di Giorgio Bocca
Sono stato additato come nemico della patria per aver scritto che tra Stato e criminalità organizzata si sono create zone di tolleranza se non di coesistenza. Ma ho solo cercato di capire cosa stava accadendo in Italia
Mi è capitato di recente di incorrere nelle ire e nei sarcasmi della maggioranza di destra al potere per aver scritto che fra lo Stato e la criminalità organizzata delle mafie si erano create, di fatto, zone di tolleranza se non di coesistenza. E la stampa della maggioranza scrisse che ero un nemico della patria o vittima del sonno della ragione, cioè uno che delirava. Il più educato, Fabrizio Cicchitto, disse che: "Da saggista che era, Bocca si è trasformato in romanziere, inventa collusioni fra la mafia e lo Stato". Ma romanziere non lo sono mai stato, ho solo cercato di capire che cosa stesse accadendo in questa strana società che è l'italiana. Cominciai nell'anno Settanta con un'inchiesta sulla mafia dei giardini, cioè sul rifornimento idrico della campagna palermitana controllata dalla mafia. Andai per prima cosa alla caserma dei carabinieri e incontrai l'allora maggiore Carlo Alberto Dalla Chiesa, uomo serio, concreto ma non privo d'ironia. Mi disse: "Ma davvero vuole sapere cosa è la mafia dei giardini? Ma crede davvero che ci sia la mafia?". Lui sapeva benissimo che la mafia c'era, e prevedeva persino che dalla mafia sarebbe stato ucciso, voleva solo mettermi in guardia dalla grande menzogna del potere in Italia che da sempre nasconde i suoi rapporti con la criminalità organizzata dicendo che non esistono. La stessa cosa, in linguaggio mafioso, la diceva in quei giorni il boss Gerlando Alberti al giudice che lo interrogava: "La mafia? Ma cosa è questa mafia di cui lei mi parla, una marca di formaggio?". Quando Totò Riina, il boss dei boss, venne arrestato, mi chiesi, come tutti in Italia, come mai avesse potuto abitare con la famiglia e dirigere l'Onorata Società stando in una villetta di Palermo. E quando seppi che sua moglie aveva partorito due volte nel maggiore ospedale di Palermo chiesi sul giornale come mai il primario non sapesse chi era, dato che a Palermo e a Corleone lo sapevano tutti. Per risposta mi arrivò una telefonata di un medico dell'ospedale con minaccia di morte. Mi chiesi anche in quei tempi lontani perché mai la riserva di caccia di Michele Greco, grande boss mafioso a Bagheria, fosse frequentata da poliziotti e funzionari dello Stato, e poi in quasi mezzo secolo di giornalismo le molte altre domande senza risposta, non solo su Andreotti amico e protettore di Salvo Lima, un amico degli amici, ma anche sui socialisti e liberali e persino i radicali che avevano cercato e gradito i voti della mafia sino a recenti elezioni regionali, dove in 61 circoscrizioni su 61 hanno vinto gli amici dei mafiosi, come il 30 per cento degli eletti nel consiglio regionale. Insomma, cercai di capire, di raccontare che la mafia non era una brutta favola inventata dai cattivi nordisti, ma un'organizzazione con un giro d'affari ogni anno di 100 mila miliardi di vecchie lire, oggi più che triplicato se si aggiungono i buoni affari della 'ndrangheta e della camorra. Senza aggiungere che oggi non è più necessario, come facevo io con la mia Topolino Fiat, scendere da Milano a Palermo, Calabria compresa quando non c'era ancora l'autostrada, basta andare in un sobborgo milanese, nord o sud Milano non fa differenza, o nei ristoranti con specialità di pesce per trovare i capi e i picciotti che minacciano, ricattano e uccidono. E speriamo che nessuno riproponga una bella inchiesta parlamentare sulla mafia. Ce n'è già stata una e Leonardo Sciascia che era un intenditore scrisse: "La mafia si è permessa una commissione parlamentare d'inchiesta", per dire che era destinata al fallimento in un paese dove la mafia è complice se non padrona.
(L'Espresso, 05 novembre 2009)
domenica 8 novembre 2009
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