IL CONSIGLIO COMUNALE DI CORLEONE
- ESAMINATO il Decreto dell’Assessore Regionale alla Salute sul riordino, la rifunzionalizzazione e la riconversione della rete ospedaliera dell’Azienda Provinciale di Palermo, per la parte che riguarda l’impatto con i servizi del Presidio Ospedaliero di Corleone;
- NON CONDIVIDE la decisione dell’Assessorato di cancellare l’U.O. di Psichiatria, in quanto lascia drammaticamente scoperto il territorio del Corleonese di un servizio indispensabile per i cittadini-utenti;
- ESPRIME la sua contrarietà dalla decisione della Direzione Generale dell’ASP di Palermo di trasferire a Partinico l’U.O.C. di Ostetricia e Ginecologia, mantenendo a Corleone il solo “Punto Nascita”;
- RITIENE che queste scelte penalizzino ancora di più la zona interna del Corleonese, dove vi è una pessima rete viaria sia in direzione di Palermo che in direzione di Partinico, privandola di strutture sanitarie indispensabili;
- CHIEDE con forza che vengano mantenuti presso il Presidio Ospedaliero di Corleone le Unità Operative di Psichiatria e di Ostetricia e Ginecologia;
- RITIENE NECESSARIA l’immediata attivazione dell’U.O. di Pediatria, con l’attuale dotazione di n. 4 posti letto, ancora non attivi per carenza di personale medico ed infermieristico, reperendo il personale ed attivando un’organizzazione del lavoro che garantisca la presenza di un pediatra in tutte le 24 ore;
- RITIENE INDISPENSABILE il mantenimento di un alto livello qualitativo, sia di personale che di attrezzature, delle Unità Operative Complesse di Chirurgia e di Medicina, affinché siano in grado di soddisfare i bisogni di salute delle popolazioni;
- RITIENE NECESSARIO che la Direzione Generale dell’ASP, oltre a fissare gli obiettivi di appropriatezza dei ricoveri, di efficacia ed efficienza e di riduzione della spesa sanitaria, dia anche gli strumenti affinché questi obiettivi possano essere raggiunti;
- RITIENE CHE l’inadeguatezza della rete stradale che collega Corleone a Partinico e a Palermo possa giustificare le necessarie deroghe, affinché le UU.OO. “salva-vita” di Ostetricia e Ginecologia, Chirurgia Generale e Medicina Generale siano mantenute in vita ed implementate;
- RITIENE CHE il Presidio Ospedaliero di Corleone possa raggiungere gli obiettivi fissati dalla direzione aziendale, a condizione che sia dotato di tutti gli strumenti necessari per garantire la piena funzionalità della struttura, come il Eco-cardiografo per il Servizio di Cardiologia, la piena funzionalità della TAC G. E. MULTI-SLIDE, sia per gli utenti interni sia per quelli esterni, il gastroscopio/coloscopio e l’intensificatore di brillanza per l’U.O. di Chirurgia, affinchè si possano effettuare diagnosi precise e ricoveri appropriati;
- CHIEDE CHE il Direttore Generale dell’ASP di Palermo mantenga l’impegno della contestualità tra la chiusura dell’Unità Operativa di Geriatria e l’apertura della Medicina Riabilitativa e della Lungodegenza;
- CHIEDE al Presidente del Consiglio comunale che questo documento venga inviato per l’esame e l’approvazione anche a tutte le amministrazioni e i consigli comunali della zona;
- CHIEDE, infine, che copia della presente mozione venga inviata all’Assessore Regionale alla Salute e al Direttore Generale dell’ASP di Palermo, con l’invito a visitare Corleone e ad ascoltare la voce dei cittadini, delle forze sociali e delle istituzioni locali.
mercoledì 31 marzo 2010
Il vice di Provenzano parla con i pm. Pino Lipari: "Il papello ai carabinieri"
di Salvo Palazzolo
Il boss che faceva da "ministro dei lavori pubblici" del capo di Cosa nostra accetta di farsi interrogare dai magistrati che indagano sulla trattativa e conferma alcuni passaggi della ricostruzione di Massimo Ciancimino, che intanto ha ritrovato un documento del padre su Dell'Utri. Dopo anni di carcere, oggi dice: "Io ritengo in cuor mio di aver riscoperto i valori delle istituzioni. Perché troppi guai ho avuto, una famiglia distrutta e tutto il resto. Ecco perché rispondo". Pino Lipari, 74 anni, il ministro dei lavori pubblici di Bernardo Provenzano, resta ancora uno degli irriducibili di Cosa nostra (nonostante i buoni propositi annunciati), ma accetta di parlare con i magistrati di Palermo che indagano sulla trattativa fra pezzi dello Stato e la mafia. Il boss (ormai tornato in libertà) ha spiegato ai pm Nino Di Matteo e Antonio Ingroia di aver discusso del papello con Vito Ciancimino, durante un incontro all'hotel Plaza di Roma.
"Era l'inizio di dicembre 1992 - tiene a precisare Lipari, che sembra avere la preoccupazione di tenersi lontano dalla trattativa - era dopo questi eventi". Ciancimino gli avrebbe detto: "Il papello l'ho consegnato al capitano De Donno". I magistrati hanno chiesto a Lipari di cosa si parlò durante quell'incontro romano. Il boss dice: "Ciancimino mi tenne mezz'ora, tre quarti d'ora. Mi spiegò che il papello riguardava una richiesta di abolizione del 41 bis e anche l'abolizione degli ergastoli. Mi fece un quadro di tutta la situazione". Era stato Ciancimino a volere l'incontro al Plaza. "Forse voleva che io riferissi a Provenzano", accenna Lipari, che poi racconta pure del suo incontro con il boss corleonese, qualche tempo dopo: "Il ragionamento di Provenzano era questo. Per assurgere a dignità di trattativa non poteva essere solo il colonnello Mori a chiedere un discorso di questo tipo... per parlare di queste cose ci deve essere dietro una cappa di protezione, che sono cose superiori, istituzioni".
In un interrogatorio del luglio scorso, Lipari sostiene di avere saputo del papello anche da un altro protagonista della trattativa, Antonino Cinà, il medico di Totò Riina. Ma solo nel 2000. "Cinà ha avuto il papello da Riina (...) Era dentro una busta, che poi fu consegnata a Ciancimino". Lipari riferisce ai magistrati anche alcune parole di Cinà: "Vito mi disse che c'era questa trattativa". E ancora: "Mi disse, c'è una trattativa che vogliono fare per vedere di finire ste stragi".
Lipari aveva già accettato di parlare con i magistrati di Palermo nel 2002, ma all'epoca il procuratore Piero Grasso aveva ritenuto poco attendibile il suo racconto. Durante alcune intercettazioni in carcere, infatti, il boss diceva ai familiari di aver "aggiustato" le dichiarazioni ai pm riguardanti i rapporti mafia e politica e poi quelle sui beni di Cosa nostra. Otto anni dopo, per la Procura di Palermo le parole di Lipari sono diventate un importante riscontro al racconto offerto da Massimo Ciancimino sulla trattativa. Così, i verbali con la testimonianza del padrino sono finiti nel processo che vede imputato il generale dei carabinieri Mario Mori di aver coperto la latitanza di Bernardo Provenzano. Dopo le dichiarazioni di Ciancimino, anche il capitano De Donno è finito sotto inchiesta.
(La Repubblica, 31 marzo 2010) © Riproduzione riservata
Il boss che faceva da "ministro dei lavori pubblici" del capo di Cosa nostra accetta di farsi interrogare dai magistrati che indagano sulla trattativa e conferma alcuni passaggi della ricostruzione di Massimo Ciancimino, che intanto ha ritrovato un documento del padre su Dell'Utri. Dopo anni di carcere, oggi dice: "Io ritengo in cuor mio di aver riscoperto i valori delle istituzioni. Perché troppi guai ho avuto, una famiglia distrutta e tutto il resto. Ecco perché rispondo". Pino Lipari, 74 anni, il ministro dei lavori pubblici di Bernardo Provenzano, resta ancora uno degli irriducibili di Cosa nostra (nonostante i buoni propositi annunciati), ma accetta di parlare con i magistrati di Palermo che indagano sulla trattativa fra pezzi dello Stato e la mafia. Il boss (ormai tornato in libertà) ha spiegato ai pm Nino Di Matteo e Antonio Ingroia di aver discusso del papello con Vito Ciancimino, durante un incontro all'hotel Plaza di Roma.
"Era l'inizio di dicembre 1992 - tiene a precisare Lipari, che sembra avere la preoccupazione di tenersi lontano dalla trattativa - era dopo questi eventi". Ciancimino gli avrebbe detto: "Il papello l'ho consegnato al capitano De Donno". I magistrati hanno chiesto a Lipari di cosa si parlò durante quell'incontro romano. Il boss dice: "Ciancimino mi tenne mezz'ora, tre quarti d'ora. Mi spiegò che il papello riguardava una richiesta di abolizione del 41 bis e anche l'abolizione degli ergastoli. Mi fece un quadro di tutta la situazione". Era stato Ciancimino a volere l'incontro al Plaza. "Forse voleva che io riferissi a Provenzano", accenna Lipari, che poi racconta pure del suo incontro con il boss corleonese, qualche tempo dopo: "Il ragionamento di Provenzano era questo. Per assurgere a dignità di trattativa non poteva essere solo il colonnello Mori a chiedere un discorso di questo tipo... per parlare di queste cose ci deve essere dietro una cappa di protezione, che sono cose superiori, istituzioni".
In un interrogatorio del luglio scorso, Lipari sostiene di avere saputo del papello anche da un altro protagonista della trattativa, Antonino Cinà, il medico di Totò Riina. Ma solo nel 2000. "Cinà ha avuto il papello da Riina (...) Era dentro una busta, che poi fu consegnata a Ciancimino". Lipari riferisce ai magistrati anche alcune parole di Cinà: "Vito mi disse che c'era questa trattativa". E ancora: "Mi disse, c'è una trattativa che vogliono fare per vedere di finire ste stragi".
Lipari aveva già accettato di parlare con i magistrati di Palermo nel 2002, ma all'epoca il procuratore Piero Grasso aveva ritenuto poco attendibile il suo racconto. Durante alcune intercettazioni in carcere, infatti, il boss diceva ai familiari di aver "aggiustato" le dichiarazioni ai pm riguardanti i rapporti mafia e politica e poi quelle sui beni di Cosa nostra. Otto anni dopo, per la Procura di Palermo le parole di Lipari sono diventate un importante riscontro al racconto offerto da Massimo Ciancimino sulla trattativa. Così, i verbali con la testimonianza del padrino sono finiti nel processo che vede imputato il generale dei carabinieri Mario Mori di aver coperto la latitanza di Bernardo Provenzano. Dopo le dichiarazioni di Ciancimino, anche il capitano De Donno è finito sotto inchiesta.
(La Repubblica, 31 marzo 2010) © Riproduzione riservata
Lettera aperta al segretario nazionale del PD, Pierluigi Bersani
Caro Segretario,
mi chiamo Serena, sono nata, vivo e lavoro a Palermo. Ho quasi 32 anni e sono una consigliera di circoscrizione del Pd in una delle tante periferie di Palermo, della Sicilia, d´Italia. Scusami anticipatamente se mi rivolgo a te all´indomani del voto delle regionali. Sarai certamente alle prese con l´analisi del voto. Numeri alla mano cercherai, tu insieme ai dirigenti, di capire cosa sia successo. Se è stata una vittoria, oppure una sconfitta. Se è stata un´inversione di tendenza o una retromarcia. Se l´astensionismo ci ha avvantaggiato o penalizzato. E´ un esercizio sicuramente utile, ma mi perdonerai, troppo complicato per me.
Io faccio politica sin da piccola e ho capito immediatamente che sono i piccoli passi quelli che contano. Soprattutto in politica. Il contatto diretto con i cittadini. L´ascolto appassionato dei loro problemi. La lampadina della strada che non funziona e il buio che spaventa le famiglie;
il marciapiede rotto che diventa una trappola per gli anziani che vanno a piedi; i contenitori dell´immondizia stracolmi e lo slalom dei genitori che portano i loro bimbi a scuola.
Vincere queste piccole battaglie mi ha sempre riempito il cuore e mi ha sempre fatto dimenticare quella politica che parla, parla, parla di grandi cose, difficili da comprendere, per una come me, nata e cresciuta in periferia, impegnata da sempre a costruire piccole, piccole, piccole quotidiane libertà. Che diventano grandi, grandi, grandi soddisfazioni quando s´impongono in una città di diritti negati, di torti.
Perché così vince la gente. Vince l´idea che è possibile cambiare le cose e la politica diventa più bella. E si vincono anche le elezioni. A patto che la politica scenda dal piedistallo, torni umilmente nelle strade a parlare di cose concrete. Della lampadina che non funziona, della raccolta regolare dei rifiuti, delle strade da curare e da illuminare.
Le mie tante piccole battaglie sono sempre state tutto questo. Questo è il PD che, giorno dopo giorno, mi piace costruire nella mia periferia. Questo è il PD che piace alla gente. E non se ne sta a casa. Va a votarlo. Perché gli abbiamo dato un senso, abbiamo dato "un senso a questa storia".
Come sai bene, nella mia città, caro Segretario, non si è votato ma, alla luce di quello che è successo nel resto d´Italia, sarebbe stato facile prevederne l´esito.
Tutto ciò mi preoccupa. Mi preoccupa perché, nonostante l´impegno di tante ragazze e ragazzi, tante iscritte e tanti iscritti, il mio, il nostro partito a Palermo non decolla. Non decollano i circoli, i congressi non si fanno, gli iscritti sono demotivati. Il radicamento rimane solo uno slogan buono per contarsi ai congressi. Tutto ciò che c´è è un simbolo in mano agli eletti.
E allora ti chiedo, per un attimo, di conservare i dati elettorali di ieri nel tuo cassetto e di spulciare i dati del nostro partito nel territorio. Ti chiedo di studiarli prima delle prossime elezioni. Perché da questi dipendono i risultati di domani.
A Palermo le elezioni saranno nel 2012. E per vincerle non basterà presentare una lista con il simbolo del PD e un programma. Serviranno uomini nuovi, con idee davvero nuove. Servirà che una nuova generazione, in questi due anni che ci separano dalle elezioni, entri poderosamente nei palazzi della politica, che senta il dovere di guidare le nostre città verso nuovi porti, verso nuove opportunità, verso nuove sfide.
Occorreranno facce nuove, perché le nuove sfide, i nuovi problemi e le nuove opportunità richiedono innovazione, nuove competenze, nuova immaginazione, nuova passione. Ma soprattutto coraggio. Questo progetto l´ho chiamato "New Generation Day", il giorno della nuova generazione (http://www.serenapotenza.it/), e spero che diventi anche il tuo. Ma sta a te, anche a Palermo, aprire le porte e le finestre del partito. Certamente potrai contare su di me e su tante altre energie invisibili, belle forze che aspettano una scossa. Un sussulto di orgoglio e coraggio.
Ti auguro buon lavoro,
Serena Potenza
mi chiamo Serena, sono nata, vivo e lavoro a Palermo. Ho quasi 32 anni e sono una consigliera di circoscrizione del Pd in una delle tante periferie di Palermo, della Sicilia, d´Italia. Scusami anticipatamente se mi rivolgo a te all´indomani del voto delle regionali. Sarai certamente alle prese con l´analisi del voto. Numeri alla mano cercherai, tu insieme ai dirigenti, di capire cosa sia successo. Se è stata una vittoria, oppure una sconfitta. Se è stata un´inversione di tendenza o una retromarcia. Se l´astensionismo ci ha avvantaggiato o penalizzato. E´ un esercizio sicuramente utile, ma mi perdonerai, troppo complicato per me.
Io faccio politica sin da piccola e ho capito immediatamente che sono i piccoli passi quelli che contano. Soprattutto in politica. Il contatto diretto con i cittadini. L´ascolto appassionato dei loro problemi. La lampadina della strada che non funziona e il buio che spaventa le famiglie;
il marciapiede rotto che diventa una trappola per gli anziani che vanno a piedi; i contenitori dell´immondizia stracolmi e lo slalom dei genitori che portano i loro bimbi a scuola.
Vincere queste piccole battaglie mi ha sempre riempito il cuore e mi ha sempre fatto dimenticare quella politica che parla, parla, parla di grandi cose, difficili da comprendere, per una come me, nata e cresciuta in periferia, impegnata da sempre a costruire piccole, piccole, piccole quotidiane libertà. Che diventano grandi, grandi, grandi soddisfazioni quando s´impongono in una città di diritti negati, di torti.
Perché così vince la gente. Vince l´idea che è possibile cambiare le cose e la politica diventa più bella. E si vincono anche le elezioni. A patto che la politica scenda dal piedistallo, torni umilmente nelle strade a parlare di cose concrete. Della lampadina che non funziona, della raccolta regolare dei rifiuti, delle strade da curare e da illuminare.
Le mie tante piccole battaglie sono sempre state tutto questo. Questo è il PD che, giorno dopo giorno, mi piace costruire nella mia periferia. Questo è il PD che piace alla gente. E non se ne sta a casa. Va a votarlo. Perché gli abbiamo dato un senso, abbiamo dato "un senso a questa storia".
Come sai bene, nella mia città, caro Segretario, non si è votato ma, alla luce di quello che è successo nel resto d´Italia, sarebbe stato facile prevederne l´esito.
Tutto ciò mi preoccupa. Mi preoccupa perché, nonostante l´impegno di tante ragazze e ragazzi, tante iscritte e tanti iscritti, il mio, il nostro partito a Palermo non decolla. Non decollano i circoli, i congressi non si fanno, gli iscritti sono demotivati. Il radicamento rimane solo uno slogan buono per contarsi ai congressi. Tutto ciò che c´è è un simbolo in mano agli eletti.
E allora ti chiedo, per un attimo, di conservare i dati elettorali di ieri nel tuo cassetto e di spulciare i dati del nostro partito nel territorio. Ti chiedo di studiarli prima delle prossime elezioni. Perché da questi dipendono i risultati di domani.
A Palermo le elezioni saranno nel 2012. E per vincerle non basterà presentare una lista con il simbolo del PD e un programma. Serviranno uomini nuovi, con idee davvero nuove. Servirà che una nuova generazione, in questi due anni che ci separano dalle elezioni, entri poderosamente nei palazzi della politica, che senta il dovere di guidare le nostre città verso nuovi porti, verso nuove opportunità, verso nuove sfide.
Occorreranno facce nuove, perché le nuove sfide, i nuovi problemi e le nuove opportunità richiedono innovazione, nuove competenze, nuova immaginazione, nuova passione. Ma soprattutto coraggio. Questo progetto l´ho chiamato "New Generation Day", il giorno della nuova generazione (http://www.serenapotenza.it/), e spero che diventi anche il tuo. Ma sta a te, anche a Palermo, aprire le porte e le finestre del partito. Certamente potrai contare su di me e su tante altre energie invisibili, belle forze che aspettano una scossa. Un sussulto di orgoglio e coraggio.
Ti auguro buon lavoro,
Serena Potenza
AGENZIA BENI CONFISCATI: SE SI FARA’ SEDE A PALERMO SI SCELGA CORLEONE
IL TESTO INTEGRALE DELL'INTERVENTO DEL SEN. GIUSEPPE LUMIA
PRESIDENTE.È iscritto a parlare il senatore Lumia. Ne ha facoltà.
LUMIA (PD). Signor Presidente, onorevole Ministro, onorevole Sottosegretario, colleghi, il testo licenziato dal Governo aveva una buona idea – che il Partito Democratico chiedeva da mesi venisse messa all’ordine del giorno delle priorità complessive dello Stato e dei lavori del Parlamento – ma non era un buon testo. La Camera lo ha corretto e ha fatto un buon lavoro, al quale rendiamo onore. Tuttavia lo strumento del decreto ci impedisce oggi al Senato di apportare altre correzioni che sicuramente potrebbero trovare unanimità, nonché essere utili per rendere operativa, responsabile ed efficace la struttura dell’Agenzia nei suoi compiti, nei suoi rapporti con il territorio, nel suo personale, nella possibilità di utilizzare veramente a fini sociali e produttivi i beni confiscati. Questo non ci è stato consentito perché il decreto-legge va in scadenza.
