di Viktor Borzenko
Sessantacinquea famiglia ricevette per l’ultima volta una breve notiziola dal fronte: “I russi sono persone buone, proprio come noi...e voglio che tutti vivano”. Da allora i suoi partenti raccolgono qualsiasi informazione sugli ultimi giorni del soldato italiano Rosario Perrino, che ha vissuto sul fronte del Don nel 1942. Egli è caduto vicino Čertkovo, nella regione di Rostov. Questo è tutto quello che la famiglia italiana ha saputo. Poco tempo fa, però, hanno potuto accertare nuovi fatti. Un Tupolev 134 atterra all’aeroporto di Rostov a mezzanotte. Sul Don è giunto Giovanni Perrino, nipote di quello stesso soldato, di cui è venuto a cercare la tomba, preparandosi a questo avvenimento già da molti anni.
«Rosario è morto perché non voleva sparare sulle persone».
Con Giovanni provo disagio a parlare di quella terribile guerra. Obiettivamente, il soldato italiano combatteva contro i russi, ma per lui quel soldato era uno zio germano, che non aveva mai sparato sui russi e che si era innamorato della Russia. Egli è andato al fronte solo per non farsi lunghi anni di galera per renitenza alla leva. Giovanni sorride in continuazione. Non ha niente di cui vergognarsi: “Quanti anni di abisso ci sono stati tra la mia famiglia e il vostro popolo, ma so con esattezza che Rosario è morto perché non voleva sparare sulle persone. Al nostro ospite italiano portano un calice di vino georgiano. “Buonissimo!”, esclama Giovanni, che da tempo preferisce i vini del Don. In molti negozi italiani si può comperare il vino “Taganrog”, e con la stessa denominazione fabbricano della pasta, per la preparazione della quale si usa una farina che viene dal Don. Tale tradizione ha avuto inizio ben 250 anni fa, quando Italia cominciarono ad arrivare le navi che dal porto di Taganrog esportavano grano e vino
Giovanni ricorda con molto calore questa pasta. “E’ come se quel grano nascesse proprio nelle stesse vallate dove era rimasto per sempre Rosario. E ancora ricorda il nostro amico come la nonna, di notte si svegliasse di soprassalto, chiedendo di aprire la porta. Nel suo dolore di madre era convinta che fosse tornato il figlio.
“Io sono cresciuto e, per così dire, il suo nome per me è divenuto la cifra della fede nel suo ritorno”, dice Giovanni. Vedendo come crescevo, i miei cari paragonavano di continuo me con lui, trovando una somiglianza sempre maggiore, e nella forma delle mani, e nell’altezza, e nel corpo, nel modo di sorridere....e anche nella stessa maniera di stare a tavola! Spesso le mie zie mi imponevano di tanto di tanto di misurare i suoi vestiti e le sue scarpe, e ogni volta, sottolineavano il suo gusto impeccabile nello scegliere i vestiti. E ogni volta dopo queste misurazioni. riponevano tutto nell’armadio, nell’attesa che tornasse. Loro desideravano che egli trovasse le proprie cose così come le aveva lasciate. In Italia capitavano casi che i parenti ogni tanto ricevessero le bare con i resti ma anche, piu’ raramente, capitava che dopo molti anni i soldati tornavano a casa vivi.
«Vedendo uno straniero, i contadini hanno lasciato il loro orto»
Ci siamo avvicinati ad Alekseevo – Lozovskij, al villaggio dove nel novembre del 1942 sotto il bombardamento dell’artiglieria cadde Rosario. Nel distretto di Čertkovo la macchina svolta dalla strada asfaltata in una stradella di campagna. Giovanni, di solito ciarliero, tace improvvisamente. Saltando sui piccoli rilievi che là si trovano, si sforza di vedere quei luoghi di cui ha tanto letto nelle memorie di guerra. Anche per questo motivo ha imparato il russo. ...Vedendo uno straniero, i contadini hanno lasciato il proprio orto e hanno circondato la macchina. “Forse, riconoscete questo volto”, dice Giovanni, mostrando la foto dello zio ai vecchi del luogo, ma questi possono solo stringersi nelle spalle. Di soldati come Rosario nel novembre del 1942 ce n’erano 25.000. Poi Giovanni ha visto la steppa dove erano gli italiani e la collinetta dove, stando ai racconti, sono stati massacrati i soldati italiani e tedeschi. Giovanni guarda le grandi distanze del Don, e cerca dove potevano essere le trincee nelle quali Rosario nei minuti in cui infuriava la battaglia, scriveva a casa l’ultima breve lettera.
«Egli è vivo, e vive sotto falso nome»
Nel 1942 Rosario aveva 27 anni. Aveva terminato da poco gli studi e aveva vinto il concorso nelle Ferrovie ed era stato nominato capostazione a Salemi dove aveva trovato Concettina, una fidanzata che amava moltissimo e che lo ha atteso per lunghi anni dopo la fine della guerra. In una delle lettere dal fronte Rosario raccontò che viveva in un villaggio sul Don presso una famiglia molto buona che lo trattava bene e gli lavava i vestiti. “I miei genitori supponevano che in Russia si fosse trovato un nuovo amore”, dice Giovanni”, ma, dopo la guerra, la vita dei sopravvissuti era molto difficile perciò Rosario ha dovuto nascondersi. I familiari avevano anche sognato che egli potesse essere vivo e che aveva cambiato nome... e che magari viveva felice con la sua famiglia russa intorno ad un grande tavolo assieme ai figli, con una lasagna fumante e le patate con il burro fuso.
«Le ultime righe a casa»
Rosario poteva fuggire dal fronte, come avevano fatto alcuni italiani., ma egli sperava che la morte lo schivasse e durante la battaglia sparava in aria o più semplicemente aveva messo la testa al riparo in una trincea come riportano alcuni testimoni oculari, gli amici del fronte di Rosario, che erano tornati in patria. In una delle cartoline Rosario, per evitare la severa censura di guerra, ha scritto in maniera allegorica che presentiva l’avvicinarsi di una forte tempesta, dalla quale bisogna fuggire, nascondersi, ma egli reprimeva in se stesso questo senso di paura. Egli fino all’ultimo, non voleva credere nella possibilità che potesse morire, non credeva in quella morte che ormai si avvicinava a grandi passi. E non aveva preso nessuna decisione, neanche quella di fuggire in quanto il destino aveva già definito il tutto e aveva messo ogni cosa al suo posto. La tempesta cominciò all’improvviso e non lasciò tempo per riflettere, solo di pensare alla sua Concettina ed ai suoi familiari. Rosario non si ribellò al proprio destino in quel momento cruciale e la tempesta lo spazzò via e questa volta per sempre.
Sessantacinquea famiglia ricevette per l’ultima volta una breve notiziola dal fronte: “I russi sono persone buone, proprio come noi...e voglio che tutti vivano”. Da allora i suoi partenti raccolgono qualsiasi informazione sugli ultimi giorni del soldato italiano Rosario Perrino, che ha vissuto sul fronte del Don nel 1942. Egli è caduto vicino Čertkovo, nella regione di Rostov. Questo è tutto quello che la famiglia italiana ha saputo. Poco tempo fa, però, hanno potuto accertare nuovi fatti. Un Tupolev 134 atterra all’aeroporto di Rostov a mezzanotte. Sul Don è giunto Giovanni Perrino, nipote di quello stesso soldato, di cui è venuto a cercare la tomba, preparandosi a questo avvenimento già da molti anni.
«Rosario è morto perché non voleva sparare sulle persone».
Con Giovanni provo disagio a parlare di quella terribile guerra. Obiettivamente, il soldato italiano combatteva contro i russi, ma per lui quel soldato era uno zio germano, che non aveva mai sparato sui russi e che si era innamorato della Russia. Egli è andato al fronte solo per non farsi lunghi anni di galera per renitenza alla leva. Giovanni sorride in continuazione. Non ha niente di cui vergognarsi: “Quanti anni di abisso ci sono stati tra la mia famiglia e il vostro popolo, ma so con esattezza che Rosario è morto perché non voleva sparare sulle persone. Al nostro ospite italiano portano un calice di vino georgiano. “Buonissimo!”, esclama Giovanni, che da tempo preferisce i vini del Don. In molti negozi italiani si può comperare il vino “Taganrog”, e con la stessa denominazione fabbricano della pasta, per la preparazione della quale si usa una farina che viene dal Don. Tale tradizione ha avuto inizio ben 250 anni fa, quando Italia cominciarono ad arrivare le navi che dal porto di Taganrog esportavano grano e vino
Giovanni ricorda con molto calore questa pasta. “E’ come se quel grano nascesse proprio nelle stesse vallate dove era rimasto per sempre Rosario. E ancora ricorda il nostro amico come la nonna, di notte si svegliasse di soprassalto, chiedendo di aprire la porta. Nel suo dolore di madre era convinta che fosse tornato il figlio.
