Oggi l’italiano non é più percepito soltanto come la lingua colta e bella da ascoltare nelle opere liriche o nelle canzoni d’amore ma, anche e sempre più, la lingua degli uomini d’affari, la lingua di lavoro di chi viaggia, commercia, investe nel nostro Paese ed a questo guarda con la tradizionale simpatia ma anche con interesse.
Come accade per i beni di consumo nei quali la leadership italiana é incontrastata, le richieste di apprendere l’italiano aumentano in modo esponenziale.
Non solo i corsi per adulti sono sempre più affollati, ma anche le richieste delle scuole dove si insegna la lingua italiana, per usare un termine economico, si impennano. In pool position, gli scambi culturali fra scuole e le collaborazioni fra le Università che si costituiscono in rete per attivare iniziative comuni di rilievo internazionale.
La Mostra del libro dedicata alle scuole, BibliObraz, che gode del patrocinio del Cremlino, ha visto protagonista l’elegante stand italiano allestito in collaborazione con il Ministero dell’Istruzione e ben 24 eventi culturali col marchio Made in Italy sono stati seguitissimi da giovani e adulti.
Negli ultimi due anni, solo nella città di Mosca, le scuole dove si insegna la lingua italiana sono passate da 2 a 25 mentre in 14 città, da Pietroburgo a Vladivostok, da Irkutsk a Rostov é stato attivato nelle scuole l’insegnamento della lingua italiana.
Un impegno enorme, quasi gigantesco, forse perché inatteso almeno nelle attuali proporzioni.
Come avviene nelle aziende, si fa fronte alle richieste intensificando i turni di lavoro e prevedendo maggiori investimenti, ma ciò non toglie che, quando una scuola attiva corsi di italiano, è una vera emozione pari a quella che prova un’azienda quando si apre un nuovo punto vendita.
Nel panorama delineato, tra le new entries, la Scuola – Centro per l'educazione n. 1409 di Khodinskyj Blv. è un fiore all’occhiello della rete PRIA, un acronimo che in russo sta per “ Programma per la Diffusione della Lingua Italiana”.
Già dinamico punto di coordinamento della rete Mosca – Taranto, la Scuola n. 1409 ha attivato l’insegnamento della lingua italiana come prima lingua straniera a partire dalla 1° classe della primaria.
La scuola, un modernissimo edificio dotato delle più avanzate attrezzature si trova nel rione Grand Park, poco distante dagli eleganti quartieri di Sokol e di Polezhaevskaja e si colloca fra le principali sedi di istruzione della zona nord della città.
La scuola inoltre coordina 10 istituti scolastici nelle quali si insegna la lingua italiana e si effettuano ogni anno numerosi viaggi di studio ed iniziative culturali che godono anche del sostegno dei Programmi Comunitari Europei.
A Irina Viktorovna Ilicëva, dinamica dirigente della scuola ed instancabile divulgatrice dell’insegnamento dell’italiano, poniamo alcune domande sui motivi che sono alla base delle sue scelte.
1) Negli ultimi due anni a Mosca le scuole dove si insegna l’italiano sono passate da 2 a 25. A che cosa si deve, secondo lei, questo boom?
- Penso che tale richiesta sia dovuta principalmente allo sviluppo dei rapporti economici e culturali. Ma ciò non basta, si pensi alla ricchezza di relazioni che da secoli attraggono i nostri due Paesi come poche altre nazioni al mondo. La scuola può fare molto per attivare processi formativi che aprano la strada a società dialoganti sulle basi della tolleranza e della comprensione reciproca. La collaborazione e lo scambio di idee, come pure la conoscenza delle rispettive lingue, non può che favorire programmi educativi di alto livello. Noi siamo assolutamente convinti dell’importanza e dell’efficacia del nostro lavoro.
2) Fra qualche anno nella Sua scuola, centinaia di studenti che ora sono principianti, parleranno italiano. Che cosa cambierà nell’organizzazione della scuola e che cosa questo impegno significherà per le altre scuole che vorranno seguire il suo esempio?
- Credo che molti riconosceranno che in Russia è venuto il momento di elevare il livello qualitativo dei percorsi formativi per essere sempre più competitivi con altri sistemi scolastici. Occorre comunque essere credibili agli occhi dei nostri giovani che hanno sempre più bisogno di conoscenze aggiornate e in linea con le altre nazioni. I giovani viaggeranno, studieranno e lavoreranno non solo nel loro Paese ma in tutta Europa e per questo é indispensabile dare loro gli strumenti più adatti.
3) Come giudica la decisione del Ministero di inserire l’italiano fra le lingue che potranno essere ufficialmente insegnate in tutte le scuole della Federazione Russa?
- Sicuramente in maniera positiva in quanto porterá nel sistema scolastico russo un valore aggiunto in linea con la grande tradizione pedagogica diel nostro Paese. Sono convinta che questa innovazione contribuirá ad un’ulteriore diffusione della lingua italiana e darà modo di coinvolgere nei nostri programmi un numero ancor maggiore di scuole.
4) La Sua scuola coltiva un sogno: diventare un luogo in cui a Mosca la scuola russa e la scuola italiana si incontrano e lavorano insieme. Come intende realizzarlo?
- Il rafforzamento delle collaborazioni con le scuole italiane non riguardano solo i tradizionali scambi culturali ma anche il lavoro su progetti comuni riguardanti la letteratura, la storia, la storia dell’arte. E’ naturale che dovremo provvedere alla formazione dei docenti e questo contribuirá a fare della scuola un punto di riferimento per i rapporti bilaterali nel settore dell’istruzione e della formazione.
***
Tra le scuole di Mosca nelle quali si studia l’italiano c’è la scuola n. 136 che si trova in ul. Krasina n.20, vicino a Piazza Majakovskij in pieno centro cittadino. In base ad un protocollo d’intesa bilaterale, la scuola n. 136 ospita da anni un liceo bilingue italo – russo nel quale gli allievi studiano in lingua italiana le principali discipline e alla fine conseguono un diploma valido per l’iscrizione alle Università dei due Paesi.
Alla Dirigente Raissa Ivanovna Fëderetz, da anni decana del liceo bilingue, chiediamo di parlare della sua esperienza.
1) Come giudica nella sua scuola l’esperienza del liceo bilingue? E’ un’esperienza nuova ed originale che da alcuni anni viene sperimentata in alcuni Paesi sulla base di specifiche intese fra i Ministeri dell’Istruzione.
- Noi siamo onorati di ospitare questa sezione bilingue: il suo curriculum è piuttosto impegnativo in quanto gli studenti al termine del corso di studi conoscono molto bene la lingua italiana ed in alcune discipline la loro preparazione è simile a quella dei loro colleghi italiani. Si tratta di un’esperienza nuova che anno dopo anno cambia l’immagine stessa della nostra scuola. L’attività didattica si incrocia e si confronta in continuazione; il lavoro sia per i docenti russi sia per quelli italiani é molto stimolante e questo influisce positivamente sulla formazione degli studenti.
2) Cos’è cambiato nella Scuola n.136 con la nascita di questo nuovo corso di studi?
- Sicuramente nella scuola si respira un’atmosfera culturale italiana ed insieme europea molto interessante per le innegabili ricadute che essa ha sull’esperienza formativa degli studenti. La lingua italiana di per sé é una lingua estrememente generativa ed accogliente per cui tanto gli studenti quanto i docenti sono come calamitati dal reciproco interesse linguistico e culturale. Dopo l’apertura della sezione bilingue, i nostri studenti hanno partecipato con successo a molti concorsi che si svolgono sia in Italia sia in Russia risultando mediamente più preparati degli altri.
E’ chiaro che anche l’organizzazione scolastica dovrá cambiare e aprirsi sempre più alle innovazioni pedagogiche e didattiche poste dalle nuove esigenze.
3) La scuola 136 per la sua esperienza può svolgere un ruolo di leadership nei confronti delle altre scuole dove si sta sviluppando l’insegnamento della lingua italiana. In che modo pensa di mettere a disposizione il patrimonio di esperienze accumulato?
- In stretto rapporto con l’Ufficio Istruzione dell’Ambasciata i nostri studenti partecipano attivamente alle piu’ importanti manifestazioni che si tengono a Mosca.
La collaborazione con le altre scuole del Programma PRIA sta dando buoni frutti ed anche con l’Istituto Italiano di Cultura e con la Dante Alighieri abbiamo programmi comuni ed i nostri allievi partecipano alle loro attività.
***
Per concludere il panorama della Mosca che parla italiano, occorre, dulcis in fundo, visitare la scuola italiana “I. Calvino”, sita in Leninskij Prospekt 78/A. La scuola, totalmente rinnovata negli interni e nelle attrezzature, offre i corsi di scuola dell’infanzia, primaria e secondaria di primo grado corrispondente all’8 classe russa e, dal prossimo anno scolastico, anche il corso liceale. Nella scuola prestano servizio docenti italiani e russi, ma la metodologia didattica è rigorosamente italiana, seppure in un contesto multilingue e aperto in modo particolare alla società russa nella quale la scuola è inserita.
Infatti, ben il 30% degli allievi è di nazionalità russa e sempre più sono le famiglie moscovite che iscrivono i propri figli alla “Calvino” per dar loro, fin dai primi anni, un’educazione interculturale e orientata verso la lingua e la cultura italiana.
Negli ultimi anni, in coincidenza con il rilancio qualitativo della scuola italiana, le liste d’attesa per le iscrizioni alla Calvino si allungano di anno in anno tanto da far pensare alla necessitá di nuovi locali proprio per rispondere alle richieste dell’utenza che, specie nella scuola dell’infanzia, é particolarmente numerosa.
Anche alla Dirigente Prof.ssa Giusa Lancini poniamo alcune domande per completare il quadro delle diverse tipologie di scuole nella Mosca che studia e parla italiano.
1) Prof.ssa Lancini, la Scuola italiana “I. Calvino” è capofila del Programma P.R.I.A. Che significa?
- Il Programma P.R.I.A. rappresenta in questi anni il principale contributo alla diffusione della lingua italiana in Russia. Per la scuola Calvino questo costituisce un’importante occasione per il rilancio della scuola come centro di formazione, di innovazione pedagogica e didattica e come luogo di relazioni fra le reti di scuole che afferiscono al Programma.
2) La Scuola ospita molti studenti russi e di altre nazionalità. Quali le scelte didattiche della scuola e dell’offerta formativa per una scuola come questa profondamente integrata nella realtà moscovita.
- Le scelte didattiche si concretizzano nella creazione di progetti che corrispondano alle varie esperienze culturali degli studenti presenti nella scuola. Ciò é in linea con quanto prevedono le attuali indicazioni normative ed i tradizionali orientamenti della pedagogia italiana. Riteniamo importante la scelta di garantire alla nostra utenza russa la possibilità di continuare a studiare seriamente la lingua madre attraverso corsi curricolari per diversi livelli.
3) Con l’attivazione del liceo quadriennale la scuola aprirà alla comunità italiana un percorso di studi completo fino all’esame di Stato del tutto simile alla scuola del territorio metropolitano. Quale significato ha tutto ciò per la comunità italiana a Mosca?
- Il Liceo quadriennale consente di offrire all’utenza un corso di studi completo dalla Scuola dell’Infanzia alla Secondaria di II° grado – che permette l’immediato accesso alle Università italiane ed Europee. Fino ad ora l’esperienza formativa veniva bruscamente interrotta al terzo anno della Secondaria di I° grado costringendo spesso i genitori a fare scelte obbligate che potevano anche tradursi nella separazione dai figli costretti a tornare in Italia per continuare gli studi. Sono convinta che l’attivazione del liceo quadriennale servirà a cementare e rafforzare la comunità italiana e andrà a tutto vantaggio del progetto educativo e formativo della Scuola stessa.
4) A Mosca, come nelle altre città della Russia, la richiesta di imparare la lingua italiana vola a ritmi esponenziali. Già da altre città russe giungono proposte di tenere corsi online per i figli degli italiani temporaneamente residenti in Russia per motivi di lavoro. Come pensa la scuola “Calvino” di affrontare tale problema?
- Compito di ogni buona scuola é quello di dare all popolazione un’offerta formativa che risponda alle esigenze delle persone e del territorio. La Scuola italiana “I. Calvino” già si sta attivando per rispondere a queste nuove richieste dei numerosi operatori economici presenti sul territorio della Federazione Russa. Tale idea, pensata inizialmente per i figli dei tecnici italiani del nuovo stabilimento IVECO di Nizhnij Novgorod, potrà essere estesa anche ad altre analoghe situazioni. Noi tutti siamo convinti dell’efficacia del progetto educativo italiano e del fatto che l’istruzione, nel contesto attuale di forte concorrenzialità, si qualifica sopratutto attraverso l’efficienza organizzativa e la qualità dell’offerta formativa.
Pertanto guardiamo con estremo favore all’idea di una scuola on line per le comunità italiane che si trovano in città dove non esistono scuole dove si insegna la lingua italiana.
Per noi questa sarà una sfida vera e propria per l’innovazione dei contenuti e delle metodologie d’insegnamento e per i figli degli italiani all’estero una formidabile opportunità di potere continuare gli studi intrapresi.
Giovanni Perrino*
Mosca, si sa, è una città un pò freeze ma è anche vero che la metropoli è diventata negli ultimi anni una delle città più cool d’Europa.
Con la crescita dell’economia, volano i consumi. I moscoviti, sepolta la tradizionale nordica riservatezza, adorano l’european way of life: dalle auto ai viaggi, al cibo, al vestiario, la città, man mano che diventa più curata ed elegante, assume un look decisamente internazionale.
Certo nessun moscovita è disposto a cedere di un millimetro sul valore della cultura e delle tradizioni di un Paese come la Russia che ne è ricchissimo, ma oggi queste vengono vissute non più in un contesto asfittico come nel passato, bensì in una rete di relazioni dialettiche dove la severità irrinunciabile dell’identità nazionale si incontra con il buon gusto e le raffinate selezioni tanto nei confronti dei beni di consumo quanto nelle scelte di vita.
Mosca, capitale di un Paese immenso, é la metropoli che concentra i simboli del potere politico, economico e culturale e anche per tali motivi detiene un innegabile ruolo di leadership nel Paese.
Mentre prima l’orologio della Torre Spasskaja sul Cremlino trasmetteva a tutta la Russia il suono delle sue ore, oggi invece trasmette fino alle citta’ piu’ lontane un ritmo frenetico.
La città consuma i suoi miti, li brucia, li assimila voracemente e li trasmette al resto del Paese come da sempre avviene coi rintocchi del magico orologio.
Le altre città, a parte la raffinata San Pietroburgo, tendono l’orecchio, assorbono, importano, assimilano. Così é tutto un fiorire di mode, avanguardie artistiche e culturali che per Mosca transita e da Mosca si irradia fino all’Estremo Oriente e per il Caucaso alla riviera del Mar Nero fino a Soci che nel 2014 ospiterá le Olimpiadi Invernali.
Non è il caso di ripercorrere le affinità artistiche e culturali che da sempre hanno calamitato Italia e Russia. Una splendida mostra di pittura di tre anni or sono ebbe il felice titolo di “ La reciproca meraviglia”, a sottolineare proprio il secolare interfacciarsi delle due culture e il rincorrersi fecondo delle reciproche esperienze artistiche.
Mai come oggi l’interscambio economico tra Italia e Russia cresce a ritmi vertiginosi: l’import é aumentato del 30% solo nel corrente anno, percorrendo non solo i sentieri tradizionali della moda e del cibo, ma anche quelli delle tecnologie avanzate e della meccanica, ai quali si affianca un vero e proprio boom del turismo e della finanza.