Ecco perché, Ministro, al Senato deve prendere formalmente l’impegno che all’avvio dei lavori dell’Agenzia ci sarà un’attenta cura per intervenire nuovamente, in modo veloce e snello, e fare in modo che questa idea non fallisca. In quel caso, infatti, perderemmo tutti credibilità, perché nella lotta alla mafia l’aggressione ai patrimoni e soprattutto l’utilizzo sociale e produttivo di questi beni sono l’arma vincente, l’arma insostituibile, un’arma tanto cara a Pio La Torre, colpito il 30 aprile 1982 a Palermo, e al prefetto, generale Dalla Chiesa, colpito il 3 settembre dello stesso anno sempre a Palermo. Il Parlamento in quel caso arrivò il giorno dopo – secondo quella idea dell’antimafia che spesso qualifico come “il ritardo perdente” – cioè solo il 13 settembre.
Ministro, c’erano due idee che potevano rendere la buona proposta dell’Agenzia debole in partenza, anzi, per alcuni versi, contraddittoria e destinata al fallimento: la vendita dei beni e l’esclusione dell’autorità giudiziaria, soprattutto nella fase iniziale, quando il bene è ancora sotto sequestro. Lei sa, Ministro, che quando il bene è ancora sotto sequestro l’autorità giudiziaria, attraverso gli amministratori giudiziari, può continuare l’indagine, può scoprire ulteriori beni che si nascondono, può evitare che le organizzazioni mafiose mantengano un dominio e un controllo, diretto o indiretto, su quel bene. Abbiamo fatto bene, c’è stata una battaglia dura, sia contro la vendita dei beni sia per reinserire la funzione, in cooperazione con l’Agenzia, dell’autorità giudiziaria attraverso gli amministratori giudiziari, ma non siamo riusciti a risolvere altre questioni, che adesso le sottopongo.
L’Agenzia, Ministro, come è stato detto da diversi colleghi, nasce come una struttura debole, intanto nel personale. Per questo le chiediamo di valorizzare quel personale che ha maturato un’esperienza nell’Agenzia del demanio, una struttura che non ho mai difeso, perché l’ho sempre ritenuta inadeguata, chiamandolo a far parte dell’Agenzia, così da dare subito un impulso operativo e positivo, senza perdere tempo ed evitando che l’Agenzia possa subire intermediazioni clientelari della politica che possano portare all’immissione nell’Agenzia stessa di personale invece scadente e non preparato a svolgere la funzione che la legge gli assegna.
Infine, Ministro, con la non costituzione in tutte le prefetture di comitati non burocratizzati in mano al coordinamento dei prefetti si rischia di assegnare all’Agenzia un compito che non può svolgere in tempi velocissimi. Si immagini lei, Ministro: circa 5.000 beni ancora non assegnati che l’Agenzia dovrebbe direttamente, in modo centralizzato, assegnare nei vari territori. Ma mi dica un po’, Ministro: che ne sa l’Agenzia (che avrà la sua operatività positiva a Reggio Calabria) di Milano? Ma che ne sa (se la scelta fosse stata Milano) un’agenzia centralizzata a Milano di quello che succede a Reggio Calabria o Palermo? L’assegnazione dei beni confiscati deve essere riposta ai comitati provinciali governati e coordinati dai prefetti perché, come è stato dimostrato in Commissione parlamentare antimafia, i prefetti sono stati un elemento chiave e positivo per la gestione dei beni confiscati.
Certo, abbiamo registrato casi scandalosi come quello che è avvenuto a Palermo, su cui ho presentato anche un’interrogazione, dove alcuni beni sono stati assegnati ad organizzazioni con fini di lucro e senza un’attività sociale. Un fatto gravissimo su cui dovrebbe vigilare, Ministro, e su cui dovrebbe accertare tutte le responsabilità per andare sino in fondo senza guardare in faccia nessuno. Ma la possibilità di dotare di strumenti e di funzioni dirette i comitati provinciali attraverso i prefetti potrebbe essere una chiave vincente, lasciando all’Agenzia nazionale compiti di coordinamento e poteri sostitutivi qualora nei territori non si abbia la forza, la capacità di poter assegnare quei beni e controllare il corretto uso sociale dei beni confiscati.
Così, Ministro, vi è un altro fatto gravissimo: l’assenza di un fondo. I beni confiscati, come lei sa, nella stragrande maggioranza dei casi sono vandalizzati e distrutti dalle organizzazioni mafiose. Quando sanno che quel bene è destinato al sequestro, ecco che immediatamente cala la mannaia delle organizzazioni mafiose e quando soprattutto il bene è destinato alla confisca viene del tutto reso privo delle sue qualità. In sostanza viene vandalizzato. Ecco perché, Ministro, avere un fondo in grado non solo di ripristinare l’agibilità dei beni ma soprattutto di accompagnarne l’utilizzo sociale e produttivo è un elemento vincente.
Ecco perché abbiamo proposto anche qui diverse soluzioni. Nella vostra ottica, mi piacerebbe sapere se siete d’accordo di destinare una piccola percentuale, almeno il 15 per cento, del cosiddetto Fondo giustizia al ripristino dell’uso sociale e produttivo dei beni. Avanziamo diverse proposte anche attraverso emendamenti. Scelga una di queste proposte e costituisca questo fondo per fare in modo che l’uso sociale e produttivo dei beni sia l’arma vincente e non diventi una corsa ad ostacoli, piena di difficoltà, spesso in grado di portare al fallimento piuttosto che al successo.
Inoltre, Ministro, ci sono gravi manchevolezze, tra le quali la più importante è l’assenza di un ruolo forte degli enti locali. Quando l’ente locale è coinvolto quel bene confiscato responsabilizza tutta la comunità. Quando l’ente locale si deve riunire in consiglio comunale, quando il sindaco deve fare una scelta, quel bene confiscato sul territorio diventa una grande risorsa ed anche un’assunzione di responsabilità, perché quando l’ente locale è privo di responsabilità quel bene scivola sulla pelle della comunità locale. Invece quando quel bene chiama in causa il ruolo, le funzioni dell’ente locale, quel bene diventa scelta di vita per molti sindaci, per molti consiglieri comunali. Diventa un colpo mortale all’organizzazione mafiosa.
In conclusione, Ministro, un altro riferimento: il volontariato deve essere coinvolto di più. Infine, Ministro, se dovete fare una sede a Palermo, vi propongo Corleone: lì può esserci una sede vera, con grande significato e con una grande funzione.
(Applausi dal Gruppo PD e del senatore Astore).
LUMIA (PD). Signor Presidente, onorevole Ministro, onorevole Sottosegretario, colleghi, il testo licenziato dal Governo aveva una buona idea – che il Partito Democratico chiedeva da mesi venisse messa all’ordine del giorno delle priorità complessive dello Stato e dei lavori del Parlamento – ma non era un buon testo. La Camera lo ha corretto e ha fatto un buon lavoro, al quale rendiamo onore. Tuttavia lo strumento del decreto ci impedisce oggi al Senato di apportare altre correzioni che sicuramente potrebbero trovare unanimità, nonché essere utili per rendere operativa, responsabile ed efficace la struttura dell’Agenzia nei suoi compiti, nei suoi rapporti con il territorio, nel suo personale, nella possibilità di utilizzare veramente a fini sociali e produttivi i beni confiscati. Questo non ci è stato consentito perché il decreto-legge va in scadenza.
Ecco perché, Ministro, al Senato deve prendere formalmente l’impegno che all’avvio dei lavori dell’Agenzia ci sarà un’attenta cura per intervenire nuovamente, in modo veloce e snello, e fare in modo che questa idea non fallisca. In quel caso, infatti, perderemmo tutti credibilità, perché nella lotta alla mafia l’aggressione ai patrimoni e soprattutto l’utilizzo sociale e produttivo di questi beni sono l’arma vincente, l’arma insostituibile, un’arma tanto cara a Pio La Torre, colpito il 30 aprile 1982 a Palermo, e al prefetto, generale Dalla Chiesa, colpito il 3 settembre dello stesso anno sempre a Palermo. Il Parlamento in quel caso arrivò il giorno dopo – secondo quella idea dell’antimafia che spesso qualifico come “il ritardo perdente” – cioè solo il 13 settembre.
Ministro, c’erano due idee che potevano rendere la buona proposta dell’Agenzia debole in partenza, anzi, per alcuni versi, contraddittoria e destinata al fallimento: la vendita dei beni e l’esclusione dell’autorità giudiziaria, soprattutto nella fase iniziale, quando il bene è ancora sotto sequestro. Lei sa, Ministro, che quando il bene è ancora sotto sequestro l’autorità giudiziaria, attraverso gli amministratori giudiziari, può continuare l’indagine, può scoprire ulteriori beni che si nascondono, può evitare che le organizzazioni mafiose mantengano un dominio e un controllo, diretto o indiretto, su quel bene. Abbiamo fatto bene, c’è stata una battaglia dura, sia contro la vendita dei beni sia per reinserire la funzione, in cooperazione con l’Agenzia, dell’autorità giudiziaria attraverso gli amministratori giudiziari, ma non siamo riusciti a risolvere altre questioni, che adesso le sottopongo.
L’Agenzia, Ministro, come è stato detto da diversi colleghi, nasce come una struttura debole, intanto nel personale. Per questo le chiediamo di valorizzare quel personale che ha maturato un’esperienza nell’Agenzia del demanio, una struttura che non ho mai difeso, perché l’ho sempre ritenuta inadeguata, chiamandolo a far parte dell’Agenzia, così da dare subito un impulso operativo e positivo, senza perdere tempo ed evitando che l’Agenzia possa subire intermediazioni clientelari della politica che possano portare all’immissione nell’Agenzia stessa di personale invece scadente e non preparato a svolgere la funzione che la legge gli assegna.
Infine, Ministro, con la non costituzione in tutte le prefetture di comitati non burocratizzati in mano al coordinamento dei prefetti si rischia di assegnare all’Agenzia un compito che non può svolgere in tempi velocissimi. Si immagini lei, Ministro: circa 5.000 beni ancora non assegnati che l’Agenzia dovrebbe direttamente, in modo centralizzato, assegnare nei vari territori. Ma mi dica un po’, Ministro: che ne sa l’Agenzia (che avrà la sua operatività positiva a Reggio Calabria) di Milano? Ma che ne sa (se la scelta fosse stata Milano) un’agenzia centralizzata a Milano di quello che succede a Reggio Calabria o Palermo? L’assegnazione dei beni confiscati deve essere riposta ai comitati provinciali governati e coordinati dai prefetti perché, come è stato dimostrato in Commissione parlamentare antimafia, i prefetti sono stati un elemento chiave e positivo per la gestione dei beni confiscati.
Certo, abbiamo registrato casi scandalosi come quello che è avvenuto a Palermo, su cui ho presentato anche un’interrogazione, dove alcuni beni sono stati assegnati ad organizzazioni con fini di lucro e senza un’attività sociale. Un fatto gravissimo su cui dovrebbe vigilare, Ministro, e su cui dovrebbe accertare tutte le responsabilità per andare sino in fondo senza guardare in faccia nessuno. Ma la possibilità di dotare di strumenti e di funzioni dirette i comitati provinciali attraverso i prefetti potrebbe essere una chiave vincente, lasciando all’Agenzia nazionale compiti di coordinamento e poteri sostitutivi qualora nei territori non si abbia la forza, la capacità di poter assegnare quei beni e controllare il corretto uso sociale dei beni confiscati.
Così, Ministro, vi è un altro fatto gravissimo: l’assenza di un fondo. I beni confiscati, come lei sa, nella stragrande maggioranza dei casi sono vandalizzati e distrutti dalle organizzazioni mafiose. Quando sanno che quel bene è destinato al sequestro, ecco che immediatamente cala la mannaia delle organizzazioni mafiose e quando soprattutto il bene è destinato alla confisca viene del tutto reso privo delle sue qualità. In sostanza viene vandalizzato. Ecco perché, Ministro, avere un fondo in grado non solo di ripristinare l’agibilità dei beni ma soprattutto di accompagnarne l’utilizzo sociale e produttivo è un elemento vincente.
Ecco perché abbiamo proposto anche qui diverse soluzioni. Nella vostra ottica, mi piacerebbe sapere se siete d’accordo di destinare una piccola percentuale, almeno il 15 per cento, del cosiddetto Fondo giustizia al ripristino dell’uso sociale e produttivo dei beni. Avanziamo diverse proposte anche attraverso emendamenti. Scelga una di queste proposte e costituisca questo fondo per fare in modo che l’uso sociale e produttivo dei beni sia l’arma vincente e non diventi una corsa ad ostacoli, piena di difficoltà, spesso in grado di portare al fallimento piuttosto che al successo.
Inoltre, Ministro, ci sono gravi manchevolezze, tra le quali la più importante è l’assenza di un ruolo forte degli enti locali. Quando l’ente locale è coinvolto quel bene confiscato responsabilizza tutta la comunità. Quando l’ente locale si deve riunire in consiglio comunale, quando il sindaco deve fare una scelta, quel bene confiscato sul territorio diventa una grande risorsa ed anche un’assunzione di responsabilità, perché quando l’ente locale è privo di responsabilità quel bene scivola sulla pelle della comunità locale. Invece quando quel bene chiama in causa il ruolo, le funzioni dell’ente locale, quel bene diventa scelta di vita per molti sindaci, per molti consiglieri comunali. Diventa un colpo mortale all’organizzazione mafiosa.
In conclusione, Ministro, un altro riferimento: il volontariato deve essere coinvolto di più. Infine, Ministro, se dovete fare una sede a Palermo, vi propongo Corleone: lì può esserci una sede vera, con grande significato e con una grande funzione.
(Applausi dal Gruppo PD e del senatore Astore).
martedì 30 marzo 2010
Corleone. Soppressa la Psichiatria, ridotta a "Punto nascite" l'Ostetricia. Le proposte della Cgil per salvare e potenziare l'Ospedale
La CGIL ha esaminato il Decreto dell’Assessore Regionale alla Salute sul riordino, la rifunzionalizzazione e la riconversione della rete ospedaliera dell’Azienda Provinciale di Palermo e le condizioni in cui versano i servizi del Presidio Ospedaliero di Corleone. Preliminarmente, non può che esprimere netto dissenso dalla decisione di sopprimere l’U.O. di Psichiatria, in quanto lascia drammaticamente scoperto il territorio del Corleonese di un servizio indispensabile per i cittadini-utenti. Gli eventuali errori di direzione, a partire dal dirigente medico responsabile dell’Unità Operativa di Psichiatria, non possono essere pagati dai cittadini e dagli altri operatori. La CGIL chiede che venga immediatamente ripristinato il servizio e, se ne ricorrono le condizioni, rimossi i dirigenti responsabili.
La CGIL esprime forte dissenso dalla decisione di chiudere anche l’U.O.C. di Ostetricia e Ginecologia, con la previsione del mantenimento a Corleone del solo Punto Nascita. Tutto ciò penalizza ancora di più la zona interna del Corleonese, privandola di una struttura sanitaria dove si possa continuare a nascere e a curare le patologie ginecologiche. Chiede, quindi, che venga almeno ripristinata una Unità Operativa Semplice di Ostetricia e Ginecologia. Contestualmente alla sopraccitata richiesta risulta necessario l’attivazione dell’U.O.S. di Pediatria, con l’attuale dotazione di n. 4 posti letto, ancora non attivi per carenza di personale medico ed infermieristico. Al riguardo, si chiede l’immediato reperimento di detto personale e un’organizzazione del lavoro che garantisca la presenza di un pediatra h24.
La CGIL, inoltre, ritiene indispensabile il mantenimento ad alti livelli qualitativi (sia di personale che di attrezzature) delle Unità Operative Complesse di Chirurgia e di Medicina, che rispondano ai bisogni di salute delle popolazioni. Al riguardo, però, è necessario che la Direzione Generale, oltre a fissare gli obiettivi (appropriatezza dei ricoveri, efficacia ed efficienza e riduzione della spesa), dia anche gli strumenti per raggiungerli. Se questo non avvenisse, significherebbe soltanto che – senza nemmeno assumersi la responsabilità di dirlo – la Direzione Generale dell’ASP e l’Assessore alla Salute hanno già deciso fra un anno un ulteriore depotenziamento fino ad arrivare alla chiusura, come si è già verificato per l’Ospedale di Palazzo Adriano. La CGIL ritiene che l’inadeguatezza della rete stradale che collega Corleone a Partinico e a Palermo possa giustificare una necessaria deroga affinché le UU.OO. salva-vita di Ostetricia e Ginecologia, Chirurgia Generale e Medicina Generale siano mantenute ed implementate.
La CGIL ritiene che avere gli strumenti per raggiungere gli obiettivi significhi garantire la piena funzionalità di tutti i servizi, a cominciare dal Servizio di Cardiologia, dove è necessario l’acquisto di un Eco-cardiografo, che permetta di dare pari dignità ai cittadini del Corleonese nella prevenzione, diagnosi e cura delle patologie cardiologiche, che rappresentano la prima causa di morte in Italia. Torna a chiedere anche la piena funzionalità della TAC G. E. multi-slide sempre e non a singhiozzo sia per gli utenti interni sia per quelli esterni. Ritiene necessario dotare l’U.O. di Chirurgia di un gastroscopio/coloscopio e di un intensificatore di brillanza, indispensabili per effettuare diagnosi precise e permettere l’appropriatezza dei ricoveri.
La CGIL chiede che il Direttore Generale mantenga l’impegno della contestualità tra la chiusura dell’Unità Operativa di Geriatria e l’apertura della Medicina Riabilitativa e della Lungodegenza.
Corleone, 29 marzo 2010
Il Responsabile FP-CGIL del P.O. di Corleone
La CGIL esprime forte dissenso dalla decisione di chiudere anche l’U.O.C. di Ostetricia e Ginecologia, con la previsione del mantenimento a Corleone del solo Punto Nascita. Tutto ciò penalizza ancora di più la zona interna del Corleonese, privandola di una struttura sanitaria dove si possa continuare a nascere e a curare le patologie ginecologiche. Chiede, quindi, che venga almeno ripristinata una Unità Operativa Semplice di Ostetricia e Ginecologia. Contestualmente alla sopraccitata richiesta risulta necessario l’attivazione dell’U.O.S. di Pediatria, con l’attuale dotazione di n. 4 posti letto, ancora non attivi per carenza di personale medico ed infermieristico. Al riguardo, si chiede l’immediato reperimento di detto personale e un’organizzazione del lavoro che garantisca la presenza di un pediatra h24.
La CGIL, inoltre, ritiene indispensabile il mantenimento ad alti livelli qualitativi (sia di personale che di attrezzature) delle Unità Operative Complesse di Chirurgia e di Medicina, che rispondano ai bisogni di salute delle popolazioni. Al riguardo, però, è necessario che la Direzione Generale, oltre a fissare gli obiettivi (appropriatezza dei ricoveri, efficacia ed efficienza e riduzione della spesa), dia anche gli strumenti per raggiungerli. Se questo non avvenisse, significherebbe soltanto che – senza nemmeno assumersi la responsabilità di dirlo – la Direzione Generale dell’ASP e l’Assessore alla Salute hanno già deciso fra un anno un ulteriore depotenziamento fino ad arrivare alla chiusura, come si è già verificato per l’Ospedale di Palazzo Adriano. La CGIL ritiene che l’inadeguatezza della rete stradale che collega Corleone a Partinico e a Palermo possa giustificare una necessaria deroga affinché le UU.OO. salva-vita di Ostetricia e Ginecologia, Chirurgia Generale e Medicina Generale siano mantenute ed implementate.
