Questo il verdetto della Corte d'appello presieduta da Claudio Dall'Acqua (a latere Salvatore Barresi e Sergio La Commare). La sentenza assolve però il senatore del Pdl per "le condotte successive al 1992"
PALERMO - Sette anni di carcere per Marcello Dell'Utri, ma è assolto per le "condotte successive al 1992, perché il fatto non sussiste". Questo il verdetto della seconda sezione della Corte d'appello di Palermo presieduta da Claudio Dall'Acqua (a latere Salvatore Barresi e Sergio La Commare). In primo grado, il senatore del Pdl era stato condannato a 9 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Oggi, dopo cinque giorni di camera di consiglio, i giudici d'appello riscrivono la sentenza in uno dei punti più delicati del processo, quello della trattativa che secondo la Procura e il Tribunale sarebbe intercorsa fra l'organizzazione mafiosa e Marcello Dell'Utri alla vigilia della nascita di Forza Italia. La Corte ritiene invece provato che Dell'Utri intrattenne stretti rapporti con la vecchia mafia di Stefano Bontade e poi, dopo il 1980, con gli uomini di Totò Riina e Bernardo Provenzano, almeno fino alla stagione delle stragi di Falcone e Borsellino nel 1992.
Eccoli, allora, i capisaldi della condanna. Innanzitutto, l'assunzione del boss palermitano Vittorio Mangano per fare da stalliere nella villa di Arcore di Silvio Berlusconi. "Attraverso la mediazione di Dell'Utri e del mafioso Gaetano Cinà - aveva ribadito il procuratore generale Nino Gatto poco prima che i giudici entrassero in camera di consiglio - Mangano assicurò protezione contro l'escalation dei sequestri a Milano". Nell'autunno 1974, l'arrivo di Mangano sarebbe stato sancito da un incontro fra Dell'Utri, Berlusconi e i capimafia palermitani Stefano Bontade e Mimmo Teresi, nella sede della Edilnord. I giudici della corte d'appello hanno evidentemente creduto al pentito Francesco Di Carlo, che ha svelato di essere stato presente a quell'incontro. La sentenza di primo grado sosteneva pure che prima del 1980 Dell'Utri aveva fatto da tramite per gli investimenti a Milano di Stefano Bontade, all'epoca uno dei padrini più influenti di Cosa nostra palermitana, che era alla ricerca di aziende pulite del Nord Italia in grado di riciclare i miliardi di lire provenienti dal traffico internazionale di droga. Il senatore Dell'Utri non era presente alla lettura della sentenza nell'aula bunker di Pagliarelli ed ha preferito aspettare la decisione della corte d'appello a Como. Poi ha commentato la sentenza in una conferenza stampa a Milano 1. Per lui, il sostituto procuratore generale Nino Gatto aveva chiesto una condanna anche più alta di quella inflitta in primo grado, 11 anni. E aveva fatto un appello finale ai giudici: "E' il potere a essere giudicato (...) Voi potete contribuire alla costruzione di un gradino, salito il quale forse, e ripeto forse, si potranno percorrere altri scalini che potranno fare accertare le responsabilità che hanno insanguinato il nostro Paese. Oppure lo potete distruggere questo gradino".
Il riferimento del procuratore generale era a quelle indagini delle Procure di Caltanissetta, Palermo e Firenze che di recente hanno ricevuto nuovi spunti dalle dichiarazioni di Gaspare Spatuzza: l'ex killer oggi pentito ha parlato di "garanzie" che sarebbero state offerte nel 1993 dal "compaesano" Dell'Utri e da Berlusconi, alla vigilia della nascita di Forza Italia. L'assoluzione di Dell'Utri per le vicende successive al 1992 suona adesso come una sconfessione di Spatuzza, ma su questo punto bisognerà attendere le motivazioni della sentenza per capire se i giudici della corte d'appello hanno valutato il pentito del tutto inattendibile, oppure se si sono limitati a ritenere il suo contributo non determinante, perché sulla trattativa politica-mafia ha riferito in fondo solo quanto appreso da uno dei suoi capi, Giuseppe Graviano. Di certo, però, nel processo Dell'Utri non era solo Spatuzza a parlare di un accordo politico-mafioso in vista della nascita di Forza Italia. Nella sentenza di primo grado, che aveva portato alla condanna del senatore di Forza Italia, una parte rilevante era rappresentata dalle dichiarazioni di Nino Giuffrè: l'ex fedelissimo del capo di Cosa nostra Bernardo Provenzano aveva parlato del sostegno elettorale dei boss in cambio di "garanzie" che sarebbero state offerte da alcuni intermediari. Adesso, la sentenza di appello sembra mettere in discussione anche quelli che erano ormai ritenuti i capisaldi delle ultime inchieste sulla trattativa fra mafia e politica durante la stagione delle stragi del 1993.
(La Repubblica, 29 giugno 2010)
martedì 29 giugno 2010
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