IL PERSONAGGIO. Ai fedelissimi aveva detto: se mi abbattono, andate avanti. Non si sgretola l'impero del governatore, con il suo esercito di colonnelli e assessori
di ATTILIO BOLZONI
Si fa il segno della croce quando il giudice di Palermo legge la sua condanna. E piange, piange per la felicità Totò Cuffaro, il governatore. Nonostante la severa sentenza. Nonostante la reclusione a cinque anni. Nonostante quel marchio di favoreggiatore che gli resterà addosso per sempre. In Sicilia c'è un confine che segna l'esistenza pubblica e privata dei suoi abitanti: mafia o non mafia, tutto il resto sembra contare niente. Spiate agli amici indagati. Tariffari sanitari concordati nei retrobottega. Talpe a servizio. Nell'Italia di oggi conta poco e Totò si sente comunque vincitore. Ed esulta per la sua condanna. "Resto governatore", sussurra asciugandosi le lacrime che gli intorbidano le lenti e poi scivolano lentamente sulle guance. "Resto", dice ancora quando il Tribunale lo assolve ma solo per quel reato: avere aiutato consapevolmente Cosa Nostra, tutta Cosa Nostra. "Resto", risponde a Silvio Berlusconi che gli telefona di sera e gli dice "che gli vuole bene". "Resto", ripete un'altra volta alzando gli occhi al cielo e rivolgendosi idealmente a quel milionetrecentomila di siciliani che l'hanno fatto diventare il padrone dell'isola. Quelli che sino alla fine hanno pregato per lui. Nelle chiese. Nelle loro case. Nei luoghi di lavoro. "Li abbraccio tutti e da domani mattina li incontrerò ancora tutti, uno per uno", fa sapere ai microfoni dei reporter fissando un po' stonato dall'emozione le telecamere e i faretti che lo abbagliano e le tante facce che lo circondano. "Li abbraccio tutti, i miei avvocati sono stati come fratelli, i miei amici come fratelli..", bisbiglia mentre gli amici-fratelli più vicini lo strattonano, lo baciano, coprono di tenerezze questo loro capopopolo che senza la condanna per mafia potrà ancora prenderli per mano e farli sopravvivere nel ventre di una Sicilia che sembra non cambiare mai. E' durata dieci o venti secondi la suspence sul destino dell'erede più puro dei democristiani siciliani, poi tutto è tornato come prima. E' l'ora del giudizio nella spettrale aula del carcere dei Pagliarelli, entra la Corte e lui, immobile, avvolto in un gessato sembra un fascio di nervi, livido in faccia, sembra sfatto, consumato dal tormento. Non doveva venire ai Pagliarelli, aveva annunciato che sarebbe rimasto nel suo studio di Villa Sperlinga ad attendere il verdetto. "Poi mio figlio Raffaele mi ha convinto a stare qui, per rispetto dei giudici", racconta negli interminabili minuti che precedono l'entrata in scena dei giudici. E' durata dieci o venti secondi la suspence e poi il processo che ha fatto a pezzi la procura di Palermo - proprio per le polemiche su come mandare a processo il governatore, quali reati contestargli - ha lasciato intatto il più straordinario e inattaccabile sistema di potere ideato in Sicilia negli ultimi quindici anni.
