di Walter Veltroni
Ho conosciuto Barack Obama nell'aprile del 2005. Da pochi mesi gli elettori dell'Illinois l'avevano scelto come loro senatore, e per questo il nostro incontro avvenne a Washington, nel suo nuovo studio. Dalla conversazione che avemmo, dalle sue parole, dalla curiosità e dalla grande voglia di ascoltare che lo animavano, ricordo di aver pensato che l'opinione che su di lui mi stava accompagnando da qualche tempo era più che giustificata. Quell'opinione risaliva ad un giorno preciso, alla sera del 27 luglio dell'anno prima, quando ad Obama toccò il compito di tenere, alla Convention di Boston, il keynote speech, il discorso dei discorsi, quello incaricato di disegnare la cornice ideale e di indicare il cammino dei democratici nel tempo a venire. Fu un discorso memorabile, nel quale Obama parlò delle sue origini, della sua storia, del padre keniano e della madre originaria del Kansas, della loro separazione e dei suoi sogni di ragazzo. Sogni resi possibili, disse, solo in un paese come l'America, con le sue contraddizioni e con le opportunità uniche che sa concedere a chi ha voglia, talento e spirito di sacrificio.Fu in quell'occasione che Obama invitò il popolo americano a "sperare di fronte alle difficoltà, sperare di fronte all'incertezza", e fu da quel momento che cominciò davvero a farsi conoscere, dimostrando quella capacità di condivisione, di empatia con la vita vera delle persone in carne e ossa (put the people first, il principio di mettere le persone al primo posto della migliore tradizione democratica americana) che ha poi mantenuto in ogni momento del suo successivo cammino politico. Una capacità che gli ha permesso di guadagnare un consenso enorme, e che gli ha consentito di respingere efficacemente le accuse di "élitismo" che tradizionalmente (e in diversi casi non a torto) i repubblicani rivolgono ai democratici. Obama è stato un candidato alle presidenziali ed è un uomo politico "popolare", calato in realtà che già in quel discorso dimostrava di conoscere perfettamente: le difficoltà dell'operaio che perde il posto perché il suo impianto si trasferisce altrove (e adesso perché chiude per via della crisi finanziaria figlia dell'ideologia iper-liberista dell'amministrazione Bush), l'angoscia del padre senza lavoro che non sa come pagare le costose medicine della figlia malata perché non ha l'assistenza sanitaria, la frustrazione della ragazza che è preparata, motivata, ha tutti i titoli per andare avanti, ma a mancarle sono i soldi per pagare la retta del college.Ricordo che quando tenni nei teatri italiani le prime lezioni su "Che cos'è la politica", due anni fa, tra le immagini che si accompagnavano alle parole scelsi proprio quelle di Obama a Boston, ed esattamente il passaggio in cui raccontava di quell'operaio, di quel padre, di quella ragazza. Molti, probabilmente quasi tutti, in sala non sapevano ancora chi fosse quel giovane uomo di colore che parlando toccava il cuore e si rivolgeva alla mente in quel modo così speciale. Ma l'applauso, spento lo schermo e riaccese le luci, arrivava sempre immediato, forte, convinto. Solo dopo io mi ritrovavo a spiegare chi era Barack Obama, e ad ogni tappa di quel ciclo di interventi, col passare del tempo, mi accorgevo che ce n'era meno bisogno, perché nel frattempo lo si cominciava a conoscere e poi arrivò anche l'annuncio della sua candidatura, in una mattina di febbraio del 2007 di fronte all'Old State Capitol di Springfield, lì dove Lincoln pronunciò, centocinquanta anni fa, il suo celebre discorso sulla necessità di unire l'America divisa dalla schiavitù.Una scelta simbolica, quella di Obama. Per quello che lui stesso rappresenta per i neri americani, per il lungo cammino iniziato con la marcia di Washington di trentacinque anni fa e con il sogno del reverendo Martin Luther King. E insieme perché molta della forza, oltre alla capacità di essere in sintonia con le domande, le ansie e i desideri del popolo, ad Obama è venuta in questi mesi proprio dal messaggio di unità rivolto al suo paese: la speranza di un'altra America, di una società più giusta, aperta e integrata, di un mercato libero e regolato, di un paese unito al suo interno, senza divisioni ideologiche e di fede fra stati rossi e stati blu, e per questo unito al resto del mondo, capace di cercare la via del confronto e della cooperazione internazionale, del dialogo e della pace. E' di questa speranza, che diventa visione e si traduce in concrete scelte politiche, che hanno bisogno l'America e il mondo intero.
L'Unità, 05.11.08
mercoledì 5 novembre 2008
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento