di Lirio Abbate
Dall'incontro con i boss a Milano nel 1974 al tesoro di Bontate. Dal ruolo di Mangano agli accordi garantiti da Dell'Utri. Sono diversi i pentiti che accusano Berlusconi di rapporti con la mafia
Non dovevamo essere così fondamentalisti, dice qualcuno. Ci voleva diplomazia verso Casini. E soprattutto dovevamo rivolgerci al Paese con messaggi più rigorosi. Noi eravamo quelli della sobrietà, della serietà, del lavoro, e il primo messaggio in bottiglia che abbiamo lanciato nel mare magnum dell'opinione pubblica, anche ai nostri elettori, è stato quello del numero dei posti di governo, ministri e sottosegretari. La carica dei 102, o dei 104, non sappiamo nemmeno quanti sono. Adesso riconosciamo che anche questa inflazione numerica era un effetto della coalizione "larga", dall'Udeur a Rifondazione, da Lamberto Dini a Franco Turigliatto (scusate, qualcuno mi spiega chi li ha scelti, Turigliatto e gli altri dissidenti?). E nel momento della verità, o della disperazione, dovremmo anche dire che in effetti noi non avevamo un programma: avevamo il famoso libro di 281 pagine, che aveva certificato gli accordi tra forze politiche poco compatibili. E allora, diciamolo: abbiamo governato avendo dentro l'Unione un virus mortale. Una specie di impossibilità esistenziale, ontologica, genetica a stare insieme. I rifondaroli, i teodem come la Binetti, i superlaici, gli atei come il matematico impertinente Odifreddi, i nemici della Nato e delle basi militari, i contrari all'Afghanistan, i liberisti, gli statalisti, eccetera eccetera eccetera. Vedi come sono finiti i Dico. Guarda i casini con il papa e la Cei. Adesso tutta l'attenzione è concentrata sui fratelli Graviano, per vedere se parleranno e cosa diranno nel processo d'appello a Marcello Dell'Utri. Tutti si chiedono se confermeranno o meno le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza sull'intesa tra Cosa nostra e Silvio Berlusconi nel biennio feroce delle stragi. Ma prima di Spatuzza ci sono stati diversi collaboratori di giustizia che hanno messo a verbale accuse contro il premier. E che con le loro rivelazioni scrivono una versione diversa dell'irresistibile ascesa del Cavaliere, dove l'ombra delle famiglie mafiose si proietta su ogni tappa fondamentale del suo successo.A partire dall'autunno 1974, quando i boss avevano indossato gli abiti della festa per incontrare a Milano l'industriale che gli chiedeva protezione e "garanzie". Un colloquio negli uffici della Edilnord, in via Foro Bonaparte, con i veri padrini della mafia palermitana: Stefano Bontate, Mimmo Teresi, Tanino Cinà e Francesco Di Carlo. Il Gotha della criminalità organizzata dell'epoca da quel momento entrava nella vita privata e professionale del futuro presidente del Consiglio. Bontate amava il lusso, si circondava di oggetti preziosi, faceva parte di una loggia massonica e all'epoca era già miliardario grazie ai traffici di droga. A svelare quell'incontro è Di Carlo, oggi collaboratore di giustizia, il quale spiega che l'appuntamento venne organizzato da Dell'Utri e fu lui a riceverli: "Ci fece accomodare in una stanza e dopo circa 15 minuti arrivò questo signore che ci venne presentato come il dottore Berlusconi. Mi ricordo che questo dottore Berlusconi, certo non era quello di adesso senza capelli, aveva i capelli, era un castano chiaro, aveva un maglioncino a girocollo, una camicia sotto e un pantalone jeans sportivo". Bontate venne assassinato a Palermo nel 1981 e questo delitto aprì la guerra di mafia degli anni Ottanta, vinta dai corleonesi di Riina. Di quel gruppo Di Carlo è l'unico ancora in vita. Ed è il primo mafioso che racconta di aver avuto un contatto diretto con il premier. Un testimone oculare, le cui dichiarazioni sono già state riscontrate e ritenute attendibili anche dai giudici che hanno condannato in primo grado Dell'Utri a nove anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Il collaboratore sottolinea che Berlusconi voleva "garanzie" a tutela dell'incolumità, perché in quel periodo a Milano i mafiosi organizzavano sequestri di persona. "Dottore, lei da questo momento può smettere di preoccuparsi. Garantisco io", dice Bontate secondo Di Carlo: "Lei ha già al suo fianco Marcello Dell'Utri, e io le manderò qualcuno che le eviterà qualsiasi problema con quei siciliani". Berlusconi: "Non so come sdebitarmi, resto a sua disposizione per qualsiasi cosa". Bontate: "Anche noi siamo a sua disposizione. Se c'è un problema basta che ne parli con Dell'Utri".