Condannato ma sempre Presidente. Condannato ma salvo nell'onore. Li ha favoriti due o tre mafiosi ma probabilmente non sapeva che erano mafiosi. Li ha sostenuti due o tre mafiosi ma voleva favorire solo due o tre amici. E' l'essenza della sentenza per l'imputato Cuffaro detto Totò o anche "vasa vasa" per quella sua passione a baciare tutti, è un articolo del codice (il 7, quello dell'aggravante nel favoreggiamento mafioso) che per lui fa la differenza fra rimanere e andarsene, fra considerarsi "degno" o "indegno" di guidare il governo della Sicilia. Erano due giorni che Palermo si era fermata su quel maledetto articolo 7 del codice di procedura penale, che aspettava tutta con fiato sospeso. "Ancora niente?", chiedeva verso mezzogiorno il libraio dei vecchi e ricercati volumi di mafia fuori dalla sua bottega fra il quartiere del Capo e le scalinate del Tribunale. "Ancora niente?", chiedeva l'oste della trattoria lì accanto. Ancora niente?, si chiedevano da mercoledì mattina migliaia si palermitani e decine di migliaia di siciliani quando i giudici erano entrati in camera di consiglio. Favoreggiamento semplice. Favoreggiamento con l'articolo 7. Favoreggiamento per tutta Cosa Nostra o solo per un singolo mafioso. C'è o manca la prova del suo collegamento con quei "galantuomini"? Una città intera, un'isola intera in una trepida vigilia di paura. Era l'isola del tesoro che poteva venire travolta da uno tsunami giudiziario, dai contraccolpi della condanna al governatore acclamato con quel milione trecentomila voti e con almeno trecentomila siciliani che da lui ogni giorno di ogni mese dell'anno traggono un vantaggio diretto o indiretto, di status o di prebende, di incarichi o di denaro. Ma cosa avrebbero fatto mai da domani quei fedelissimi, quella "ristretta" cerchia di colonnelli e capitani e marescialli che Totò negli ultimi sei anni e sei mesi - da quando è diventato per la prima volta governatore nel 2001 - ha piazzato dappertutto? I suoi 5 deputati nazionali, i suoi 3 senatori, i suoi 18 parlamentari regionali, gli 80 sindaci eletti in Sicilia e i 97 assessori e i 288 consiglieri comunali che uno per uno lui ha scelto per rappresentare in suo nome e per suo conto gli abitanti dell'isola da Trapani e dalle isole Egadi fino a Capo Passero? Ma cosa avrebbero fatto mai da domani quei 300 mila siciliani che sono intimamente (ed economicamente) legati a Totò? Manager. Consulenti e burocrati. Precari, avvocati, medici, presidenti di casse rurali e istituti zootecnici, di consorzi di bonifica e cliniche private, di agenzie rifiuti e di trasporti, di casse edili, di case del vino e dell'olivo, del mandarino e del cappero? Agricoltura. Sanità. Trasporti. Programmazione. Turismo. Agenzia per l'impiego. Tutto nelle sue mani. Le lacrime di Totò sono state le lacrime di tre quarti della Sicilia nei giorni prima. Se condannavano lui per avere favorito la mafia, li condannavano tutti. I trecentomila dell'"indotto" della politica di Cuffaro, quel milionetrecentomila di elettori che lo venerano come lui venera le sue Madonne appese sulle pareti di casa. Piaccia o non piaccia, giudici o non giudici, questa è ancora la Sicilia del 2008. L'altro ieri nella sua casa di Villa Sperlinga era andato a trovarlo anche il suo "vecchio" Padrino, l'uomo che prima nelle terre agrigentine e poi a Palermo l'aveva allevato politicamente, il suo maestro, Calogero Lillo Mannino, un grande della Democrazia cristiana siciliana. Gli aveva portato consigli e conforto. Tre giorni prima era venuto ad abbracciarlo a Palermo anche Casini. Grande festa fra gli stucchi e gli specchi di Villa Igiea, il popolo di Totò Cuffaro delle grandi occasioni, l'Udc siciliana che ha mostrato tutti suoi muscoli e tutto il suo sangue. E tutti i suoi voti - è al 18 per cento in Sicilia, tre volte di più che nel resto d'Italia - "all'amico Pier Ferdinando". Poi Totò ha chiesto a un altro amico - uno dei tanti dirigenti della Regione - di accompagnarlo nelle sue tenute, fra le sue vigne. A metà strada fra Caltanissetta ed Enna, la Sicilia più interna e forse anche quella più simile a lui, al suo carattere, al suo essere in un certo modo siciliano di altri tempi. E' stato in campagna che ha confessato ai suoi, ai più intimi: "Nel caso che io mi debba dimettere, portate avanti quello che ho iniziato io". Non ce n'è stato bisogno. E forse lui, Totò, in cuor suo già lo sapeva. Lo sapeva che anche da "favoreggiatore", era destinato a fare ancora il governatore della Sicilia.
(La Repubblica, 19 gennaio 2008)
sabato 19 gennaio 2008
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