La CGIL ritiene che avere gli strumenti per raggiungere gli obiettivi significhi garantire la piena funzionalità di tutti i servizi, a cominciare dal Servizio di Cardiologia, dove è necessario l’acquisto di un Eco-cardiografo, che permetta di dare pari dignità ai cittadini del Corleonese nella prevenzione, diagnosi e cura delle patologie cardiologiche, che rappresentano la prima causa di morte in Italia. Torna a chiedere anche la piena funzionalità della TAC G. E. multi-slide sempre e non a singhiozzo sia per gli utenti interni sia per quelli esterni. Ritiene necessario dotare l’U.O. di Chirurgia di un gastroscopio/coloscopio e di un intensificatore di brillanza, indispensabili per effettuare diagnosi precise e permettere l’appropriatezza dei ricoveri.
La CGIL chiede che il Direttore Generale mantenga l’impegno della contestualità tra la chiusura dell’Unità Operativa di Geriatria e l’apertura della Medicina Riabilitativa e della Lungodegenza.
Corleone, 29 marzo 2010
Il Responsabile FP-CGIL del P.O. di Corleone
(Leo Cuppuleri)
Il Segretario della Camera del Lavoro di Corleone
(Dino Paternostro)
(Dino Paternostro)
Lazio e Piemonte vanno a destra. Trionfo di Bossi, cala il Pdl
di Andrea Carugati
E' finita male, decisamente male. Fino alle 23 le sette regioni conquistate, con Lazio e Piemonte in bilico, consentivano al centrosinistra di sperare in un buon risultato, anche nel colpaccio del 9 a 4. Ma il doppio ko in Piemonte e Lazio ha mutato il volto di questa tornata elettorale per il Pd. Con una vittoria della Bresso o della Bonino si sarebbe anche potuto arginare il ko in Calabria e Campania. Ma così, con la vittoria (seppur risicatissima) della Polverini e quella appena poco più larga del leghista Cota queste regionali disegnano un paese ancora assai lontano dal tramonto del berlusconismo. E un centrosinistra che, dal profondo Piemonte fino alla Calabria, perde colpi. E non basta per consolarsi il pesante tracollo del Pdl nel mezzogiorno, e neppure il sorpasso della Lega che umilia in Veneto gli uomini di Berlusconi. E non basta neppure verificare che, in termini di voti ai partiti, Pdl e Pd sono vicinissimi, 26,7% contro 25,9%. A dire il vero l'unico partito che può festeggiare davvero è la Lega, che centro il colpaccio di ottenere due governatori con Zaia che dilaga oltre il 60% in Veneto e la Lega che sfiora il 13% a livello nazionale e si allarga in Emilia, dove triplica i voti del 2005. Non a caso l'unico leader di partito che ha festeggiato è stato Bossi, mentre Bersani e il Cavaliere attendono i dati definitivi, per compiere un'analisi più accurata del voto.In un confronto complessivo con le politiche 2008, entrambi i partiti maggiore retrocedono: il Pdl passa dal 33,3% del 2008 al 26,7% di oggi, mentre il Pd scende dal 34,1% al 25,9%. Un calo consistente per entrambi i partiti. Di Pietro, con il 7%, aumenta rispetto al 4% del 2008 ma scende rispetto all'exploit delle europee 2009 quando ha ottenuto oltre l'8%. L'Udc ha una sostanziale tenuta, 5,7% di oggi contro il 5,3% del 2008 mentre la sinistra radicale, nonostante il successo di Vendola in Puglia, non recupera granchè a livello nazionale: Rifondazione resta intorno al 3%, così come Sinistra e libertà, dati molto simili a quelli delle europee 2009.Per il Pd c'è una tenuta: 26%, dato identico a quello delle europee 2009. Non c'è l'auspicato recupero al Nord, come dimostra il flop del pure autorevole candidato nel Veneto, Giuseppe Bortolussi, che si ferma sotto il 30% mentre la lista dei democratici è al 19,3%. In Lombardia e Piemonte Pd attorno al 22%. Buona tenuta nelle regioni rosse (circa il 40% in Emilia e Toscana), mentre in Umbria e nella Marche il dato è leggermente inferiore (poco sotto il 35%). Nel Mezzogiorno il risultato è deludente, con un picco negativo del 16% in Calabria (circa 10 meno delle europee) e una performance deludente anche in Campania (19,5%), così come in Puglia e Basilicata, regioni vinte dal centrosinistra (rispettivamente il 19,7% e 25,3%). In particolare in Basilicata, la regione storicamente più rossa del Sud, il Pd perde circa il 5% rispetto all'anno scorso. Nel sud, dunque, dalla Puglia alla Campania passando per la Calabria, per il Pd di Bersani si impone una seria riflessione e forse un drastico rinnovamento della classe dirigente. Il caso Loiero è emblematico: il partito nazionale e locale aveva tentato un'operazione di rinnovamento, ma il governatore uscente è riuscito a imporre la sua ricandidatura e alle elezioni ha ottenuto una sconfitta disastrosa, con il 32%, regalando al Pd il peggior risultato tra tutte le regioni, con un 16%.L'unica nota davvero positiva, l'unica vittoria non scontata di questa tornata, è quella di Nichi Vendola in Puglia (49% contro 42%), un risultato certo sperato nelle ultime settimane ma che solo pochi mesi fa era solo un miraggio. Neppure per il Pdl e per il suo leader si tratta di un buon risultato. Il partito del Cavaliere crolla in tutte le regioni principali regioni del meridione, in particolare in Puglia e Campania, dove precipita rispettivamente dal 43,2% del 2009 al 31,3% e dal 43.5% al 32,5. Crollo anche in Calabria: dal 35% al 27,6%. Netto calo anche in Lombardia e Veneto (-3 punti in Lombardia, -6 in Veneto).Tornando al Lazio, va segnalato l'ottimo risultato di Emma Bonino: con il principale partito, il Pd, al 27%, e con una coalizione stretta (senza l'Udc che invece appoggia la Bresso in Piemonte), la performance della candidata radicale è stata senza dubbio convincente, anche se è stata sconfitta per una manciata di voti.
L'Unità, 29 marzo 2010
E' finita male, decisamente male. Fino alle 23 le sette regioni conquistate, con Lazio e Piemonte in bilico, consentivano al centrosinistra di sperare in un buon risultato, anche nel colpaccio del 9 a 4. Ma il doppio ko in Piemonte e Lazio ha mutato il volto di questa tornata elettorale per il Pd. Con una vittoria della Bresso o della Bonino si sarebbe anche potuto arginare il ko in Calabria e Campania. Ma così, con la vittoria (seppur risicatissima) della Polverini e quella appena poco più larga del leghista Cota queste regionali disegnano un paese ancora assai lontano dal tramonto del berlusconismo. E un centrosinistra che, dal profondo Piemonte fino alla Calabria, perde colpi. E non basta per consolarsi il pesante tracollo del Pdl nel mezzogiorno, e neppure il sorpasso della Lega che umilia in Veneto gli uomini di Berlusconi. E non basta neppure verificare che, in termini di voti ai partiti, Pdl e Pd sono vicinissimi, 26,7% contro 25,9%. A dire il vero l'unico partito che può festeggiare davvero è la Lega, che centro il colpaccio di ottenere due governatori con Zaia che dilaga oltre il 60% in Veneto e la Lega che sfiora il 13% a livello nazionale e si allarga in Emilia, dove triplica i voti del 2005. Non a caso l'unico leader di partito che ha festeggiato è stato Bossi, mentre Bersani e il Cavaliere attendono i dati definitivi, per compiere un'analisi più accurata del voto.In un confronto complessivo con le politiche 2008, entrambi i partiti maggiore retrocedono: il Pdl passa dal 33,3% del 2008 al 26,7% di oggi, mentre il Pd scende dal 34,1% al 25,9%. Un calo consistente per entrambi i partiti. Di Pietro, con il 7%, aumenta rispetto al 4% del 2008 ma scende rispetto all'exploit delle europee 2009 quando ha ottenuto oltre l'8%. L'Udc ha una sostanziale tenuta, 5,7% di oggi contro il 5,3% del 2008 mentre la sinistra radicale, nonostante il successo di Vendola in Puglia, non recupera granchè a livello nazionale: Rifondazione resta intorno al 3%, così come Sinistra e libertà, dati molto simili a quelli delle europee 2009.Per il Pd c'è una tenuta: 26%, dato identico a quello delle europee 2009. Non c'è l'auspicato recupero al Nord, come dimostra il flop del pure autorevole candidato nel Veneto, Giuseppe Bortolussi, che si ferma sotto il 30% mentre la lista dei democratici è al 19,3%. In Lombardia e Piemonte Pd attorno al 22%. Buona tenuta nelle regioni rosse (circa il 40% in Emilia e Toscana), mentre in Umbria e nella Marche il dato è leggermente inferiore (poco sotto il 35%). Nel Mezzogiorno il risultato è deludente, con un picco negativo del 16% in Calabria (circa 10 meno delle europee) e una performance deludente anche in Campania (19,5%), così come in Puglia e Basilicata, regioni vinte dal centrosinistra (rispettivamente il 19,7% e 25,3%). In particolare in Basilicata, la regione storicamente più rossa del Sud, il Pd perde circa il 5% rispetto all'anno scorso. Nel sud, dunque, dalla Puglia alla Campania passando per la Calabria, per il Pd di Bersani si impone una seria riflessione e forse un drastico rinnovamento della classe dirigente. Il caso Loiero è emblematico: il partito nazionale e locale aveva tentato un'operazione di rinnovamento, ma il governatore uscente è riuscito a imporre la sua ricandidatura e alle elezioni ha ottenuto una sconfitta disastrosa, con il 32%, regalando al Pd il peggior risultato tra tutte le regioni, con un 16%.L'unica nota davvero positiva, l'unica vittoria non scontata di questa tornata, è quella di Nichi Vendola in Puglia (49% contro 42%), un risultato certo sperato nelle ultime settimane ma che solo pochi mesi fa era solo un miraggio. Neppure per il Pdl e per il suo leader si tratta di un buon risultato. Il partito del Cavaliere crolla in tutte le regioni principali regioni del meridione, in particolare in Puglia e Campania, dove precipita rispettivamente dal 43,2% del 2009 al 31,3% e dal 43.5% al 32,5. Crollo anche in Calabria: dal 35% al 27,6%. Netto calo anche in Lombardia e Veneto (-3 punti in Lombardia, -6 in Veneto).Tornando al Lazio, va segnalato l'ottimo risultato di Emma Bonino: con il principale partito, il Pd, al 27%, e con una coalizione stretta (senza l'Udc che invece appoggia la Bresso in Piemonte), la performance della candidata radicale è stata senza dubbio convincente, anche se è stata sconfitta per una manciata di voti.
L'Unità, 29 marzo 2010
lunedì 29 marzo 2010
Corleone. Il consiglio comunale ha approvato una mozione contro i disservizi dell'Enel
Nella seduta del Consiglio comunale del 22 marzo il Consiglio comunale di Corleone ha votato all´unanimità dei presenti una mozione presentata dal Gruppo Consiliare Liberi e democratici che aveva come oggetto i disservizi legati alla fornitura dell´Energia elettrica. Con la mozione si è impegnato il Sindaco a trasmettere una nota di protesta all´Enel per i frequenti disservizi che da diverso periodo i cittadini subiscono.Il riferimento è soprattutto ai numerosi micro black-out che hanno contrassegnato tutto l´inverno trascorso, i continui sbalzi di tensione e le situazioni di bassa tensione che riguardano alcune zone della città. Tutte queste situazioni continuano a provocare notevoli danni alle apparecchiature e agli elettrodomestici che ci sono all´interno delle nostre case o ne causano il cattivo funzionamento ha commentato il Vice-presidente Lillo Marino nell´illustrare la proposta. Oggi i cittadini sanno bene a chi devono pagare il costo dei servizi ma non sanno a chi si debbono rivolgersi quando questi servizi non funzionano. Le numerose telefonate di protesta ai numeri verdi spesso non producono alcun risultato e in qualche caso l´operatore avverte l´utente che il costo delle verifiche sarà posto a suo carico qualora i valori rilevati non dovessero superare determinati parametri. Il Vice-Presidente Marino inoltre ha invitato a una riflessione su quelli che sono gli effetti della privatizzazione dei servizi e dell´affidamento al libero mercato. Nelle prossime settimane sarà presentata una interrogazione al Sindaco per conoscere gli esiti della mozione.
domenica 28 marzo 2010
Corleone. Magistrale rappresentazione del "Processo a Gesù" della Compagnia tealtrale "Cepros"
Corleone – Un applauso interminabile ha salutato gli attori e le maestranze che ieri sera. Al Cine Teatro “Andrea Martorana” hanno rappresentato il “Processo a Gesù” di Diego Fabbri. L’opera teatrale è stata realizzata dal CE.PRO.S. – Compagnia Teatrale “Pino Palazzo” - per la Regia di Pino Labbruzzo e Mimmo Paternostro, nell’ambito delle manifestazioni per il Venerdì Santo 2010, a cura dell’assessorato alla cultura del comune e del Comitato per il Venerdì Santo Un centinaio gli “attori” che sono riusciti a realizzare un capolavoro di tecnica teatrale ed anche scenica. Magnifica la scenografia realizzata con una maxì foto della Chiesa Madre. Per la seconda parte in cui l’autore fa intervenire il pubblico è stato utilizzato un maxi schermo ed una telecamera mobile. L’effetto è stato di straordinaria suggestione, poiché la sala intera. ribalta e platea, sono diventate un insieme che ha coinvolto e commosso il pubblico. Il dramma un due atti, che Diego Fabbri ha scritto nel 1955 è estremamente complesso nella messa in scena. L’autore ha scritto di una compagnia di attori ebrei che ogni sera, in un Europa appena uscita dal dominio nazista, mette in scena un vero e proprio “Processo a Gesù”, alla ricerca di un verdetto che sciolga l’eterno dilemma della natura umana e divina del Cristo. Ogni sera, a parte la figura del rabbino giudice, i membri della famiglia di attori sorteggiano le parti. Al dramma storico del Cristo si aggiungono i drammi, i tradimenti e le storie esistenziali della “corte giudicante” e del pubblico. Sulla scena i personaggi dei vangeli in costume si mischiano con la corte e poi con il pubblico, che nella fiction interviene nel processo ed esprime giudizi e pareri. Il mix è stato felicissimo nei tempi di recitazione e nelle espressioni dei singoli protagonisti. Tutti bravi gli attori, precisi nei tempi della recitazione. Sarebbe veramente un peccato non replicarla per evitare che gli assenti alla prima si mordano le mani. Bravi.........Bis.....Bis....Bis..
Cosmo Di Carlo
NELLA FOTO: Gli attori della compagnia salutano il pubblico
Cosmo Di Carlo
NELLA FOTO: Gli attori della compagnia salutano il pubblico
Corleone. Presentato il volume “I Fratelli. Il Venerdì Santo a Corleone tra fede e tradizione”
Il 21 marzo 2010 è stato un giorno importante per i cittadini di Corleone, ai quali è stato consegnato un importante volume sulla secolare storia delle locali Confraternite. Il libro, dal titolo “I Fratelli”, commissionato all’Associazione “Palladium” dal comitato “Venerdì Santo a Corleone”, autorevolmente presieduto da Mons. Vincenzo Pizzitola e realizzato con l’importante contributo della Provincia Regionale di Palermo, è stato interamente curato, nella stesura dei testi, da Calogero Ridulfo e Francesco Marsalisi, studiosi di storia locale, che hanno dato vita ad un’opera di straordinario interesse e che si pone a pieno titolo come nuovo punto di partenza, di riferimento ed approfondimento per tutti gli appassionati, come è stato riconosciuto da tutti gli intervenuti. La presentazione è avvenuta nel luogo simbolo della fede corleonese, la gremita Chiesa Madre, dedicata a San Martino Vescovo, alla presenza di Sua Eccellenza Mons. Salvatore Di Cristina, Arcivescovo di Monreale, del Sindaco Antonino Iannazzo, del Consigliere Provinciale Mauro Di Vita, del Prof. Giuseppe Governali e degli autori. Gli interventi delle autorità hanno avuto per oggetto l’esaltazione del grande patrimonio relativo alla storia locale; il Sindaco Iannazzo ha infatti sottolineato la grande importanza rivestita dalla presenza instancabile di studiosi locali come Ridulfo e Marsalisi, che non si stancano mai di dare il loro fattivo contributo alla città. Il Sindaco ha poi ricordato la collaborazione tra la sua Amministrazione e la Curia di Monreale, che ha permesso il superamento degli ostacoli burocratici che da decenni bloccavano l’inizio dei lavori di messa in sicurezza dell’Ospedale dei Bianchi di Corleone, oggi in fase di ultimazione. Il Consigliere Provinciale Di Vita, nel mostrare vivo apprezzamento per il lavoro svolto, ha inoltre sottolineato l’importanza, per la comunità corleonese, della presenza delle confraternite e del Comitato “Venerdì Santo a Corleone”, che tengono vivo il cammino della fede e che meritano, come è accaduto ed accadrà in futuro, la massima attenzione da parte delle istituzioni. Di grande valore risulta essere infatti la rinascita delle storiche confraternite del “Santissimo nome di Gesù”, della “Madonna del Rosario” e della “Madonna del Soccorso”, che si uniscono a quelle già esistenti, ad opera di appassionati concittadini anche di giovane età. La parola è poi passata al Prof. Governali, che sapientemente ha illustrato i passi più salienti del volume, ricordando alcuni momenti di grande rilievo per la storia della città di Corleone. Francesco Marsalisi, nel suo intervento, ha ringraziato i cittadini di Corleone per il calore dimostrato e per l’apprezzamento nei confronti del suo lavoro, sottolineando l’importanza che riveste ogni singolo contributo sul recupero della storia di Corleone, che costituisce il tassello di un grande mosaico. Calogero Ridulfo ha inoltre espresso il suo apprezzamento per la rinascita delle perdute confraternite, sottolineando l’importanza dei valori tramandati, della necessità di uno svecchiamento delle stesse per adattarsi ai tempi moderni e del recupero di tutte le sfaccettature della loro storia, senza escluderne nessuna. Il convegno, moderato da Mons. Pizzitola, che ha fatto un plauso all’impegno profuso dai rappresentanti del Comitato, è stato chiuso dal discorso dell’Arcivescovo Di Cristina, che ha espresso il suo più vivo apprezzamento per la comunità religiosa di Corleone, che ha voglia di riscattarsi e che dimostra ancora una volta un fervore religioso di grande valore. Al termine della manifestazione ha avuto inizio la cerimonia di benedizione degli abiti dei nuovi confrati e la celebrazione della Santa Messa da parte dell’Arcivescovo.
Francesco Piazza
Francesco Piazza
Equipaggi da Russia e Turchia per le 30 edizioni del Rally Conca d’Oro prima prova del Trofeo Terra
Si preannuncia un parco partenti adeguato alla ricorrenza: Pesavento, Scandola, Batistini, il turco Isik, “Dedo”, Trentin e Dati, Caldani e Martelli con le S2000 – Subaru per Bruschetta, Carta e Lunardi, Mitsu per Cutrera, Di Miceli, Vintaloro e Mogavero – Verifiche, partenza ed arrivo a Corleone - 9 le Prove Speciali in programma – In gara anche le Autostoriche. Il 9 e 10 aprile il via a Corleone alla serie 2010.