Secondo Di Carlo i rapporti fra Dell'Utri e Bontate si fanno più stretti. Il pentito riferisce ai pm di una cena nella villa di Palermo del capomafia alla quale sarebbe stato presente anche il braccio destro di Berlusconi. È il 1979 e in quella occasione Bontate, prendendo da parte Di Carlo, gli propone di partecipare ad un investimento complessivo di 20 miliardi di lire. "Mi diceva che si trattava di una cosa pulita, che avrebbe avuto i suoi risultati a lungo termine". Ma Di Carlo rifiutò la proposta e l'investimento venne fatto da Bontate a Milano. Di Carlo ne è sicuro perché dopo la morte del boss in molti cercarono di avere indietro il denaro che gli avevano affidato. Ma non sapevano dove cercare. Anche l'ex trafficante di droga napoletano Pietro Cozzolino, collaboratore di giustizia, racconta di 70 miliardi che Bontate avrebbe "affidato a Vittorio Mangano e a Marcello Dell'Utri". Ricorda Mutolo: "Mentre eravamo in carcere assieme, Mangano mi disse che alcune somme provenienti da Calò, Riina, Ugo Martello e Pippo Bono, erano state investite a Milano da parte di Dell'Utri".Il caso dei miliardi scomparsi è un enigma sepolto assieme a Bontate. Dirà Tommaso Buscetta a Falcone: "I segreti di Sindona? Una piuma al confronto di quelli di Bontate". Se Cozzolino, Mutolo e Di Carlo non mentono, non si può neppure escludere che con la morte del boss siano rimasti in giro capitali ormai senza più padroni. Dirà il pentito Gioacchino Pennino: "L'enorme patrimonio accumulato da Bontate e dal suo gruppo è ipotizzabile che sia rimasto nelle mani di chi lo aveva gestito e perciò, secondo quanto ho appreso dall'avvocato Gaetano Zarcone, nelle mani di Berlusconi e dei fratelli Dell'Utri". Dall'imprenditoria alla politica, si passa ai prima anni Novanta. Berlusconi vuole scendere in politica e Dell'Utri mette in moto la macchina aziendale di Publitalia 80 per far nascere Forza Italia. Il Cavaliere sembra essere già pronto a fare i primi passi quando Cosa nostra, spinta da mandanti esterni, uccide Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Paolo Borsellino e gli agenti di scorta. Ai pm di Caltanissetta, titolari delle indagini sugli attentati del 1992, il pentito Salvatore Cancemi dichiara: "Con le stragi Cosa nostra doveva levare di sella Andreotti e Martelli. Dovevano metterci Berlusconi e Dell'Utri". E spiega: "Nel '90-91 Riina mi disse di ordinare a Mangano di non occuparsi più di Berlusconi e Dell'Utri: li aveva lui nelle mani. Riina diceva: 'Queste persone le dobbiamo garantire, sono il nostro futuro'". Ai pm il pentito spiega che "Riina aveva il chiodo fisso dei pentiti, tentava di modificare la legge attraverso persone importanti, io sapevo che aveva contatti con Berlusconi e Dell'Utri". E poi aggiunge: "Riina non aveva un cervello così fino per mettere una bomba agli Uffizi". Il Cavaliere e il suo braccio destro vengono indagati dalla Procura di Firenze nell'inchiesta sui mandanti delle stragi del 1993 di Roma, Milano e Firenze. Stessa accusa arriverà anche da Caltanissetta per la morte di Falcone e Borsellino. In entrambi i casi viene tutto archiviato. A Palermo nel 1996 la Procura chiedeva ed otteneva dal gip l'archiviazione, sempre per Berlusconi e Dell'Utri accusati di riciclaggio. Con loro era coinvolto anche Vito Ciancimino. Il figlio dell'ex sindaco mafioso di Palermo, Massimo Ciancimino, sostiene da anni di conservare un assegno che Berlusconi avrebbe consegnato al padre negli anni Ottanta. E dalle mani di Ciancimino passa anche una lettera che i corleonesi hanno indirizzato a Berlusconi dopo il suo ingresso in politica e che i magistrati hanno ritrovato fra le carte dell'ex sindaco. I boss chiedono di avere a disposizione una rete tv, e in caso contrario minacciano di morte Piersilvio.L'ultimo capitolo è nelle mani di Gaspare Spatuzza. E deve essere ancora completato. Il mafioso rivela ai pm di aver incontrato durante la stagione terroristica del 1993 Giuseppe Graviano, il boss stragista palermitano. In un faccia a faccia al bar Doney di Roma, gli avrebbe detto: "Abbiamo il Paese nelle mani. Abbiamo fatto un accordo con Berlusconi e con il nostro compaesano Dell'Utri. Sono persone serie non come quei quattro crasti dei socialisti". Ora la parola passa però ai fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, sepolti dagli ergastoli ma con la voglia di riemergere dal carcere, che saranno sentiti l'11 dicembre nel processo Dell'Utri.
L'Espresso, 10.12.2009
giovedì 10 dicembre 2009
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