giovedì 25 ottobre 2007

LEONI ADDORMENTATI di Attilio Bolzoni

Nel cuore della Sicilia del feudo sembra che il tempo non passi mai. Tra silenzi e strade senza nome, storie di 'piccuttunazzi' del passato, musei dell'Antimafia e 'padrini' che 'sciusciano'

Il cadavere del giudice era ancora dentro l'auto, messa di traverso e trapassata dalle pallottole di una mitraglia. Curvo a terra, un capitano dei carabinieri raccoglieva bossoli infilando le sue mani fra i piedi di uomini immobili come statue. Erano le eccellentissime toghe di Palermo. Il procuratore generale. Il presidente della Corte d'appello. Il procuratore capo della Repubblica. Stavano lì con gli occhi puntati sul selciato, muti, sudati, pietrificati. Avevano facce che sembravano maschere.«Andiamo via di qui, saliamo a Corleone», disse Gianni trascinandomi per un braccio. Gianni Lo Monaco era il cronista anziano del quotidiano L'Ora, il giornale delle grandi battaglie siciliane. Il cadavere nell'auto era quello di Cesare Terranova, consigliere istruttore. Era appena tornato da Roma, dove per due legislature era stato in commissione parlamentare Antimafia come «indipendente di sinistra». Da giudice, dieci anni prima, aveva provato a incastrare Luciano Liggio e due sconosciuti contadini che si chiamavano Totò Riina e Bernardo Provenzano. L'anno era il 1979, il mese settembre. Fu Gianni che mi portò per la prima volta a Corleone. La strada più breve - cinquantanove chilometri - passava allora e passa ancora oggi da Marineo, cinque tornanti e poi la discesa verso il pianoro che sfiora il bosco della Ficuzza e il casino di caccia che i Borboni vollero maestoso ai piedi della Rocca Busambra. Gianni non parlò fino a quando arrivammo alla montagna. Il paese era là dietro. Cominciò a fare la conta delle strade che portano lassù: «Tutti pensano che Corleone sia un luogo isolato, difficilmente raggiungibile. E invece ci sono altre tre strade che vanno a Palermo, un'altra che attraversa Prizzi e arriva diretta sino ai primi paesi della provincia di Caltanissetta, un'altra che lo congiunge a Partanna, alla fine della valle del Belice». Corleone non era 'lontana' come dicevano. E come avevo sempre creduto. Era nel cuore della Sicilia del feudo, a pari distanza quasi da Palermo e da tutte le altre antiche capitali di mafia dell'isola: Villalba, Lercara, Salemi, Alcamo, Partinico. C'erano montagne che dividevano quelle case aggrappate agli spuntoni e c'erano percorsi che scavalcavano le montagne. Corleone era in mezzo. Quel pomeriggio, il 25 di settembre, la piazza era deserta. C'era solo una donna che stava incollando su alcune tavole disposte a semicerchio un centinaio di immagini in bianco e nero, una accanto all'altra e tutte con dei numeri scritti sotto. Date. In fondo alla piazza c'era anche un ragazzo smilzo che inseguiva fogli e cartoni portati via dal vento. La donna era Letizia Battaglia, il ragazzo Franco Zecchin. I fotografi di Palermo. Erano lì per far conoscere a Corleone i loro scatti di quell'infame 1979 siciliano. Una mostra sulla mafia in una piazza deserta. C'erano ritratti di Michele Reina, il segretario della Democrazia cristiana di Palermo ucciso a marzo. Ce n'erano di Mario Francese, il cronista giudiziario del Giornale di Sicilia abbattuto sotto casa a gennaio.C'erano foto di Boris Giuliano, il capo della squadra mobile, uno sceriffo buono, un vero segugio, il primo poliziotto italiano invitato ufficialmente alla scuola dell'Fbi, a Quantico, per 'studiare'. L'avevano assassinato al bar Lux, il 21 di luglio. Era stato un sicario solitario che si sussurrava fosse venuto proprio da Corleone per scivolargli alle spalle. Un nome che faceva paura: Leoluca Bagarella. Erano i Corleonesi che avevano cominciato a seminare il terrore a Palermo e in tutta la Sicilia. Era deserta la piazza di Corleone e non c'era anima viva nemmeno su corso Bentivegna, la via principale che finisce quasi davanti al municipio e dove un budello ripido si arrampica sulla collina. Case di tufo, una fontana in pietra, un vecchio portone di legno consumato dal tempo. «Lì dove vedi il portone c'era un salone da barba, il salone di Giovannino, come ragazzo di bottega aveva suo figlio: Vito», mi raccontò Gianni. Mi venne subito in mente Il Padrino di Mario Puzo. Come si chiamava il capo della «famiglia»? Vito. Don Vito Corleone. Quel ragazzo di bottega del salone da barba di Giovannino sarebbe diventato negli anni a seguire per meno di un mese sindaco di Palermo e per più di due decenni il padrone della città. Vito Ciancimino. Un altro corleonese. In quei mesi del 1979 i suoi amici di partito avevano cominciato a isolarlo, stavano provando a buttarlo fuori dalla politica e soprattutto dagli affari. Ma lui aveva le spalle coperte. Era nelle mani di Totò Riina e Bernardo Provenzano. Il vecchio giornalista dell'Ora, dove anch'io avevo appena iniziato a fare il cronista, mi stava facendo scoprire Corleone. Via Rua del Piano, la casa dei Riina. Via Scorsone, la casa dei Bagarella. Il bastione San Rocco, teatro delle 'ammazzatine' della