“Bisogna trovare il coraggio di dire che esiste questo problema”. Lo afferma con forza Alberto Spampinato, consigliere nazionale della Federazione nazionale stampa italiana. Il problema è uno dei più gravi che affligge questo paese, ma che molto spesso viene dimenticato. La libertà di stampa, in special modo al Sud, è gravemente minacciata. La mafia, la criminalità organizzata, i poteri forti hanno buon gioco nel far tacere uomini che molto spesso restano soli. I cronisti di mafia, quelli che parlano di notizie scomode, si trovano a vivere e lavorare in solitudine, dimenticati da istituzioni e mezzi di informazione, isolati dai propri colleghi. Minacciati e costretti a subire violenze fisiche e psicologiche.Uomini che scelgono di dire no alla autocensura, che scelgono di dire no ad un’informazione “mutilata ed approvata”. Giornalisti pagati tre o quattro euro a pezzo.Quello dell’osservatorio sui cronisti sotto scorta è un progetto bello, importante, e coraggioso, ma difficile.“Vogliamo avviare un cammino comune per cominciare a cercare una soluzione concreta a questa situazione, insieme ai colleghi più timorosi e tenendo conto di tutte le preoccupazioni che sono serie e fondate, perché parlare di queste cose da lontano è facile, ma essere direttamente impegnati in questa lotta e poi tornare a casa la sera di notte è un’altra cosa. E lo vogliamo fare, questo cammino, proprio col passo lento dei cronisti più prudenti, più sensati, tutti insieme, tutta la categoria, e ovviamente con i cronisti già minacciati, che hanno dato prova di coraggio. E’ la scommessa di Alberto Spampinato.
Da dove nasce l’idea dell’osservatorio?
L’osservatorio è un’idea che io ho lanciato un anno fa, che man mano ha trovato ascolto e che adesso ha ottenuto l’adesione della Federazione nazionale della stampa, dell’Ordine nazionale dei giornalisti e dell’Unione nazionale cronisti. Inoltre, anche se non è tra i promotori, abbiamo ricevuto dei segnali di attenzione anche dalla Federazione degli editori (Fieg).Negli ultimi anni ho ricostruito la vicenda di mio fratello, Giovanni Spampinato, giornalista de L’ora, corrispondente da Ragusa, ucciso nel 1972. Una di quelle vicende dimenticate, sepolte. Giovanni era uno di quei giornalisti che non solo hanno pagato con la vita il fatto di interpretare il mestiere di fare informazione nel senso più alto, più nobile e che non solo sono stati dimenticati, ma sono stati bistrattati sia in vita che in morte. Solo l’anno scorso la memoria di Giovanni Spampinato ha avuto un alto riconoscimento, il premio Saint Vincent, ma nei primi anni dopo la morte e durante le fasi processuali lui è stato sempre presentato come un ficcanaso, uno che si ostinava a scrivere cose che giustamente gli altri non scrivevano. Le cose che lui scriveva erano notizie, notizie rilevanti, di interesse generale, quelle cose per cui al processo di appello il Procuratore generale disse: “se i giornalisti non fanno queste cose tanto vale che chiudiamo i giornali”. Questa è l’origine di questo progetto. La giuria del premio Saint Vincent ha dichiarato che la vicenda di Giovanni Spampinato è emblematica delle vicende di tutti i giornalisti che sono stati uccisi per mafia e terrorismo. È emblematica per come avviene la vicenda, un giornalista trova una notizia, la scrive, gli altri al contrario non la scrivono e lo isolano. Poi dopo la morte, finché è possibile, viene negato il valore del lavoro svolto dal cronista. Col tempo, per fortuna, ci si accorge del merito di questi uomini.Le vicende di oggi, la storia di Lirio Abbate per esempio, quella di Roberto Saviano, di Rosaria Capacchione, riproducono molti degli aspetti che hanno caratterizzato la vicenda di mio fratello. Mi colpiscono, in particolare, dei meccanismi che sempre si ripetono: abbiamo giornalisti minacciati, altri sotto scorta di cui si sa e molti altri di cui non si sa nulla, perché non hanno la forza di denunciare la situazione di rischio, di pericolo, di censura in cui si trovano, e in questa situazione i giornalisti non riescono neppure a parlarne, a darne notizia. Ho individuato una forma di tabù. Il problema è che nelle regioni dove la mafia ha un potere forte, quello che succede è che si ha un’informazione limitata perché c’è un confine che è segnato da mafiosi, prepotenti, coloro che devono difendere degli interessi costituiti e che, specialmente sul terreno locale, influenzano la proprietà dei giornali, le direzioni, tutta l’informazione, i rapporti sociali e la politica. Oltre questo confine ci sono delle notizie di grande importanza ed interesse, che influenzerebbero la politica così come le scelte dei cittadini, che però non possono essere diffuse, chi osa farlo entra in un campo minato. Noi, intendo come categoria di giornalisti, non possiamo continuare, di fronte a questo stillicidio di episodi gravi, a dire solo parole di solidarietà. Dobbiamo fare qualcosa di più. Le parole dunque non bastano più, ed è quello che ha ribadito lo stesso presidente dell’ordine dei giornalisti, Lorenzo Del Boca.
