La notte tra il 15 e il 16 settembre 1866 Palermo fu occupata. Andrea Camilleri, nella “Biografia del figlio cambiato”, descrive così l’evento: “…una tinta mattinata del settembre 1866, i nobili, i benestanti, i borgisi, i commercianti all’ingrosso e al minuto, i signori tanto di coppola quanto di cappello, le guarnigioni e i loro comandanti, gli impiegati di ufficio, sottoffici e ufficiuzzi governativi che dopo l’unità avevano invaso la Sicilia pejo che le cavallette, vennero arrisbigliati di colpo e malamente da uno spaventoso tirribillio di vociate, sparatine, rumorate di carri, nitriti di vestie, passi di corsa, invocazioni di aiuto. Tre o quattromila viddani, contadini delle campagne vicino a Palermo, armati e comandati per gran parte da ex capisquadra dell’impresa garibaldina, stavano assalendo la città. In un vidiri e svidiri, Palermo capitolò, quasi senza resistenza…”. La rivolta fu iniziata, dunque, da circa 4000 contadini provenienti dalle campagne intorno a Palermo. In poco tempo la rivolta assunse dimensioni imponenti. Fonti governative parlano di 35-40 mila uomini in armi, che misero in pericolo l’unità d’Italia che faticosamente era stata da poco conquistata. La caratteristica particolare della rivolta, che ne rappresentò la forza ma, nello stesso tempo, la debolezza, fu la presenza tra gli organizzatori di esponenti di diverso orientamento politico: nostalgici dei borboni, clericali, repubblicani, autonomisti, indipendentisti ed ex garibaldini. Ciò che li univa era la profonda delusione verso le promesse mancate del risorgimento e una violenta ostilità verso i “piemontesi“. La giunta rivoluzionaria che si insediò dopo che Palermo era stata “liberata”dai rivoltosi infatti aveva un presidente borbonico, il principe di Linguaglossa ed un segretario mazziniano, Francesco Bonafede. La rivolta, che durò sette giorni e mezzo, fu stroncata dopo l’arrivo della flotta sabauda con circa 4000 soldati agli ordini del generale Cadorna. Palermo fu prima bombardata dal mare e poi conquistata, barricata dopo barricata. La repressione, che seguì la rivolta, fu sanguinosa. Perché dopo solo sei anni dallo sbarco di Garibaldi, una parte consistente del paese si ribellava ai governanti del nuovo stato unitario?
La storiografia ufficiale liquidò tale rivolta come una manifestazione d’insofferenza criminale, organizzata da soggetti legati alla mafia insieme a nostalgici del vecchio regime borbonico. Tali analisi superficiali cercavano di nascondere i veri motivi della rivolta e cioè il fallimento della politica sabauda, che vedeva nel meridione e nella Sicilia non una parte d’Italia da unificare al resto del paese ma una colonia da annettere. Dopo il plebiscito si iniziò una sistematica spoliazione dei beni del vecchio regno. Il regno borbonico al momento della sua caduta aveva un bilancio in attivo, infatti, il banco delle Due Sicilie cioè la Banca nazionale del regno borbonico, aveva nelle sue riserve auree 443 milioni di lire-oro che corrispondevano al 66% di tutto il patrimonio dei vari stati italiani messi insieme. Tale tesoro fu incamerato nelle casse del nuovo stato unitario che si trovò ad avere, al momento della nascita, un capitale liquido nazionale di 668 milioni oro. Questi soldi servirono a ripianare il pesante deficit di bilancio del regno sabaudo e a rilanciare l’economia del nord Italia. La politica liberista portata avanti dal nuovo governo unitario favorì le industrie del nord a scapito di quelle del sud. La maggiore pressione fiscale rese l’economia meridionale sempre più povera e sempre meno competitiva. Con la politica del libero scambio venne disincentivata tutta la produzione industriale meridionale, formata da piccole e medie aziende, a vantaggio delle grosse imprese del nord Italia. Gli unici settori che ebbero dei momentanei vantaggi da tale situazione furono quelli agricoli e quelli dell’estrazione mineraria che puntavano molto sull’esportazione. Ma nel 1887 quando il governo italiano cambiò strategia, da liberista a protezionista, anche questi settori entrarono in crisi. Dopo aver assunto la dittatura dell’isola Garibaldi aveva promesso di abolire la tassa sul macinato e i canoni per le terre demaniali e di volere procedere ad una riforma del latifondo. Dopo l’unità d’Italia tali promesse, non solo non furono mantenute, ma fu inasprito il carico fiscale, fu introdotto il servizio militare obbligatorio e inoltre iniziò l’esproprio dei beni e dei terreni appartenenti alla chiesa e ai vari ordini religiosi, che finirono spesso nelle mani degli stessi latifondisti. Denis Mack Smith scrive: “Lo scioglimento dei monasteri non causò solo gravi privazioni agli stessi religiosi. Ma anche una disoccupazione per i laici che fu di 15.000 unità nella sola Palermo; e il governo non aveva modo di sostituire le attività benefiche che erano state così importanti per i poveri della città”. A queste condizioni si capisce come la rabbia della gente fu strumentalizzata da chi riteneva possibile un ritorno al passato. Il governo di destra invece di portare avanti una politica di riforme pensò di risolvere il problema con la repressione e con le cannonate. Non si sa quante furono le vittime di questa politica ottusa, ma i risultati non furono quelli sperati; la Sicilia continuò ad essere una terra “infida e ribelle”. Vista l’impossibilità di imporre l’ordine, lo Stato cominciò a trattare con chi poteva garantire tale ordine” e cioè con la borghesia latifondista. Si stipulò una specie di “papello” ante litteram. E così accanto alle forze dell’ordine ufficiali nel controllo del territorio si “affiancarono” i campieri vero braccio armato della borghesia terriera e latifondista. Per molti storici quello fu il vero inizio della “mafia”. Il resto è storia recente.
Rosa Faragi
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