fine degli anni Cinquanta, la grande guerra di mafia combattuta in paese, da una parte il vecchio patriarca Michele Navarra e dall'altra loro, sempre loro: un giovanissimo Totò Riina, l'inseparabile Bernardo Provenzano, Calogero Bagarella che era il fratello più grande di Leoluca. E poi Lucianeddu, Luciano Liggio che si atteggiava ad Al Capone, che con quel suo sigaro in bocca sembrava più gangster che mafioso, spavaldo, chiacchierone. E non così astuto come gli altri amici suoi, sempre dimessi, con addosso quei vestiti larghi e spiegazzati, sempre impregnati di quell'odore aspro, di campi arsi. Contadini. Li chiamavano 'peri incritati', piedi sporchi di terra. Li chiamavano anche 'i picciuttunazzi di Corleone'. Avevano già conquistato il loro paese. E volevano conquistare la Sicilia. Prima di tornare a Palermo, quel giorno Gianni mi portò su una cima dalla quale si domina Corleone. E' la Rocca dei Maschi. Sotto c'era una distesa di tetti. E intorno eucalipti, pale di fichi d'india, un ruscello. Ci sarei tornato quasi trent'anni dopo alla Rocca dei Maschi, l'11 aprile del 2006, nel giorno in cui da quelle parti catturarono il vecchio Bernardo. Il suo miserabile covo pieno di ricotte e cicoria era lassù, dietro una curva. Sono diversi i Corleonesi. E hanno una 'parlata' tutta loro. Per esempio, quando qualcuno dice in siciliano 'quello s'annaca', non vuol dire che sta camminando ondeggiando ma vuol dire che si sta vantando. L'annacamento in tutta la Sicilia occidentale era anche il movimento tipico dei mafiosi. A Corleone i mafiosi però non si 'annacano', i mafiosi di Corleone 'sciusciano'. Soffiano. Spostano aria stando fermi, senza alzare un dito. E' stato un vecchio di Corleone a confidarmi, tanto tempo dopo quella mia prima visita in paese, le differenze che ci sono fra Corleone e il resto del mondo mafioso. Era un poliziotto in pensione, quello che prese Totò Riina il 15 dicembre del '63, quando lui non era ancora un boss e non si era ancora buttato latitante per un quarto di secolo. Allora girava con una carta di identità intestata a un certo Giovanni Grande. Lo fermarono fuori dalla galleria Aldisio, nella parte alta del paese, dove una volta c'era la fabbrica del ghiaccio. Erano tutti appostati fuori dal tunnel. Il commissario Angelo Mangano, il brigadiere Biagio Melita e poi lui, il vecchio maresciallo di polizia che lo riconobbe: «Tu sei Riina, tu sei Salvatore Riina». Gli rispose il futuro capo dei capi della Cosa Nostra: «Un uomo che è un uomo almeno una volta nella vita la villeggiatura se la deve fare». La 'villeggiatura' per quei siciliani là è la prigione, il carcere. Il poliziotto in pensione mi spiegò che i mafiosi del suo paese appartenevano a un'altra razza. Ossessionati dalla segretezza. Paranoici. Sempre terrorizzati dai complotti, dalle trappole. Mi spiegò pure che solo la 'famiglia' di Corleone aveva uomini d'onore riservati. I Corleonesi conoscevano tutti gli altri uomini d'onore della Cosa Nostra ma gli altri non conoscevano tutti i Corleonesi. Una specie di loggia all'interno della mafia siciliana. Una Super Cupola per pochi. Fra quei pochi, ce n'era uno che chiamavano 'il professore'. E in effetti Leoluca Di Miceli, una quindicina di anni fa, insegnava in una scuola media del paese. Era di quelli segreti. Passeggiava su corso Bentivegna e tutti lo salutavano e lo ossequiavano. Era 'inteso', gli portavano rispetto. A Corleone in tanti avevano scommesso sul suo futuro da grande boss. Ma appena 'il professore' girava l'angolo si sentivano tanti bisbigli: «Peccato per il professore, ragiona più con la testa di sotto che con la testa di sopra». Gli piacevano troppo le femmine, a Di Miceli. Era la sua debolezza, agli occhi di certi paesani. Non sarebbe mai potuto diventare un capo. Per molti anni non è accaduto nulla in quella Corleone. Non doveva accadere niente. Nel cortile di casa dei Padrini non si sparava e non si spacciava, non si facevano saltare in aria negozi o cantieri. Era la legge imposta dai più forti. Corleone era avvolta nel silenzio, addormentata dai suoi signori. Poi però vennero gli anni che in paese si cominciò a parlare sempre di meno dei vecchi e sempre di più dei giovani. Dei figli. I figli maschi dei boss. Erano tornati tutti. Quelli di Totò Riina, appena fu catturato nel '93 sulla circonvallazione di Palermo. E quelli di Bernardo Provenzano, quando era ancora latitante. Giovanni e Salvo, Angelo e Francesco Paolo.I primi erano 'precisi' al padre, lo 'zio Totò'. Irruenti e prepotenti. Gli altri erano studenti modello, educati, sembravano allevati lontano dalla violenza. Giovanni Riina era già ergastolano a ventiquattro anni. Salvo era finito in galera subito dopo. Presto 'u picciriddu' - così chiamano in famiglia Salvo - uscirà dal carcere dopo cinque anni nei bracci speciali del 41 bis. A Corleone stanno preparando i festeggiamenti. Sembra che il tempo non passi mai, lì sotto la Rocca Busambra.
(Pubblicato il 15 ottobre 2007 www.dweb.repubblica.it)

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