Come un buon Chianti o un raffinato tailleur, era naturale che il boom economico soffiasse anche sulla diffusione della lingua italiana.
Oggi l’italiano non é più percepito soltanto come la lingua colta e bella da ascoltare nelle opere liriche o nelle canzoni d’amore ma, anche e sempre più, la lingua degli uomini d’affari, la lingua di lavoro di chi viaggia, commercia, investe nel nostro Paese ed a questo guarda con la tradizionale simpatia ma anche con interesse.
Come accade per i beni di consumo nei quali la leadership italiana é incontrastata, le richieste di apprendere l’italiano aumentano in modo esponenziale.
Non solo i corsi per adulti sono sempre più affollati, ma anche le richieste delle scuole dove si insegna la lingua italiana, per usare un termine economico, si impennano. In pool position, gli scambi culturali fra scuole e le collaborazioni fra le Università che si costituiscono in rete per attivare iniziative comuni di rilievo internazionale.
La Mostra del libro dedicata alle scuole, BibliObraz, che gode del patrocinio del Cremlino, ha visto protagonista l’elegante stand italiano allestito in collaborazione con il Ministero dell’Istruzione e ben 24 eventi culturali col marchio Made in Italy sono stati seguitissimi da giovani e adulti.
Negli ultimi due anni, solo nella città di Mosca, le scuole dove si insegna la lingua italiana sono passate da 2 a 25 mentre in 14 città, da Pietroburgo a Vladivostok, da Irkutsk a Rostov é stato attivato nelle scuole l’insegnamento della lingua italiana.
Un impegno enorme, quasi gigantesco, forse perché inatteso almeno nelle attuali proporzioni.
Come avviene nelle aziende, si fa fronte alle richieste intensificando i turni di lavoro e prevedendo maggiori investimenti, ma ciò non toglie che, quando una scuola attiva corsi di italiano, è una vera emozione pari a quella che prova un’azienda quando si apre un nuovo punto vendita.
Nel panorama delineato, tra le new entries, la Scuola – Centro per l'educazione n. 1409 di Khodinskyj Blv. è un fiore all’occhiello della rete PRIA, un acronimo che in russo sta per “ Programma per la Diffusione della Lingua Italiana”.
Già dinamico punto di coordinamento della rete Mosca – Taranto, la Scuola n. 1409 ha attivato l’insegnamento della lingua italiana come prima lingua straniera a partire dalla 1° classe della primaria.
La scuola, un modernissimo edificio dotato delle più avanzate attrezzature si trova nel rione Grand Park, poco distante dagli eleganti quartieri di Sokol e di Polezhaevskaja e si colloca fra le principali sedi di istruzione della zona nord della città.
La scuola inoltre coordina 10 istituti scolastici nelle quali si insegna la lingua italiana e si effettuano ogni anno numerosi viaggi di studio ed iniziative culturali che godono anche del sostegno dei Programmi Comunitari Europei.
A Irina Viktorovna Ilicëva, dinamica dirigente della scuola ed instancabile divulgatrice dell’insegnamento dell’italiano, poniamo alcune domande sui motivi che sono alla base delle sue scelte.
1) Negli ultimi due anni a Mosca le scuole dove si insegna l’italiano sono passate da 2 a 25. A che cosa si deve, secondo lei, questo boom?
- Penso che tale richiesta sia dovuta principalmente allo sviluppo dei rapporti economici e culturali. Ma ciò non basta, si pensi alla ricchezza di relazioni che da secoli attraggono i nostri due Paesi come poche altre nazioni al mondo. La scuola può fare molto per attivare processi formativi che aprano la strada a società dialoganti sulle basi della tolleranza e della comprensione reciproca. La collaborazione e lo scambio di idee, come pure la conoscenza delle rispettive lingue, non può che favorire programmi educativi di alto livello. Noi siamo assolutamente convinti dell’importanza e dell’efficacia del nostro lavoro.
2) Fra qualche anno nella Sua scuola, centinaia di studenti che ora sono principianti, parleranno italiano. Che cosa cambierà nell’organizzazione della scuola e che cosa questo impegno significherà per le altre scuole che vorranno seguire il suo esempio?
- Credo che molti riconosceranno che in Russia è venuto il momento di elevare il livello qualitativo dei percorsi formativi per essere sempre più competitivi con altri sistemi scolastici. Occorre comunque essere credibili agli occhi dei nostri giovani che hanno sempre più bisogno di conoscenze aggiornate e in linea con le altre nazioni. I giovani viaggeranno, studieranno e lavoreranno non solo nel loro Paese ma in tutta Europa e per questo é indispensabile dare loro gli strumenti più adatti.
3) Come giudica la decisione del Ministero di inserire l’italiano fra le lingue che potranno essere ufficialmente insegnate in tutte le scuole della Federazione Russa?
- Sicuramente in maniera positiva in quanto porterá nel sistema scolastico russo un valore aggiunto in linea con la grande tradizione pedagogica diel nostro Paese. Sono convinta che questa innovazione contribuirá ad un’ulteriore diffusione della lingua italiana e darà modo di coinvolgere nei nostri programmi un numero ancor maggiore di scuole.
4) La Sua scuola coltiva un sogno: diventare un luogo in cui a Mosca la scuola russa e la scuola italiana si incontrano e lavorano insieme. Come intende realizzarlo?
- Il rafforzamento delle collaborazioni con le scuole italiane non riguardano solo i tradizionali scambi culturali ma anche il lavoro su progetti comuni riguardanti la letteratura, la storia, la storia dell’arte. E’ naturale che dovremo provvedere alla formazione dei docenti e questo contribuirá a fare della scuola un punto di riferimento per i rapporti bilaterali nel settore dell’istruzione e della formazione.
***
Tra le scuole di Mosca nelle quali si studia l’italiano c’è la scuola n. 136 che si trova in ul. Krasina n.20, vicino a Piazza Majakovskij in pieno centro cittadino. In base ad un protocollo d’intesa bilaterale, la scuola n. 136 ospita da anni un liceo bilingue italo – russo nel quale gli allievi studiano in lingua italiana le principali discipline e alla fine conseguono un diploma valido per l’iscrizione alle Università dei due Paesi.
Alla Dirigente Raissa Ivanovna Fëderetz, da anni decana del liceo bilingue, chiediamo di parlare della sua esperienza.
1) Come giudica nella sua scuola l’esperienza del liceo bilingue? E’ un’esperienza nuova ed originale che da alcuni anni viene sperimentata in alcuni Paesi sulla base di specifiche intese fra i Ministeri dell’Istruzione.
- Noi siamo onorati di ospitare questa sezione bilingue: il suo curriculum è piuttosto impegnativo in quanto gli studenti al termine del corso di studi conoscono molto bene la lingua italiana ed in alcune discipline la loro preparazione è simile a quella dei loro colleghi italiani. Si tratta di un’esperienza nuova che anno dopo anno cambia l’immagine stessa della nostra scuola. L’attività didattica si incrocia e si confronta in continuazione; il lavoro sia per i docenti russi sia per quelli italiani é molto stimolante e questo influisce positivamente sulla formazione degli studenti.
2) Cos’è cambiato nella Scuola n.136 con la nascita di questo nuovo corso di studi?
- Sicuramente nella scuola si respira un’atmosfera culturale italiana ed insieme europea molto interessante per le innegabili ricadute che essa ha sull’esperienza formativa degli studenti. La lingua italiana di per sé é una lingua estrememente generativa ed accogliente per cui tanto gli studenti quanto i docenti sono come calamitati dal reciproco interesse linguistico e culturale. Dopo l’apertura della sezione bilingue, i nostri studenti hanno partecipato con successo a molti concorsi che si svolgono sia in Italia sia in Russia risultando mediamente più preparati degli altri.
E’ chiaro che anche l’organizzazione scolastica dovrá cambiare e aprirsi sempre più alle innovazioni pedagogiche e didattiche poste dalle nuove esigenze.
3) La scuola 136 per la sua esperienza può svolgere un ruolo di leadership nei confronti delle altre scuole dove si sta sviluppando l’insegnamento della lingua italiana. In che modo pensa di mettere a disposizione il patrimonio di esperienze accumulato?
- In stretto rapporto con l’Ufficio Istruzione dell’Ambasciata i nostri studenti partecipano attivamente alle piu’ importanti manifestazioni che si tengono a Mosca.
La collaborazione con le altre scuole del Programma PRIA sta dando buoni frutti ed anche con l’Istituto Italiano di Cultura e con la Dante Alighieri abbiamo programmi comuni ed i nostri allievi partecipano alle loro attività.
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Per concludere il panorama della Mosca che parla italiano, occorre, dulcis in fundo, visitare la scuola italiana “I. Calvino”, sita in Leninskij Prospekt 78/A. La scuola, totalmente rinnovata negli interni e nelle attrezzature, offre i corsi di scuola dell’infanzia, primaria e secondaria di primo grado corrispondente all’8 classe russa e, dal prossimo anno scolastico, anche il corso liceale. Nella scuola prestano servizio docenti italiani e russi, ma la metodologia didattica è rigorosamente italiana, seppure in un contesto multilingue e aperto in modo particolare alla società russa nella quale la scuola è inserita.
Infatti, ben il 30% degli allievi è di nazionalità russa e sempre più sono le famiglie moscovite che iscrivono i propri figli alla “Calvino” per dar loro, fin dai primi anni, un’educazione interculturale e orientata verso la lingua e la cultura italiana.
Negli ultimi anni, in coincidenza con il rilancio qualitativo della scuola italiana, le liste d’attesa per le iscrizioni alla Calvino si allungano di anno in anno tanto da far pensare alla necessitá di nuovi locali proprio per rispondere alle richieste dell’utenza che, specie nella scuola dell’infanzia, é particolarmente numerosa.
Anche alla Dirigente Prof.ssa Giusa Lancini poniamo alcune domande per completare il quadro delle diverse tipologie di scuole nella Mosca che studia e parla italiano.
1) Prof.ssa Lancini, la Scuola italiana “I. Calvino” è capofila del Programma P.R.I.A. Che significa?
- Il Programma P.R.I.A. rappresenta in questi anni il principale contributo alla diffusione della lingua italiana in Russia. Per la scuola Calvino questo costituisce un’importante occasione per il rilancio della scuola come centro di formazione, di innovazione pedagogica e didattica e come luogo di relazioni fra le reti di scuole che afferiscono al Programma.
2) La Scuola ospita molti studenti russi e di altre nazionalità. Quali le scelte didattiche della scuola e dell’offerta formativa per una scuola come questa profondamente integrata nella realtà moscovita.
- Le scelte didattiche si concretizzano nella creazione di progetti che corrispondano alle varie esperienze culturali degli studenti presenti nella scuola. Ciò é in linea con quanto prevedono le attuali indicazioni normative ed i tradizionali orientamenti della pedagogia italiana. Riteniamo importante la scelta di garantire alla nostra utenza russa la possibilità di continuare a studiare seriamente la lingua madre attraverso corsi curricolari per diversi livelli.
3) Con l’attivazione del liceo quadriennale la scuola aprirà alla comunità italiana un percorso di studi completo fino all’esame di Stato del tutto simile alla scuola del territorio metropolitano. Quale significato ha tutto ciò per la comunità italiana a Mosca?
- Il Liceo quadriennale consente di offrire all’utenza un corso di studi completo dalla Scuola dell’Infanzia alla Secondaria di II° grado – che permette l’immediato accesso alle Università italiane ed Europee. Fino ad ora l’esperienza formativa veniva bruscamente interrotta al terzo anno della Secondaria di I° grado costringendo spesso i genitori a fare scelte obbligate che potevano anche tradursi nella separazione dai figli costretti a tornare in Italia per continuare gli studi. Sono convinta che l’attivazione del liceo quadriennale servirà a cementare e rafforzare la comunità italiana e andrà a tutto vantaggio del progetto educativo e formativo della Scuola stessa.
4) A Mosca, come nelle altre città della Russia, la richiesta di imparare la lingua italiana vola a ritmi esponenziali. Già da altre città russe giungono proposte di tenere corsi online per i figli degli italiani temporaneamente residenti in Russia per motivi di lavoro. Come pensa la scuola “Calvino” di affrontare tale problema?
- Compito di ogni buona scuola é quello di dare all popolazione un’offerta formativa che risponda alle esigenze delle persone e del territorio. La Scuola italiana “I. Calvino” già si sta attivando per rispondere a queste nuove richieste dei numerosi operatori economici presenti sul territorio della Federazione Russa. Tale idea, pensata inizialmente per i figli dei tecnici italiani del nuovo stabilimento IVECO di Nizhnij Novgorod, potrà essere estesa anche ad altre analoghe situazioni. Noi tutti siamo convinti dell’efficacia del progetto educativo italiano e del fatto che l’istruzione, nel contesto attuale di forte concorrenzialità, si qualifica sopratutto attraverso l’efficienza organizzativa e la qualità dell’offerta formativa.
Pertanto guardiamo con estremo favore all’idea di una scuola on line per le comunità italiane che si trovano in città dove non esistono scuole dove si insegna la lingua italiana.
Per noi questa sarà una sfida vera e propria per l’innovazione dei contenuti e delle metodologie d’insegnamento e per i figli degli italiani all’estero una formidabile opportunità di potere continuare gli studi intrapresi.
Giovanni Perrino*
*L'autore del presente servizio è dirigente delle scuole italiane in Russia
LA LETTERA. Ci scrive ancora il Ten. Col. Milillo. Alcune foto storiche del generale...
Ten. Col. Dott. Giuseppe Fausto Milillo
Via Giotto 88 - 90145 Palermo
Palermo 21.01.2008
Gent.mo Dott. Paternostro,
ho notato con piacere che Cittànuove di Corleone, da Lei diretto, ha dimostrato un’interessante “apertura” nell’avere riportato la lettera inviataLe da mio fratello, Gen. Gianfranco Milillo, in merito all’ormai annosa questione riguardante l’argomento “Liggio – Milillo - Mangano”.
Evidenzio, però, che è stata pubblicata una fotografia di mio padre, tratta facilmente da internet, la quale purtroppo non si addice né al periodo di discussione (anno 1964) né allo specifico evento storico.
Sicuro di fare cosa gradita sia a Lei che al suo giornale, i cui archivi ne verranno ancora di più arricchiti, mi permetto di inviarLe in allegato alcuni articoli ed alcune foto storiche tratte dalla Stampa di allora e degli anni a seguire, che ritraggono e riportano le gesti di mio padre, allora Ten. Colonnello al Comando del Gruppo Esterno dei Carabinieri di Palermo, il quale, come Lei ben sa e come è così ben riportato negli atti di Polizia Giudiziaria e delle Commissioni Antimafia (oltre che dalla Stampa), diresse le operazioni congiunte di Carabinieri e Pubblica Sicurezza, operando personalmente l’arresto del temuto Luciano Liggio.
I suoi attenti lettori, in tal modo, per doverosa giustizia di cronaca, ogni qualvolta si parlerà di Liggio, delle sue nefaste azioni e del suo arresto, non saranno più costretti a vedere sempre la stessa depistante fotografia ( che credo sia l’unica in vostro possesso) nella quale è ben visibile solo il già tanto chiacchierato Commissario Angelo Mangano che nello scendere le scale della casa Sorisi offre al Liggio –ormai arrestato da mio padre- la sua spalla (azione e fatti tutti da raccontare, da discutere e da chiarire).
Non vado oltre anche perché non voglio in nessun modo riaccendere alcuna polemica in merito. Accolga questo mio fare come un semplice atto di sentita collaborazione.
Gli articoli e le foto, poiché di eccessive dimensioni elettroniche, non potendole trasmettere via a-mail, sono riportate nel supporto CD in allegato che con l’immediatezza invierò per posta ordinaria/assicurata.