Corleone (Palermo), 24 marzo 2010 – Si sono già aperte le iscrizioni al Rally Conca d’Oro, la cui trentesima edizione inaugurerà il 9 e 10 aprile prossimi il Trofeo Rally Terra 2010. All’Automobile Club Palermo, che insieme al Comune di Corleone organizza la gara dal lontano 1977, sono già pervenute le adesioni di alcuni degli specialisti dello sterrato tricolore ed anche di equipaggi d’oltre confine, come nel caso dei russi Grushelevskiy (Mitsubishi) e Gerashenko (Citroen C2 Maxi) ai quali si dovrebbe aggiungere anche il campione turco Volkan Isik (Lassa Racing Team). Tra i primissimi iscritti i veneti Paolo Pesavento, vincitore a Corleone nel 2006, con una Peugeot 207 S2000, Scandola (Punto Abarth S2000) e Alex Bruschetta (Subaru), Batistini (Peugeot 207) ed il sardo Carta (Subaru).
A questi, secondo le ultime informazioni, dovrebbero aggiungersi le altre S2000 di “Dedo” , primo nel 2005, Caldani, Dati, Martelli e MauroTrentin, campione TRT 2008, le Mitsubishi dei siciliani Giovanni Cutrera, vincitore lo scorso anno, Franco Vintaloro Junior, vincitore del primo rally della stagione, la Ronde dello Jato, Gabriele Mogavero e Renato Di Miceli, vincitore nella gara di casa nel 1993 e nel 2003, e le Subaru di Di Sclafani e Lunardi.
Il Rally Conca d’Oro-Trofeo Franco Vintaloro, che quest’anno sarà anche valido per lo Challenge di Zona (coeff.2) e per la prima volta ospiterà le Autostoriche, si disputerà su un percorso imperniato su tre Prove Speciali diverse da ripetersi tre volte, la Pietralonga (8,4 km), la Rocche di Rao (8,3 km) e la totalmente rinnovata “Lucia” di ben 16,80 chilometri, una prova bellissima tra le vallate ed i boschi del corleonese.
Complessivamente il tracciato di gara, molto raccolto, misura 323 km, 100,5 dei quali costituiti dalle 9 Prove Speciali. Tre i Parchi Assistenza, che saranno ospitati nella ampliata Zona Artigianale di Corleone, che ospiterà anche la Direzione Gara.
Il 30° Rally Conca d’Oro-Trofeo Franco Vintaloro scatterà venerdì 9 aprile alle 20,00 da piazza Falcone e Borsellino a Corleone, mentre le 9 P.S. si svolgeranno tutte alla luce diurna sabato 10 aprile. La conclusione è prevista per le ore 18 dinanzi la Villa Comunale di Corleone.
Le verifiche sportive avranno luogo giovedì 8 (18-19,30) e venerdì 9 (9-13), e subito dopo, alle 14,30, avrà inizio su tre km della P.S. Pietralonga lo Shakedown, ovvero il test regolamentato con le vetture in assetto da gara.
Le iscrizioni si chiuderanno lunedì 5 aprile. La cartina del percorso, gli orari della gara e tutte le altre informazioni sono già in rete sul nuovo sito www.rallyconcadoro.com.
Gianfranco Mavaro
Corleone (Palermo), 24 marzo 2010 – Si sono già aperte le iscrizioni al Rally Conca d’Oro, la cui trentesima edizione inaugurerà il 9 e 10 aprile prossimi il Trofeo Rally Terra 2010. All’Automobile Club Palermo, che insieme al Comune di Corleone organizza la gara dal lontano 1977, sono già pervenute le adesioni di alcuni degli specialisti dello sterrato tricolore ed anche di equipaggi d’oltre confine, come nel caso dei russi Grushelevskiy (Mitsubishi) e Gerashenko (Citroen C2 Maxi) ai quali si dovrebbe aggiungere anche il campione turco Volkan Isik (Lassa Racing Team). Tra i primissimi iscritti i veneti Paolo Pesavento, vincitore a Corleone nel 2006, con una Peugeot 207 S2000, Scandola (Punto Abarth S2000) e Alex Bruschetta (Subaru), Batistini (Peugeot 207) ed il sardo Carta (Subaru).
A questi, secondo le ultime informazioni, dovrebbero aggiungersi le altre S2000 di “Dedo” , primo nel 2005, Caldani, Dati, Martelli e MauroTrentin, campione TRT 2008, le Mitsubishi dei siciliani Giovanni Cutrera, vincitore lo scorso anno, Franco Vintaloro Junior, vincitore del primo rally della stagione, la Ronde dello Jato, Gabriele Mogavero e Renato Di Miceli, vincitore nella gara di casa nel 1993 e nel 2003, e le Subaru di Di Sclafani e Lunardi.
Il Rally Conca d’Oro-Trofeo Franco Vintaloro, che quest’anno sarà anche valido per lo Challenge di Zona (coeff.2) e per la prima volta ospiterà le Autostoriche, si disputerà su un percorso imperniato su tre Prove Speciali diverse da ripetersi tre volte, la Pietralonga (8,4 km), la Rocche di Rao (8,3 km) e la totalmente rinnovata “Lucia” di ben 16,80 chilometri, una prova bellissima tra le vallate ed i boschi del corleonese.
Complessivamente il tracciato di gara, molto raccolto, misura 323 km, 100,5 dei quali costituiti dalle 9 Prove Speciali. Tre i Parchi Assistenza, che saranno ospitati nella ampliata Zona Artigianale di Corleone, che ospiterà anche la Direzione Gara.
Il 30° Rally Conca d’Oro-Trofeo Franco Vintaloro scatterà venerdì 9 aprile alle 20,00 da piazza Falcone e Borsellino a Corleone, mentre le 9 P.S. si svolgeranno tutte alla luce diurna sabato 10 aprile. La conclusione è prevista per le ore 18 dinanzi la Villa Comunale di Corleone.
Le verifiche sportive avranno luogo giovedì 8 (18-19,30) e venerdì 9 (9-13), e subito dopo, alle 14,30, avrà inizio su tre km della P.S. Pietralonga lo Shakedown, ovvero il test regolamentato con le vetture in assetto da gara.
Le iscrizioni si chiuderanno lunedì 5 aprile. La cartina del percorso, gli orari della gara e tutte le altre informazioni sono già in rete sul nuovo sito www.rallyconcadoro.com.
Gianfranco Mavaro
Pedofilia, l'inferno italiano
di Tommaso Cerno
Dalla Toscana a Bolzano, dai missionari ai catechisti: oltre 40 casi di molestie. Con le diocesi all'opera per fermare le indagini. La situazione nel nostro Paese prima dell'intervento del Papa. L' immagine di un Cristo in croce. Un ragazzino nudo. Un frate che l'accarezza: "Non avere paura, sono le mani di Dio". È uno dei tanti casi di preti pedofili mai trapelati. Soffocato nel pianto di un undicenne diventato adulto covando un terribile segreto. Non siamo nell'Irlanda, colpita dal più grosso scandalo che la Chiesa ricordi dopo gli Stati Uniti, e neppure nella Germania dove gli abusi passano i confini dell'arcidiocesi di Monaco e Frisinga, dove il cardinale Joseph Ratzinger fu vescovo. Siamo nell'Italia di ogni giorno, a catechismo in un famoso monastero della Toscana. Un luogo sicuro per Mario, che però all'improvviso diventa la peggiore delle trappole: "Quando si stava spogliando c'è stato un rumore, sono entrate alcune persone e solo così ho evitato il peggio". Di questa tragedia dimenticata nessuno ha mai parlato. Eppure chi doveva sapere, sapeva: vescovo, priore e famiglia. "È stata la Chiesa a sconsigliare ai miei genitori di denunciare la violenza e, alla fine, hanno convinto anche me a non rivolgersi al tribunale". Non si tratta di un episodio isolato. In Lombardia lo stesso dramma ha colpito una bambina in un convento di suore, anche stavolta nell'omertà: "Ho ricevuto avance esplicite da una monaca e, quando ne ho parlato, la mia famiglia s'è infuriata. Volevamo andare dai carabinieri, poi è intervenuto il vescovo: disse che sarebbe stato meglio risolvere la faccenda all'interno e che ci avrebbe pensato Dio a punire i colpevoli", racconta Simona.
È l'altra faccia della pedofilia in agguato nell'oscurità di chiese e sacrestie. La più subdola, la più pericolosa. Un crimine declassato a semplice peccato, da assolvere e dimenticare. Coperto dagli inni e dalle penitenze, protetto dal segreto della confessione, imposto dopo la messa come un rituale a cui i bambini non sanno opporsi. La lettera di Benedetto XVI ai cattolici irlandesi sembra rompere questo silenzio colpevole durato decenni. Il papa si scaglia contro i sacerdoti macchiati di violenze e i vescovi che le hanno nascoste, invitando per la prima volta a denunciare i casi ai tribunali. Un'onda che s'allarga e investe anche l'Italia, dove le condanne sono già decine da Bolzano a Palermo.
Oltre 40 storie, a cui si aggiungono le segnalazioni senza risposta, i casi insabbiati, le vittime che puntano il dito contro religiosi già in prigione, trasferiti in altre parrocchie, spediti all'estero o rinchiusi negli istituti per l'assistenza spirituale. Eppure i casi del Trentino-Alto Adige, Piemonte, Lombardia, Veneto, Campania, Puglia, Molise, Lazio, Sardegna, Sicilia, Umbria e Liguria sono solo la punta dell'iceberg. Perché appena fuori dal Sant'Uffizio l'anatema del pontefice si scontra con una realtà ben diversa: le pressioni delle curie sulle famiglie per mettere a tacere gli scandali sono provate, così come la mobilitazione dei fedeli. Omelie e rosari fanno da cornice a molti processi. Che finiscono spesso in prescrizione.
Il fronte si allarga. La riprova è tutta in un dato: in Italia non esiste uno studio ufficiale sugli abusi negli ambienti religiosi. Non solo nelle sacrestie, ma anche negli oratori, nei circoli sportivi e nei campi scout. Nessuna istituzione se ne occupa e nessun partito lo reclama. Senza verificare cosa succeda dietro l'altare. Bastava chiamare il Telefono Azzurro, che lo scorso anno ha raccolto 105 denunce di abuso sessuale sui minori, di cui 59 con meno di 11 anni. Nelle categorie ufficiali i preti non ci sono. Ma scavando fra i report ecco che compaiono: circa il 3-4 per cento di quelle violenze ha come autore un religioso, una percentuale simile alla scuola (3,9 per cento) e molto più alta dello sport (0,8 per cento). Un dato destinato a crescere, secondo gli esperti, perché la vittima è ancora restia a rivelare che il violentatore è un religioso. Si tratta di segnalazioni tutte simili e mai divulgate. Un ragazzo di 16 anni denuncia un prete: l'ha condotto a una festa, ubriacato e tentato di baciarlo. È il primo di una serie di incontri, fra sms e telefonate sconce. In maggio arriva la chiamata di un bambina, toccata nelle parti intime durante il catechismo.
Storie identiche a quella di Alassio, vicino a Savona, dove attorno a don Luciano Massaferri, arrestato dopo il racconto di una ragazzina di 11 anni, s'è schierata la parrocchia, con un tam tam di solidarietà fatto di veglie e preghiere. Uno schema che gli esperti conoscono bene: "Rispetto ai casi di pedofilia in ambienti famigliari, sportivi o scolastici nel caso dei sacerdoti la fede gioca un ruolo centrale sia nell'adescamento del minore, sia nella conquista del silenzio e, se il caso trapela, di una spesso ingiustificata solidarietà esterna", spiegano all'Ecpat, la rete internazionale impegnata nella lotta contro lo sfruttamento dei minori. Così per ogni vittima che parla, altre tacciono. Basti pensare che nella diocesi di Bolzano, dopo che un frate ha denunciato gli abusi avvenuti negli anni Sessanta, qualche giorno fa il vescovo Karl Golser ha chiesto ai fedeli di confidarsi sul sito Internet della Curia. L'effetto è stato dirompente: sono già arrivate decine di segnalazioni da ex seminaristi, alunni di scuole cattoliche, scout, chierichetti. Forse i processi di domani.
Missione bambini. Ecco che l'apertura di Benedetto XVI potrebbe avere un effetto diretto su quelle sentenze. Per anni, infatti, le direttive interne firmate dallo stesso Ratzinger nel 2001 e la prassi spingevano i vescovi a trasmettere al Vaticano i dossier, rendendo indispensabile una rogatoria internazionale per discuterli in tribunale. Così come pedofili e violentatori sono stati protetti dal segreto confessionale: "Cinque anni fa un sacerdote mi confessò che aveva abusato di un bambino ed era pentito. Per me fu uno shock, eppure mi limitai a suggerirgli di rivolgersi al vescovo. Non potevo fare altro, ma ho pensato che se un prete voleva eliminare un testimone scomodo bastava che gli dicesse tutto", rivela un cappellano lombardo. Ha paura di parlare. Perché, ripete, una cosa sono i diktat di San Pietro, altra la realtà quotidiana di parrocchie e seminari. Se la Santa Sede cambia rotta e assicura supporto ai magistrati, infatti, istituti religiosi e ordini monastici non sempre mettono in pratica i precetti pontifici. Il caso di don Marco Dessì lo dimostra. Il missionario italiano della diocesi di Iglesias che operava in Nicaragua, già nel 1990 fu segnalato da alcune associazioni cattoliche. Abusi su un gruppo di ragazzini, tutti maschi di età compresa fra gli 11 e i 14 anni e costretti a ogni tipo di prestazione sessuale. "Dopo i rapporti completi diceva loro che erano diventati dei prescelti", racconta l'avvocato Marco Scarpati, che ha seguito oltre cento casi di pedofilia in Italia. Fu lui a rivolgersi al Vaticano: "La chiesa ufficiale ci aiutò, ma dall'altra parte la congregazione di cui il missionario faceva parte lo proteggeva e difendeva. Per oltre un decennio agì indisturbato, mentre molti di quei ragazzi potevano essere salvati in tempo". Lo sanno bene Alberto, David, Marlon, Ignacio e Juan Carlos, tutti orfani dell'Hogar del Niño. Sono dovuti volare in Italia, in Emilia Romagna, per motivi di protezione. In una località top secret e con vita blindata. Marlon e gli altri testimoni, mentre Roma indagava, sono stati minacciati di morte, la moglie ha ricevuto visite a casa. Ma non è finita: per quei silenzi e quella complicità, la condanna a 12 anni in primo grado, ridotta a otto dalla Corte d'Appello e annullata dalla Cassazione per un vizio di forma, rischia di non arrivare. Il processo ripartirà in ottobre, ma ormai la prescrizione è vicina.
Dal Veneto parla invece un testimone: sette ragazzini sottoposti ad abusi sessuali da due sacerdoti, uno dei quali di 72 anni. Il signor X riferisce che il parroco ha palpeggiato suo figlio di dieci anni durante la benedizione della casa. Lo zio di Y racconta che il nipote piange in colonia, perché il sacerdote entra in camera di notte e lo molesta. Un frate è accusato di far visionare a due ragazzini di sei anni film porno in oratorio, un secondo di avere dormito con un undicenne che si sarebbe svegliato "bagnato di qualcosa". C'è pure chi si autodenuncia e chiede di essere aiutato. "Sono dieci anni che segnaliamo tutto ciò alle autorità, ma per molto tempo in Italia la Chiesa ha scelto di trattare le questioni al proprio interno, sfuggendo alla via giudiziaria per non mettere in discussione l'intero sistema", spiega il presidente di Telefono Azzurro, Ernesto Caffo: "Il numero di chiamate dimostra come il fenomeno sia presente e ancora poco denunciato, spesso proprio per le pressioni che la vittima riceve".
Vittime due volte. È questo il dramma nel dramma per molte vittime. Perché alzare la testa non solo è difficile, ma spesso è inutile. Già. Nel paese dei cavilli legali, dove un timbro può liberare un prete pedofilo e farlo tornare all'altare, il danno materiale per un bambino violentato resta difficile da quantificare. E quasi impossibile da incassare, fra sacerdoti nullatenenti e curie spesso indifferenti. A Bologna don Andrea Agostini è stato difeso dalla diocesi, che non ha però risarcito i miseri 28 mila euro richiesti. A Bolzano, Alice è stata violentata e filmata a otto anni dall'educatore che doveva insegnarle il catechismo. L'accusato, don Giorgio Carli, è stato condannato in primo e secondo grado, ma la Cassazione ha dichiarato i reati prescritti per effetto della ex Cirielli. L'unica consolazione, se così si può chiamare, era la condanna civile: risarcimento che non è mai arrivato. È così dappertutto. A Firenze le vittime di don Lelio Cantini, colpevole di abusi quando era parroco a Regina della Pace, vorrebbero riaprire il caso: "Non è una scelta facile, però. Si tratta di fatti terribili e ogni processo comporta un peso enorme per noi", spiega Francesco Aspettati. Accusano la curia di avere coperto il prete e non avere dato peso alle loro denunce. I compagni che hanno preso i voti, anzichè difenderli, li attaccano. "E se anche il papa l'ha ridotto allo stato laicale, il risarcimento rischia di essere irrisorio, forse umiliante". La loro speranza è che si apra il fronte italiano. Tante denunce, insieme, sarebbero il cavallo di Troia per sfondare il muro della pedofilia nella Chiesa. E costringere le curie a pagare decenni di abusi.
(L’Espresso, 25 marzo 2010)
Dalla Toscana a Bolzano, dai missionari ai catechisti: oltre 40 casi di molestie. Con le diocesi all'opera per fermare le indagini. La situazione nel nostro Paese prima dell'intervento del Papa. L' immagine di un Cristo in croce. Un ragazzino nudo. Un frate che l'accarezza: "Non avere paura, sono le mani di Dio". È uno dei tanti casi di preti pedofili mai trapelati. Soffocato nel pianto di un undicenne diventato adulto covando un terribile segreto. Non siamo nell'Irlanda, colpita dal più grosso scandalo che la Chiesa ricordi dopo gli Stati Uniti, e neppure nella Germania dove gli abusi passano i confini dell'arcidiocesi di Monaco e Frisinga, dove il cardinale Joseph Ratzinger fu vescovo. Siamo nell'Italia di ogni giorno, a catechismo in un famoso monastero della Toscana. Un luogo sicuro per Mario, che però all'improvviso diventa la peggiore delle trappole: "Quando si stava spogliando c'è stato un rumore, sono entrate alcune persone e solo così ho evitato il peggio". Di questa tragedia dimenticata nessuno ha mai parlato. Eppure chi doveva sapere, sapeva: vescovo, priore e famiglia. "È stata la Chiesa a sconsigliare ai miei genitori di denunciare la violenza e, alla fine, hanno convinto anche me a non rivolgersi al tribunale". Non si tratta di un episodio isolato. In Lombardia lo stesso dramma ha colpito una bambina in un convento di suore, anche stavolta nell'omertà: "Ho ricevuto avance esplicite da una monaca e, quando ne ho parlato, la mia famiglia s'è infuriata. Volevamo andare dai carabinieri, poi è intervenuto il vescovo: disse che sarebbe stato meglio risolvere la faccenda all'interno e che ci avrebbe pensato Dio a punire i colpevoli", racconta Simona.
È l'altra faccia della pedofilia in agguato nell'oscurità di chiese e sacrestie. La più subdola, la più pericolosa. Un crimine declassato a semplice peccato, da assolvere e dimenticare. Coperto dagli inni e dalle penitenze, protetto dal segreto della confessione, imposto dopo la messa come un rituale a cui i bambini non sanno opporsi. La lettera di Benedetto XVI ai cattolici irlandesi sembra rompere questo silenzio colpevole durato decenni. Il papa si scaglia contro i sacerdoti macchiati di violenze e i vescovi che le hanno nascoste, invitando per la prima volta a denunciare i casi ai tribunali. Un'onda che s'allarga e investe anche l'Italia, dove le condanne sono già decine da Bolzano a Palermo.
