E La Licata che, insieme al procuratore nazionale antimafia, Piero Grasso, ha recentemente scritto un libro per spiegare “la mafia prima e dopo Provenzano” (Pizzini, veleni e cicoria, Milano, aprile 2007), non si è sottratto a nessuna domanda, a nessuna curiosità dei ragazzi. «Anzi – ha detto – sono contento di essere qui con voi e dare il mio contributo per capire la mafia e come essa sia potuta attecchire in terra di Sicilia». E intanto ha sfato il mito di un Provenzano “buono” contrapposto ad un Riina “cattivo”. Infatti, per tanti anni Provenzano è stato “u tratturi”, un killer feroce, capace di massacrare con il calcio di una pistola il mafioso Michele Cavataio, nella strage di viale Lazio del 1969 a Palermo. Poi ha condiviso con Riina la “guerra di mafia” palermitana degli anni ’80 e la stagione delle stragi. Fino a Falcone e Borsellino, a Milano, Firenze e Roma.
«Il cambio di strategia, la scelta della “sommersione” e della “mafia invisibile”, dopo l’arresto di Riina, sono stati dettati dalla necessità di superare la stretta repressiva dello Stato». In fondo è la solita, vecchia strategia del “calati juncu, ca passa la china” (“piegati giunco, fino a quando non passa la piena”), usata dalla mafia già ai tempi della repressione del prefetto Cesare Mori (1926) o dopo la strage di Ciaculli (1963). Binnu “u raggiunieri” è solo l’altra faccia del boss Provenzano, la faccia di chi ha voluto “traghettare” Cosa Nostra nella stagione del dopo-stragi, riallacciando un filo di dialogo con la politica e con le istituzioni.
E adesso, dopo l’11 aprile 2006, dopo la cattura dell’ultimo dei “corleonesi” nel covo-masseria di “Montagna dei cavalli”? «I “Corleonesi” non sono più al vertice di Cosa Nostra – ha detto La Licata – e difficilmente vi ritorneranno. Adesso il centro gravitazionale della mafia è tornato nuovamente a Palermo. E non credo che vi sarà una guerra di mafia, perché i “Corleonesi” non hanno più un esercito con cui combatterla». Meno ottimista di lui, giovedì pomeriggio, è stato il giudice Antonio Ingroia, secondo cui «i “corleonesi”, sebbene non siano più nella “Cupola”, adesso tornata in città, continuano ad essere molto potenti e la cupola stessa non li controlla». Ad accrescere le preoccupazioni degli inquirenti, contribuisce - tra l’altro – la paventata prossima scarcerazione di Salvuccio Riina, secondogenito di “don” Totò. Sia La Licata che Ingroia, comunque, hanno valorizzato molto lo strumento della confisca dei beni a Cosa Nostra e la loro assegnazione a cooperative di giovani. «Un campo di lavoro sui terreni confiscati alla mafia – ha sottolineato Ingroia - significa completare il lavoro della magistratura, perchè sarebbe inutile che le procure lavorassero per fare le confische, se poi queste terre rimanessero incolte». E La Licata: «non finiremo mai di essere grati a Pio La Torre, che questo strumento ha pensato ed inserito in un disegno di legge, approvato nel 1982 dal parlamento».
Dino Paternostro
25 agosto 2007
«Il cambio di strategia, la scelta della “sommersione” e della “mafia invisibile”, dopo l’arresto di Riina, sono stati dettati dalla necessità di superare la stretta repressiva dello Stato». In fondo è la solita, vecchia strategia del “calati juncu, ca passa la china” (“piegati giunco, fino a quando non passa la piena”), usata dalla mafia già ai tempi della repressione del prefetto Cesare Mori (1926) o dopo la strage di Ciaculli (1963). Binnu “u raggiunieri” è solo l’altra faccia del boss Provenzano, la faccia di chi ha voluto “traghettare” Cosa Nostra nella stagione del dopo-stragi, riallacciando un filo di dialogo con la politica e con le istituzioni.
E adesso, dopo l’11 aprile 2006, dopo la cattura dell’ultimo dei “corleonesi” nel covo-masseria di “Montagna dei cavalli”? «I “Corleonesi” non sono più al vertice di Cosa Nostra – ha detto La Licata – e difficilmente vi ritorneranno. Adesso il centro gravitazionale della mafia è tornato nuovamente a Palermo. E non credo che vi sarà una guerra di mafia, perché i “Corleonesi” non hanno più un esercito con cui combatterla». Meno ottimista di lui, giovedì pomeriggio, è stato il giudice Antonio Ingroia, secondo cui «i “corleonesi”, sebbene non siano più nella “Cupola”, adesso tornata in città, continuano ad essere molto potenti e la cupola stessa non li controlla». Ad accrescere le preoccupazioni degli inquirenti, contribuisce - tra l’altro – la paventata prossima scarcerazione di Salvuccio Riina, secondogenito di “don” Totò. Sia La Licata che Ingroia, comunque, hanno valorizzato molto lo strumento della confisca dei beni a Cosa Nostra e la loro assegnazione a cooperative di giovani. «Un campo di lavoro sui terreni confiscati alla mafia – ha sottolineato Ingroia - significa completare il lavoro della magistratura, perchè sarebbe inutile che le procure lavorassero per fare le confische, se poi queste terre rimanessero incolte». E La Licata: «non finiremo mai di essere grati a Pio La Torre, che questo strumento ha pensato ed inserito in un disegno di legge, approvato nel 1982 dal parlamento».
Dino Paternostro
25 agosto 2007
FOTO. Dall'alto: un momento del dibattito; il giornalista Francesco La Licata; Provenzano tra i poliziotti che l'hanno arrestato.
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