Sperando, dunque, che questa mia lettera e l’allegata documentazione possano apparire quanto prima nelle pagine di Cittànuove, con gli spazi che Lei magistralmente riterrà opportuno dedicare, in attesa di un prossimo risentirci, ponendomi sin da ora a Sua disposizione con quanto in mio possesso per qualsiasi futuro chiarimento o incontro diretto ad una giusta conoscenza dei fatti di allora, Le porgo i distinti saluti che vorrà cortesemente estendere alla redazione tutta.
A presto, dunque
Giuseppe Fausto MILILLO
FOTO: Il tenente colonnello Ignazio Milillo durante la conferenza stampa seguita all'arresto di Luciano Liggio nel 1964.
Via Giotto 88 - 90145 Palermo
Palermo 21.01.2008
Gent.mo Dott. Paternostro,
ho notato con piacere che Cittànuove di Corleone, da Lei diretto, ha dimostrato un’interessante “apertura” nell’avere riportato la lettera inviataLe da mio fratello, Gen. Gianfranco Milillo, in merito all’ormai annosa questione riguardante l’argomento “Liggio – Milillo - Mangano”.
Evidenzio, però, che è stata pubblicata una fotografia di mio padre, tratta facilmente da internet, la quale purtroppo non si addice né al periodo di discussione (anno 1964) né allo specifico evento storico.
Sicuro di fare cosa gradita sia a Lei che al suo giornale, i cui archivi ne verranno ancora di più arricchiti, mi permetto di inviarLe in allegato alcuni articoli ed alcune foto storiche tratte dalla Stampa di allora e degli anni a seguire, che ritraggono e riportano le gesti di mio padre, allora Ten. Colonnello al Comando del Gruppo Esterno dei Carabinieri di Palermo, il quale, come Lei ben sa e come è così ben riportato negli atti di Polizia Giudiziaria e delle Commissioni Antimafia (oltre che dalla Stampa), diresse le operazioni congiunte di Carabinieri e Pubblica Sicurezza, operando personalmente l’arresto del temuto Luciano Liggio.
I suoi attenti lettori, in tal modo, per doverosa giustizia di cronaca, ogni qualvolta si parlerà di Liggio, delle sue nefaste azioni e del suo arresto, non saranno più costretti a vedere sempre la stessa depistante fotografia ( che credo sia l’unica in vostro possesso) nella quale è ben visibile solo il già tanto chiacchierato Commissario Angelo Mangano che nello scendere le scale della casa Sorisi offre al Liggio –ormai arrestato da mio padre- la sua spalla (azione e fatti tutti da raccontare, da discutere e da chiarire).
Non vado oltre anche perché non voglio in nessun modo riaccendere alcuna polemica in merito. Accolga questo mio fare come un semplice atto di sentita collaborazione.
Gli articoli e le foto, poiché di eccessive dimensioni elettroniche, non potendole trasmettere via a-mail, sono riportate nel supporto CD in allegato che con l’immediatezza invierò per posta ordinaria/assicurata.
Sperando, dunque, che questa mia lettera e l’allegata documentazione possano apparire quanto prima nelle pagine di Cittànuove, con gli spazi che Lei magistralmente riterrà opportuno dedicare, in attesa di un prossimo risentirci, ponendomi sin da ora a Sua disposizione con quanto in mio possesso per qualsiasi futuro chiarimento o incontro diretto ad una giusta conoscenza dei fatti di allora, Le porgo i distinti saluti che vorrà cortesemente estendere alla redazione tutta.
A presto, dunque
Giuseppe Fausto MILILLO
FOTO: Il tenente colonnello Ignazio Milillo durante la conferenza stampa seguita all'arresto di Luciano Liggio nel 1964.
Riconoscimento intitolato a Mario Francese. Il 25 gennaio la cerimonia di premiazione.
Vince Gianluigi De Stefano per la ricostruzione dell'omicidio Siani. L'incontro conclusivo si terrà a Villa Cattolica, a Bagheria. Prevista anche la tavola rotonda "La notizia sotto assedio".
Assegnato il premio giornalistico nazionale "Mario Francese". Il vincitore è Gianluigi De Stefano per il documento con il quale ha ricostruito la vita e le vicende legate alla prematura morte di Giancarlo Siani, giovane pubblicista napoletano assassinato nel 1985 a seguito delle sue inchieste sulla criminalità organizzata in Campania.Il premio è istituito dall'Ordine dei Giornalisti di Sicilia per onorare la figura e l’opera del collega del Giornale di Sicilia Mario Francese, ucciso dalla mafia il 26 gennaio 1979. Saranno inoltre premiate tre tesi di laurea su temi e personaggi del giornalismo, discusse negli ultimi tre anni accademici.La premiazione si svolgerà il 25 gennaio a Villa Cattolica, a Bagheria (Palermo). Nell'ambito della cerimonia conclusiva si svolgerà la tavola rotonda "La notizia sotto assedio / Corsa ad ostacoli delle tante scomode verità dell’Informazione" con Gianni Riotta, Giovanni Minoli, Francesco Michele Stabile, Vincenzo Vasile, Gaetano Savatteri, Maurizio De Lucia, Gioacchino Genchi, Giovanni Pepi e Francesco La Licata. Previste le testimonianze di Lirio Abbate, Nino Amadore e Dino Paternostro.
Dopo i saluti del sindaco di Bagheria Biagio Sciortino, introduce i lavori il presidente dell’Ordine di Sicilia, Franco Nicastro. Modera Egle Palazzolo. Sarà anche inaugurata la mostra “Una vita in cronaca” (la storia di Mario Francese in 25 pannelli di foto, cronaca e commenti). Previste infine la proiezione del video vincitore del Premio e l'intitolazione di una strada di Aspra a Mario Francese.
I CANNOLI DI TOTO'. Cuffaro dimettiti!
di CLAUDIO FAVA
Nel diluvio di dichiarazioni su Cuffaro e i suoi cannoli mi hanno stupito i sottilissimi distinguo di chi si è detto intimamente sollevato al pensiero che il governatore della Sicilia non sia mafioso ai sensi dell'art.7 di una legge del '91. Come se a provocare la nostra indignazione e la nostra umiliazione debbano essere i tecnicismi giudiziari con cui si interpretano i fatti, e non i fatti stessi. Io per esempio mi sento indignato e umiliato all'idea che Cuffaro continui a ricoprire la più alta carica istituzionale della Sicilia: e non mi offre alcun sollievo il fatto che un tribunale abbia scelto di negargli un'aggravante ai sensi del codice penale.
Ciò che rende Cuffaro moralmente inadeguato all'ufficio che ricopre non sono i meccanismi di decadenza collegati a una condanna ma ciò che quest'uomo ha fatto nell'esercizio delle sue funzioni. E che vorrei riepilogare a me stesso, al netto di ogni aggettivo e di ogni moralismo. Punto primo: Cuffaro era amico di un mafioso, riconosciuto tale da una sentenza che lo ha condannato in primo grado a 14 anni di reclusione. Punto secondo: Cuffaro ha sperperato i denari dei siciliani concedendo alla clinica di Provenzano, attraverso gli uffici del suo amico mafioso, convenzioni con cui si pagavano prestazioni sanitarie a tariffe fino a dieci volte più salate che nel resto d'Italia. Punto terzo: Cuffaro ha mentito alla giustizia e ai siciliani quando ha detto di non aver mai rivelato ai suoi amici indagati che erano intercettati.
Qualunque impiegato di concetto fosse stato ritenuto responsabile di simili comportamenti, con o senza la benedetta aggravante dell'art.7, sarebbe stato immediatamente sospeso da incarico e stipendio. Qualunque manager privato si fosse trovato nelle condizioni di Cuffaro, sarebbe stato immediatamente licenziato per giusta causa dalla sua azienda. Qualunque uomo pubblico riconosciuto colpevole di questi fatti, con o senza aggravante, si sarebbe presentato davanti alla pubblica opinione con l'umiltà di chi ha sbagliato. Invece è finita come sappiamo: a cannoli. Con l'afflizione dell'ennesimo teatrino di Cuffaro che il giorno dopo spiegava come i cannoli, nel suo studio, li avesse pagati e portati qualcun'altro, ci mancherebbe...
Ho appreso, dalle parole d'un segretario sindacale, che per fortuna la condanna per Cuffaro è stata una "condanna normale, come può capitare a tanti politici che sbagliano in altre parti d'Italia". E le cose che ha fatto? Normali anch'esse? In quali altre parti d'Italia un governatore dà appuntamento ai suoi amici più chiacchierati sotto il ficus del suo giardino per timore di essere intercettato? In Pakistan? Nel Burkina Faso? Ho letto perfino, firmate da amministratori di centrosinistra giù ad Enna, irripetibili manifestazioni di solidarietà per il governatore condannato. E la solidarietà ai siciliani? A chi muore negli ospedali pubblici ridotti a bilanci di sussistenza per beneficiare le case di cura private del signor Aiello? A chi ha votato Cuffaro e si sente tradito? La solidarietà per un'isola ridotta ad uno zibaldone di luoghi comuni, sberleffi e pernacchie? Mentre qualcuno tirava un sospiro di sollievo per lo scampato pericolo del governatore dall'anatema dell'articolo 7, il New York Times pubblicava la sua foto in prima pagina liquidando l'intera comunità dei siciliani d'America, dopo un secolo di riscatti sociali e civili, come un'etnia senza redenzione, un malinconico repertorio di coppole e frutta candita.
Perfino in questa Sicilia di bizantinismi dovrebbero contare i fatti, non la loro qualifica giuridica. Ma vi dirò di più: a questo punto il problema non è nemmeno aver favorito o meno la mafia ma aver offerto cannoli alla faccia dei siciliani ammazzati dalla mafia. I soldi della Regione Siciliana, quelli che Cuffaro ha regalato alla clinica di Aiello e che poi sono finiti nelle tasche di Provenzano, saranno serviti a Cosa Nostra per premiare i killer da mille euro a morto, per stipendiare gli estortori che vanno a riscuotere il pizzo, per pagarsi gli avvocati, per garantirsi le latitanze, per minacciare, corrompere, uccidere. Di fronte a questo scempio della dignità di un popolo, Cuffaro mangia cannoli e si paragona a Gandhi. E allora, con rispetto parlando, me ne frego che il tribunale lo abbia o meno proclamato mafioso: per me quell'uomo, mafioso o meno, non è più un cittadino siciliano ma una vergogna per tutti i siciliani onesti, di destra e di sinistra: onesti e basta.
Nel diluvio di dichiarazioni su Cuffaro e i suoi cannoli mi hanno stupito i sottilissimi distinguo di chi si è detto intimamente sollevato al pensiero che il governatore della Sicilia non sia mafioso ai sensi dell'art.7 di una legge del '91. Come se a provocare la nostra indignazione e la nostra umiliazione debbano essere i tecnicismi giudiziari con cui si interpretano i fatti, e non i fatti stessi. Io per esempio mi sento indignato e umiliato all'idea che Cuffaro continui a ricoprire la più alta carica istituzionale della Sicilia: e non mi offre alcun sollievo il fatto che un tribunale abbia scelto di negargli un'aggravante ai sensi del codice penale.
Ciò che rende Cuffaro moralmente inadeguato all'ufficio che ricopre non sono i meccanismi di decadenza collegati a una condanna ma ciò che quest'uomo ha fatto nell'esercizio delle sue funzioni. E che vorrei riepilogare a me stesso, al netto di ogni aggettivo e di ogni moralismo. Punto primo: Cuffaro era amico di un mafioso, riconosciuto tale da una sentenza che lo ha condannato in primo grado a 14 anni di reclusione. Punto secondo: Cuffaro ha sperperato i denari dei siciliani concedendo alla clinica di Provenzano, attraverso gli uffici del suo amico mafioso, convenzioni con cui si pagavano prestazioni sanitarie a tariffe fino a dieci volte più salate che nel resto d'Italia. Punto terzo: Cuffaro ha mentito alla giustizia e ai siciliani quando ha detto di non aver mai rivelato ai suoi amici indagati che erano intercettati.
Qualunque impiegato di concetto fosse stato ritenuto responsabile di simili comportamenti, con o senza la benedetta aggravante dell'art.7, sarebbe stato immediatamente sospeso da incarico e stipendio. Qualunque manager privato si fosse trovato nelle condizioni di Cuffaro, sarebbe stato immediatamente licenziato per giusta causa dalla sua azienda. Qualunque uomo pubblico riconosciuto colpevole di questi fatti, con o senza aggravante, si sarebbe presentato davanti alla pubblica opinione con l'umiltà di chi ha sbagliato. Invece è finita come sappiamo: a cannoli. Con l'afflizione dell'ennesimo teatrino di Cuffaro che il giorno dopo spiegava come i cannoli, nel suo studio, li avesse pagati e portati qualcun'altro, ci mancherebbe...
Ho appreso, dalle parole d'un segretario sindacale, che per fortuna la condanna per Cuffaro è stata una "condanna normale, come può capitare a tanti politici che sbagliano in altre parti d'Italia". E le cose che ha fatto? Normali anch'esse? In quali altre parti d'Italia un governatore dà appuntamento ai suoi amici più chiacchierati sotto il ficus del suo giardino per timore di essere intercettato? In Pakistan? Nel Burkina Faso? Ho letto perfino, firmate da amministratori di centrosinistra giù ad Enna, irripetibili manifestazioni di solidarietà per il governatore condannato. E la solidarietà ai siciliani? A chi muore negli ospedali pubblici ridotti a bilanci di sussistenza per beneficiare le case di cura private del signor Aiello? A chi ha votato Cuffaro e si sente tradito? La solidarietà per un'isola ridotta ad uno zibaldone di luoghi comuni, sberleffi e pernacchie? Mentre qualcuno tirava un sospiro di sollievo per lo scampato pericolo del governatore dall'anatema dell'articolo 7, il New York Times pubblicava la sua foto in prima pagina liquidando l'intera comunità dei siciliani d'America, dopo un secolo di riscatti sociali e civili, come un'etnia senza redenzione, un malinconico repertorio di coppole e frutta candita.
Perfino in questa Sicilia di bizantinismi dovrebbero contare i fatti, non la loro qualifica giuridica. Ma vi dirò di più: a questo punto il problema non è nemmeno aver favorito o meno la mafia ma aver offerto cannoli alla faccia dei siciliani ammazzati dalla mafia. I soldi della Regione Siciliana, quelli che Cuffaro ha regalato alla clinica di Aiello e che poi sono finiti nelle tasche di Provenzano, saranno serviti a Cosa Nostra per premiare i killer da mille euro a morto, per stipendiare gli estortori che vanno a riscuotere il pizzo, per pagarsi gli avvocati, per garantirsi le latitanze, per minacciare, corrompere, uccidere. Di fronte a questo scempio della dignità di un popolo, Cuffaro mangia cannoli e si paragona a Gandhi. E allora, con rispetto parlando, me ne frego che il tribunale lo abbia o meno proclamato mafioso: per me quell'uomo, mafioso o meno, non è più un cittadino siciliano ma una vergogna per tutti i siciliani onesti, di destra e di sinistra: onesti e basta.