Oltre 40 storie, a cui si aggiungono le segnalazioni senza risposta, i casi insabbiati, le vittime che puntano il dito contro religiosi già in prigione, trasferiti in altre parrocchie, spediti all'estero o rinchiusi negli istituti per l'assistenza spirituale. Eppure i casi del Trentino-Alto Adige, Piemonte, Lombardia, Veneto, Campania, Puglia, Molise, Lazio, Sardegna, Sicilia, Umbria e Liguria sono solo la punta dell'iceberg. Perché appena fuori dal Sant'Uffizio l'anatema del pontefice si scontra con una realtà ben diversa: le pressioni delle curie sulle famiglie per mettere a tacere gli scandali sono provate, così come la mobilitazione dei fedeli. Omelie e rosari fanno da cornice a molti processi. Che finiscono spesso in prescrizione.
Il fronte si allarga. La riprova è tutta in un dato: in Italia non esiste uno studio ufficiale sugli abusi negli ambienti religiosi. Non solo nelle sacrestie, ma anche negli oratori, nei circoli sportivi e nei campi scout. Nessuna istituzione se ne occupa e nessun partito lo reclama. Senza verificare cosa succeda dietro l'altare. Bastava chiamare il Telefono Azzurro, che lo scorso anno ha raccolto 105 denunce di abuso sessuale sui minori, di cui 59 con meno di 11 anni. Nelle categorie ufficiali i preti non ci sono. Ma scavando fra i report ecco che compaiono: circa il 3-4 per cento di quelle violenze ha come autore un religioso, una percentuale simile alla scuola (3,9 per cento) e molto più alta dello sport (0,8 per cento). Un dato destinato a crescere, secondo gli esperti, perché la vittima è ancora restia a rivelare che il violentatore è un religioso. Si tratta di segnalazioni tutte simili e mai divulgate. Un ragazzo di 16 anni denuncia un prete: l'ha condotto a una festa, ubriacato e tentato di baciarlo. È il primo di una serie di incontri, fra sms e telefonate sconce. In maggio arriva la chiamata di un bambina, toccata nelle parti intime durante il catechismo.
Storie identiche a quella di Alassio, vicino a Savona, dove attorno a don Luciano Massaferri, arrestato dopo il racconto di una ragazzina di 11 anni, s'è schierata la parrocchia, con un tam tam di solidarietà fatto di veglie e preghiere. Uno schema che gli esperti conoscono bene: "Rispetto ai casi di pedofilia in ambienti famigliari, sportivi o scolastici nel caso dei sacerdoti la fede gioca un ruolo centrale sia nell'adescamento del minore, sia nella conquista del silenzio e, se il caso trapela, di una spesso ingiustificata solidarietà esterna", spiegano all'Ecpat, la rete internazionale impegnata nella lotta contro lo sfruttamento dei minori. Così per ogni vittima che parla, altre tacciono. Basti pensare che nella diocesi di Bolzano, dopo che un frate ha denunciato gli abusi avvenuti negli anni Sessanta, qualche giorno fa il vescovo Karl Golser ha chiesto ai fedeli di confidarsi sul sito Internet della Curia. L'effetto è stato dirompente: sono già arrivate decine di segnalazioni da ex seminaristi, alunni di scuole cattoliche, scout, chierichetti. Forse i processi di domani.
Missione bambini. Ecco che l'apertura di Benedetto XVI potrebbe avere un effetto diretto su quelle sentenze. Per anni, infatti, le direttive interne firmate dallo stesso Ratzinger nel 2001 e la prassi spingevano i vescovi a trasmettere al Vaticano i dossier, rendendo indispensabile una rogatoria internazionale per discuterli in tribunale. Così come pedofili e violentatori sono stati protetti dal segreto confessionale: "Cinque anni fa un sacerdote mi confessò che aveva abusato di un bambino ed era pentito. Per me fu uno shock, eppure mi limitai a suggerirgli di rivolgersi al vescovo. Non potevo fare altro, ma ho pensato che se un prete voleva eliminare un testimone scomodo bastava che gli dicesse tutto", rivela un cappellano lombardo. Ha paura di parlare. Perché, ripete, una cosa sono i diktat di San Pietro, altra la realtà quotidiana di parrocchie e seminari. Se la Santa Sede cambia rotta e assicura supporto ai magistrati, infatti, istituti religiosi e ordini monastici non sempre mettono in pratica i precetti pontifici. Il caso di don Marco Dessì lo dimostra. Il missionario italiano della diocesi di Iglesias che operava in Nicaragua, già nel 1990 fu segnalato da alcune associazioni cattoliche. Abusi su un gruppo di ragazzini, tutti maschi di età compresa fra gli 11 e i 14 anni e costretti a ogni tipo di prestazione sessuale. "Dopo i rapporti completi diceva loro che erano diventati dei prescelti", racconta l'avvocato Marco Scarpati, che ha seguito oltre cento casi di pedofilia in Italia. Fu lui a rivolgersi al Vaticano: "La chiesa ufficiale ci aiutò, ma dall'altra parte la congregazione di cui il missionario faceva parte lo proteggeva e difendeva. Per oltre un decennio agì indisturbato, mentre molti di quei ragazzi potevano essere salvati in tempo". Lo sanno bene Alberto, David, Marlon, Ignacio e Juan Carlos, tutti orfani dell'Hogar del Niño. Sono dovuti volare in Italia, in Emilia Romagna, per motivi di protezione. In una località top secret e con vita blindata. Marlon e gli altri testimoni, mentre Roma indagava, sono stati minacciati di morte, la moglie ha ricevuto visite a casa. Ma non è finita: per quei silenzi e quella complicità, la condanna a 12 anni in primo grado, ridotta a otto dalla Corte d'Appello e annullata dalla Cassazione per un vizio di forma, rischia di non arrivare. Il processo ripartirà in ottobre, ma ormai la prescrizione è vicina.
Dal Veneto parla invece un testimone: sette ragazzini sottoposti ad abusi sessuali da due sacerdoti, uno dei quali di 72 anni. Il signor X riferisce che il parroco ha palpeggiato suo figlio di dieci anni durante la benedizione della casa. Lo zio di Y racconta che il nipote piange in colonia, perché il sacerdote entra in camera di notte e lo molesta. Un frate è accusato di far visionare a due ragazzini di sei anni film porno in oratorio, un secondo di avere dormito con un undicenne che si sarebbe svegliato "bagnato di qualcosa". C'è pure chi si autodenuncia e chiede di essere aiutato. "Sono dieci anni che segnaliamo tutto ciò alle autorità, ma per molto tempo in Italia la Chiesa ha scelto di trattare le questioni al proprio interno, sfuggendo alla via giudiziaria per non mettere in discussione l'intero sistema", spiega il presidente di Telefono Azzurro, Ernesto Caffo: "Il numero di chiamate dimostra come il fenomeno sia presente e ancora poco denunciato, spesso proprio per le pressioni che la vittima riceve".
Vittime due volte. È questo il dramma nel dramma per molte vittime. Perché alzare la testa non solo è difficile, ma spesso è inutile. Già. Nel paese dei cavilli legali, dove un timbro può liberare un prete pedofilo e farlo tornare all'altare, il danno materiale per un bambino violentato resta difficile da quantificare. E quasi impossibile da incassare, fra sacerdoti nullatenenti e curie spesso indifferenti. A Bologna don Andrea Agostini è stato difeso dalla diocesi, che non ha però risarcito i miseri 28 mila euro richiesti. A Bolzano, Alice è stata violentata e filmata a otto anni dall'educatore che doveva insegnarle il catechismo. L'accusato, don Giorgio Carli, è stato condannato in primo e secondo grado, ma la Cassazione ha dichiarato i reati prescritti per effetto della ex Cirielli. L'unica consolazione, se così si può chiamare, era la condanna civile: risarcimento che non è mai arrivato. È così dappertutto. A Firenze le vittime di don Lelio Cantini, colpevole di abusi quando era parroco a Regina della Pace, vorrebbero riaprire il caso: "Non è una scelta facile, però. Si tratta di fatti terribili e ogni processo comporta un peso enorme per noi", spiega Francesco Aspettati. Accusano la curia di avere coperto il prete e non avere dato peso alle loro denunce. I compagni che hanno preso i voti, anzichè difenderli, li attaccano. "E se anche il papa l'ha ridotto allo stato laicale, il risarcimento rischia di essere irrisorio, forse umiliante". La loro speranza è che si apra il fronte italiano. Tante denunce, insieme, sarebbero il cavallo di Troia per sfondare il muro della pedofilia nella Chiesa. E costringere le curie a pagare decenni di abusi.
(L’Espresso, 25 marzo 2010)
Ospedali senza medici, le Regioni si ribellano
di Paolo Biondani e Olga Piscitelli
Mancano i dottori: 39mila in meno in cinque anni. Pensionati a 58 anni dalla norma Brunetta. Niente turnover. Così i pronto soccorso collassano e le liste d'attesa si allungano. Ma le regioni si ribellano
Quaranta pazienti ammassati sulle barelle, senza neppure un letto, tra il viavai di ambulanze e nuovi malati in codice rosso. I più gravi sono intubati e occupano dalla notte precedente, qualcuno da più giorni, tutte le 14 postazioni con l'ossigeno. Sono i più fortunati, perché per gli altri non ci sono più respiratori. Tutti dovrebbero essere curati in rianimazione, ma in reparto non c'è posto. Come sempre.
Il pronto soccorso del San Camillo-Forlanini di Roma, uno dei più importanti ospedali italiani, sembra una bolgia dantesca. Medici e infermieri sono stanchi, stressati, esasperati. In barella ormai da quattro giorni c'è un ragazzo entrato in coma per una meningite: sta riprendendosi, forse lo dimettono domani, è guarito in emergenza senza poter essere ricoverato. Dall'ambulanza arriva l'ennesima lettiga. È un anziano ed è moribondo: arriva da una delle tante cliniche private convenzionate che scaricano i casi disperati sulla sanità pubblica, così i loro tassi di mortalità restano bassi e i profitti alti.
La sua barella viene incredibilmente contesa tra il pronto soccorso, che non ha letti per il povero vecchietto, e l'ambulanza che deve ripartire. Basta guardare in faccia i dottori per vedere le occhiaie dei turni di notte, dei troppi straordinari non pagati, e l'umiliazione di una professione svilita.
Ogni infermiere, che rispettando le norme dovrebbe concentrarsi al massimo su due pazienti in pericolo di vita, in realtà si affanna ad assisterne otto e intanto lo chiamano perché è arrivata la barella numero 41. Questa è l'area dei malati gravi del San Camillo, inaugurata nel 2002, dove in teoria ci sarebbe posto solo per 14 lettighe, non per un triplo carico contemporaneo di codici rossi e gialli. Qui un medico su cinque ha un contratto senza futuro: precario come i pazienti che è costretto a curare senza ricovero.
E il pronto soccorso romano non è un'anomalia: è il sintomo di una patologia che sta contagiando quasi tutte le regioni italiane, con poche significative eccezioni. Dal Lazio alla Puglia, dalla Calabria assediata dalla mafia al Veneto ricco e avanzato, il rigore di bilancio, imposto dallo stesso governo che spreca mezzo miliardo di euro per tre giorni di show del G8, sta creando non solo il disastro di una sanità senza posti letto, ma perfino l'assurdità di una medicina senza medici. Gli ospedali sono in crisi per mancanza di camici bianchi ed eccesso di precari.
Il problema riguarda reparti cruciali, dalla pediatria alla cardiologia, ma in prima linea nella trincea dei disagi sono le strutture di pronto soccorso, che per milioni di italiani sono il simbolo della buona sanità pubblica. Il dramma nazionale di una sanità in deficit di personale e di letti per i malati gravi ha radici che affondano nello spaventoso debito pubblico, accumulato dall'Italia prima di Tangentopoli, e nelle più recenti voragini aperte da alcune giunte regionali, tra cui primeggiano il Lazio a cui il governatore Storace ha lasciato un deficit-shock da 10 miliardi che oggi non si riesce ancora a ripianare; la Sicilia di Salvatore Cuffaro che arricchiva le cliniche mafiose.
A partire dal 2006 i ministri dell'Economia, da Padoa Schioppa a Tremonti, impongono piani di rientro e tagli di spesa sotto pena di commissariamento. Cinque regioni (Lazio, Campania, Sicilia, Abruzzo e Molise) sono ancora sulla graticola, ma le assunzioni vengono bloccate quasi ovunque. Il risultato è che i medici in uscita non vengono sostituiti.
E le emergenze sono coperte da plotoni di «precari con poca formazione e nessun diritto, che però costano solo 1200- 1300 euro al mese», lamenta Giuseppe Garraffo della Cisl. Così le corsie restano scoperte, ma poche regioni rendono noti i dati nel timore di perdere consensi. Un dato su tutti: nel 2004 l'Istat aveva censito 319 mila medici occupati, nel 2008 ne ha contati 280 mila: sono 39 mila in meno. Dallo stesso anno, ad accelerare l'esodo dei dottori è il decreto Brunetta. Mentre la finanziaria 2009 impone ulteriori tagli dei posti letto per le malattie acute. Tra tante leggine che invece favoriscono la sanità privata e le industrie dei farmaci. Presentate come manovre scollegate, stanno producendo lo stesso effetto complessivo della riforma Gelmini sulla scuola: non osando dichiarare guerra alla sanità pubblica, la si sfascia dall'interno.
Trasformando le regioni in esecutori del collasso. In Veneto se n'è accorto l'assessore leghista Sandro Sandri, che dal 2009 scrive lettere di fuoco al ministro Renato Brunetta, denunciando «una vera e propria emergenza per il personale sanitario», che ormai è «pesantemente inferiore al minimo vitale». Nel carteggio, di cui "L'espresso" ha una copia, Sandri stigmatizza «una carenza di circa mille medici e 2 mila infermieri » solo in Veneto, con «rallentamento delle cure e allungamento delle liste d'attesa». Brunetta è bersaglio anche di altre regioni, perché nel giugno del 2008 il famoso articolo 72 del suo decreto prepensiona (anche) i medici pubblici, senza sostituirli, ad appena 58 anni. Secondo i calcoli dell'Anaao-Assomed, questa legge rischia di far sparire altri 17.907 dottori in reparti già spaventosamente sguarniti. Contro la grande riforma però rumoreggiano anche le regioni di centrodestra. Per questo il governo fa melina e pasticcia con l'età pensionabile dei medici, cambiandola per quattro volte in due anni.
Nel marzo 2009 si torna alla regola dell'anzianità. Ma il successivo 5 agosto risorge la legge Brunetta, che lascia ai direttori generali di nomina politica il libero arbitrio di "rottamare" i medici con più di 40 anni di contributi, compresi gli studi universitari, con l'eloquente eccezione dei 2 mila primari. E il 4 marzo, in piena campagna elettorale, nella legge sui "lavori usuranti" spunta un emendamento firmato da Antonio Tomassini, medico, eletto parlamentare del Pdl dopo la condanna definitiva per un grave caso di malasanità e oggi presidente della commissione del Senato: i dottori andranno in pensione solo dopo «40 anni di servizio effettivo». Per i camici bianchi è il caos. «L'emendamento è scritto malissimo: non abroga la legge Brunetta e comunque trascura che la giurisprudenza equipara gli anni di servizio a quelli di contributi, per cui rischia di essere solo fumo elettorale», spiega Carlo Lusenti, segretario dell'Anaao. Massimo Cozza, della Cgil medici, concorda: «La rottamazione non è abolita, per cui cresce l'iniquità tra medici prepensionabili a 60 anni e colleghi che restano fino a 70; mentre 13 mila precari ospedalieri continuano a non vedere alcuno spiraglio di stabilità». Ai medici rottamati resta solo il dilemma se ricorrere ai tribunali o passare al privato.
Gianfranco Franco è il pioniere dell'angioplastica in Veneto, con oltre 3 mila interventi salva-coronarie. Dal '99 ha formato un'équipe (4 medici, 4 tecnici e 6 infermieri specializzati) che ogni anno opera 350 pazienti all'ospedale Mater Salutis di Legnago. Problema: ha 61 anni, per cui il dirrettore generale lo ha prepensionato a forza, applicando la legge Brunetta solo a lui e ad altri 7 chirurghi e neurologi di un ospedale che ha già 40 medici in meno dell'organico. «Non me l'aspettavo e non pensavo di meritarlo: non mi sento affatto un medico finito», è l'amaro commento del professore: «Mi rattrista soprattutto l'effetto discriminatorio di una scelta verticistica che taglia alcuni medici ma non altri, senza studiare le reali esigenze, i rami secchi e i veri sprechi. Non voglio disperdere 30 anni di studio e lavoro: finirò per passare alla sanità privata. E mi dispiace ».
Contro Brunetta è di nuovo insorto Sandri, che ora si ritrova il ministro pure candidato sindaco a Venezia. La sua legge ha provocato un'ondata di "messe a riposo" in tutta Italia. Solo il Policlinico di Milano ha prepensionato 58 medici in una settimana, spingendo il superdirettore regionale ciellino, Carlo Lucchina, a frenare l'emorragia con una circolare. Tra i dottori lombardi, i rottamandi sarebbero scesi a 350. Ma con quattro leggi in due anni, si annunciano valanghe di ricorsi. Nel Lazio è stato rimosso a 59 anni Francesco Lucà, segretario nazionale del sindacato dei radiologi, che ha già ottenuto il reintegro: «Mi hanno licenziato sei giorni dopo il varo della legge, mentre ero in vacanza, ma il 4 febbraio i giudici hanno sospeso il provvedimento, perché "contraddice gli obiettivi di valorizzazione delle professionalità".
Ora che è di nuovo cambiata la norma, però, non so cosa mi succederà». I vuoti in corsia vengono colmati, specie nelle regioni più in deficit, con i precari. Solo negli ospedali di Cosenza se ne contano 40, con una dottoressa-record che firma contratti a termine da nove anni e mezzo. In compenso tra Catanzaro e Reggio la giunta Loiero ha appena varato circa 700 stabilizzazioni. Annamaria Ferrari, della società italiana di medicina d'urgenza, spiega che «la carenza di medici e infermieri è un problema in tutta Italia, ma a soffrire di più è il pronto soccorso, stretto fra tagli di letti per malati gravi, iperafflusso di pazienti e personale in fuga da stress e superlavoro».
Le regioni in controtendenza sono poche, quasi tutte con una forte sanità pubblica. La Toscana, nel 2009, ha perso 2.297 medici pubblici, ma ne ha assunti 3.420, guadagnando così 294 dottori. Nell'ultimo triennio l'Emilia ha regolarizzato 511 precari. E dal 2001 i medici di ruolo sono cresciuti da 8.597 a 9.438. L'assessore Giovani Bissoni spiega però che «restano carenze croniche in settori come pediatria e medicina d'urgenza: per colmarle, bisognerebbe adeguare il sistema universitario delle scuole di specialità ai reali fabbisogni». Anche in Puglia l'assessore Tommaso Fiore conferma «una carenza impressionante di medici e infermieri: ne abbiamo 12 mila in meno dell'Emilia, che ha una popolazione equivalente».
I vuoti in corsia sono ancora più evidenti nelle regioni con il deficit sanitario più alto, come la Campania. In Sicilia l'assessore Massimo Russo rivendica di aver «ridotto gli sprechi di 700 milioni in 18 mesi», ma con tagli dolorosi sia di letti (meno 2.500) che di personale. Lusenti dell'Anaao vede un futuro nero: «Ormai i medici restano precari fino a 40 anni e già a 50 cominciano a temere la rottamazione, per cui sono sempre più ricattabili da direttori generali lottizzati e magari maneggioni. Per le cliniche invece i tagli sono minimi: anzi, da quando il governo ha abolito il divieto di cumulo, i privati possono assumere a paghe più basse i professori espulsi dalla sanità pubblica. Ma il conto finale lo pagano sempre i contribuenti».
ha collaborato Massimo Rossignati
(L’Espresso, 18 marzo 2010)
Mancano i dottori: 39mila in meno in cinque anni. Pensionati a 58 anni dalla norma Brunetta. Niente turnover. Così i pronto soccorso collassano e le liste d'attesa si allungano. Ma le regioni si ribellano
Quaranta pazienti ammassati sulle barelle, senza neppure un letto, tra il viavai di ambulanze e nuovi malati in codice rosso. I più gravi sono intubati e occupano dalla notte precedente, qualcuno da più giorni, tutte le 14 postazioni con l'ossigeno. Sono i più fortunati, perché per gli altri non ci sono più respiratori. Tutti dovrebbero essere curati in rianimazione, ma in reparto non c'è posto. Come sempre.