“Io sono cresciuto e, per così dire, il suo nome per me è divenuto la cifra della fede nel suo ritorno”, dice Giovanni. Vedendo come crescevo, i miei cari paragonavano di continuo me con lui, trovando una somiglianza sempre maggiore, e nella forma delle mani, e nell’altezza, e nel corpo, nel modo di sorridere....e anche nella stessa maniera di stare a tavola! Spesso le mie zie mi imponevano di tanto di tanto di misurare i suoi vestiti e le sue scarpe, e ogni volta, sottolineavano il suo gusto impeccabile nello scegliere i vestiti. E ogni volta dopo queste misurazioni. riponevano tutto nell’armadio, nell’attesa che tornasse. Loro desideravano che egli trovasse le proprie cose così come le aveva lasciate. In Italia capitavano casi che i parenti ogni tanto ricevessero le bare con i resti ma anche, piu’ raramente, capitava che dopo molti anni i soldati tornavano a casa vivi.
«Vedendo uno straniero, i contadini hanno lasciato il loro orto»
Ci siamo avvicinati ad Alekseevo – Lozovskij, al villaggio dove nel novembre del 1942 sotto il bombardamento dell’artiglieria cadde Rosario. Nel distretto di Čertkovo la macchina svolta dalla strada asfaltata in una stradella di campagna. Giovanni, di solito ciarliero, tace improvvisamente. Saltando sui piccoli rilievi che là si trovano, si sforza di vedere quei luoghi di cui ha tanto letto nelle memorie di guerra. Anche per questo motivo ha imparato il russo. ...Vedendo uno straniero, i contadini hanno lasciato il proprio orto e hanno circondato la macchina. “Forse, riconoscete questo volto”, dice Giovanni, mostrando la foto dello zio ai vecchi del luogo, ma questi possono solo stringersi nelle spalle. Di soldati come Rosario nel novembre del 1942 ce n’erano 25.000. Poi Giovanni ha visto la steppa dove erano gli italiani e la collinetta dove, stando ai racconti, sono stati massacrati i soldati italiani e tedeschi. Giovanni guarda le grandi distanze del Don, e cerca dove potevano essere le trincee nelle quali Rosario nei minuti in cui infuriava la battaglia, scriveva a casa l’ultima breve lettera.
«Egli è vivo, e vive sotto falso nome»
Nel 1942 Rosario aveva 27 anni. Aveva terminato da poco gli studi e aveva vinto il concorso nelle Ferrovie ed era stato nominato capostazione a Salemi dove aveva trovato Concettina, una fidanzata che amava moltissimo e che lo ha atteso per lunghi anni dopo la fine della guerra. In una delle lettere dal fronte Rosario raccontò che viveva in un villaggio sul Don presso una famiglia molto buona che lo trattava bene e gli lavava i vestiti. “I miei genitori supponevano che in Russia si fosse trovato un nuovo amore”, dice Giovanni”, ma, dopo la guerra, la vita dei sopravvissuti era molto difficile perciò Rosario ha dovuto nascondersi. I familiari avevano anche sognato che egli potesse essere vivo e che aveva cambiato nome... e che magari viveva felice con la sua famiglia russa intorno ad un grande tavolo assieme ai figli, con una lasagna fumante e le patate con il burro fuso.
«Le ultime righe a casa»
Rosario poteva fuggire dal fronte, come avevano fatto alcuni italiani., ma egli sperava che la morte lo schivasse e durante la battaglia sparava in aria o più semplicemente aveva messo la testa al riparo in una trincea come riportano alcuni testimoni oculari, gli amici del fronte di Rosario, che erano tornati in patria. In una delle cartoline Rosario, per evitare la severa censura di guerra, ha scritto in maniera allegorica che presentiva l’avvicinarsi di una forte tempesta, dalla quale bisogna fuggire, nascondersi, ma egli reprimeva in se stesso questo senso di paura. Egli fino all’ultimo, non voleva credere nella possibilità che potesse morire, non credeva in quella morte che ormai si avvicinava a grandi passi. E non aveva preso nessuna decisione, neanche quella di fuggire in quanto il destino aveva già definito il tutto e aveva messo ogni cosa al suo posto. La tempesta cominciò all’improvviso e non lasciò tempo per riflettere, solo di pensare alla sua Concettina ed ai suoi familiari. Rosario non si ribellò al proprio destino in quel momento cruciale e la tempesta lo spazzò via e questa volta per sempre.
NELLA FOTO: Giovanni Perrino
Pubblicato sul quotidiano russo “Argumenti i Facti “, n.32/2007