DIETROFRONT. Messina Denaro a un passo dal blitz
di Francesco Viviano
Quel giorno, il 5 novembre scorso, quando la polizia fece irruzione nel covo dello Zucco arrestando i boss Salvatore e Sandro Lo Piccolo, bloccati insieme a Gaspare Pulizzi e Andrea Adamo, stava per giungere un altro boss eccellente per partecipare ad un summit di mafia. Quell´ospite era probabilmente il capomafia di Trapani Matteo Messina Denaro, giunto a poche centinaia di metri dal covo dello Zucco a bordo di una Fiat Panda guidata da un suo fedelissimo. Il retroscena è emerso dopo l´arresto dei due Lo Piccolo perché si è scoperto che quel giorno, in un´attività autonoma dei carabinieri del Ros di Trapani, i militari seguivano con molta discrezione quell´automobile partita dal capoluogo trapanese diretta a Palermo. Appena imboccata la strada per Montelepre che portava allo Zucco la Panda fece precipitosamente marcia indietro tornando verso Trapani facendo perdere le sue tracce. «È molto probabile - confida un investigatore - che su quell´automobile ci fosse Matteo Messina Denaro e che sia tornato indietro apprendendo dalla radio che la polizia aveva arrestato i boss Lo Piccolo».
Che potesse trattarsi di Matteo Messina Denaro gli investigatori lo hanno ipotizzato perché l´uomo che era alla guida della utilitaria era uno degli uomini più fidati del boss trapanese identificato sulla base del numero di targa della Fiat Panda. Matteo Messina Denaro dunque è ancora nascosto nel trapanese e dopo gli arresti a catena seguiti al blitz che ha portato alla cattura dei Lo Piccolo, ha difficoltà a muoversi. Molti "postini" dei due clan mafiosi sono stati individuati sulla base delle indicazioni fornite dai tre nuovi pentiti, Franzese, Nuccio e Pulizzi.
Ma altri uomini del clan dei Lo Piccolo avrebbero saltato il fosso decidendo di collaborare con la giustizia. Uno è stato costretto perché era ormai "bruciato", perché era stato fotografato dai carabinieri mentre s´incontrava con un poliziotto della Catturandi della squadra mobile che dava la caccia a Lo Piccolo. Il suo ruolo di spia è stato documentato ed ha preferito collaborare subito con la giustizia. Anche lui è di Carini come Gaspare Pulizzi il cui padre, Giovanbattista Pulizzi, è stato arrestato per tentato omicidio sabato pomeriggio.
Pulizzi senior è stato arrestato nelle concitate fasi in cui la polizia era andata a prelevare la moglie e i figlioletti del neo pentito che aveva cominciato a collaborare da alcuni giorni. E quando i poliziotti sono andati a prendere la nuora ed i suoi due nipotini Giovanbattista Pulizzi, ha investito con il proprio camion l´auto della polizia per impedire che portassero via i suoi parenti. L´uomo è stato arrestato con l´accusa di tentato omicidio e si trova attualmente in carcere. Pulizzi padre, che risulta intestatario della carta d´identità trovata a Salvatore Lo Piccolo, ha voluto dimostrare col gesto clamoroso la propria plateale dissociazione dalla scelta del figlio di collaborare con la giustizia. Nel corso dell´operazione della polizia si sono verificati anche altri disordini, sedati dagli agenti. I poliziotti che si trovavano all´interno dell´auto investita sono rimasti tutti feriti e uno ha riportato una prognosi di 20 giorni.
da la Repubblica
Trento, muore in chiesa, ma il parroco continua la messa
Il corpo lasciato fra i banchi. Padre Peron si giustifica: "l'ho fatto per commemorare la vittima". La polemica: "dovevano fermarsi"
di ANDREA SELVA
TRENTO - L'anziano fedele viene colto da infarto e muore sui banche della chiesa. Ma la Messa deve continuare. Accade a Trento, in una parrocchia di periferia dedicata alla Madonna Bianca, dove l'altra mattina un uomo di 86 anni, Pio Leita, si è accasciato sui banchi durante la Messa del mattino, vittima di un attacco di cuore fulminante che gli ha fatto perdere conoscenza, tra lo spavento dei presenti. Erano le 8 e 15 e subito è partita la chiamata al pronto soccorso, distante appena un paio di chilometri, ma il medico non ha potuto fare nulla per salvare la vita dell'anziano, da tempo sofferente di cuore: dopo quasi mezz'ora di tentativi disperati il rianimatore ha rimesso nella borsa gli attrezzi del mestiere e gli infermieri hanno fatto ritorno all'ambulanza, dopo aver coperto con un lenzuolo la salma dell'anziano che è rimasta ferma in mezzo alla navata. Impossibile rimuovere il corpo senza l'autorizzazione del magistrato di turno, vietato spostare l'anziano fedele - un affezionato della Messa mattutina - prima dell'arrivo dei necrofori comunali. Che fare? Il parroco Mario Peron, un sacerdote benvoluto dagli abitanti della zona, ha invitato i fedeli a prendere posto e ha ripreso la celebrazione della Messa di fronte a un pubblico incredulo. Ma la foto del morto sotto il lenzuolo, pubblicata su L'Adige, con i fedeli che gli voltano le spalle per seguire la preghiera del sacerdote ha acceso le polemiche: sono molti, anche tra i cattolici, a scandalizzarsi per la Messa celebrata con un morto nella navata. "Dovevano fermarsi" in segno di rispetto per quell'uomo. Ma lui, il parroco, si è giustificato: "Che dovevo fare? La Messa andava celebrata, non è giusto farne un caso. Solo chi non conosce il funzionamento della Messa non capisce le ragioni della mia scelta. Non potevamo fermarci, eravamo riuniti in chiesa e abbiamo pregato per lui". I familiari dell'anziano non vogliono accendere polemiche mentre un figlio, missionario in servizio in America Latina, ha scritto che il padre avrebbe approvato il proseguimento della celebrazione: "Purtroppo non posso essere presente - ha scritto - ma mio padre sarebbe stato d'accordo con la prosecuzione della Messa". Questa mattina invece, ore 10, proprio in quella chiesa sarà celebrata un'altra Messa, quella funebre, durante la quale forse il parroco darà nuove spiegazioni. Chi è entrato nella chiesa l'altra mattina ha descritto una situazione irreale, con i fedeli che hanno seguito l'invito del parroco senza capire bene la situazione. Altri fedeli sono entrati nell'edificio religioso quando la messa era ormai quasi conclusa e non hanno capito che lì, sotto quel lenzuolo bianco, c'era il corpo senza vita di Pio Leita.
di ANDREA SELVA
TRENTO - L'anziano fedele viene colto da infarto e muore sui banche della chiesa. Ma la Messa deve continuare. Accade a Trento, in una parrocchia di periferia dedicata alla Madonna Bianca, dove l'altra mattina un uomo di 86 anni, Pio Leita, si è accasciato sui banchi durante la Messa del mattino, vittima di un attacco di cuore fulminante che gli ha fatto perdere conoscenza, tra lo spavento dei presenti. Erano le 8 e 15 e subito è partita la chiamata al pronto soccorso, distante appena un paio di chilometri, ma il medico non ha potuto fare nulla per salvare la vita dell'anziano, da tempo sofferente di cuore: dopo quasi mezz'ora di tentativi disperati il rianimatore ha rimesso nella borsa gli attrezzi del mestiere e gli infermieri hanno fatto ritorno all'ambulanza, dopo aver coperto con un lenzuolo la salma dell'anziano che è rimasta ferma in mezzo alla navata. Impossibile rimuovere il corpo senza l'autorizzazione del magistrato di turno, vietato spostare l'anziano fedele - un affezionato della Messa mattutina - prima dell'arrivo dei necrofori comunali. Che fare? Il parroco Mario Peron, un sacerdote benvoluto dagli abitanti della zona, ha invitato i fedeli a prendere posto e ha ripreso la celebrazione della Messa di fronte a un pubblico incredulo. Ma la foto del morto sotto il lenzuolo, pubblicata su L'Adige, con i fedeli che gli voltano le spalle per seguire la preghiera del sacerdote ha acceso le polemiche: sono molti, anche tra i cattolici, a scandalizzarsi per la Messa celebrata con un morto nella navata. "Dovevano fermarsi" in segno di rispetto per quell'uomo. Ma lui, il parroco, si è giustificato: "Che dovevo fare? La Messa andava celebrata, non è giusto farne un caso. Solo chi non conosce il funzionamento della Messa non capisce le ragioni della mia scelta. Non potevamo fermarci, eravamo riuniti in chiesa e abbiamo pregato per lui". I familiari dell'anziano non vogliono accendere polemiche mentre un figlio, missionario in servizio in America Latina, ha scritto che il padre avrebbe approvato il proseguimento della celebrazione: "Purtroppo non posso essere presente - ha scritto - ma mio padre sarebbe stato d'accordo con la prosecuzione della Messa". Questa mattina invece, ore 10, proprio in quella chiesa sarà celebrata un'altra Messa, quella funebre, durante la quale forse il parroco darà nuove spiegazioni. Chi è entrato nella chiesa l'altra mattina ha descritto una situazione irreale, con i fedeli che hanno seguito l'invito del parroco senza capire bene la situazione. Altri fedeli sono entrati nell'edificio religioso quando la messa era ormai quasi conclusa e non hanno capito che lì, sotto quel lenzuolo bianco, c'era il corpo senza vita di Pio Leita.
(La Repubblica, 24 gennaio 2008)
mercoledì 23 gennaio 2008
La Procura della Repubblica di Palermo trasmette gli atti del processo Cuffaro al commissario dello Stato
PALERMO - La Procura di Palermo ha inviato questa mattina al Commissario dello Stato, Alberto Di Pace, gli atti relativi al dispositivo della sentenza del processo delle talpe della Dda e i capi d'imputazione autenticati, cioè muniti di bolli e visti di conformità. Con l'invio degli atti, la Procura, diretta da Francesco Messineo, ha di fatto avviato l'iter per la richiesta di sospensione del Presidente della Regione Sicilia, Salvatore Cuffaro, condannato a cinque anni per favoreggiamento. Sarà adesso il Commissario dello Stato a trasmettere gli atti alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, competente per la decisione finale.A dare conferma dell'invio degli atti è il Procuratore capo di Palermo, Francesco Messineo, che però tiene a sottolineare: "Questo invio non ha la valenza giuridica di una richiesta del procedimento per la sospensione - ha detto - La trasmissione degli atti è un atto dovuto, un atto previsto dalla legge. Non è una iniziativa dell'ufficio del pm. È un procedimento amministrativo. Noi non siamo la controparte sulla fondatezza, ma abbiamo adempiuto solo a un obbligo di legge".Messineo poi ribadisce: "Noi non prendiamo posizione su quello che verrà fatto adesso dal Commissario dello Stato, sarà lui a decidere". E ha anche aggiunto: "Mi risulta che non è stata solo la Procura a inviare il dispositivo al Commissario dello Stato, ma anche il Tribunale di Palermo". La questione sulla richiesta di sospensione di Cuffaro, è stata illustrata dallo stesso Messineo ieri sera nel corso della riunione che si è tenuta presso la Dda di Palermo. Assenti, però, i pm titolari del processo, Maurizio de Lucia e Michele Prestipino, impegnati nella sentenza del processo 'Gotha', in cui il gup ha inflitto pene per oltre quattro secoli a uomini ritenuti vicini al boss Provenzano.Il commissario dello Stato, ricevuti dalla Procura e dal Tribunale gli atti che riguardano la condanna a cinque anni per favoreggiamento del presidente della Regione, Salvatore Cuffaro, ha trasmesso a sua volta la documentazione al dipartimento degli affari regionali della presidenza del consiglio.L'esame della documentazione verrà effettuato, oltre che dal ministero degli affari regionali diretto da Linda Lanzillotta, anche dal ministero dell'Interno. Il provvedimento conclusivo, per la decisione sull'eventuale sospensione del governatore da deputato regionale spetta alla presidenza del consiglio.
La Sicilia, 22/01/2008
La Sicilia, 22/01/2008
Ars, Pd sfiducia Cuffaro
Il Partito democratico ha presentato la mozione firmata da tutti i deputati del centrosinistra. Il segretario Genovese: "Con questo atto comincia la nostra campagna per arrivare alle dimissioni del presidente". Il Governatore: "Possono contare solo su 33 dei 46 voti necessari". Giovedì il dibattito in aula
PALERMO - Il gruppo parlamentare del Partito Democratico all'Ars ha presentato una mozione di sfiducia nei confronti del presidente della Regione Salvatore Cuffaro. La decisione è stata presa stamane nel corso di una riunione di gruppo cui hanno partecipato il segretario regionale Francantonio Genovese e il vicesegretario Tonino Russo. La mozione di sfiducia nei confronti del presidente della Regione siciliana, Salvatore Cuffaro, che è stata depositata oggi pomeriggio, è stata firmata dai partiti del centrosinistra all'Assemblea regionale. Conteporaneamente è stato anche presentato dalle opposizioni un ddl che autorizza l'esercizio provvisorio al bilancio per sbloccare i pagamenti, gli stipendi dei dipendenti e le pensioni. "Non sono più rinviabili decisioni forti, - afferma la mozione - dopo la sentenza di condanna nei confronti del Presidente della Regione, a salvaguardia della credibilità delle istituzioni".
"Con questo atto comincia la nostra campagna per arrivare alle dimissioni del presidente Cuffaro e per dare in aula la possibilità ai 'malpancisti' della maggioranza di essere coerenti con le loro dichiarazioni critiche nei confronti del governatore". Afferma il segretario regionale del Pd, Francantonio Genovese. All'Ars i deputati del centrosinistra sono 33. Per essere approvata la mozione, proposta dal Pd e firmata da tutti i parlamentari del centro sinistra ha bisogno di avere altri 13 voti.
"La paralisi che ha contraddistinto l'attività politica all'Ars in questi ultimi 18 mesi - afferma il capogruppo del Pd, Antonello Cracolici - rischia di proseguore ancora a lungo. Per questo abbiamo aperto promuovendo una serie di iniziative una campagna per arrivare alle dimissioni del governatore". "Le dichiarazioni del Presidente della Regione e i suoi comportamenti successivi alla sentenza, - è scritto nella mozione - tesi a mitigarne gli effetti confondendo l'opinione pubblica sulla gravità dei reati per i quali è stato ritenuto colpevole, hanno accentuato un diffuso sconcerto che rischia di minare la credibilità del sistema politico e istituzionale, alimentando una reazione negativa nella società siciliana e nell'opinione pubblica nazionale al di là delle appartenenze politiche e di schieramento".
"Tutto ciò rischia di ledere irrimediabilmente - prosegue la mozione - l'immagine della Sicilia anche fuori dai confini nazionali: la scelta di mantenere la carica di Presidente in presenza di una condanna per reati connessi alla mafia, in un momento nel quale settori importanti della società siciliana, a partire dagli industriali e dagli imprenditori, si stanno ribellando alla mafia e ai mafiosi, appare un terribile messaggio diseducativo".
"La mozione di sfiducia può contare soltanto sui 33 voti dei deputati dell'opposizione. Non credo che nessuno deputato della maggioranza la voti. Anzi con i tempi che corrono è probabile che qualche voto dell'opposizione sia dato contro il documento".Si svolgerà giovedì, con inizio in mattinata, il dibattito sulla mozione di sfiducia presentata dal centrosinistra. Lo ha deciso la conferenza dei capigruppo. La seduta d'aula è stata invece rinviata a domani per la discussione generale sul bilancio e la finanziaria, il cui articolato dovrebbe essere esaminato a partire da venerdì.
22/01/2008
PALERMO - Il gruppo parlamentare del Partito Democratico all'Ars ha presentato una mozione di sfiducia nei confronti del presidente della Regione Salvatore Cuffaro. La decisione è stata presa stamane nel corso di una riunione di gruppo cui hanno partecipato il segretario regionale Francantonio Genovese e il vicesegretario Tonino Russo. La mozione di sfiducia nei confronti del presidente della Regione siciliana, Salvatore Cuffaro, che è stata depositata oggi pomeriggio, è stata firmata dai partiti del centrosinistra all'Assemblea regionale. Conteporaneamente è stato anche presentato dalle opposizioni un ddl che autorizza l'esercizio provvisorio al bilancio per sbloccare i pagamenti, gli stipendi dei dipendenti e le pensioni. "Non sono più rinviabili decisioni forti, - afferma la mozione - dopo la sentenza di condanna nei confronti del Presidente della Regione, a salvaguardia della credibilità delle istituzioni".
