domenica 7 ottobre 2007

Scicli 1951, delitto "siculo-pakistano"

C'è stato un tempo, nemmeno tanto lontano, in cui somigliavamo moltissimo agli odierni "altri". Convivevamo serenamente con tradizioni che oggi troviamo inaccettabili. Ne abbiamo trovato una piccola ma agghiacciante dimostrazione sfogliando, nell'emeroteca della Biblioteca nazionale, la raccolta del Giornale d'Italia del 1951. La ricerca riguardava tuttaltro argomento, ma quel titolo, benché di dimensioni modeste, si faceva notare, "cantava" come dicono i vecchi caporedattori. Anche se si trattava di un canto lugubre: "Impicca la figlia per ragioni d'onore". Occhiello: "Un atroce delitto". Luogo e data: "Palermo, 27 marzo 1951". Nell'articolo, una quarantina di righe non firmate, si raccontava una tragedia avvenuta il giorno precedente a Scicli. Protagonisti, tale Giuseppe Grimaldi, padre omicida, e la figlia quindicenne Maria Teresa la quale, "pur nella sua giovane età si era data alla prostituzione clandestina". Testo: "La giovane, senza alcun freno, scappata di casa, aveva generato la triste collera del padre il quale, ligio ai principi dell'onore, umiliato e offeso dalla condotta corrotta della figlia, incapace di correggerla, dopo aver tentato in tutti i modi di sottrarla al male, non ha saputo contenere la propria collera che è esplosa nel raccapricciante delitto". Il cadavere della ragazzina pendeva da un albero poco distante dalla casa di famiglia. Il padre omicida l'aveva esposto alla pubblica vista per rendere manifesta la propria responsabilità. Aveva agito, infatti, per ragioni che riteneva, se non condivise, almeno comprese dalla comunità. Non solo da quella locale. "Per ragioni d'onore", chiariva infatti il titolo (redatto a Roma, nella redazione centrale del quotidiano). E queste 'ragioni d'onorè non erano richiamate solo per chiarire al lettore l'atteggiamento psicologico dell'assassino. Erano condivise, fatte proprie dal giornalista e dal suo giornale, come risulta evidente dalla frase conclusiva dell'articolo: "L'omicida è mutilato di guerra, decorato di Medaglia d'argento al valore militare conseguita nella campagna di Spagna del 1937". Un uomo onorabile, dunque. Nessun accenno, né nell'articolo, né nel titolo, agli uomini che avevano approfittato della ragazzina. Né al momento in cui "si era data alla prostituzione clandestina". Anche se l'insistenza sui vani tentativi tentativi fatti dal padre per "sottrarla al male" faceva intuire che la "condotta corrotta" era cominciata da tempo. Quando, cioè, la ragazzina era una bambina. Oggi gli anonimi clienti della "sfrenata giovane" verrebbero definiti stupratori e pedofili. Nel nostro ieri venivano trattati, da un giornale nazionale, come l'anonima clientela di una giovane depravata. E la notizia del sacrificio umano compiuto dal padre - che oggi avrebbe riempito per giorni le prime pagine - occupava due colonne in cronaca. Eravamo così. E' quanto, all'inizio dell'estate, aveva ricordato Giuliano Amato durante un convegno su Islam e integrazione: "Nessun Dio autorizza un uomo a picchiare la donna. E' una tradizione siculo-pakistana che vuole far credere il contrario". La battuta suscitò reazioni indignate. Così Amato dovette tornare sull'argomento per esplicitare quanto gli ascoltatori sereni avevano già capito: "Da figlio di famiglia siciliana, da bambino, ho conosciuto una Sicilia che, insieme alle tante cose positive che amavo, era anche la tradizione cui ho fatto riferimento". Secondo la consolidata regola della politica-spettacolo - corroborata dal più recente dilagare del neoirrazionalismo declamatorio - la questione fu accantonata nello stesso istante in cui gli strepiti rischiavano di dover diventare un ragionamento. Ma una riflessione su come eravamo ieri - un istante fa per i tempi della storia - ci farebbe molto bene. Rileggiamo i nostri giornali degli anni Cinquanta e Sessanta. Ricordare come eravamo significa anche constatare come siamo cambiati, tutto sommato rapidamente, e dunque considerare la possibilità che anche gli altri, come noi, possano rapidamente cambiare. (glialtrinoi@repubblica.it)
(La Repubblica, 7 ottobre 2007)

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