venerdì 4 dicembre 2009

Il killer revisionista che studia teologia

di FRANCESCO LA LICATA
Spatuzza il revisionista. Se tutto ciò che racconta dovesse risultare confortato da prove, la storia dello stragismo mafioso dovrà essere riscritta. Anche la storia contenuta nelle sentenze penali già passate in giudicato. Anche le inchieste condotte immediatamente dopo Capaci e via D’Amelio, quando le investigazioni presero il verso sbagliato, indicato dal pentito fallace Vincenzo Scarantino, oggi smentito – con tanto di riscontri – proprio da Gaspare Spatuzza.
Ecco, il primo risultato concreto dell’avvento del nuovo collaboratore riguarda proprio via D’Amelio: il processo dovrà rifarsi di sana pianta. Su questo nessuno nutre alcun dubbio. Spatuzza ha offerto buoni appigli per dimostrare la sua tesi e cioè che per quella strage ci sono colpevoli in libertà e innocenti in carcere. Anzi, dice Spatuzza: «Proprio questo peso sulla coscienza mi ha convinto a compiere il passo definitivo verso la collaborazione». Aveva cominciato con la strage Borsellino, «Asparino» il superkiller. L’assassino di fiducia dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, gli irriducibili del quartiere Brancaccio legati al destino dei corleonesi, Riina, Brusca e Bagarella.
Ma oggi non è più il semplice pentito delle stragi, Spatuzza. Di rivelazione in rivelazione, di rimorso in rimorso – come la racconta lui – si ritrova ad indossare gli abiti, non comodissimi, di parafulmine mediatico di una vicenda che lo vede contrapposto addirittura al Presidente del Consiglio e al suo amico più stretto, quel senatore Marcello Dell’Utri oggi imputato in Corte d’Appello dopo una condanna in primo grado a nove anni per concorso esterno in associazione mafiosa.
Già, l’ex imbianchino di Brancaccio, l’assassino di don Pino Puglisi e del piccolo Giuseppe Di Matteo si appresta ad assumere lo scomodo ruolo di «accusatore di potenti», in ciò preso in considerazione dai magistrati ma bistrattato e delegittimato dalla parte politica vicina a Berlusconi e Dell’Utri. Bugiardo e «pilotato» per alcuni, degno quantomeno di accertamenti per altri. Con Spatuzza, che pure non sembra possedere il carisma e il fascino di un Buscetta, si sta ripetendo uno schema abbastanza collaudato.
Lo stesso cui abbiamo assistito quando Tommaso Buscetta, prima osannato per le sue rivelazioni sulla mafia militare di Totò Riina e soci, cadde improvvisamente in «disgrazia», anche mediatica, una volta aperto il libro di mafia e politica. Persino le parole del nuovo pentito sono simili a quelle con cui Buscetta spiegava i suoi timori verso il tema dei «salotti buoni». «Non ho parlato subito di Berlusconi – spiega Spatuzza ai giudici che gli chiedono conto del ritardo dei suoi ricordi – perché volevo prima accreditarmi come attendibile e serio». Anche Buscetta era cosciente che per varcare la fatidica soglia non bastava più il raccontino sulla guerra di mafia.
E così anche Gaspare «u tignusu» (senza capelli), si appresta ad entrare nell’occhio del ciclone. Lo fa scegliendo una protezione certamente non coriacea e vestendo i panni dell’ortodossia del pentimento: il desiderio di pagare le colpe attraverso un percorso di redenzione. Spatuzza oggi studia teologia, ha instaurato consolidati rapporti di confidenza (sin dal 2005) con vari cappellani delle carceri, dice di non aver mai rimosso lo sguardo dolce di don Pino Puglisi che sorrideva ai suoi assassini.
Anche lui dice di essere rimasto deluso dalla mafia. In che senso? «Asparino» la racconta con un aneddoto: «Quando ero a Roma volevo ammazzare il pentito Totuccio Contorno perché lo ritenevo l’assassino di mio fratello. Ne parlavo coi Graviano, anche perché pensavo che la mia vendetta era in linea con la legge di Cosa nostra. Ma loro pensavano solo alle stragi e mi commissionarono anche l’attentato allo Stadio Olimpico che per fortuna fallì. Io non capivo perché dovessimo continuare ad uccidere gente innocente e invece non potevo esercitare la mia vendetta». Così «Asparino», divenuto reggente del mandamento per «mancanza di meglio», «ammorbidito» dalla fede in Dio, si è deciso a parlare.
La Stampa, 4.12.09

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