Cosa si propone di fare l’osservatorio, quali saranno i suoi compiti?
Non sappiamo ancora come organizzeremo l’osservatorio. Alla ripresa dalla pausa estiva faremo le prime riunioni organizzative, ma l’idea generale è quella di creare un organismo che possa produrre un rapporto annuale che fornisca una descrizione accurata, completa della vicende delle vittime di mafia perché fanno informazione sulla mafia, attraverso una seria raccolta dei dati. Non esiste, infatti, un archivio, una banca dati di fatti e avvenimenti riconducibili alla mafia e all’acqua in cui nuota. Ancora oggi non esiste veniamo a conoscenza soltanto dei fatti più eclatanti che riescono ad imporsi all’attenzione dei media.pensiamo ad u rapporto che risponda anche ad una attenzione internazionale che si è creata attorno alla situazione italiana, che vista dall’estero, forse, impressiona ancor di più. L’altro compito sarà quello di creare, attraverso l’osservatorio, un organismo che sia attivo, vivo, che intervenga tutte le volte che c’è un episodio e che prenda contatto con le persone che sono in pericolo, che sono minacciate, e si rechi sul posto per rendersi conto delle circostanze. E che tenga sotto osservazione anche tutti quegli altri aspetti che, ho notato, si ripetono costantemente.
Quali sono?
Per esempio il deterioramento dei rapporti tra il giornalista minacciato ed i suoi colleghi di categoria. C’è una dinamica che innesca l’avvelenamento dei rapporti, anche fra persone per bene. Più alla lunga l’obiettivo sarà quello, analizzati tutti questi dati, di fare delle proposte per evitare che al giornalista si presentino queste due alternative: scrivere una notizia scomoda e rischiare danneggiamenti, minacce o la vita oppure tenerla nel cassetto e vivere senza conseguenze negative. Ma non può essere questa l’alternativa. Il giornalista non può sempre vedersela da solo perchè fa parte di un sistema dell’informazione.Qui viene fuori un altro aspetto che mi porta a paragonare questa realtà a quella del pizzo. La censura su notizie che infastidiscono criminali, boss mafiosi, personaggi potenti può essere paragonato al pizzo che viene imposto ad industriali e commercianti. È, come l’estorsione, una forma di violenta imposizione. Finora tutto ciò è stato subito in silenzio.
Ma chi è che paga il pizzo dell’autocensura?
Ci sono tanti cronisti, onesti, persone per bene, che si trovano in situazioni di pericolo serio a cui non si possono sottrarre se non, nell’immediato, pagando questa imposizione. Ma ci sono molti altri casi in cui la cosa non è così chiara. Non può essere solo la paura, il timore di una futura ritorsione a giustificare che un cronista tenga una notizia nel cassetto. Questo confine non è chiaro. La Confindustria siciliana ha posto una condizione per cui chi paga il pizzo non può essere iscritto. Ma se un imprenditore è seriamente minacciato, ha un coltello alla gola, certo di questo si deve tener conto. Altro è accettare di pagare per il quieto vivere o perché si ottengono dei vantaggi. Qui entra in gioco un aspetto che è etico e culturale al contempo.
E la politica?
Noi abbiamo impostato il progetto innanzitutto sul terreno professionale e culturale senza andare ad invadere direttamente il terreno della politica, ma è chiaro che un progetto del genere richieda delle risposte anche da parte della politica. Non è vero che non si può fare nulla per i cronisti di mafia. Ad esempio per i cronisti che si occupavano di terrorismo furono create più ampie garanzie, forme più articolate di protezione.
I giornalisti possono contribuire?
Sono proprio loro che possono costituire la scorta più importante ai cronisti di mafia. Si tratterebbe di una scorta mediatica. Il giornalista che si occupa di fatti di mafia non solo non deve essere lasciato solo, ma deve sempre essere affiancato e da altri colleghi e da dirigenti del suo giornale, ma nelle situazioni più gravi tutta la categoria dei giornalisti si deve riconoscere nel cronista minacciato e deve trovare delle forme di solidarietà che siano attive.
In che modo?
Condividendo la firma, spersonalizzare certe notizie pubblicandole senza firma, affiancando più di una firma, usando pseudonimi, aggiungendo alle cronache commenti ed editoriali delle firme più autorevoli. Per queste cose dovrebbero esserci dei protocolli, delle procedure standardizzate.
giovedì 31 luglio 2008
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