Il Governatore della Sicilia: «Hanno riconosciuto che non sono colluso»
di FRANCESCO LA LICATA
INVIATO A PALERMO
Nell’aula bunker del carcere di Pagliarelli - palcoscenico usuale dei più controversi processi di mafia e politica, da Andreotti a Mannino, passando per Dell’Utri - da ore si parla solo di «articolo sette». Avvocati, cronisti, semplici curiosi e pubblico, invece, interessato: tutti discettano sulla non rilevante differenza fra una condanna per favoreggiamento e un’altra per lo stesso reato ma senza l’aggravante, appunto, dell’articolo sette. Già, perché l’arrivo della condanna l’hanno messo tutti nel conto, anche lo stesso governatore Totò Cuffaro che, infatti, nel riuscito intento di dettare le regole del gioco, all’inizio del processo aveva posto una condizione puntando tutto e il proprio futuro politico sull’«azzardo dell’articolo sette». «Mi dimetto da governatore - aveva scandito davanti ai taccuini dei cronisti - se verrò condannato per mafia». Premonizione? Fiducia nei propri avvocati che avevano lasciato intendere di contare molto sulla difficoltà oggettiva che l’accusa potesse provare l’esistenza di quella aggravante? Il fatto è, comunque, che il salvagente, seppure poco spendibile dal punto di vista dell’etica politica e anche della logica, sembra aver funzionato.Ed è per questo che alle 17,40, quando Vittorio Alcamo, presidente della terza sezione del Tribunale penale, pronuncia le paroline attese - «con esclusione dell’articolo sette» - il giovane «devoto» mescolato a fotografi e cronisti si lascia andare al gesto liberatorio dell’allenatore che festeggia il gol della propria squadra serrando i pugni. L’«esclusione dell’articolo sette» si trasforma qualche attimo dopo in una comunicazione rassicurante per altri «devoti» in attesa: «Picciotti, domani ce ne possiamo tornare a lavorare». Il dispaccio Ansa, il primo delle 17,43, che annuncia «Colpevole senza aggravante» funziona da detonatore per il solito rituale della «Santabarbara» delle dichiarazioni politiche di solidarietà. E’ una perfetta sincronia, un meccanismo collaudato che serve ad oscurare mediaticamente la realtà di quanto accade in favore di una fiction capace di stravolgere il senso delle cose.Così un imputato appena condannato a 5 anni e all’interdizione dai pubblici uffici, completamente assediato da microfoni e telecamere, poteva consegnare ai giornalisti il proprio sollievo per non aver ricevuto la contestazione dell’«articolo sette». «Nel mio cuore - scandiva Cuffaro - sapevo di essere a posto con la mia coscienza e di non aver mai avuto nulla a che fare con l’organizzazione mafiosa». Tutto mentre si cercava di capire perché, pur nell’assenza dell’«articolo sette», il Tribunale avesse inflitto una pena certamente non lieve. E mentre le prime interpretazioni del dispositivo consentivano di poter affermare che il Governatore non era stato condannato per aver favorito l’organizzazione Cosa Nostra ma alcuni esponenti di essa. Certo, è difficile da capire, ma le cose stanno proprio in questi termini: la sentenza, come commenta anche il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso, dimostra l’esistenza delle talpe e del favoreggiamento. «E’ rimasto provato il favoreggiamento da parte del presidente della Regione di singoli mafiosi come Giuseppe Guttadauro, Salvatore Aragona, Greco, Aiello e Miceli, senza che tutto ciò fosse ritenuto sufficiente per supportare l’accusa di aver favorito Cosa Nostra nel suo complesso».Ma Totò non sente, continua a martellare sulle regole del gioco che lui stesso aveva posto, anche tra qualche tiepidezza di una opposizione e di un’opinione pubblica che in Sicilia è proprio minoranza. E così Totò ringrazia «le centinaia di migliaia di siciliani che continuano ad avere fiducia nel loro presidente» e comunica che «domani sarò al mio posto ad incontrare la gente che ho sempre visto. Non sono stato condannato per mafia e dunque non mi dimetto». Ma fa di più, ai microfoni dei tg: «La mia origine, la mia cultura, le scuole che ho frequentato, la mia educazione familiare, tutto confligge con l’ipotesi di reato che la procura mi aveva contestato». Adesso, sarà la missione di Totò, «cercheremo di scrollarci il resto delle accuse».Le dichiarazioni meno amichevoli arrivano proprio da ex amici: «Non è certamente - dice Gianfranco Miccichè, presidente dell’Assemblea regionale - la buona notizia che la Sicilia attendeva e di cui aveva bisogno. Io personalmente speravo in un risultato di netta estraneità del presidente della Regione». E Stefania Prestigiacomo, anche lei FI: «Sollievo per Cuffaro, ma ora Forza Italia ponga l’esigenza di cambiamento e discontinuità». Non sono, queste, buone notizie per Totò.
La Stampa, 19 gennaio 2008
sabato 19 gennaio 2008
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