Il pronto soccorso del San Camillo-Forlanini di Roma, uno dei più importanti ospedali italiani, sembra una bolgia dantesca. Medici e infermieri sono stanchi, stressati, esasperati. In barella ormai da quattro giorni c'è un ragazzo entrato in coma per una meningite: sta riprendendosi, forse lo dimettono domani, è guarito in emergenza senza poter essere ricoverato. Dall'ambulanza arriva l'ennesima lettiga. È un anziano ed è moribondo: arriva da una delle tante cliniche private convenzionate che scaricano i casi disperati sulla sanità pubblica, così i loro tassi di mortalità restano bassi e i profitti alti.
La sua barella viene incredibilmente contesa tra il pronto soccorso, che non ha letti per il povero vecchietto, e l'ambulanza che deve ripartire. Basta guardare in faccia i dottori per vedere le occhiaie dei turni di notte, dei troppi straordinari non pagati, e l'umiliazione di una professione svilita.
Ogni infermiere, che rispettando le norme dovrebbe concentrarsi al massimo su due pazienti in pericolo di vita, in realtà si affanna ad assisterne otto e intanto lo chiamano perché è arrivata la barella numero 41. Questa è l'area dei malati gravi del San Camillo, inaugurata nel 2002, dove in teoria ci sarebbe posto solo per 14 lettighe, non per un triplo carico contemporaneo di codici rossi e gialli. Qui un medico su cinque ha un contratto senza futuro: precario come i pazienti che è costretto a curare senza ricovero.
E il pronto soccorso romano non è un'anomalia: è il sintomo di una patologia che sta contagiando quasi tutte le regioni italiane, con poche significative eccezioni. Dal Lazio alla Puglia, dalla Calabria assediata dalla mafia al Veneto ricco e avanzato, il rigore di bilancio, imposto dallo stesso governo che spreca mezzo miliardo di euro per tre giorni di show del G8, sta creando non solo il disastro di una sanità senza posti letto, ma perfino l'assurdità di una medicina senza medici. Gli ospedali sono in crisi per mancanza di camici bianchi ed eccesso di precari.
Il problema riguarda reparti cruciali, dalla pediatria alla cardiologia, ma in prima linea nella trincea dei disagi sono le strutture di pronto soccorso, che per milioni di italiani sono il simbolo della buona sanità pubblica. Il dramma nazionale di una sanità in deficit di personale e di letti per i malati gravi ha radici che affondano nello spaventoso debito pubblico, accumulato dall'Italia prima di Tangentopoli, e nelle più recenti voragini aperte da alcune giunte regionali, tra cui primeggiano il Lazio a cui il governatore Storace ha lasciato un deficit-shock da 10 miliardi che oggi non si riesce ancora a ripianare; la Sicilia di Salvatore Cuffaro che arricchiva le cliniche mafiose.
A partire dal 2006 i ministri dell'Economia, da Padoa Schioppa a Tremonti, impongono piani di rientro e tagli di spesa sotto pena di commissariamento. Cinque regioni (Lazio, Campania, Sicilia, Abruzzo e Molise) sono ancora sulla graticola, ma le assunzioni vengono bloccate quasi ovunque. Il risultato è che i medici in uscita non vengono sostituiti.
E le emergenze sono coperte da plotoni di «precari con poca formazione e nessun diritto, che però costano solo 1200- 1300 euro al mese», lamenta Giuseppe Garraffo della Cisl. Così le corsie restano scoperte, ma poche regioni rendono noti i dati nel timore di perdere consensi. Un dato su tutti: nel 2004 l'Istat aveva censito 319 mila medici occupati, nel 2008 ne ha contati 280 mila: sono 39 mila in meno. Dallo stesso anno, ad accelerare l'esodo dei dottori è il decreto Brunetta. Mentre la finanziaria 2009 impone ulteriori tagli dei posti letto per le malattie acute. Tra tante leggine che invece favoriscono la sanità privata e le industrie dei farmaci. Presentate come manovre scollegate, stanno producendo lo stesso effetto complessivo della riforma Gelmini sulla scuola: non osando dichiarare guerra alla sanità pubblica, la si sfascia dall'interno.
Trasformando le regioni in esecutori del collasso. In Veneto se n'è accorto l'assessore leghista Sandro Sandri, che dal 2009 scrive lettere di fuoco al ministro Renato Brunetta, denunciando «una vera e propria emergenza per il personale sanitario», che ormai è «pesantemente inferiore al minimo vitale». Nel carteggio, di cui "L'espresso" ha una copia, Sandri stigmatizza «una carenza di circa mille medici e 2 mila infermieri » solo in Veneto, con «rallentamento delle cure e allungamento delle liste d'attesa». Brunetta è bersaglio anche di altre regioni, perché nel giugno del 2008 il famoso articolo 72 del suo decreto prepensiona (anche) i medici pubblici, senza sostituirli, ad appena 58 anni. Secondo i calcoli dell'Anaao-Assomed, questa legge rischia di far sparire altri 17.907 dottori in reparti già spaventosamente sguarniti. Contro la grande riforma però rumoreggiano anche le regioni di centrodestra. Per questo il governo fa melina e pasticcia con l'età pensionabile dei medici, cambiandola per quattro volte in due anni.
Nel marzo 2009 si torna alla regola dell'anzianità. Ma il successivo 5 agosto risorge la legge Brunetta, che lascia ai direttori generali di nomina politica il libero arbitrio di "rottamare" i medici con più di 40 anni di contributi, compresi gli studi universitari, con l'eloquente eccezione dei 2 mila primari. E il 4 marzo, in piena campagna elettorale, nella legge sui "lavori usuranti" spunta un emendamento firmato da Antonio Tomassini, medico, eletto parlamentare del Pdl dopo la condanna definitiva per un grave caso di malasanità e oggi presidente della commissione del Senato: i dottori andranno in pensione solo dopo «40 anni di servizio effettivo». Per i camici bianchi è il caos. «L'emendamento è scritto malissimo: non abroga la legge Brunetta e comunque trascura che la giurisprudenza equipara gli anni di servizio a quelli di contributi, per cui rischia di essere solo fumo elettorale», spiega Carlo Lusenti, segretario dell'Anaao. Massimo Cozza, della Cgil medici, concorda: «La rottamazione non è abolita, per cui cresce l'iniquità tra medici prepensionabili a 60 anni e colleghi che restano fino a 70; mentre 13 mila precari ospedalieri continuano a non vedere alcuno spiraglio di stabilità». Ai medici rottamati resta solo il dilemma se ricorrere ai tribunali o passare al privato.
Gianfranco Franco è il pioniere dell'angioplastica in Veneto, con oltre 3 mila interventi salva-coronarie. Dal '99 ha formato un'équipe (4 medici, 4 tecnici e 6 infermieri specializzati) che ogni anno opera 350 pazienti all'ospedale Mater Salutis di Legnago. Problema: ha 61 anni, per cui il dirrettore generale lo ha prepensionato a forza, applicando la legge Brunetta solo a lui e ad altri 7 chirurghi e neurologi di un ospedale che ha già 40 medici in meno dell'organico. «Non me l'aspettavo e non pensavo di meritarlo: non mi sento affatto un medico finito», è l'amaro commento del professore: «Mi rattrista soprattutto l'effetto discriminatorio di una scelta verticistica che taglia alcuni medici ma non altri, senza studiare le reali esigenze, i rami secchi e i veri sprechi. Non voglio disperdere 30 anni di studio e lavoro: finirò per passare alla sanità privata. E mi dispiace ».
Contro Brunetta è di nuovo insorto Sandri, che ora si ritrova il ministro pure candidato sindaco a Venezia. La sua legge ha provocato un'ondata di "messe a riposo" in tutta Italia. Solo il Policlinico di Milano ha prepensionato 58 medici in una settimana, spingendo il superdirettore regionale ciellino, Carlo Lucchina, a frenare l'emorragia con una circolare. Tra i dottori lombardi, i rottamandi sarebbero scesi a 350. Ma con quattro leggi in due anni, si annunciano valanghe di ricorsi. Nel Lazio è stato rimosso a 59 anni Francesco Lucà, segretario nazionale del sindacato dei radiologi, che ha già ottenuto il reintegro: «Mi hanno licenziato sei giorni dopo il varo della legge, mentre ero in vacanza, ma il 4 febbraio i giudici hanno sospeso il provvedimento, perché "contraddice gli obiettivi di valorizzazione delle professionalità".
Ora che è di nuovo cambiata la norma, però, non so cosa mi succederà». I vuoti in corsia vengono colmati, specie nelle regioni più in deficit, con i precari. Solo negli ospedali di Cosenza se ne contano 40, con una dottoressa-record che firma contratti a termine da nove anni e mezzo. In compenso tra Catanzaro e Reggio la giunta Loiero ha appena varato circa 700 stabilizzazioni. Annamaria Ferrari, della società italiana di medicina d'urgenza, spiega che «la carenza di medici e infermieri è un problema in tutta Italia, ma a soffrire di più è il pronto soccorso, stretto fra tagli di letti per malati gravi, iperafflusso di pazienti e personale in fuga da stress e superlavoro».
Le regioni in controtendenza sono poche, quasi tutte con una forte sanità pubblica. La Toscana, nel 2009, ha perso 2.297 medici pubblici, ma ne ha assunti 3.420, guadagnando così 294 dottori. Nell'ultimo triennio l'Emilia ha regolarizzato 511 precari. E dal 2001 i medici di ruolo sono cresciuti da 8.597 a 9.438. L'assessore Giovani Bissoni spiega però che «restano carenze croniche in settori come pediatria e medicina d'urgenza: per colmarle, bisognerebbe adeguare il sistema universitario delle scuole di specialità ai reali fabbisogni». Anche in Puglia l'assessore Tommaso Fiore conferma «una carenza impressionante di medici e infermieri: ne abbiamo 12 mila in meno dell'Emilia, che ha una popolazione equivalente».
I vuoti in corsia sono ancora più evidenti nelle regioni con il deficit sanitario più alto, come la Campania. In Sicilia l'assessore Massimo Russo rivendica di aver «ridotto gli sprechi di 700 milioni in 18 mesi», ma con tagli dolorosi sia di letti (meno 2.500) che di personale. Lusenti dell'Anaao vede un futuro nero: «Ormai i medici restano precari fino a 40 anni e già a 50 cominciano a temere la rottamazione, per cui sono sempre più ricattabili da direttori generali lottizzati e magari maneggioni. Per le cliniche invece i tagli sono minimi: anzi, da quando il governo ha abolito il divieto di cumulo, i privati possono assumere a paghe più basse i professori espulsi dalla sanità pubblica. Ma il conto finale lo pagano sempre i contribuenti».
ha collaborato Massimo Rossignati
(L’Espresso, 18 marzo 2010)
giovedì 25 marzo 2010
Ordine del giorno per il conferimento della cittadinanza onoraria del comune di Corleone al parroco di San Leoluca, don Calogero Giovinco
IL CONSIGLIO COMUNALE DI CORLEONE
- DATO ATTO CHE don Calogero Giovinco, parroco della Chiesa di San Leoluca, da oltre trent’anni opera a Corleone, donando a tutti disponibilità, amore e spirito cristiano;
- CHE nel corso degli anni ha rivitalizzato il territorio su cui opera, comprese le aree più problematiche degli alloggi popolari di San Marco, aggregando famiglie e persone in nome della solidarietà e dell’amore;
- CHE da alcuni mesi, per venire incontro ai drammatici bisogni di chi soffre, con grande coraggio ha aperto una mensa per i poveri, garantendo pasti caldi e calore umano a persone emarginate;
- CHE negli anni si è adoperato molto per promuovere la cultura del territorio, nella consapevolezza che stare a fianco delle persone significa anche aiutarle a comprendere meglio il mondo, organizzando CORSI DI DOPOSCUOLA per gli alunni della scuola elementare e media;
- CHE frutto di questo impegno, in cui ha coinvolto famiglie e singole persone, sono la BIBLIOTECA della Parrocchia, che ha ormai migliaia di volumi, tutti catalogati e fruibili dal pubblico, e il MUSEO ETNOANTROPOLOGICO, che, per la ricchezza di “reperti” e per l’ordinazione degli spazi espositivi, rappresenta ormai l’orgoglio non solo della Parrocchia di S. Leoluca, ma di tutta la Città di Corleone;
- CHE è promotore della pubblicazione di diversi volumi, scritti da studiosi del territorio, che hanno fatto conoscere ad un vasto pubblico le ricchezze culturali della nostra Città;
- CHE, grazie al suo coraggioso impegno e alla sua sensibilità umana e culturale, è stato possibile salvare, restaurare e restituire ai cittadini il meraviglioso CORETTO di Sant’Agostino, che improvvidi amministratori degli anni ’70 intendevano demolire;
- CHE uno dei modi per dire un grande grazie a don Calogero Giovinco potrebbe essere quello di conferirgli la CITTADINANZA ONORARIA;
INVITA IL SINDACO
A fare proprie le superiori considerazioni e a conferire la cittadinanza onoraria a don CALOGERO GIOVINCO, Parroco della Parrocchia di San Leoluca;
Ad organizzare conseguentemente una cerimonia pubblica per la consegna della relativa pergamena.
Corleone, 25 febbraio 2010
I CONSIGLIERI COMUNALI.
Dino Paternostro
Salvatore Schillaci
- DATO ATTO CHE don Calogero Giovinco, parroco della Chiesa di San Leoluca, da oltre trent’anni opera a Corleone, donando a tutti disponibilità, amore e spirito cristiano;
- CHE nel corso degli anni ha rivitalizzato il territorio su cui opera, comprese le aree più problematiche degli alloggi popolari di San Marco, aggregando famiglie e persone in nome della solidarietà e dell’amore;
- CHE da alcuni mesi, per venire incontro ai drammatici bisogni di chi soffre, con grande coraggio ha aperto una mensa per i poveri, garantendo pasti caldi e calore umano a persone emarginate;
- CHE negli anni si è adoperato molto per promuovere la cultura del territorio, nella consapevolezza che stare a fianco delle persone significa anche aiutarle a comprendere meglio il mondo, organizzando CORSI DI DOPOSCUOLA per gli alunni della scuola elementare e media;
- CHE frutto di questo impegno, in cui ha coinvolto famiglie e singole persone, sono la BIBLIOTECA della Parrocchia, che ha ormai migliaia di volumi, tutti catalogati e fruibili dal pubblico, e il MUSEO ETNOANTROPOLOGICO, che, per la ricchezza di “reperti” e per l’ordinazione degli spazi espositivi, rappresenta ormai l’orgoglio non solo della Parrocchia di S. Leoluca, ma di tutta la Città di Corleone;
- CHE è promotore della pubblicazione di diversi volumi, scritti da studiosi del territorio, che hanno fatto conoscere ad un vasto pubblico le ricchezze culturali della nostra Città;
- CHE, grazie al suo coraggioso impegno e alla sua sensibilità umana e culturale, è stato possibile salvare, restaurare e restituire ai cittadini il meraviglioso CORETTO di Sant’Agostino, che improvvidi amministratori degli anni ’70 intendevano demolire;
- CHE uno dei modi per dire un grande grazie a don Calogero Giovinco potrebbe essere quello di conferirgli la CITTADINANZA ONORARIA;
INVITA IL SINDACO
A fare proprie le superiori considerazioni e a conferire la cittadinanza onoraria a don CALOGERO GIOVINCO, Parroco della Parrocchia di San Leoluca;
Ad organizzare conseguentemente una cerimonia pubblica per la consegna della relativa pergamena.
Corleone, 25 febbraio 2010
I CONSIGLIERI COMUNALI.
Dino Paternostro
Salvatore Schillaci
Finalmente a Corleone abbiamo spezzato il cerchio della paura e della vergogna
di DINO PATERNOSTRO
Io l’ho vissuto il tempo in cui a Corleone non c’era mafia e chi ne parlava lo faceva solo per infangare il buon nome della città. Poi ho vissuto anche il tempo in cui, sì, a Corleone forse la mafia c’era, ma come ci poteva essere ovunque: da Roma a Milano, da Parigi a Londra e persino a Stoccolma. Quello era il tempo in cui il "corleonese" don Vito Ciancimino faceva il bello e cattivo tempo in municipio e all’ospedale (compresi, ovviamente, i sindaci e i presidenti). Era il tempo in cui "pezzi" della Chiesa "brigavano" nelle sacrestie con i boss mafiosi e con i politici-boss. A quei tempi, se qualche giovane consigliere di sinistra osava dire che "le cosche mafiose locali controllano il territorio", c’era sempre il sindaco democristiano di turno che - con finta indignazione - gli intimava di fare i nomi oppure di stare zitto. A quei tempi, se qualche sparuto gruppo di studenti, per marcare la differenza tra la Corleone mafiosa e la Corleone antimafiosa, osava scrivere su un tazebao «non siamo tutti gregari di Liggio», c’era sempre qualche solerte vigile urbano che lo stracciava, tanto pervnon turbare la solennità delle visite ufficiali di qualche ministro o sottosegretario a caccia di voti per la sua corrente o per i suoi "ras" locali. Quello era il tempo del "Padrino" di Mario Puzo e di Francis Ford Coppola, che, a detta dei maggiorenti democristiani dell’epoca, avevano rovinato l’immagine di Corleone. Come se fossero stati loro ad inventarsi, con un libro o con un film, personaggi come Michele Navarra, Luciano Liggio, Totò Riina e Bernardo Provenzano. Ma quello era lo stesso tempo in cui sindaci e assessori scappavano davanti al taccuino di Pippo Fava o al microfono di Joe Marrazzo. E qualcuno di loro, impossibilitato (per pudore) a farlo, si esibiva in dichiarazioni quali: "La mafia? Io mi giro intorno e non ne vedo". Oppure, si lasciava andare in lodi sperticate a Ciancimino, "uomo intelligentissimo, caduto in disgrazia per motivi politici", anche a costo di passare sulla prima pagina del "Corriere della Sera" come "l’ultimo democristiano d’Italia che difende don Vito". Era il tempo in cui i sindaci democristiani si rifiutavano di onorare la memoria di Bernardino Verro, mentre la nuova "Cosa Nostra" di Riina e Provenzano speculava sugli espropri e i lavori della diga Garcia e assassinava il cronista del "Giornale di Sicilia" Mario Francese. E fu anche il tempo dell’appalto per la condotta idrica Raja-Corleone, i cui lavori (sei miliardi) cominciarono solo dopo che il consiglio comunale diede il "via libera" ad un mega sub-appalto (a due ditte locali), col solo (coraggioso) voto contrario dell’opposizione comunista.
Ma quelli furono anche i tempi della scoperta per tanti giovani delle radici antimafiose di Corleone, dell’antimafia di Nicoletti, Orlando, Verro, Zangara e Rizzotto, tutti "spazzati" dalle lupare della feroce mafia del feudo. Infine, ci fu il tempo della "rivolta morale degli onesti", dopo le stragi di Capaci e di Via D’Amelio, la rivolta che spazzò via la vecchia classe dirigente e sbatté in galera tanti boss mafiosi. Quella rivolta poi si fece progetto politico di cambiamento con l’elezione a sindaco di Pippo Cipriani, con la visita dei Presidenti della Repubblica Oscar Luigi Scalfano (1999) e Carlo Azeglio Ciampi (2000), con la confisca delle terre ai mafiosi, con la loro assegnazione alle cooperative sociali, che le coltivano tirandone fuori lavoro e prodotti “puliti”, quelli con una vitamina in più (la vitamina “L” della Legalità). Un progetto che sta cercando di coniugare legalità e sviluppo, che adesso, nonostante tutto, si sta consolidando attraverso una sostanziale intesa tra forze politiche, sociali e culturali anche diverse, che hanno deciso di restare unite nel contrasto alla criminalità mafiosa e nel perseguimento di percorsi di legalità. La presenza della delegazione di "corleonesi" a Milano, alla XV Giornata della Memoria e dell'Impegno, promossa da "Libera" e da "Avviso Pubblico", ne costituisce una plastica rappresentanzione. E, con i tempi che corrono, non è cosa da poco.