"Con questo atto comincia la nostra campagna per arrivare alle dimissioni del presidente Cuffaro e per dare in aula la possibilità ai 'malpancisti' della maggioranza di essere coerenti con le loro dichiarazioni critiche nei confronti del governatore". Afferma il segretario regionale del Pd, Francantonio Genovese. All'Ars i deputati del centrosinistra sono 33. Per essere approvata la mozione, proposta dal Pd e firmata da tutti i parlamentari del centro sinistra ha bisogno di avere altri 13 voti.
"La paralisi che ha contraddistinto l'attività politica all'Ars in questi ultimi 18 mesi - afferma il capogruppo del Pd, Antonello Cracolici - rischia di proseguore ancora a lungo. Per questo abbiamo aperto promuovendo una serie di iniziative una campagna per arrivare alle dimissioni del governatore". "Le dichiarazioni del Presidente della Regione e i suoi comportamenti successivi alla sentenza, - è scritto nella mozione - tesi a mitigarne gli effetti confondendo l'opinione pubblica sulla gravità dei reati per i quali è stato ritenuto colpevole, hanno accentuato un diffuso sconcerto che rischia di minare la credibilità del sistema politico e istituzionale, alimentando una reazione negativa nella società siciliana e nell'opinione pubblica nazionale al di là delle appartenenze politiche e di schieramento".
"Tutto ciò rischia di ledere irrimediabilmente - prosegue la mozione - l'immagine della Sicilia anche fuori dai confini nazionali: la scelta di mantenere la carica di Presidente in presenza di una condanna per reati connessi alla mafia, in un momento nel quale settori importanti della società siciliana, a partire dagli industriali e dagli imprenditori, si stanno ribellando alla mafia e ai mafiosi, appare un terribile messaggio diseducativo".
"La mozione di sfiducia può contare soltanto sui 33 voti dei deputati dell'opposizione. Non credo che nessuno deputato della maggioranza la voti. Anzi con i tempi che corrono è probabile che qualche voto dell'opposizione sia dato contro il documento".Si svolgerà giovedì, con inizio in mattinata, il dibattito sulla mozione di sfiducia presentata dal centrosinistra. Lo ha deciso la conferenza dei capigruppo. La seduta d'aula è stata invece rinviata a domani per la discussione generale sul bilancio e la finanziaria, il cui articolato dovrebbe essere esaminato a partire da venerdì.
22/01/2008
lunedì 21 gennaio 2008
Andrea Camilleri: «Il Sud muore tra rifiuti e Cuffaro»
di Roberto Cotroneo
Dall’immondizia in Campania al caso Mastella, passando per la condanna del governatore della Sicilia. Ne discutiamo con Andrea Camilleri, siciliano appunto, uno degli scrittori più famosi del mondo. «È la questione meridionale, e che di volta in volta può assumere la forma di spazzatura, di Mastella, di Cuffaro, di camorra, di mafia, e tutto quello che vogliamo. Ma sempre una maniera di arrampicarsi per sopravvivere in un’Italia nettamente divisa in due». L’immondizia in Campania, il ministro Clemente Mastella indagato e la moglie agli arresti domiciliari. Antonio Bassolino travolto dalle accuse. Totò Cuffaro, governatore della Sicilia condannato a cinque anni con l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. E nonostante questo decide di non dimettersi. La politica, di centro destra come di centro sinistra, travolta da una vecchia storia che ci portiamo dietro da 150 anni, e forse di più. Fatta di due paroline semplici semplici: questione meridionale. Anzi, di più: la nuova questione meridionale, che ormai non è più soltanto emergenza criminalità, ma emergenza totale. Siamo andati a bussare alla porta di Andrea Camilleri, siciliano, uno degli scrittori più famosi del mondo. Per capire assieme a lui i termini di questa emergenza, che rischia innanzi tutto di travolgere il centro sinistra, e l’intero paese.
Camilleri, cominciamo da Cuffaro?
«Per ciò che riguarda Cuffaro, io esprimo la mia solidarietà assoluta a Cuffaro».
Prego?
«Siamo in un periodo in cui va di moda esprimere la solidarietà, e quindi io non vorrei essere da meno. Per un fatto molto semplice: non si capisce perché venga condannato a cinque anni e alla interdizione perpetua dai pubblici uffici, un signore che ha passato un’informazione a un altro signore, non sapendo che quest’altro signore era legato alla mafia. Quindi o lo si assolve riconoscendogli la buonafede, o lo si condanna a quindici anni, con tutte le aggravanti del caso».
Con questo ragionamento cosa vuole intendere?
«Che ancora una volta la magistratura ci mette il carico da undici, nella direzione dell’ambiguità. Noi viviamo in un paese assolutamente ambiguo dove non c’è più un’istituzione che non sia toccata dall’ambiguità dei comportamenti. Trovo questo il punto di decadenza massima di un paese».
Cerchiamo di mettere a fuoco il concetto di ambiguità. Ambiguo perché non si capisce? O ambiguo perché si dice una cosa per l’altra?
«No, si capisce benissimo, purtroppo. Senonché questa cosa che si capisce benissimo viene proposta in un modo tale che diventa un’altra cosa. Noi abbiamo avuto, per esempio, una sentenza esemplare, per richiamarci a un titolo di Leonardo Sciascia, che è quella di Giulio Andreotti. Andreotti è stato riconosciuto, da una sentenza definitiva, colluso con la mafia fino al 1980. Ma questi reati sono stati prescritti. Come è stata presentata all’opinione pubblica? Come un’assoluzione per Andreotti. Ecco un caso di ambiguità».
D’accordo. La sentenza Cuffaro sarà pure ambigua, ma lui dovrebbe comunque dimettersi.
«Non lo fa perché lui dice: vedete, non sono stato condannato per concorso esterno con la mafia. Dunque posso restare al mio posto. Nonostante avesse dichiarato che in qualunque caso e con qualunque sentenza lui si sarebbe dimesso. Questi qui non si scrostano dal loro potere. Perché scrostarsi dal potere per Cuffaro vuol dire far cadere l’Udc in Sicilia».
Un altro che non si dimette è Bassolino. Per motivi assai diversi. Ma certo gravi.
«Bassolino? Senta, i miti invecchiano. Non dovrebbero, ma purtroppo invecchiano. Il compito di un mito è anche quello di avere la percezione dell’appannamento del mito. Se non c’è questa percezione si finisce travolti dalla monnezza».
E invece?
«E invece io penso che se non fosse stato per il papa, se non fosse stato per Mastella, i politici italiani avrebbero trovato il miglior argomento al loro livello della discussione: la monnezza. Quello è un livello dove si muovono bene».
Vuol dire che la monnezza è una metafora dei mali italiani?
«La monnezza è la punta evidente di quello che per anni si continua a ignorare volutamente, e che è la questione meridionale, e che di volta in volta può assumere la forma di spazzatura, di Mastella, di Cuffaro, di camorra, di mafia, e tutto quello che vogliamo. Ma sempre una maniera di arrampicarsi per sopravvivere in un’Italia nettamente divisa in due».
Ma sono anni che la forbice si allarga sempre più.
«Vede, nell’Ottocento, quando cominciò a sorgere la cosiddetta questione meridionale, c’erano parecchi deputati meridionali che si battevano per la questione meridionale. Oggi si battono per altro, non per la questione meridionale».
Parliamo della sinistra. Dal luglio scorso, con il discorso di Veltroni al Lingotto di Torino a oggi sembra passato un secolo. L’immagine del Pd fatica a uscire fuori. I rimbrotti del papa, il problema della Campania, con Bassolino, con Mastella, regione amministrata dal centro sinistra, il trasferimento di magistrati come De Magistris...
«Senta, io verso il partito democratico ho avuto un atteggiamento chiaro fin dal primo momento. Ho pensato che era un qualcosa che non mi riguardava. L’estate scorsa Veltroni mi chiese di fare da garante per ciò che riguardava il Pd in Sicilia».
E lei cosa ha risposto?
«Rinunciai, perché istintivamente ho pensato che non volevo avere nulla a che fare con il Partito Democratico. Prima ancora che un fatto politico era un fatto sentimentale. Per me a 81 anni, era la perdita totale della mia identità di comunista. Mi hanno fatto diventare il mio abito da comunista un vestito da Arlecchino, pieno di vari colori, e non ero disposto a perdere gli ultimi dieci centimetri, di colore rosso che mi erano rimasti, di quel vecchio costume che avevo indossato per settant’anni. Però... ».
Però?
«Tutto quello che è successo dopo nel partito democratico non ha fatto altro che confermare le mie riserve. Comprese le inutili trattative con Berlusconi sulla legge elettorale, dove Veltroni ha fallito».
Ma ne è sicuro? La partita non è ancora per niente chiusa.
«Senta, il cavaliere è abituato come un danzatore a fare delle giravolte, e l’altro ieri ha fatto un’altra giravolta, e ha detto: meglio il referendum. Un’affermazione che pone fine a qualsiasi trattativa possibile sulla legge elettorale. Il problema non è mettere la signora Lario all’interno del Pd, ma è l’identità del Pd. Dove trovi la senatrice Binetti, ma trovi anche persone lontanissime dalle posizioni della Binetti».
Questo è pluralismo, posizioni diverse, è un arricchimento. O no?
«Certo. Io ogni domenica a casa mia ospito degli amici. Uno dei quali è fascista. L’altro giorno si è ammalato e io ho visto il mio salotto diventare grigio perché mancava la sua voce. A casa mia. Non in un partito politico. Un partito politico non può avere che dei timoniere in una direzione. E non può avere dei timonieri che mettono la rotta su diversi percorsi».
Lei pensa che la nuova questione meridionale sarà l’elemento che rischia di mandarci tutti a fondo?
«Ma vede. Io penso che nel 2008 l’operazione colonialista, iniziata subito dopo l’unità d’Italia nei riguardi del sud, sia arrivata al punto finale: questa colonia del sud rendendo sempre di meno, sempre di più viene abbandonata a se stessa. E la colonia del sud è come se non facesse parte dell’Italia, come qualche cosa di aggiunto all’Italia. Però se poi vado a vedere chi costituisce la mente direttiva delle industrie del nord, dell’informazione del nord, mi accorgo che sono dei meridionali. E allora mi sento in dovere di chiedere una quantificazione in denaro delle menti meridionali che promuovono il nord».
Vuole fare il conto?
«Voglio metterlo sul piatto della bilancia. Voglio vedere quanto può valere il cervello di un industriale meridionale che lavora e produce ricchezza al nord».
Ci sono cervelli del nord che producono ricchezza al sud?
«No, non esistono, quel poco di ricchezza del sud è prodotta da gente del sud».
Lei ha una spiegazione?
«La spiegazione risale al 1860. Quando una rivoluzione contadina venne chiamata brigantaggio. Per cui uccisero 17 mila briganti che non esistono da nessuna parte del mondo. Ed erano invece contadini in rivolta, o ex militari borbonici. Tutto già da allora ha preso una piega diversa. Quando fu fatta l’unità d’Italia noi in Sicilia avevamo 8000 telai, producevamo stoffa. Nel giro di due anni non avevamo più un telaio. Funzionavano solo quelli di Biella. E noi importavamo la stoffa. E ancora oggi è così».
Appunto, torniamo a oggi. Tutti questi danni sembrano arrivare sulle spalle della sinistra. Ma ancora non abbiamo toccato il caso Mastella.
«Mastella è un errore politico di Prodi. Che ora sta scontando amaramente. Fino al giorno prima della formazione del governo, io avevo appreso che Mastella era in ballottaggio con Emma Bonino per andare al ministero della difesa. Ci siamo svegliati il giorno dopo e abbiamo saputo che Mastella era diventato ministro della Giustizia. Non abbiamo avuto spiegazioni su cosa sia avvenuto quella notte. Ma è certo che fin dal primo momento, io personalmente, dissi: questo è un errore madornale».
In che senso?
«Mastella era il meno indicato a ricoprire l’incarico di ministro della Giustizia. Intendiamoci: non è detto che doveva andarci un giacobino. Sarebbe stato un errore di pari importanza. Ma al ministero della Giustizia bastano persone di buon senso. Non dico di mettere Francesco Saverio Borrelli. Ma una persona meno coinvolta di Mastella in quella che è la concezione della politica come merce e come potere. Noi ci aspettavamo un governo specchiato e adamantino. Mastella non è quella persona. Noi sappiamo che Mastella è un uomo che ama trattare».
E adesso che cosa si fa?
«Adesso assistiamo alle conseguenze. Ieri Berlusconi, cupamente, con il foularino al collo, ha detto: dobbiamo tornare subito a votare per una sostanziale riforma della giustizia. E tutti sappiamo cosa significa, per lui, la riforma della giustizia».
Un’ultima domanda: lei pensa questo paese sia profondamente corrotto dal punto di vista filosofico e culturale?
«Sì. Io sarò un pazzo però c’è una cosa che mi gira per la testa da un sacco di tempo: gli italiani sono un popolo incolto. Basta vedere quello che leggono e quanto leggono rispetto agli altri popoli. Sono convinto che Berlusconi il suo potere lo ha preparato già da 30 anni a questa parte, e dal momento in cui ha indirizzato in un certo modo le sue tv commerciali. Da quel momento il livello culturale degli italiani si è abbassato in maniera esponenziale. E lo vediamo dai deputati che produciamo. La nostra è una nazione destinata a un misero decadimento se non avviene uno scossone».E lei crede sia ancora possibile questo scossone?«Noi siamo capaci di scossoni, ma solo quando arriviamo alle porte coi sassi, come dicono i fiorentini. Non riusciranno più a fare la legge elettorale. Arriveremo al referendum. Va bene così. Sarà devastante? Che lo sia. Vedremo se poi riusciranno a rendersi conto che si devono veramente cambiare le cose».
roberto@robertocotroneo.it
Dall’immondizia in Campania al caso Mastella, passando per la condanna del governatore della Sicilia. Ne discutiamo con Andrea Camilleri, siciliano appunto, uno degli scrittori più famosi del mondo. «È la questione meridionale, e che di volta in volta può assumere la forma di spazzatura, di Mastella, di Cuffaro, di camorra, di mafia, e tutto quello che vogliamo. Ma sempre una maniera di arrampicarsi per sopravvivere in un’Italia nettamente divisa in due». L’immondizia in Campania, il ministro Clemente Mastella indagato e la moglie agli arresti domiciliari. Antonio Bassolino travolto dalle accuse. Totò Cuffaro, governatore della Sicilia condannato a cinque anni con l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. E nonostante questo decide di non dimettersi. La politica, di centro destra come di centro sinistra, travolta da una vecchia storia che ci portiamo dietro da 150 anni, e forse di più. Fatta di due paroline semplici semplici: questione meridionale. Anzi, di più: la nuova questione meridionale, che ormai non è più soltanto emergenza criminalità, ma emergenza totale. Siamo andati a bussare alla porta di Andrea Camilleri, siciliano, uno degli scrittori più famosi del mondo. Per capire assieme a lui i termini di questa emergenza, che rischia innanzi tutto di travolgere il centro sinistra, e l’intero paese.
Camilleri, cominciamo da Cuffaro?
«Per ciò che riguarda Cuffaro, io esprimo la mia solidarietà assoluta a Cuffaro».
Prego?
