di Lirio Abbate
Il terremoto lo ha provocato un anno fa Ivan Lo Bello, presidente di Confindustria Sicilia, quando ha detto ai suoi colleghi che la mafia doveva restare fuori dagli affari degli industriali siciliani: fuori dall`associazione chi si piega e paga il pizzo. Una svolta storica che non aveva però fatto i conti con la triste realtà siciliana. A un anno di distanza dall`istituzione del codice etico, molti imprenditori fanno fatica a sottrarsi alla mafia. Così, alla richiesta di Lo Bello di cacciar via da Confindustria chi è colluso o versa somme di denaro nelle casse dei boss, i presidenti territoriali siciliani rispondono col boicottaggio. E si girano dall`altra parte.
Emerge, dunque, che a Palermo e Catania nessun imprenditore iscritto a Confindustria è stato espulso finora dall`associazione per non aver denunciato le richieste di pizzo, così come previsto dal codice etico. Tra i dieci casi (a Caltanissetta e Agrigento) citati nei giorni scorsi dal leader degli industriali siciliani, ci sarebbero imprenditori che si sono allontanati spontaneamente, non condividendo la linea della dirigenza, e associati cacciati per varie altre ragioni, come il fatto di non aver collaborato con la giustizia e di essere coinvolti in procedimenti giudiziari di mafia.
Secondo lo statuto dell`organizzazione degli industriali, spetta alle sedi territoriali avviare azioni disciplinari nei confronti di associati che omettono di denunciare il racket. Lo Bello, in questo caso, non ha il potere per cacciarli via. A Palermo e a Catania le inchieste hanno dimostrato che i mafiosi impongono il pizzo su appalti e forniture. In alcuni casi, addirittura, gli imprenditori sono risultati prestanome di boss mafiosi. Fonti confindustriali sostengono tuttavia che gli imprenditori coinvolti nelle operazioni antiracket a Palermo hanno ammesso di essersi piegati al racket. Ora stanno collaborando e nessuno di loro avrebbe contestato i risultati delle indagini. Per questo motivo non ci sarebbero state espulsioni.
Dopo la svolta di Confindustria, alcuni imprenditori hanno trovato quindi il coraggio di denunciare e si sono presentati spontaneamente alle forze dell`ordine, altri invece continuano ad avere paura, se è vero che, come emerge da diverse indagini, l`80 per cento degli imprenditori paga il pizzo. L`iniziativa del presidente Lo Bello sembra dunque non essere stata pienamente messa in pratica all`interno di Confindustria, anche se è servita a creare un movimento di rivalsa nei confronti della mafia. Ad Agrigento e a Caltanissetta gli imprenditori hanno cominciato a denunciare le estorsioni (40 dal primo settembre 2007 a oggi), facendo arrestare i mafiosi. Anche a Palermo un piccolo gruppo di industriali sta collaborando, grazie all`aiuto delle associazìonì antiracket come Libero Futuro e Addiopizzo.
A Catania, territorio appetibile per gli interessi mafiosi e con centinaia di iscritti in Confindustria, di espulsioni per il pizzo nemmeno l`ombra. Eppure il racket è forte nella città etnea: se non paghi ti fanno saltare in aria cantieri e mezzi edili. E` accaduto un anno fa all`imprenditore Andrea Vecchio, che è anche presidente dell`Ance, l`associazione dei costruttori. Lui si è ribellato alle richieste estorsive, e adesso vive una situazione paradossale: Confindustria vorrebbe «cacciare» via lui dall`associazione, e non chi è colluso o fa il prestanome dei boss. A Vecchio, sotto scorta perché la mafia minaccia di vendicàrsi, viene contestato di aver rilasciato dichiarazioni sul conto di Confindustria Catania secondo cui qui esiste uno «strapotere subito dagli industriali», con un chiaro riferimento ai vertici dell`associazione etnea. Per questo, nei suoi confronti, è stato avviato un procedimento davanti ai probiviri. Uno contro tutti. O tutti contro uno?
da la Stampa
lunedì 8 settembre 2008
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