Dino Paternostro
Io l’ho vissuto il tempo in cui a Corleone non c’era mafia e chi ne parlava lo faceva solo per infangare il buon nome della città. Poi ho vissuto anche il tempo in cui, sì, a Corleone forse la mafia c’era, ma come ci poteva essere ovunque: da Roma a Milano, da Parigi a Londra e persino a Stoccolma. Quello era il tempo in cui il "corleonese" don Vito Ciancimino faceva il bello e cattivo tempo in municipio e all’ospedale (compresi, ovviamente, i sindaci e i presidenti). Era il tempo in cui "pezzi" della Chiesa "brigavano" nelle sacrestie con i boss mafiosi e con i politici-boss. A quei tempi, se qualche giovane consigliere di sinistra osava dire che "le cosche mafiose locali controllano il territorio", c’era sempre il sindaco democristiano di turno che - con finta indignazione - gli intimava di fare i nomi oppure di stare zitto. A quei tempi, se qualche sparuto gruppo di studenti, per marcare la differenza tra la Corleone mafiosa e la Corleone antimafiosa, osava scrivere su un tazebao «non siamo tutti gregari di Liggio», c’era sempre qualche solerte vigile urbano che lo stracciava, tanto pervnon turbare la solennità delle visite ufficiali di qualche ministro o sottosegretario a caccia di voti per la sua corrente o per i suoi "ras" locali. Quello era il tempo del "Padrino" di Mario Puzo e di Francis Ford Coppola, che, a detta dei maggiorenti democristiani dell’epoca, avevano rovinato l’immagine di Corleone. Come se fossero stati loro ad inventarsi, con un libro o con un film, personaggi come Michele Navarra, Luciano Liggio, Totò Riina e Bernardo Provenzano. Ma quello era lo stesso tempo in cui sindaci e assessori scappavano davanti al taccuino di Pippo Fava o al microfono di Joe Marrazzo. E qualcuno di loro, impossibilitato (per pudore) a farlo, si esibiva in dichiarazioni quali: "La mafia? Io mi giro intorno e non ne vedo". Oppure, si lasciava andare in lodi sperticate a Ciancimino, "uomo intelligentissimo, caduto in disgrazia per motivi politici", anche a costo di passare sulla prima pagina del "Corriere della Sera" come "l’ultimo democristiano d’Italia che difende don Vito". Era il tempo in cui i sindaci democristiani si rifiutavano di onorare la memoria di Bernardino Verro, mentre la nuova "Cosa Nostra" di Riina e Provenzano speculava sugli espropri e i lavori della diga Garcia e assassinava il cronista del "Giornale di Sicilia" Mario Francese. E fu anche il tempo dell’appalto per la condotta idrica Raja-Corleone, i cui lavori (sei miliardi) cominciarono solo dopo che il consiglio comunale diede il "via libera" ad un mega sub-appalto (a due ditte locali), col solo (coraggioso) voto contrario dell’opposizione comunista.
Ma quelli furono anche i tempi della scoperta per tanti giovani delle radici antimafiose di Corleone, dell’antimafia di Nicoletti, Orlando, Verro, Zangara e Rizzotto, tutti "spazzati" dalle lupare della feroce mafia del feudo. Infine, ci fu il tempo della "rivolta morale degli onesti", dopo le stragi di Capaci e di Via D’Amelio, la rivolta che spazzò via la vecchia classe dirigente e sbatté in galera tanti boss mafiosi. Quella rivolta poi si fece progetto politico di cambiamento con l’elezione a sindaco di Pippo Cipriani, con la visita dei Presidenti della Repubblica Oscar Luigi Scalfano (1999) e Carlo Azeglio Ciampi (2000), con la confisca delle terre ai mafiosi, con la loro assegnazione alle cooperative sociali, che le coltivano tirandone fuori lavoro e prodotti “puliti”, quelli con una vitamina in più (la vitamina “L” della Legalità). Un progetto che sta cercando di coniugare legalità e sviluppo, che adesso, nonostante tutto, si sta consolidando attraverso una sostanziale intesa tra forze politiche, sociali e culturali anche diverse, che hanno deciso di restare unite nel contrasto alla criminalità mafiosa e nel perseguimento di percorsi di legalità. La presenza della delegazione di "corleonesi" a Milano, alla XV Giornata della Memoria e dell'Impegno, promossa da "Libera" e da "Avviso Pubblico", ne costituisce una plastica rappresentanzione. E, con i tempi che corrono, non è cosa da poco.
Dino Paternostro
martedì 23 marzo 2010
Un libro sul “Cinema di mafia “
COSMO DI CARLO
Leggendo questa antologia del cinema di mafia, della mafia nazionale ed internazionale, si ha come la sensazione di completare con l’ultima tessera un puzzle. Tutte le tessere le conosciamo, le riconosciamo per averle già viste “singolarmente” e, dopo averle girate e rigirate (viste e riviste), le abbiamo adattate e collocate nello spazio e nel tempo, ad ogni tessera abbiamo associato un tempo un’emozione, un film. Il buio della sala i numeri in reverse (8.....7.....6 ...). Nella lettura abbiamo riletto alcune tappe della nostra vita. Da “Il Padrino” (1972), visto in prima visione al Golden con gli amici, a “Corleone“ (1978) splendide le immagini di rocca Busambra, a Scarface” (1983) con un Al Pacino (di origini corleonesi ) trasfigurato dalla cocaina. La visione del puzzle completo ci offre una visione dettagliata della realtà vissuta. Una panoramica universale dalla quale emerge il gran male che le mafie nel tempo hanno portato ai protagonisti delle vicende narrate, ed alla nostra terra. Carmelo Franco, 45 anni, avvocato penalista, e Francesco Paolo Di Fresco, 31 anni, anch’egli avvocato, hanno potuto sperimentare per la loro esperienza professionale, come la realtà spesso superi la fantasia, e quanto siano più criminali questi soggetti nella loro (mala) vita quotidiana. La lettura di questo libro mi ha fatto ritrovare psicologicamente (per il conosciuto ovviamente di cronaca ) alcuni personaggi. E riscontrare il malessere dell’anima che nel tempo li ha ispirati. Nel buio della sala, nei film che tutti abbiamo visto, qualcuno talvolta ha tifato per i boss. Non è un peccato tifare per il latitante fuggiasco. Questo atteggiamento fa parte della cosi detta “psiche mafiosa”, che inconsciamente ci tiriamo dietro come la coperta di “Snoopy”, l’importante è non far tifo fuori dalla sala cinematografica, nella realtà. Qualcuno nel dopo guerra arrivò a predicare che chi parla di mafia disonora la Sicilia. Questa antologia completa dimostra nel lungo elenco di film, romanzi, cronache e sceneggiature chi ha disonorato la nostra terra, esportando nel mondo un cliché criminale che si è confuso e diffuso. Commentando il libro, il grande Gregorio Napoli ha scritto: “La lettura ci rende migliori; ci guida alla consapevolezza della categoria etica. Ci rende edotti dell’assioma che può salvarci dal contatto infetto col malessere”. Nel complimentarmi con Carmelo Franco e Francesco Paolo Di Fresco per la loro opera, ritengo che la lettura di questo “saggio” ci aiuti a far memoria della nostra vera identità e contribuisca a farci passare dalla categoria etica di cui parla nella prefazione Gregorio Napoli ad una strategia etica che, aldilà della fiction, ci renda migliori.
Leggendo questa antologia del cinema di mafia, della mafia nazionale ed internazionale, si ha come la sensazione di completare con l’ultima tessera un puzzle. Tutte le tessere le conosciamo, le riconosciamo per averle già viste “singolarmente” e, dopo averle girate e rigirate (viste e riviste), le abbiamo adattate e collocate nello spazio e nel tempo, ad ogni tessera abbiamo associato un tempo un’emozione, un film. Il buio della sala i numeri in reverse (8.....7.....6 ...). Nella lettura abbiamo riletto alcune tappe della nostra vita. Da “Il Padrino” (1972), visto in prima visione al Golden con gli amici, a “Corleone“ (1978) splendide le immagini di rocca Busambra, a Scarface” (1983) con un Al Pacino (di origini corleonesi ) trasfigurato dalla cocaina. La visione del puzzle completo ci offre una visione dettagliata della realtà vissuta. Una panoramica universale dalla quale emerge il gran male che le mafie nel tempo hanno portato ai protagonisti delle vicende narrate, ed alla nostra terra. Carmelo Franco, 45 anni, avvocato penalista, e Francesco Paolo Di Fresco, 31 anni, anch’egli avvocato, hanno potuto sperimentare per la loro esperienza professionale, come la realtà spesso superi la fantasia, e quanto siano più criminali questi soggetti nella loro (mala) vita quotidiana. La lettura di questo libro mi ha fatto ritrovare psicologicamente (per il conosciuto ovviamente di cronaca ) alcuni personaggi. E riscontrare il malessere dell’anima che nel tempo li ha ispirati. Nel buio della sala, nei film che tutti abbiamo visto, qualcuno talvolta ha tifato per i boss. Non è un peccato tifare per il latitante fuggiasco. Questo atteggiamento fa parte della cosi detta “psiche mafiosa”, che inconsciamente ci tiriamo dietro come la coperta di “Snoopy”, l’importante è non far tifo fuori dalla sala cinematografica, nella realtà. Qualcuno nel dopo guerra arrivò a predicare che chi parla di mafia disonora la Sicilia. Questa antologia completa dimostra nel lungo elenco di film, romanzi, cronache e sceneggiature chi ha disonorato la nostra terra, esportando nel mondo un cliché criminale che si è confuso e diffuso. Commentando il libro, il grande Gregorio Napoli ha scritto: “La lettura ci rende migliori; ci guida alla consapevolezza della categoria etica. Ci rende edotti dell’assioma che può salvarci dal contatto infetto col malessere”. Nel complimentarmi con Carmelo Franco e Francesco Paolo Di Fresco per la loro opera, ritengo che la lettura di questo “saggio” ci aiuti a far memoria della nostra vera identità e contribuisca a farci passare dalla categoria etica di cui parla nella prefazione Gregorio Napoli ad una strategia etica che, aldilà della fiction, ci renda migliori.
Cosmo Di Carlo
LA SCHEDA
LA SCHEDA
Carmelo Franco
Francesco Paolo Di Fresco
Serradifalco Editore
Francesco Paolo Di Fresco
Serradifalco Editore
L'architetto amico dei politici a capo del clan dei Lo Piccolo
di SALVO PALAZZOLO
In cella Liga, leader del Movimento cristiano lavoratori. Lo accusano quattro pentiti, fra i quali il suo ex avvocato. Altri tre arresti. Un riferimento a lui nei "pizzini" trovati ai superlatitanti. Microspie in azione per migliaia di ore
Divideva le sue intense giornate di lavoro fra lo studio di architetto (a Cardillo), i convegni cattolici (per il Movimento cristiano lavoratori, in via Cerda) e i summit di mafia (a Tommaso Natale). Giuseppe Liga, 59 anni, è stato arrestato ieri mattina dai finanzieri del nucleo speciale di polizia valutaria con l'accusa di essere il successore del boss Salvatore Lo Piccolo. Quattro pentiti lo accusano: Isidoro Cracolici, Francesco Franzese, Gaspare Pulizzi e Marcello Trapani. I primi tre, ex fidati della cosca Lo Piccolo. L'ultimo era addirittura il suo avvocato, e da mesi sta collaborando con la giustizia dopo essere finito in manette. E dopo i pentiti, sono arrivate migliaia di ore di intercettazioni, effettuate dalla sezione investigativa antiriciclaggio della polizia valutaria di Palermo. Liga, stimato architetto della città bene e fino a qualche giorno fa reggente regionale del Movimento cristiano lavoratori, deve adesso difendersi dalle accuse di associazione mafiosa, estorsione e intestazione fittizia di beni. Le indagini, coordinate dai sostituti procuratori Francesco Del Bene, Gaetano Paci, Annamaria Picozzi e Marcello Viola nonché dall'aggiunto Antonio Ingroia, dicono che l'insospettabile professionista avrebbe continuato a gestire il tesoro di Lo Piccolo, il boss di Tommaso Natale che fra il 2006 e il 2007 aveva esteso il suo potere su tutta la città stringendo i commercianti nella morsa del racket. Liga avrebbe continuato a gestire soprattutto il racket delle estorsioni. Per questo aveva un fidato collaboratore, quel Giuseppe Provenzano, titolare di un negozio di ferramenta a Cardillo, arrestato nei mesi scorsi dalla polizia valutaria. Provenzano aveva finito per assumere il ruolo di vice capomandamento di Tommaso Natale. E con senso di gratitudine diceva all'architetto boss: "Io non vado avanti se non te le dico a te le cose, il mio angelo custode tu sei". Nel blitz della Finanza sono finite in manette altre tre persone su ordine del gip Silvana Saguto: Agostino Carollo, 45 anni, e Amedeo Sorvillo, di 57, imprenditori palermitani che avrebbero fatto da prestanome a Liga nella società "Euteco", Euro tecnica delle costruzioni. Poi Giovanni Angelo Mannino, cognato del boss Salvatore Inzerillo, ucciso nella guerra di mafia: sarebbe stato uno dei più stretti collaboratori di Liga.
Già nel dicembre 2008, durante le indagini dei carabinieri sui nuovi boss della Cupola, altre intercettazioni avevano fatto rimbalzare un riferimento all'architetto. "A Tommaso Natale chi c'è?", chiedeva Giuseppe Scaduto, padrino di Bagheria. E Sandro Capizzi rispondeva: "L'architetto". Era lo stesso riferimento trovato nei pizzini di Lo Piccolo, un anno prima: fra quei biglietti c'era traccia di alcuni passaggi di denaro con i vertici della cosca di Tommaso Natale. Il mistero dell'architetto l'hanno svelato infine i pentiti. Ma soprattutto tanti pedinamenti.
L'architetto ha continuato a fare due vite parallele. A cercarlo erano davvero in tanti, da una parte e dall'altra. Generalmente, però, i nuovi mafiosi di Tommaso Natale non lo chiamavano al telefono, e preferivano incontrarlo in luoghi aperti.
Lui, di recente, aveva ormai capito di essere sotto indagine. Qualche giorno fa aveva concesso un'intervista alla rivista "S". Sosteneva di essere una vittima del racket e rivendicava il suo antico impegno politico nella Dc più sana.
Per i magistrati, i misteri dell'architetto restano ancora tanti. I finanzieri hanno perquisito anche la sede palermitana dell'Mcl. Numerosi documenti e alcuni computer dell'architetto Liga sono stati sequestrati.
(23 marzo 2010) © Riproduzione riservata
In cella Liga, leader del Movimento cristiano lavoratori. Lo accusano quattro pentiti, fra i quali il suo ex avvocato. Altri tre arresti. Un riferimento a lui nei "pizzini" trovati ai superlatitanti. Microspie in azione per migliaia di ore
Divideva le sue intense giornate di lavoro fra lo studio di architetto (a Cardillo), i convegni cattolici (per il Movimento cristiano lavoratori, in via Cerda) e i summit di mafia (a Tommaso Natale). Giuseppe Liga, 59 anni, è stato arrestato ieri mattina dai finanzieri del nucleo speciale di polizia valutaria con l'accusa di essere il successore del boss Salvatore Lo Piccolo. Quattro pentiti lo accusano: Isidoro Cracolici, Francesco Franzese, Gaspare Pulizzi e Marcello Trapani. I primi tre, ex fidati della cosca Lo Piccolo. L'ultimo era addirittura il suo avvocato, e da mesi sta collaborando con la giustizia dopo essere finito in manette. E dopo i pentiti, sono arrivate migliaia di ore di intercettazioni, effettuate dalla sezione investigativa antiriciclaggio della polizia valutaria di Palermo. Liga, stimato architetto della città bene e fino a qualche giorno fa reggente regionale del Movimento cristiano lavoratori, deve adesso difendersi dalle accuse di associazione mafiosa, estorsione e intestazione fittizia di beni. Le indagini, coordinate dai sostituti procuratori Francesco Del Bene, Gaetano Paci, Annamaria Picozzi e Marcello Viola nonché dall'aggiunto Antonio Ingroia, dicono che l'insospettabile professionista avrebbe continuato a gestire il tesoro di Lo Piccolo, il boss di Tommaso Natale che fra il 2006 e il 2007 aveva esteso il suo potere su tutta la città stringendo i commercianti nella morsa del racket. Liga avrebbe continuato a gestire soprattutto il racket delle estorsioni. Per questo aveva un fidato collaboratore, quel Giuseppe Provenzano, titolare di un negozio di ferramenta a Cardillo, arrestato nei mesi scorsi dalla polizia valutaria. Provenzano aveva finito per assumere il ruolo di vice capomandamento di Tommaso Natale. E con senso di gratitudine diceva all'architetto boss: "Io non vado avanti se non te le dico a te le cose, il mio angelo custode tu sei". Nel blitz della Finanza sono finite in manette altre tre persone su ordine del gip Silvana Saguto: Agostino Carollo, 45 anni, e Amedeo Sorvillo, di 57, imprenditori palermitani che avrebbero fatto da prestanome a Liga nella società "Euteco", Euro tecnica delle costruzioni. Poi Giovanni Angelo Mannino, cognato del boss Salvatore Inzerillo, ucciso nella guerra di mafia: sarebbe stato uno dei più stretti collaboratori di Liga.
Già nel dicembre 2008, durante le indagini dei carabinieri sui nuovi boss della Cupola, altre intercettazioni avevano fatto rimbalzare un riferimento all'architetto. "A Tommaso Natale chi c'è?", chiedeva Giuseppe Scaduto, padrino di Bagheria. E Sandro Capizzi rispondeva: "L'architetto". Era lo stesso riferimento trovato nei pizzini di Lo Piccolo, un anno prima: fra quei biglietti c'era traccia di alcuni passaggi di denaro con i vertici della cosca di Tommaso Natale. Il mistero dell'architetto l'hanno svelato infine i pentiti. Ma soprattutto tanti pedinamenti.
L'architetto ha continuato a fare due vite parallele. A cercarlo erano davvero in tanti, da una parte e dall'altra. Generalmente, però, i nuovi mafiosi di Tommaso Natale non lo chiamavano al telefono, e preferivano incontrarlo in luoghi aperti.
Lui, di recente, aveva ormai capito di essere sotto indagine. Qualche giorno fa aveva concesso un'intervista alla rivista "S". Sosteneva di essere una vittima del racket e rivendicava il suo antico impegno politico nella Dc più sana.
Per i magistrati, i misteri dell'architetto restano ancora tanti. I finanzieri hanno perquisito anche la sede palermitana dell'Mcl. Numerosi documenti e alcuni computer dell'architetto Liga sono stati sequestrati.
(23 marzo 2010) © Riproduzione riservata
Il partito del sud e la legione straniera
di Agostino Spataro
Che la Sicilia e il Sud stiano affondando nel vortice della crisi è cosa evidente e accettata. Che ai siciliani siano rimasti soltanto “gli occhi per piangere” sulle loro sventure e tradimenti, nel vedere i loro paesi allagati, franati, crollati, le poche fabbriche chiuse, i contadini esasperati per i loro prodotti rubati, i loro figli emigrare é cosa arcinota e inoppugnabile. Che la Regione sia vicina al collasso amministrativo e finanziario, al limite estremo della sopravvivenza, è cosa certa e lampante. Che ci sia la necessità, e l’urgenza, di fare qualcosa di straordinario per bloccare la caduta e invertire la pericolosa tendenza è cosa altrettanto certa, ma non da tutti accettata.
