sabato 6 ottobre 2007

Scuola, tra esami e debiti, il coraggio di cambiare

di Luigi Galella
Penso ai miei studenti. Già così smarriti nell’apprendere che avrebbero dovuto «pagare» i debiti
entro l’ultimo anno, pena l’esclusione dagli esami di stato. Un momentaccio. Come se dicessero: è proprio con noi che si deve cominciare a fare sul serio? Un’idea terribile: non ci sono più scappatoie, vie di fuga, isole felici.
Del resto accade anche nella vita ordinaria di classe. Ci si rende conto che un metodo non funziona, i ragazzi sono distratti, non rendono, non sanno ciò che si spiega e non ricordano ciò che hanno studiato poco tempo prima. A settembre poi non ne parliamo, sembrano tutti resettati dall’estate, dal sole, dalla vacanza e dalle discoteche.
E allora? Allora ci si inventa qualcosa. Ed ecco che l’insegnante torna a sentire tutta l’urgenza del suo ruolo, del suo esserci. Com’è possibile, si chiede, che i tanti sforzi compiuti partoriscano esiti cosi modesti?
A scuola, e un po’ nell’esperienza degli educatori, tutto è sperimentale. Se non funziona bisogna cambiare. Anche a costo di tornare all’antico. Il vituperato antico dei nostri padri. Per un progressista è seccante ammetterlo. Ma l’esperienza vale più di un trattato di pedagogia. Come direbbe Carlo Dossi: «Continuamente nascono i fatti a confusione delle teorie». E i fatti «ostinati», che non possiamo evitare di osservare, ci dicono che il sistema dei debiti aveva partorito una generale deresponsabilizzazione. Due materie si potevano non studiare e andare avanti comunque. Nessun consiglio di classe si sarebbe assunto la responsabilità di respingere un alunno insufficiente in due sole discipline. Anche se ripetute per anni.
Ecco perché il ministro Fioroni ha ragione. E noi tutti dovremmo non «vergognarci» di dover ripristinare di fatto, anche se formalmente avrà un altro nome, il vecchio esame di riparazione di settembre. Con un’unica postilla. Una scuola che seriamente svolge il suo ruolo non può non essere selettiva. E una scuola selettiva aumenta la dispersione, della quale pure spesso, e contemporaneamente, ci lamentiamo. Ad esempio, del fatto di essere gli ultimi in Europa per numero di diplomati e laureati. Con il ripristino degli esami di settembre queste statistiche non miglioreranno. A meno che non le renderemo dei puri involucri formali. C’è tuttavia un’altra strada, che, stringendo la vite della «serietà», ci farebbe sentire tutti partecipi delle parziali decisioni che, di volta in volta, modificano il quadro normativo: quella di imporre la scuola, finalmente, al centro del dibattito politico. Di fronte alla modernità che ci schiaffeggia e rende la nostra cultura inadeguata a rappresentare i «tempi» ci farebbe sentire, a noi insegnanti, ma anche ai ragazzi credo, e alle famiglie, meno soli.
Il tema della scuola è il tema culturale di un’era che, come direbbe Walter Ong, ci spinge verso l’oralità secondaria. E non per la volontà di singole intenzioni, che si possano contrastare, ma per un movimento tellurico globale inarrestabile. L’era elettronica che preme, e che fa perdere centralità alla stessa scrittura, che ha resistito per millenni e sulla quale per millenni abbiamo edificato i saperi. Anche qui: come si fa a stigmatizzare i comportamenti individuali di fronte a una rivoluzione sistemica?
È per questo che mi piacerebbe che tenessimo conto di tutto, quando ragioniamo di scuola, e ci dividiamo sulle misure che intraprendiamo. Ed è per questo che in fondo ci rendiamo conto che un vero ritorno all’antico, semplicemente, non è possibile, anche se forse talvolta, animati da improvvise spinte regressive, lo desidereremmo. La realtà è più complicata e sfumata dei ricordi. E presto, probabilmente, ci indurrà a metter mano a nuove, parziali, correzioni.
da l'Unità

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