«Siamo in un periodo in cui va di moda esprimere la solidarietà, e quindi io non vorrei essere da meno. Per un fatto molto semplice: non si capisce perché venga condannato a cinque anni e alla interdizione perpetua dai pubblici uffici, un signore che ha passato un’informazione a un altro signore, non sapendo che quest’altro signore era legato alla mafia. Quindi o lo si assolve riconoscendogli la buonafede, o lo si condanna a quindici anni, con tutte le aggravanti del caso».
Con questo ragionamento cosa vuole intendere?
«Che ancora una volta la magistratura ci mette il carico da undici, nella direzione dell’ambiguità. Noi viviamo in un paese assolutamente ambiguo dove non c’è più un’istituzione che non sia toccata dall’ambiguità dei comportamenti. Trovo questo il punto di decadenza massima di un paese».
Cerchiamo di mettere a fuoco il concetto di ambiguità. Ambiguo perché non si capisce? O ambiguo perché si dice una cosa per l’altra?
«No, si capisce benissimo, purtroppo. Senonché questa cosa che si capisce benissimo viene proposta in un modo tale che diventa un’altra cosa. Noi abbiamo avuto, per esempio, una sentenza esemplare, per richiamarci a un titolo di Leonardo Sciascia, che è quella di Giulio Andreotti. Andreotti è stato riconosciuto, da una sentenza definitiva, colluso con la mafia fino al 1980. Ma questi reati sono stati prescritti. Come è stata presentata all’opinione pubblica? Come un’assoluzione per Andreotti. Ecco un caso di ambiguità».
D’accordo. La sentenza Cuffaro sarà pure ambigua, ma lui dovrebbe comunque dimettersi.
«Non lo fa perché lui dice: vedete, non sono stato condannato per concorso esterno con la mafia. Dunque posso restare al mio posto. Nonostante avesse dichiarato che in qualunque caso e con qualunque sentenza lui si sarebbe dimesso. Questi qui non si scrostano dal loro potere. Perché scrostarsi dal potere per Cuffaro vuol dire far cadere l’Udc in Sicilia».
Un altro che non si dimette è Bassolino. Per motivi assai diversi. Ma certo gravi.
«Bassolino? Senta, i miti invecchiano. Non dovrebbero, ma purtroppo invecchiano. Il compito di un mito è anche quello di avere la percezione dell’appannamento del mito. Se non c’è questa percezione si finisce travolti dalla monnezza».
E invece?
«E invece io penso che se non fosse stato per il papa, se non fosse stato per Mastella, i politici italiani avrebbero trovato il miglior argomento al loro livello della discussione: la monnezza. Quello è un livello dove si muovono bene».
Vuol dire che la monnezza è una metafora dei mali italiani?
«La monnezza è la punta evidente di quello che per anni si continua a ignorare volutamente, e che è la questione meridionale, e che di volta in volta può assumere la forma di spazzatura, di Mastella, di Cuffaro, di camorra, di mafia, e tutto quello che vogliamo. Ma sempre una maniera di arrampicarsi per sopravvivere in un’Italia nettamente divisa in due».
Ma sono anni che la forbice si allarga sempre più.
«Vede, nell’Ottocento, quando cominciò a sorgere la cosiddetta questione meridionale, c’erano parecchi deputati meridionali che si battevano per la questione meridionale. Oggi si battono per altro, non per la questione meridionale».
Parliamo della sinistra. Dal luglio scorso, con il discorso di Veltroni al Lingotto di Torino a oggi sembra passato un secolo. L’immagine del Pd fatica a uscire fuori. I rimbrotti del papa, il problema della Campania, con Bassolino, con Mastella, regione amministrata dal centro sinistra, il trasferimento di magistrati come De Magistris...
«Senta, io verso il partito democratico ho avuto un atteggiamento chiaro fin dal primo momento. Ho pensato che era un qualcosa che non mi riguardava. L’estate scorsa Veltroni mi chiese di fare da garante per ciò che riguardava il Pd in Sicilia».
E lei cosa ha risposto?
«Rinunciai, perché istintivamente ho pensato che non volevo avere nulla a che fare con il Partito Democratico. Prima ancora che un fatto politico era un fatto sentimentale. Per me a 81 anni, era la perdita totale della mia identità di comunista. Mi hanno fatto diventare il mio abito da comunista un vestito da Arlecchino, pieno di vari colori, e non ero disposto a perdere gli ultimi dieci centimetri, di colore rosso che mi erano rimasti, di quel vecchio costume che avevo indossato per settant’anni. Però... ».
Però?
«Tutto quello che è successo dopo nel partito democratico non ha fatto altro che confermare le mie riserve. Comprese le inutili trattative con Berlusconi sulla legge elettorale, dove Veltroni ha fallito».
Ma ne è sicuro? La partita non è ancora per niente chiusa.
«Senta, il cavaliere è abituato come un danzatore a fare delle giravolte, e l’altro ieri ha fatto un’altra giravolta, e ha detto: meglio il referendum. Un’affermazione che pone fine a qualsiasi trattativa possibile sulla legge elettorale. Il problema non è mettere la signora Lario all’interno del Pd, ma è l’identità del Pd. Dove trovi la senatrice Binetti, ma trovi anche persone lontanissime dalle posizioni della Binetti».
Questo è pluralismo, posizioni diverse, è un arricchimento. O no?
«Certo. Io ogni domenica a casa mia ospito degli amici. Uno dei quali è fascista. L’altro giorno si è ammalato e io ho visto il mio salotto diventare grigio perché mancava la sua voce. A casa mia. Non in un partito politico. Un partito politico non può avere che dei timoniere in una direzione. E non può avere dei timonieri che mettono la rotta su diversi percorsi».
Lei pensa che la nuova questione meridionale sarà l’elemento che rischia di mandarci tutti a fondo?
«Ma vede. Io penso che nel 2008 l’operazione colonialista, iniziata subito dopo l’unità d’Italia nei riguardi del sud, sia arrivata al punto finale: questa colonia del sud rendendo sempre di meno, sempre di più viene abbandonata a se stessa. E la colonia del sud è come se non facesse parte dell’Italia, come qualche cosa di aggiunto all’Italia. Però se poi vado a vedere chi costituisce la mente direttiva delle industrie del nord, dell’informazione del nord, mi accorgo che sono dei meridionali. E allora mi sento in dovere di chiedere una quantificazione in denaro delle menti meridionali che promuovono il nord».
Vuole fare il conto?
«Voglio metterlo sul piatto della bilancia. Voglio vedere quanto può valere il cervello di un industriale meridionale che lavora e produce ricchezza al nord».
Ci sono cervelli del nord che producono ricchezza al sud?
«No, non esistono, quel poco di ricchezza del sud è prodotta da gente del sud».
Lei ha una spiegazione?
«La spiegazione risale al 1860. Quando una rivoluzione contadina venne chiamata brigantaggio. Per cui uccisero 17 mila briganti che non esistono da nessuna parte del mondo. Ed erano invece contadini in rivolta, o ex militari borbonici. Tutto già da allora ha preso una piega diversa. Quando fu fatta l’unità d’Italia noi in Sicilia avevamo 8000 telai, producevamo stoffa. Nel giro di due anni non avevamo più un telaio. Funzionavano solo quelli di Biella. E noi importavamo la stoffa. E ancora oggi è così».
Appunto, torniamo a oggi. Tutti questi danni sembrano arrivare sulle spalle della sinistra. Ma ancora non abbiamo toccato il caso Mastella.
«Mastella è un errore politico di Prodi. Che ora sta scontando amaramente. Fino al giorno prima della formazione del governo, io avevo appreso che Mastella era in ballottaggio con Emma Bonino per andare al ministero della difesa. Ci siamo svegliati il giorno dopo e abbiamo saputo che Mastella era diventato ministro della Giustizia. Non abbiamo avuto spiegazioni su cosa sia avvenuto quella notte. Ma è certo che fin dal primo momento, io personalmente, dissi: questo è un errore madornale».
In che senso?
«Mastella era il meno indicato a ricoprire l’incarico di ministro della Giustizia. Intendiamoci: non è detto che doveva andarci un giacobino. Sarebbe stato un errore di pari importanza. Ma al ministero della Giustizia bastano persone di buon senso. Non dico di mettere Francesco Saverio Borrelli. Ma una persona meno coinvolta di Mastella in quella che è la concezione della politica come merce e come potere. Noi ci aspettavamo un governo specchiato e adamantino. Mastella non è quella persona. Noi sappiamo che Mastella è un uomo che ama trattare».
E adesso che cosa si fa?
«Adesso assistiamo alle conseguenze. Ieri Berlusconi, cupamente, con il foularino al collo, ha detto: dobbiamo tornare subito a votare per una sostanziale riforma della giustizia. E tutti sappiamo cosa significa, per lui, la riforma della giustizia».
Un’ultima domanda: lei pensa questo paese sia profondamente corrotto dal punto di vista filosofico e culturale?
«Sì. Io sarò un pazzo però c’è una cosa che mi gira per la testa da un sacco di tempo: gli italiani sono un popolo incolto. Basta vedere quello che leggono e quanto leggono rispetto agli altri popoli. Sono convinto che Berlusconi il suo potere lo ha preparato già da 30 anni a questa parte, e dal momento in cui ha indirizzato in un certo modo le sue tv commerciali. Da quel momento il livello culturale degli italiani si è abbassato in maniera esponenziale. E lo vediamo dai deputati che produciamo. La nostra è una nazione destinata a un misero decadimento se non avviene uno scossone».E lei crede sia ancora possibile questo scossone?«Noi siamo capaci di scossoni, ma solo quando arriviamo alle porte coi sassi, come dicono i fiorentini. Non riusciranno più a fare la legge elettorale. Arriveremo al referendum. Va bene così. Sarà devastante? Che lo sia. Vedremo se poi riusciranno a rendersi conto che si devono veramente cambiare le cose».
roberto@robertocotroneo.it
Sicilia. La Sinistra Arcobaleno presenterà una mozione di sfiducia contro Cuffaro
Palermo, 21 gennaio - "Il Sud, la cui distanza dal Nord del paese si accentua sempre più come ha recentemente mostrato l'ultimo rapporto ISTAT sullo stato del Paese, è destinato alla sconfitta se la sua immagine rimarrà quella di Cuffaro che festeggia con cannoli e pasticcini una condanna a "soli" 5 anni per aver favorito "solo" singoli mafiosi e non tutta la mafia... Vedo con piacere che l'onorevole Miccichè sembra porsi qualche problema rispetto ai tanti festeggiamenti, ma oltre a scrivere brevi note per la stampa, da politico e da amministratore potrà, se vorrà, fare atti conseguenti."
Lo ha dichiarato oggi Cesare Salvi, presidente della Commissione Giustizia del Senato, partecipando alla conferenza stampa della Sinistra Democratica sulla situazione della Giustizia e della Sicurezza in Sicilia.
Francesco Cantafia, che rappresenta la Sinistra Democratica e la Sinistra Arcobaleno all'ARS ha preannunciato una mozione di sfiducia: "mi auguro - ha detto - che sia una mozione unitaria di tutto il centrosinistra, ma anche se così non fosse sarà chiaro che su questo documento si valuterà chi è davvero a favore e chi è davvero contro la permanenza di Cuffaro; vedremo ad esempio se i presunti mal di pancia di alcuni esponenti del centrodestra sono davvero sussulti di etica o miseri tentativi di salvare la faccia davanti ad una opinione pubblica che, pure fra gli elettori del centrodestra, è disgustata dallo spettacolo di questi giorni."
Cantafia ha poi affrontato il tema della sicurezza in Sicilia, ricordando che a fronte dei successi ottenuti in questi mesi con l'arresto di tutti i vertici di "Cosa nostra" continua una opera di smantellamento delle strutture investigative e repressive nell'isola.
Ha ricordato ad esempio come "da un lato la Procura di Palermo rischia lo smantellamento per l'applicazione stupidamente burocratica della norma che prevede una permanenza massima di 8 anni per i Magistrati nella medesima sede" o come "le forze di Polizia debbano fare i conti con una incredibile carenza di organico (solo 5 investigatori per le indagini sui reati contro e nella pubblica amministrazione e i reati di corruzione) e di strutture (la maggioranza dei computer della Questura di Palermo sono di proprietà di singoli agenti e la disponibilità di carta e inchiostro dipende ormai dalla gentilezza di questo o quell'altro fornitore)."
Citando il caso specifico della cattura di Bernardo Provenzano, Cantafia ha attaccato quella che ha definito "una folle gestione delle risorse: le indagini su Provenzano sono costate circa 2 milioni di euro e sono state esternalizzate dando in appalto le attività di intercettazione ad una ditta privata. La stessa somma, con risultati analoghi in termini investigativi ma con risultati certamente migliori in termini strutturali, avrebbe potuto essere destinata all'acquisto, invece che all'affitto, delle microspie utilizzate, rendendole disponibili per future attività di indagine."
"Siamo di fronte - ha detto Cantafia confortato anche dalle cifre fornite dal Segretario nazionale del SILP Cgil Claudio Giardullo secondo cui nei prossimi anni l'organico della Polizia si potrebbe ridurre di 6.000 unità per insufficienza di risorse economiche - ad un quadro desolante: mentre tutti confermano che si potrebbe finalmente vincere la mafia che ha in questo momento perso ogni guida e vertice organizzato e riconosciuto, sembra che da parte dello Stato non vi sia la capacità assestare questo colpo finale, andando a recidere le basi su cui un nuovo vertice potrebbe innestarsi."
Lo ha dichiarato oggi Cesare Salvi, presidente della Commissione Giustizia del Senato, partecipando alla conferenza stampa della Sinistra Democratica sulla situazione della Giustizia e della Sicurezza in Sicilia.
Francesco Cantafia, che rappresenta la Sinistra Democratica e la Sinistra Arcobaleno all'ARS ha preannunciato una mozione di sfiducia: "mi auguro - ha detto - che sia una mozione unitaria di tutto il centrosinistra, ma anche se così non fosse sarà chiaro che su questo documento si valuterà chi è davvero a favore e chi è davvero contro la permanenza di Cuffaro; vedremo ad esempio se i presunti mal di pancia di alcuni esponenti del centrodestra sono davvero sussulti di etica o miseri tentativi di salvare la faccia davanti ad una opinione pubblica che, pure fra gli elettori del centrodestra, è disgustata dallo spettacolo di questi giorni."
Cantafia ha poi affrontato il tema della sicurezza in Sicilia, ricordando che a fronte dei successi ottenuti in questi mesi con l'arresto di tutti i vertici di "Cosa nostra" continua una opera di smantellamento delle strutture investigative e repressive nell'isola.
Ha ricordato ad esempio come "da un lato la Procura di Palermo rischia lo smantellamento per l'applicazione stupidamente burocratica della norma che prevede una permanenza massima di 8 anni per i Magistrati nella medesima sede" o come "le forze di Polizia debbano fare i conti con una incredibile carenza di organico (solo 5 investigatori per le indagini sui reati contro e nella pubblica amministrazione e i reati di corruzione) e di strutture (la maggioranza dei computer della Questura di Palermo sono di proprietà di singoli agenti e la disponibilità di carta e inchiostro dipende ormai dalla gentilezza di questo o quell'altro fornitore)."
Citando il caso specifico della cattura di Bernardo Provenzano, Cantafia ha attaccato quella che ha definito "una folle gestione delle risorse: le indagini su Provenzano sono costate circa 2 milioni di euro e sono state esternalizzate dando in appalto le attività di intercettazione ad una ditta privata. La stessa somma, con risultati analoghi in termini investigativi ma con risultati certamente migliori in termini strutturali, avrebbe potuto essere destinata all'acquisto, invece che all'affitto, delle microspie utilizzate, rendendole disponibili per future attività di indagine."