Poiché la crisi non è uguale per tutti. Anzi, taluni gruppi, soprattutto quelli più legati al malaffare, nella crisi ci guazzano e stanno realizzando fortune colossali. A partire dalla spesa regionale e dal sistema di contributi statali e europei. Ma cosa fare? Date le dimensioni e la complessità della crisi, per la Sicilia, come per il mezzogiorno “residuo” (giacché alcune regioni sono uscite dal sottosviluppo), il problema è di promuovere ed organizzare le idee e le risorse disponibili per un progetto politico di cambiamento vero, capace di favorire un nuovo assetto produttivo e di esplorare nuovi orizzonti di mercato, in primo luogo sul fronte euro-mediterraneo. Invece, vediamo i ceti politici dominanti siciliani tutti presi a inventare stravaganti soluzioni di governo e partiti nuovi di zecca per armare il sud contro il nord in una guerra improbabile quanto disastrosa, per il meridione. Ecco, dunque, uscire dal cappello del mago di turno il “partito del o per il Sud” le cui ambizioni oscillano fra il fascino e la minaccia nei confronti della Lega di Bossi, considerata un modello da imitare e non un’anomalia destinata a sparire, prima o poi, dallo scenario italiano e europeo. Poiché un Paese moderno e una classe dirigente illuminata non possono, davvero, sopportare a lungo la spada di Damocle della secessione, dichiarata o camuffata, e il ricatto continuo ai suoi governi e istituzioni. Pena il caos, la dissoluzione dello Stato e dell’unità politica della nazione. Eppure, Lombardo e Micciché (che, nelle ultime ore, appare molto innervosito, forse pentito) invocano il “partito del sud” contro la Lega con la quale, per altro, sono entrambi ufficialmente alleati sul piano elettorale e dell’attuale maggioranza che governa l’Italia. Già questa vistosa, e irrisolta, contraddizione dovrebbe far riflettere un po’ tutti e raffreddare certi entusiasmi (anche in buona fede) per una sigla vuota di idee e di progetti che, viepiù, si configura come una avventurosa velleità, basata su una sorta d’inciucio alla grande, da “contrapporre” ad un Nord dominante e pigliatutto. Abbiamo cercato di chiarire, in altri momenti, che l’unione di più debolezze non fa la forza, ma solo una più grande debolezza di cui, certamente, profitterebbe la “trimafia” ossia il principale potere economico e illegale del Meridione. In assenza di un progetto politico e programmatico, quel che si coglie nel “partito del sud” è un rivendicazionismo indistinto, quantitativo, mirato a strappare qualche finanziamento in più verso l’Isola per placare le ire di un sistema di potere in affanno che recalcitra e minaccia di fare “la rivoluzione”. I finanziamenti ci vogliono, ma per fare cosa? Nel passato la Sicilia ha ricevuto fiumi di finanziamenti senza nulla di buono per i siciliani, poiché i soldi andavano ad alimentare i soliti giri affaristici e clientelari. Ma torniamo al dibattito, verticistico e altalenante, fra Lombardo e Micciché (il resto non conta o non esiste in MPA e PDL-Sicilia) per capire dove è arrivato e dove potrebbe andare a parare. A parte la confusione e l’assenza di un vero progetto politico, quel che più si nota sono le loro sbandate, i colpi di coda, il clima d’intrigo, i sospetti. Ingredienti che, certo, non sono propedeutici alla creazione di un’unione politica duratura e così ambiziosa. Insomma, basta un nonnulla, un’arrabbiatura di questo o di quello o una tiratina d’orecchi da Arcore, perché il castello di carta vada alla malora. Chissà cosa ne pensino di tutto ciò quegli esponenti del Pd che hanno esultato all’annuncio di Villa Igea? Spiace rilevarlo, ma questi dirigenti, immemori di quel che rappresenta il Pd (per il passato e per il futuro della Sicilia), forse s’illudono di stare giocando un ruolo strategico in questa partita. In realtà, mi pare, che al massimo possono aspirare a un ruolo di comprimari. O, peggio, essere considerati (vedi dichiarazioni dell’on. Micciché) una sorta di legione straniera, da tollerare e da tenere a bada, che finita la “guerra” contro il Nord sarà congedata o sciolta d’ufficio. In conclusione, mi sembra che questo “partito del sud” tanto assomigli a un espediente per sopravvivere in una circostanza sfavorevole e magari avviare la transizione verso l’incombente dopo - Berlusconi e, al contempo, deviare il più lontano possibile i malumori dei siciliani.
Agostino Spataro
Che la Sicilia e il Sud stiano affondando nel vortice della crisi è cosa evidente e accettata. Che ai siciliani siano rimasti soltanto “gli occhi per piangere” sulle loro sventure e tradimenti, nel vedere i loro paesi allagati, franati, crollati, le poche fabbriche chiuse, i contadini esasperati per i loro prodotti rubati, i loro figli emigrare é cosa arcinota e inoppugnabile. Che la Regione sia vicina al collasso amministrativo e finanziario, al limite estremo della sopravvivenza, è cosa certa e lampante. Che ci sia la necessità, e l’urgenza, di fare qualcosa di straordinario per bloccare la caduta e invertire la pericolosa tendenza è cosa altrettanto certa, ma non da tutti accettata.
Poiché la crisi non è uguale per tutti. Anzi, taluni gruppi, soprattutto quelli più legati al malaffare, nella crisi ci guazzano e stanno realizzando fortune colossali. A partire dalla spesa regionale e dal sistema di contributi statali e europei. Ma cosa fare? Date le dimensioni e la complessità della crisi, per la Sicilia, come per il mezzogiorno “residuo” (giacché alcune regioni sono uscite dal sottosviluppo), il problema è di promuovere ed organizzare le idee e le risorse disponibili per un progetto politico di cambiamento vero, capace di favorire un nuovo assetto produttivo e di esplorare nuovi orizzonti di mercato, in primo luogo sul fronte euro-mediterraneo. Invece, vediamo i ceti politici dominanti siciliani tutti presi a inventare stravaganti soluzioni di governo e partiti nuovi di zecca per armare il sud contro il nord in una guerra improbabile quanto disastrosa, per il meridione. Ecco, dunque, uscire dal cappello del mago di turno il “partito del o per il Sud” le cui ambizioni oscillano fra il fascino e la minaccia nei confronti della Lega di Bossi, considerata un modello da imitare e non un’anomalia destinata a sparire, prima o poi, dallo scenario italiano e europeo. Poiché un Paese moderno e una classe dirigente illuminata non possono, davvero, sopportare a lungo la spada di Damocle della secessione, dichiarata o camuffata, e il ricatto continuo ai suoi governi e istituzioni. Pena il caos, la dissoluzione dello Stato e dell’unità politica della nazione. Eppure, Lombardo e Micciché (che, nelle ultime ore, appare molto innervosito, forse pentito) invocano il “partito del sud” contro la Lega con la quale, per altro, sono entrambi ufficialmente alleati sul piano elettorale e dell’attuale maggioranza che governa l’Italia. Già questa vistosa, e irrisolta, contraddizione dovrebbe far riflettere un po’ tutti e raffreddare certi entusiasmi (anche in buona fede) per una sigla vuota di idee e di progetti che, viepiù, si configura come una avventurosa velleità, basata su una sorta d’inciucio alla grande, da “contrapporre” ad un Nord dominante e pigliatutto. Abbiamo cercato di chiarire, in altri momenti, che l’unione di più debolezze non fa la forza, ma solo una più grande debolezza di cui, certamente, profitterebbe la “trimafia” ossia il principale potere economico e illegale del Meridione. In assenza di un progetto politico e programmatico, quel che si coglie nel “partito del sud” è un rivendicazionismo indistinto, quantitativo, mirato a strappare qualche finanziamento in più verso l’Isola per placare le ire di un sistema di potere in affanno che recalcitra e minaccia di fare “la rivoluzione”. I finanziamenti ci vogliono, ma per fare cosa? Nel passato la Sicilia ha ricevuto fiumi di finanziamenti senza nulla di buono per i siciliani, poiché i soldi andavano ad alimentare i soliti giri affaristici e clientelari. Ma torniamo al dibattito, verticistico e altalenante, fra Lombardo e Micciché (il resto non conta o non esiste in MPA e PDL-Sicilia) per capire dove è arrivato e dove potrebbe andare a parare. A parte la confusione e l’assenza di un vero progetto politico, quel che più si nota sono le loro sbandate, i colpi di coda, il clima d’intrigo, i sospetti. Ingredienti che, certo, non sono propedeutici alla creazione di un’unione politica duratura e così ambiziosa. Insomma, basta un nonnulla, un’arrabbiatura di questo o di quello o una tiratina d’orecchi da Arcore, perché il castello di carta vada alla malora. Chissà cosa ne pensino di tutto ciò quegli esponenti del Pd che hanno esultato all’annuncio di Villa Igea? Spiace rilevarlo, ma questi dirigenti, immemori di quel che rappresenta il Pd (per il passato e per il futuro della Sicilia), forse s’illudono di stare giocando un ruolo strategico in questa partita. In realtà, mi pare, che al massimo possono aspirare a un ruolo di comprimari. O, peggio, essere considerati (vedi dichiarazioni dell’on. Micciché) una sorta di legione straniera, da tollerare e da tenere a bada, che finita la “guerra” contro il Nord sarà congedata o sciolta d’ufficio. In conclusione, mi sembra che questo “partito del sud” tanto assomigli a un espediente per sopravvivere in una circostanza sfavorevole e magari avviare la transizione verso l’incombente dopo - Berlusconi e, al contempo, deviare il più lontano possibile i malumori dei siciliani.
Agostino Spataro
lunedì 22 marzo 2010
Architetto e insospettabile: preso il nuovo capomafia palermitano
di SALVO PALAZZOLO
Arrestato dalla Gdf, Giuseppe Liga. Da anni gestiva il tesoro dei Lo Piccolo. Era anche reggente regionale del Movimento cristiano dei lavoratori. In manette anche un cognato di Salvatore Inzerillo e due imprenditori
PALERMO - Un insospettabile architetto è stato arrestato a Palermo con l'accusa di essere l'erede dell'ultimo grande padrino latitante finito in manette, Salvatore Lo Piccolo. Giuseppe Liga, 59 anni, reggente regionale del Movimento cristiano lavoratori, è stato fermato all'alba dai finanzieri del nucleo speciale di polizia valutaria del capoluogo siciliano su ordine della Procura e del gip Silvana Saguto. Gli vengono contestate le accuse di associazione mafiosa ed estorsione: Liga avrebbe continuato a gestire il tesoro di Lo Piccolo, il boss di Tommaso Natale che fra il 2006 e il 2007 aveva esteso il suo potere su tutta la città stringendo i commercianti e gli imprenditori nella morsa del racket. Il 5 novembre 2007 Lo Piccolo finì in manette, ma c'era già un suo fidato emissario ad occuparsi della riorganizzazione del clan.
Assieme all'architetto i finanzieri hanno arrestato anche Giovanni Angelo Mannino, 57 anni, il cognato di Salvatore Inzerillo, uno dei padrini della vecchia guardia che fu ucciso nel 1981, all'inizio della guerra di mafia. L'arresto di Mannino conferma quanto ormai da mesi sta drammaticamente emergendo dalle indagini: dopo gli arresti e i processi che sembrano aver fiaccato i corleonesi di Riina e Provenzano, ai vertici di Cosa nostra sono tornati i "palermitani", i mafiosi della vecchia guardia che negli ultimi vent'anni sono apparentemente rimasti ai margini dell'organizzazione, ma in realtà hanno curato lucrosi affari con gli Stati Uniti. Anche Mannino era comunque, a modo suo, un insospettabile: dopo l'assoluzione nel processo "Iron Tower" dall'accusa di traffico internazionale di droga (nel 1992), era diventato lo stimato gestore del ristorante "Lo Sparviero" di via Sperlinga. Gli ultimi pentiti lo definiscono adesso "uomo d'onore della famiglia di Torretta".
Nel blitz di questa notte sono finite in manette altre due persone: Agostino Carollo, 45 anni, e Amedeo Sorvillo, 57, due imprenditori palermitani che avrebbero fatto da prestanome a Liga nella società "Eu. te. co", Euro tecnica delle costruzioni.
Le indagini, condotte dai sostituti procuratori Francesco Del Bene, Gaetano Paci, Annamaria Picozzi e Marcello Viola nonché dall'aggiunto Antonio Ingroia, erano partite dopo alcune intercettazioni. Le voci che arrivavano dai segreti di Cosa nostra citavano un misterioso "architetto". Poi, altri spunti sono arrivati dai pizzini ritrovati al momento dell'arresto di Lo Piccolo: si faceva ancora riferimento all'architetto e ad alcuni passaggi di denaro con i vertici della cosca di Tommaso Natale. Il mistero dell'architetto l'hanno svelato quattro pentiti: Isidoro Cracolici, Francesco Franzese, Gaspare Pulizzi e Marcello Trapani. I primi tre, uomini della cosca Lo Piccolo. L'ultimo, è il suo ex avvocato, che da mesi sta collaborando con la giustizia dopo essere finito in manette.
Giuseppe Liga è stato pedinato a lungo, i suoi incontri riservati con i fedelissimi di Lo Piccolo sono stati anche intercettati. Intanto, l'architetto proseguiva la sua vita da insospettabile professionista e soprattutto da cattolico impegnato. Il 2 giugno 2009, durante la campagna elettorale per le Europee, al suo telefono arrivò una telefonata dalla segreteria del presidente della Regione Raffaele Lombardo. Erano le 11,25. Alle 14,50, l'architetto fu fotografato dai finanzieri mentre entrava a palazzo d'Orleans, sede della presidenza della Regione, in piazza Indipendenza. Si trattenne fino alle 15,25.
Scrivono i magistrati della Direzione distrettuale antimafia: "Le indagini hanno accertato che nel periodo in cui l'indagato aveva acquisito il ruolo di reggente del mandamento di Tommaso Natale-San Lorenzo, Liga non ha trascurato il suo impegno politico pubblico con il Movimento cristiano dei lavoratori, dimostrando così la capacità di infiltrazione dell'organizzazione mafiosa nelle istituzioni".
Il 3 giugno, Liga fu intercettato mentre parlava dell'incontro col presidente della Regione a Marco Belluardo, assessore comunale di Catania e consigliere nazionale dell'Mcl: "Si, i fac-simili li avevo e... lui mi ha dato il resto....", così diceva. Il 19 giugno, Liga fu intercettato al telefono mentre parlava con Carlo Costalli, rappresentante legale dell'Mcl. Disse: "Anche perché io ho avuto dei contatto con Raffaele... durante la campagna elettorale... ci sono alcune cose in movimento... vorrei parlartene riservatamente... ".
I misteri dell'architetto sono ancora tanti. Questa notte i finanzieri hanno perquisito anche la sede del Movimento cristiano lavoratori, in via Cerda, a Palermo. Numerosi documenti e alcuni computer dell'architetto Liga sono stati sequestrati.
Assieme all'architetto i finanzieri hanno arrestato anche Giovanni Angelo Mannino, 57 anni, il cognato di Salvatore Inzerillo, uno dei padrini della vecchia guardia che fu ucciso nel 1981, all'inizio della guerra di mafia. L'arresto di Mannino conferma quanto ormai da mesi sta drammaticamente emergendo dalle indagini: dopo gli arresti e i processi che sembrano aver fiaccato i corleonesi di Riina e Provenzano, ai vertici di Cosa nostra sono tornati i "palermitani", i mafiosi della vecchia guardia che negli ultimi vent'anni sono apparentemente rimasti ai margini dell'organizzazione, ma in realtà hanno curato lucrosi affari con gli Stati Uniti. Anche Mannino era comunque, a modo suo, un insospettabile: dopo l'assoluzione nel processo "Iron Tower" dall'accusa di traffico internazionale di droga (nel 1992), era diventato lo stimato gestore del ristorante "Lo Sparviero" di via Sperlinga. Gli ultimi pentiti lo definiscono adesso "uomo d'onore della famiglia di Torretta".
Nel blitz di questa notte sono finite in manette altre due persone: Agostino Carollo, 45 anni, e Amedeo Sorvillo, 57, due imprenditori palermitani che avrebbero fatto da prestanome a Liga nella società "Eu. te. co", Euro tecnica delle costruzioni.
Le indagini, condotte dai sostituti procuratori Francesco Del Bene, Gaetano Paci, Annamaria Picozzi e Marcello Viola nonché dall'aggiunto Antonio Ingroia, erano partite dopo alcune intercettazioni. Le voci che arrivavano dai segreti di Cosa nostra citavano un misterioso "architetto". Poi, altri spunti sono arrivati dai pizzini ritrovati al momento dell'arresto di Lo Piccolo: si faceva ancora riferimento all'architetto e ad alcuni passaggi di denaro con i vertici della cosca di Tommaso Natale. Il mistero dell'architetto l'hanno svelato quattro pentiti: Isidoro Cracolici, Francesco Franzese, Gaspare Pulizzi e Marcello Trapani. I primi tre, uomini della cosca Lo Piccolo. L'ultimo, è il suo ex avvocato, che da mesi sta collaborando con la giustizia dopo essere finito in manette.
Giuseppe Liga è stato pedinato a lungo, i suoi incontri riservati con i fedelissimi di Lo Piccolo sono stati anche intercettati. Intanto, l'architetto proseguiva la sua vita da insospettabile professionista e soprattutto da cattolico impegnato. Il 2 giugno 2009, durante la campagna elettorale per le Europee, al suo telefono arrivò una telefonata dalla segreteria del presidente della Regione Raffaele Lombardo. Erano le 11,25. Alle 14,50, l'architetto fu fotografato dai finanzieri mentre entrava a palazzo d'Orleans, sede della presidenza della Regione, in piazza Indipendenza. Si trattenne fino alle 15,25.
Scrivono i magistrati della Direzione distrettuale antimafia: "Le indagini hanno accertato che nel periodo in cui l'indagato aveva acquisito il ruolo di reggente del mandamento di Tommaso Natale-San Lorenzo, Liga non ha trascurato il suo impegno politico pubblico con il Movimento cristiano dei lavoratori, dimostrando così la capacità di infiltrazione dell'organizzazione mafiosa nelle istituzioni".
Il 3 giugno, Liga fu intercettato mentre parlava dell'incontro col presidente della Regione a Marco Belluardo, assessore comunale di Catania e consigliere nazionale dell'Mcl: "Si, i fac-simili li avevo e... lui mi ha dato il resto....", così diceva. Il 19 giugno, Liga fu intercettato al telefono mentre parlava con Carlo Costalli, rappresentante legale dell'Mcl. Disse: "Anche perché io ho avuto dei contatto con Raffaele... durante la campagna elettorale... ci sono alcune cose in movimento... vorrei parlartene riservatamente... ".
I misteri dell'architetto sono ancora tanti. Questa notte i finanzieri hanno perquisito anche la sede del Movimento cristiano lavoratori, in via Cerda, a Palermo. Numerosi documenti e alcuni computer dell'architetto Liga sono stati sequestrati.
XV Giornata della Memoria e dell'Impegno: a Milano c'eavamo pure noi...
FOTO. Dall'alto in basso: lo striscione di "Avviso Pubblico"; Due giovani corleonesi...; Calogero, Franco, Dino (coop Lavoro e non solo, Cgil); a piazza Duomo; il sindaco Iannazzo legge alcuni nomi delle vittime di mafia; telejato intervista don Ciotti; Mario Lanza, presidente del consiglio di Corleone, don Luigi Ciotti e Dino Paternostro
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