"Siamo di fronte - ha detto Cantafia confortato anche dalle cifre fornite dal Segretario nazionale del SILP Cgil Claudio Giardullo secondo cui nei prossimi anni l'organico della Polizia si potrebbe ridurre di 6.000 unità per insufficienza di risorse economiche - ad un quadro desolante: mentre tutti confermano che si potrebbe finalmente vincere la mafia che ha in questo momento perso ogni guida e vertice organizzato e riconosciuto, sembra che da parte dello Stato non vi sia la capacità assestare questo colpo finale, andando a recidere le basi su cui un nuovo vertice potrebbe innestarsi."
domenica 20 gennaio 2008
Cuffaro: «I cannoli? Strumentalizzati»
Il governatore dopo la sentenza: «Mai festeggiato. Sono consapevole del peso della mia condanna. A qualcuno fa comodo servirsi anche dei gesti più normali della buona creanza»
Il presidente della Regione Sicilia Totò Cuffaro con in mano un vassoio di cannoli prima della conferenza stampa di sabato (Ansa)
PALERMO - «Non ho mai festeggiato, perchè è forte in me la consapevolezza del peso della condanna a mio carico». Il presidente della Regione Sicilia Totò Cuffaro torna a ribadire con forze il concetto, difendendosi così da quanti (dopo la sentenza di primo grado che lo condanna il presidente della Regione Sicilia a cinque anni di reclusione e all'interdizione dai pubblici uffici per rivelazione di segreto d'ufficio e favoreggiamento semplice) lo accusano di aver festeggiato, con tanto di cannoli, il verdetto dei giudici. «Ho solo detto, e lo ribadisco da tre giorni, che ho provato conforto per una sentenza che stabilisce che io - aggiunge - non ho mai favorito nè la mafia nè i singoli mafiosi. L'ho detto e lo ribadisco, non sento nessuna voglia di festeggiare, evidentemente a qualcuno fa comodo strumentalizzare, anche i gesti più normali della buona creanza com'è quello di offrire un caffè ai giornalisti intervenuti alla conferenza stampa». Netto il riferimento alla polemica con il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso che dopo la sentenza ha ribadito con forza il fatto che «i giudici hanno ritenuto provato il favoreggiamento di Cuffaro a singoli mafiosi come Guttadauro, Aragona o Miceli».
«A NESSUNO AUGURO IL MIO CALVARIO» - Ma Cuffaro non ci sta. E anzi contrattacca: «È vergognoso - continua Cuffaro - strumentalizzare il fatto che abbia sollevato un vassoio con dei cannoli (portato in buona fede da qualcuno dei tantissimi che si sono stretti a me per abbracciarmi) come i tanti presenti hanno potuto verificare, al solo scopo di toglierlo dal tavolo dove ci stavamo sedendo per fare la conferenza stampa». «Chiedo ai giornalisti presenti e che hanno potuto constatare che non c'è stato alcun festeggiamento, di aiutarmi a ristabilire il reale svolgimento dei fatti - aggiunge -. A nessuno auguro il calvario che abbiamo vissuto in questi lunghissimi cinque anni io e la mia famiglia, ma, quelli che come me, e sono purtroppo tantissimi, hanno dovuto sopportare per tanti anni il dramma di una accusa così infamante credo possono comprendere come ci si senta ad essere sollevati da un'accusa così pesante. Almeno in questo chiedo di essere capito».
Il Corriere della Sera, 20 gennaio 2008
Il presidente della Regione Sicilia Totò Cuffaro con in mano un vassoio di cannoli prima della conferenza stampa di sabato (Ansa)
PALERMO - «Non ho mai festeggiato, perchè è forte in me la consapevolezza del peso della condanna a mio carico». Il presidente della Regione Sicilia Totò Cuffaro torna a ribadire con forze il concetto, difendendosi così da quanti (dopo la sentenza di primo grado che lo condanna il presidente della Regione Sicilia a cinque anni di reclusione e all'interdizione dai pubblici uffici per rivelazione di segreto d'ufficio e favoreggiamento semplice) lo accusano di aver festeggiato, con tanto di cannoli, il verdetto dei giudici. «Ho solo detto, e lo ribadisco da tre giorni, che ho provato conforto per una sentenza che stabilisce che io - aggiunge - non ho mai favorito nè la mafia nè i singoli mafiosi. L'ho detto e lo ribadisco, non sento nessuna voglia di festeggiare, evidentemente a qualcuno fa comodo strumentalizzare, anche i gesti più normali della buona creanza com'è quello di offrire un caffè ai giornalisti intervenuti alla conferenza stampa». Netto il riferimento alla polemica con il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso che dopo la sentenza ha ribadito con forza il fatto che «i giudici hanno ritenuto provato il favoreggiamento di Cuffaro a singoli mafiosi come Guttadauro, Aragona o Miceli».
«A NESSUNO AUGURO IL MIO CALVARIO» - Ma Cuffaro non ci sta. E anzi contrattacca: «È vergognoso - continua Cuffaro - strumentalizzare il fatto che abbia sollevato un vassoio con dei cannoli (portato in buona fede da qualcuno dei tantissimi che si sono stretti a me per abbracciarmi) come i tanti presenti hanno potuto verificare, al solo scopo di toglierlo dal tavolo dove ci stavamo sedendo per fare la conferenza stampa». «Chiedo ai giornalisti presenti e che hanno potuto constatare che non c'è stato alcun festeggiamento, di aiutarmi a ristabilire il reale svolgimento dei fatti - aggiunge -. A nessuno auguro il calvario che abbiamo vissuto in questi lunghissimi cinque anni io e la mia famiglia, ma, quelli che come me, e sono purtroppo tantissimi, hanno dovuto sopportare per tanti anni il dramma di una accusa così infamante credo possono comprendere come ci si senta ad essere sollevati da un'accusa così pesante. Almeno in questo chiedo di essere capito».
Il Corriere della Sera, 20 gennaio 2008
sabato 19 gennaio 2008
Colpevole ma contento. Totò esulta per la sentenza
IL PERSONAGGIO. Ai fedelissimi aveva detto: se mi abbattono, andate avanti. Non si sgretola l'impero del governatore, con il suo esercito di colonnelli e assessori
di ATTILIO BOLZONI
Si fa il segno della croce quando il giudice di Palermo legge la sua condanna. E piange, piange per la felicità Totò Cuffaro, il governatore. Nonostante la severa sentenza. Nonostante la reclusione a cinque anni. Nonostante quel marchio di favoreggiatore che gli resterà addosso per sempre. In Sicilia c'è un confine che segna l'esistenza pubblica e privata dei suoi abitanti: mafia o non mafia, tutto il resto sembra contare niente. Spiate agli amici indagati. Tariffari sanitari concordati nei retrobottega. Talpe a servizio. Nell'Italia di oggi conta poco e Totò si sente comunque vincitore. Ed esulta per la sua condanna. "Resto governatore", sussurra asciugandosi le lacrime che gli intorbidano le lenti e poi scivolano lentamente sulle guance. "Resto", dice ancora quando il Tribunale lo assolve ma solo per quel reato: avere aiutato consapevolmente Cosa Nostra, tutta Cosa Nostra. "Resto", risponde a Silvio Berlusconi che gli telefona di sera e gli dice "che gli vuole bene". "Resto", ripete un'altra volta alzando gli occhi al cielo e rivolgendosi idealmente a quel milionetrecentomila di siciliani che l'hanno fatto diventare il padrone dell'isola. Quelli che sino alla fine hanno pregato per lui. Nelle chiese. Nelle loro case. Nei luoghi di lavoro. "Li abbraccio tutti e da domani mattina li incontrerò ancora tutti, uno per uno", fa sapere ai microfoni dei reporter fissando un po' stonato dall'emozione le telecamere e i faretti che lo abbagliano e le tante facce che lo circondano. "Li abbraccio tutti, i miei avvocati sono stati come fratelli, i miei amici come fratelli..", bisbiglia mentre gli amici-fratelli più vicini lo strattonano, lo baciano, coprono di tenerezze questo loro capopopolo che senza la condanna per mafia potrà ancora prenderli per mano e farli sopravvivere nel ventre di una Sicilia che sembra non cambiare mai. E' durata dieci o venti secondi la suspence sul destino dell'erede più puro dei democristiani siciliani, poi tutto è tornato come prima. E' l'ora del giudizio nella spettrale aula del carcere dei Pagliarelli, entra la Corte e lui, immobile, avvolto in un gessato sembra un fascio di nervi, livido in faccia, sembra sfatto, consumato dal tormento. Non doveva venire ai Pagliarelli, aveva annunciato che sarebbe rimasto nel suo studio di Villa Sperlinga ad attendere il verdetto. "Poi mio figlio Raffaele mi ha convinto a stare qui, per rispetto dei giudici", racconta negli interminabili minuti che precedono l'entrata in scena dei giudici. E' durata dieci o venti secondi la suspence e poi il processo che ha fatto a pezzi la procura di Palermo - proprio per le polemiche su come mandare a processo il governatore, quali reati contestargli - ha lasciato intatto il più straordinario e inattaccabile sistema di potere ideato in Sicilia negli ultimi quindici anni.
Condannato ma sempre Presidente. Condannato ma salvo nell'onore. Li ha favoriti due o tre mafiosi ma probabilmente non sapeva che erano mafiosi. Li ha sostenuti due o tre mafiosi ma voleva favorire solo due o tre amici. E' l'essenza della sentenza per l'imputato Cuffaro detto Totò o anche "vasa vasa" per quella sua passione a baciare tutti, è un articolo del codice (il 7, quello dell'aggravante nel favoreggiamento mafioso) che per lui fa la differenza fra rimanere e andarsene, fra considerarsi "degno" o "indegno" di guidare il governo della Sicilia. Erano due giorni che Palermo si era fermata su quel maledetto articolo 7 del codice di procedura penale, che aspettava tutta con fiato sospeso. "Ancora niente?", chiedeva verso mezzogiorno il libraio dei vecchi e ricercati volumi di mafia fuori dalla sua bottega fra il quartiere del Capo e le scalinate del Tribunale. "Ancora niente?", chiedeva l'oste della trattoria lì accanto. Ancora niente?, si chiedevano da mercoledì mattina migliaia si palermitani e decine di migliaia di siciliani quando i giudici erano entrati in camera di consiglio. Favoreggiamento semplice. Favoreggiamento con l'articolo 7. Favoreggiamento per tutta Cosa Nostra o solo per un singolo mafioso. C'è o manca la prova del suo collegamento con quei "galantuomini"? Una città intera, un'isola intera in una trepida vigilia di paura. Era l'isola del tesoro che poteva venire travolta da uno tsunami giudiziario, dai contraccolpi della condanna al governatore acclamato con quel milione trecentomila voti e con almeno trecentomila siciliani che da lui ogni giorno di ogni mese dell'anno traggono un vantaggio diretto o indiretto, di status o di prebende, di incarichi o di denaro. Ma cosa avrebbero fatto mai da domani quei fedelissimi, quella "ristretta" cerchia di colonnelli e capitani e marescialli che Totò negli ultimi sei anni e sei mesi - da quando è diventato per la prima volta governatore nel 2001 - ha piazzato dappertutto? I suoi 5 deputati nazionali, i suoi 3 senatori, i suoi 18 parlamentari regionali, gli 80 sindaci eletti in Sicilia e i 97 assessori e i 288 consiglieri comunali che uno per uno lui ha scelto per rappresentare in suo nome e per suo conto gli abitanti dell'isola da Trapani e dalle isole Egadi fino a Capo Passero? Ma cosa avrebbero fatto mai da domani quei 300 mila siciliani che sono intimamente (ed economicamente) legati a Totò? Manager. Consulenti e burocrati. Precari, avvocati, medici, presidenti di casse rurali e istituti zootecnici, di consorzi di bonifica e cliniche private, di agenzie rifiuti e di trasporti, di casse edili, di case del vino e dell'olivo, del mandarino e del cappero? Agricoltura. Sanità. Trasporti. Programmazione. Turismo. Agenzia per l'impiego. Tutto nelle sue mani. Le lacrime di Totò sono state le lacrime di tre quarti della Sicilia nei giorni prima. Se condannavano lui per avere favorito la mafia, li condannavano tutti. I trecentomila dell'"indotto" della politica di Cuffaro, quel milionetrecentomila di elettori che lo venerano come lui venera le sue Madonne appese sulle pareti di casa. Piaccia o non piaccia, giudici o non giudici, questa è ancora la Sicilia del 2008. L'altro ieri nella sua casa di Villa Sperlinga era andato a trovarlo anche il suo "vecchio" Padrino, l'uomo che prima nelle terre agrigentine e poi a Palermo l'aveva allevato politicamente, il suo maestro, Calogero Lillo Mannino, un grande della Democrazia cristiana siciliana. Gli aveva portato consigli e conforto. Tre giorni prima era venuto ad abbracciarlo a Palermo anche Casini. Grande festa fra gli stucchi e gli specchi di Villa Igiea, il popolo di Totò Cuffaro delle grandi occasioni, l'Udc siciliana che ha mostrato tutti suoi muscoli e tutto il suo sangue. E tutti i suoi voti - è al 18 per cento in Sicilia, tre volte di più che nel resto d'Italia - "all'amico Pier Ferdinando". Poi Totò ha chiesto a un altro amico - uno dei tanti dirigenti della Regione - di accompagnarlo nelle sue tenute, fra le sue vigne. A metà strada fra Caltanissetta ed Enna, la Sicilia più interna e forse anche quella più simile a lui, al suo carattere, al suo essere in un certo modo siciliano di altri tempi. E' stato in campagna che ha confessato ai suoi, ai più intimi: "Nel caso che io mi debba dimettere, portate avanti quello che ho iniziato io". Non ce n'è stato bisogno. E forse lui, Totò, in cuor suo già lo sapeva. Lo sapeva che anche da "favoreggiatore", era destinato a fare ancora il governatore della Sicilia.
(La Repubblica, 19 gennaio 2008)
di ATTILIO BOLZONI
Si fa il segno della croce quando il giudice di Palermo legge la sua condanna. E piange, piange per la felicità Totò Cuffaro, il governatore. Nonostante la severa sentenza. Nonostante la reclusione a cinque anni. Nonostante quel marchio di favoreggiatore che gli resterà addosso per sempre. In Sicilia c'è un confine che segna l'esistenza pubblica e privata dei suoi abitanti: mafia o non mafia, tutto il resto sembra contare niente. Spiate agli amici indagati. Tariffari sanitari concordati nei retrobottega. Talpe a servizio. Nell'Italia di oggi conta poco e Totò si sente comunque vincitore. Ed esulta per la sua condanna. "Resto governatore", sussurra asciugandosi le lacrime che gli intorbidano le lenti e poi scivolano lentamente sulle guance. "Resto", dice ancora quando il Tribunale lo assolve ma solo per quel reato: avere aiutato consapevolmente Cosa Nostra, tutta Cosa Nostra. "Resto", risponde a Silvio Berlusconi che gli telefona di sera e gli dice "che gli vuole bene". "Resto", ripete un'altra volta alzando gli occhi al cielo e rivolgendosi idealmente a quel milionetrecentomila di siciliani che l'hanno fatto diventare il padrone dell'isola. Quelli che sino alla fine hanno pregato per lui. Nelle chiese. Nelle loro case. Nei luoghi di lavoro. "Li abbraccio tutti e da domani mattina li incontrerò ancora tutti, uno per uno", fa sapere ai microfoni dei reporter fissando un po' stonato dall'emozione le telecamere e i faretti che lo abbagliano e le tante facce che lo circondano. "Li abbraccio tutti, i miei avvocati sono stati come fratelli, i miei amici come fratelli..", bisbiglia mentre gli amici-fratelli più vicini lo strattonano, lo baciano, coprono di tenerezze questo loro capopopolo che senza la condanna per mafia potrà ancora prenderli per mano e farli sopravvivere nel ventre di una Sicilia che sembra non cambiare mai. E' durata dieci o venti secondi la suspence sul destino dell'erede più puro dei democristiani siciliani, poi tutto è tornato come prima. E' l'ora del giudizio nella spettrale aula del carcere dei Pagliarelli, entra la Corte e lui, immobile, avvolto in un gessato sembra un fascio di nervi, livido in faccia, sembra sfatto, consumato dal tormento. Non doveva venire ai Pagliarelli, aveva annunciato che sarebbe rimasto nel suo studio di Villa Sperlinga ad attendere il verdetto. "Poi mio figlio Raffaele mi ha convinto a stare qui, per rispetto dei giudici", racconta negli interminabili minuti che precedono l'entrata in scena dei giudici. E' durata dieci o venti secondi la suspence e poi il processo che ha fatto a pezzi la procura di Palermo - proprio per le polemiche su come mandare a processo il governatore, quali reati contestargli - ha lasciato intatto il più straordinario e inattaccabile sistema di potere ideato in Sicilia negli ultimi quindici anni.
Condannato ma sempre Presidente. Condannato ma salvo nell'onore. Li ha favoriti due o tre mafiosi ma probabilmente non sapeva che erano mafiosi. Li ha sostenuti due o tre mafiosi ma voleva favorire solo due o tre amici. E' l'essenza della sentenza per l'imputato Cuffaro detto Totò o anche "vasa vasa" per quella sua passione a baciare tutti, è un articolo del codice (il 7, quello dell'aggravante nel favoreggiamento mafioso) che per lui fa la differenza fra rimanere e andarsene, fra considerarsi "degno" o "indegno" di guidare il governo della Sicilia. Erano due giorni che Palermo si era fermata su quel maledetto articolo 7 del codice di procedura penale, che aspettava tutta con fiato sospeso. "Ancora niente?", chiedeva verso mezzogiorno il libraio dei vecchi e ricercati volumi di mafia fuori dalla sua bottega fra il quartiere del Capo e le scalinate del Tribunale. "Ancora niente?", chiedeva l'oste della trattoria lì accanto. Ancora niente?, si chiedevano da mercoledì mattina migliaia si palermitani e decine di migliaia di siciliani quando i giudici erano entrati in camera di consiglio. Favoreggiamento semplice. Favoreggiamento con l'articolo 7. Favoreggiamento per tutta Cosa Nostra o solo per un singolo mafioso. C'è o manca la prova del suo collegamento con quei "galantuomini"? Una città intera, un'isola intera in una trepida vigilia di paura. Era l'isola del tesoro che poteva venire travolta da uno tsunami giudiziario, dai contraccolpi della condanna al governatore acclamato con quel milione trecentomila voti e con almeno trecentomila siciliani che da lui ogni giorno di ogni mese dell'anno traggono un vantaggio diretto o indiretto, di status o di prebende, di incarichi o di denaro. Ma cosa avrebbero fatto mai da domani quei fedelissimi, quella "ristretta" cerchia di colonnelli e capitani e marescialli che Totò negli ultimi sei anni e sei mesi - da quando è diventato per la prima volta governatore nel 2001 - ha piazzato dappertutto? I suoi 5 deputati nazionali, i suoi 3 senatori, i suoi 18 parlamentari regionali, gli 80 sindaci eletti in Sicilia e i 97 assessori e i 288 consiglieri comunali che uno per uno lui ha scelto per rappresentare in suo nome e per suo conto gli abitanti dell'isola da Trapani e dalle isole Egadi fino a Capo Passero? Ma cosa avrebbero fatto mai da domani quei 300 mila siciliani che sono intimamente (ed economicamente) legati a Totò? Manager. Consulenti e burocrati. Precari, avvocati, medici, presidenti di casse rurali e istituti zootecnici, di consorzi di bonifica e cliniche private, di agenzie rifiuti e di trasporti, di casse edili, di case del vino e dell'olivo, del mandarino e del cappero? Agricoltura. Sanità. Trasporti. Programmazione. Turismo. Agenzia per l'impiego. Tutto nelle sue mani. Le lacrime di Totò sono state le lacrime di tre quarti della Sicilia nei giorni prima. Se condannavano lui per avere favorito la mafia, li condannavano tutti. I trecentomila dell'"indotto" della politica di Cuffaro, quel milionetrecentomila di elettori che lo venerano come lui venera le sue Madonne appese sulle pareti di casa. Piaccia o non piaccia, giudici o non giudici, questa è ancora la Sicilia del 2008. L'altro ieri nella sua casa di Villa Sperlinga era andato a trovarlo anche il suo "vecchio" Padrino, l'uomo che prima nelle terre agrigentine e poi a Palermo l'aveva allevato politicamente, il suo maestro, Calogero Lillo Mannino, un grande della Democrazia cristiana siciliana. Gli aveva portato consigli e conforto. Tre giorni prima era venuto ad abbracciarlo a Palermo anche Casini. Grande festa fra gli stucchi e gli specchi di Villa Igiea, il popolo di Totò Cuffaro delle grandi occasioni, l'Udc siciliana che ha mostrato tutti suoi muscoli e tutto il suo sangue. E tutti i suoi voti - è al 18 per cento in Sicilia, tre volte di più che nel resto d'Italia - "all'amico Pier Ferdinando". Poi Totò ha chiesto a un altro amico - uno dei tanti dirigenti della Regione - di accompagnarlo nelle sue tenute, fra le sue vigne. A metà strada fra Caltanissetta ed Enna, la Sicilia più interna e forse anche quella più simile a lui, al suo carattere, al suo essere in un certo modo siciliano di altri tempi. E' stato in campagna che ha confessato ai suoi, ai più intimi: "Nel caso che io mi debba dimettere, portate avanti quello che ho iniziato io". Non ce n'è stato bisogno. E forse lui, Totò, in cuor suo già lo sapeva. Lo sapeva che anche da "favoreggiatore", era destinato a fare ancora il governatore della Sicilia.
(La Repubblica, 19 gennaio 2008)
Il paradosso di Totò condannato e felice: "Ora posso restare"
Il Governatore della Sicilia: «Hanno riconosciuto che non sono colluso»
di FRANCESCO LA LICATA
INVIATO A PALERMO
Nell’aula bunker del carcere di Pagliarelli - palcoscenico usuale dei più controversi processi di mafia e politica, da Andreotti a Mannino, passando per Dell’Utri - da ore si parla solo di «articolo sette». Avvocati, cronisti, semplici curiosi e pubblico, invece, interessato: tutti discettano sulla non rilevante differenza fra una condanna per favoreggiamento e un’altra per lo stesso reato ma senza l’aggravante, appunto, dell’articolo sette. Già, perché l’arrivo della condanna l’hanno messo tutti nel conto, anche lo stesso governatore Totò Cuffaro che, infatti, nel riuscito intento di dettare le regole del gioco, all’inizio del processo aveva posto una condizione puntando tutto e il proprio futuro politico sull’«azzardo dell’articolo sette». «Mi dimetto da governatore - aveva scandito davanti ai taccuini dei cronisti - se verrò condannato per mafia». Premonizione? Fiducia nei propri avvocati che avevano lasciato intendere di contare molto sulla difficoltà oggettiva che l’accusa potesse provare l’esistenza di quella aggravante? Il fatto è, comunque, che il salvagente, seppure poco spendibile dal punto di vista dell’etica politica e anche della logica, sembra aver funzionato.Ed è per questo che alle 17,40, quando Vittorio Alcamo, presidente della terza sezione del Tribunale penale, pronuncia le paroline attese - «con esclusione dell’articolo sette» - il giovane «devoto» mescolato a fotografi e cronisti si lascia andare al gesto liberatorio dell’allenatore che festeggia il gol della propria squadra serrando i pugni. L’«esclusione dell’articolo sette» si trasforma qualche attimo dopo in una comunicazione rassicurante per altri «devoti» in attesa: «Picciotti, domani ce ne possiamo tornare a lavorare». Il dispaccio Ansa, il primo delle 17,43, che annuncia «Colpevole senza aggravante» funziona da detonatore per il solito rituale della «Santabarbara» delle dichiarazioni politiche di solidarietà. E’ una perfetta sincronia, un meccanismo collaudato che serve ad oscurare mediaticamente la realtà di quanto accade in favore di una fiction capace di stravolgere il senso delle cose.Così un imputato appena condannato a 5 anni e all’interdizione dai pubblici uffici, completamente assediato da microfoni e telecamere, poteva consegnare ai giornalisti il proprio sollievo per non aver ricevuto la contestazione dell’«articolo sette». «Nel mio cuore - scandiva Cuffaro - sapevo di essere a posto con la mia coscienza e di non aver mai avuto nulla a che fare con l’organizzazione mafiosa». Tutto mentre si cercava di capire perché, pur nell’assenza dell’«articolo sette», il Tribunale avesse inflitto una pena certamente non lieve. E mentre le prime interpretazioni del dispositivo consentivano di poter affermare che il Governatore non era stato condannato per aver favorito l’organizzazione Cosa Nostra ma alcuni esponenti di essa. Certo, è difficile da capire, ma le cose stanno proprio in questi termini: la sentenza, come commenta anche il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso, dimostra l’esistenza delle talpe e del favoreggiamento. «E’ rimasto provato il favoreggiamento da parte del presidente della Regione di singoli mafiosi come Giuseppe Guttadauro, Salvatore Aragona, Greco, Aiello e Miceli, senza che tutto ciò fosse ritenuto sufficiente per supportare l’accusa di aver favorito Cosa Nostra nel suo complesso».Ma Totò non sente, continua a martellare sulle regole del gioco che lui stesso aveva posto, anche tra qualche tiepidezza di una opposizione e di un’opinione pubblica che in Sicilia è proprio minoranza. E così Totò ringrazia «le centinaia di migliaia di siciliani che continuano ad avere fiducia nel loro presidente» e comunica che «domani sarò al mio posto ad incontrare la gente che ho sempre visto. Non sono stato condannato per mafia e dunque non mi dimetto». Ma fa di più, ai microfoni dei tg: «La mia origine, la mia cultura, le scuole che ho frequentato, la mia educazione familiare, tutto confligge con l’ipotesi di reato che la procura mi aveva contestato». Adesso, sarà la missione di Totò, «cercheremo di scrollarci il resto delle accuse».Le dichiarazioni meno amichevoli arrivano proprio da ex amici: «Non è certamente - dice Gianfranco Miccichè, presidente dell’Assemblea regionale - la buona notizia che la Sicilia attendeva e di cui aveva bisogno. Io personalmente speravo in un risultato di netta estraneità del presidente della Regione». E Stefania Prestigiacomo, anche lei FI: «Sollievo per Cuffaro, ma ora Forza Italia ponga l’esigenza di cambiamento e discontinuità». Non sono, queste, buone notizie per Totò.
La Stampa, 19 gennaio 2008
di FRANCESCO LA LICATA
INVIATO A PALERMO
Nell’aula bunker del carcere di Pagliarelli - palcoscenico usuale dei più controversi processi di mafia e politica, da Andreotti a Mannino, passando per Dell’Utri - da ore si parla solo di «articolo sette». Avvocati, cronisti, semplici curiosi e pubblico, invece, interessato: tutti discettano sulla non rilevante differenza fra una condanna per favoreggiamento e un’altra per lo stesso reato ma senza l’aggravante, appunto, dell’articolo sette. Già, perché l’arrivo della condanna l’hanno messo tutti nel conto, anche lo stesso governatore Totò Cuffaro che, infatti, nel riuscito intento di dettare le regole del gioco, all’inizio del processo aveva posto una condizione puntando tutto e il proprio futuro politico sull’«azzardo dell’articolo sette». «Mi dimetto da governatore - aveva scandito davanti ai taccuini dei cronisti - se verrò condannato per mafia». Premonizione? Fiducia nei propri avvocati che avevano lasciato intendere di contare molto sulla difficoltà oggettiva che l’accusa potesse provare l’esistenza di quella aggravante? Il fatto è, comunque, che il salvagente, seppure poco spendibile dal punto di vista dell’etica politica e anche della logica, sembra aver funzionato.Ed è per questo che alle 17,40, quando Vittorio Alcamo, presidente della terza sezione del Tribunale penale, pronuncia le paroline attese - «con esclusione dell’articolo sette» - il giovane «devoto» mescolato a fotografi e cronisti si lascia andare al gesto liberatorio dell’allenatore che festeggia il gol della propria squadra serrando i pugni. L’«esclusione dell’articolo sette» si trasforma qualche attimo dopo in una comunicazione rassicurante per altri «devoti» in attesa: «Picciotti, domani ce ne possiamo tornare a lavorare». Il dispaccio Ansa, il primo delle 17,43, che annuncia «Colpevole senza aggravante» funziona da detonatore per il solito rituale della «Santabarbara» delle dichiarazioni politiche di solidarietà. E’ una perfetta sincronia, un meccanismo collaudato che serve ad oscurare mediaticamente la realtà di quanto accade in favore di una fiction capace di stravolgere il senso delle cose.Così un imputato appena condannato a 5 anni e all’interdizione dai pubblici uffici, completamente assediato da microfoni e telecamere, poteva consegnare ai giornalisti il proprio sollievo per non aver ricevuto la contestazione dell’«articolo sette». «Nel mio cuore - scandiva Cuffaro - sapevo di essere a posto con la mia coscienza e di non aver mai avuto nulla a che fare con l’organizzazione mafiosa». Tutto mentre si cercava di capire perché, pur nell’assenza dell’«articolo sette», il Tribunale avesse inflitto una pena certamente non lieve. E mentre le prime interpretazioni del dispositivo consentivano di poter affermare che il Governatore non era stato condannato per aver favorito l’organizzazione Cosa Nostra ma alcuni esponenti di essa. Certo, è difficile da capire, ma le cose stanno proprio in questi termini: la sentenza, come commenta anche il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso, dimostra l’esistenza delle talpe e del favoreggiamento. «E’ rimasto provato il favoreggiamento da parte del presidente della Regione di singoli mafiosi come Giuseppe Guttadauro, Salvatore Aragona, Greco, Aiello e Miceli, senza che tutto ciò fosse ritenuto sufficiente per supportare l’accusa di aver favorito Cosa Nostra nel suo complesso».Ma Totò non sente, continua a martellare sulle regole del gioco che lui stesso aveva posto, anche tra qualche tiepidezza di una opposizione e di un’opinione pubblica che in Sicilia è proprio minoranza. E così Totò ringrazia «le centinaia di migliaia di siciliani che continuano ad avere fiducia nel loro presidente» e comunica che «domani sarò al mio posto ad incontrare la gente che ho sempre visto. Non sono stato condannato per mafia e dunque non mi dimetto». Ma fa di più, ai microfoni dei tg: «La mia origine, la mia cultura, le scuole che ho frequentato, la mia educazione familiare, tutto confligge con l’ipotesi di reato che la procura mi aveva contestato». Adesso, sarà la missione di Totò, «cercheremo di scrollarci il resto delle accuse».Le dichiarazioni meno amichevoli arrivano proprio da ex amici: «Non è certamente - dice Gianfranco Miccichè, presidente dell’Assemblea regionale - la buona notizia che la Sicilia attendeva e di cui aveva bisogno. Io personalmente speravo in un risultato di netta estraneità del presidente della Regione». E Stefania Prestigiacomo, anche lei FI: «Sollievo per Cuffaro, ma ora Forza Italia ponga l’esigenza di cambiamento e discontinuità». Non sono, queste, buone notizie per Totò.
La Stampa, 19 gennaio 2008
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