domenica 29 agosto 2010

La borghesia mafiosa di Reggio Calabria

di ALBERTO CISTERNA*
A Reggio Calabria si sta consumando uno scontro dal quale potrebbero emergere indicazioni vincolanti per chi voglia veramente porsi il problema di cancellare le mafie. Cosa sta accadendo nella città dello Stretto? Uso immagini suggerite dal procuratore Pietro Grasso e da altri osservatori. Succede che un potere «altro» dalla ‘ndrangheta, e quindi «oltre» la mafia, utilizza per i propri obiettivi le cosche senza escludere, quando serve, la componente militare. Da più parti si sostiene che dietro l’ennesimo attentato, il più grave, contro il procuratore generale Di Landro, si dipanino le strategie di una ‘ndrangheta fortemente saldata a zone oscure della società calabrese e che la scelta di colpire a fondo il capo della magistratura inquirente sia il frutto di un convergente interesse delle cosche e di non meglio identificati poteri occulti. Che in Calabria massoni deviati, frammenti dei servizi segreti, altri interessi illegali abbiano agito in profondità, anche in collegamento con la ‘ndrangheta, non è seriamente discutibile; ma lo scenario reggino sembra evocare altri protagonisti.
Gruppi d’interesse che avvertono come una minaccia l’intenzione degli apparati giudiziari reggini di affondare il bisturi nei gangli di quella che viene ormai definita borghesia mafiosa. Si teme che quest’azione provochi il ribaltamento del sistema di potere che ha assicurato prestigio sociale usurpato, ricchezze poco trasparenti, relazioni equivoche con le istituzioni. Reggio, da questo punto di vista, si offre come una sorta di laboratorio a cielo aperto in cui lo Stato ha la possibilità di meglio comprendere e affinare le strategie che possono spazzare anche nel resto del Paese il groviglio tra mafia ed élite compromesse, ovunque in crescita come metastasi. Si può spezzare l’area in cui vengono stretti gli accordi e individuare le reciproche convenienze tra ‘ndrangheta e borghesia mafiosa da intendere non come marginali poteri oscuri, ma come una sottosocietà di professionisti, imprenditori, politici, uomini delle istituzioni che in una collettività virtuosa non avrebbero trovato spazio. Quest’area di libero scambio tra mafia e parte della società è la vera calamità che il Paese deve affrontare a Reggio e un po’ ovunque in Italia. Bisogna saperlo: non sarà facile.
La cecità colpevole, direbbero gli anglosassoni, di componenti delle classi dirigenti reggine è uno dei fattori che alimenta l’arroganza della ‘ndrangheta contro Di Landro e altri magistrati che operano in Calabria. Un giudice che vive in città da anni stimato e benvoluto, si trova improvvisamente al centro di una progressione criminale mai vista in quella terra. Quasi che si intenda punire in modo esemplare chiunque minaccia, con il solo ossequio ai propri doveri, il patto silenzioso con la ‘ndrangheta. Si badi bene, è un patto che non comporta necessariamente un diretto coinvolgimento della borghesia mafiosa nelle trame criminali intrecciate attorno a droga, sangue, tangenti. Si cammina in una terra di nessuno fatta di nebbie, miraggi e allucinazioni. Un territorio senza confini nel quale ciascuno ha inserito ciò che ha voluto: massoneria, servizi segreti, terzi livelli e grandi vecchi, non volendo riconoscere che in quell’acquitrino, a guardare bene, c’era soprattutto l’immagine di una parte non trascurabile dell’Italia dei cinici e dei mascalzoni.
* Sostituto procuratore Antimafia

venerdì 27 agosto 2010

Reggio, nuovo attacco della 'ndrangheta: bomba contro la casa del Procuratore

Il pg di Reggio Calabria Di Landro
di GIUSEPPE BALDESSARRO

L'ordigno nella notte, in una zona centrale e particolarmente controllata: nessun ferito. Il magistrato era in casa con la moglie. Il procuratore Antimafia Grasso: "Prosegue la sfida alle istituzioni". Centinaia a sit-in di solidarietà sotto casa del giudice
REGGIO CALABRIA - Questa volta il segnale è stato chiarissimo. Non ci sono dubbi sul fatto che nel mirino ci sia il Procuratore Generale di Reggio Calabria, Salvatore Di Landro. Stanotte, pochi minuti prima delle 2, una bomba è stata fatta esplodere davanti al portone del palazzo in cui vive il magistrato reggino. Un boato che ha divelto il portone d'ingresso, devastato l'atrio e procurato danni ad alcune abitazioni vicine. Solo danni materiali, per fortuna nessun ferito. Di Landro abita tra l'altro in pieno centro, a Parco Caserta, zona residenziale della città dello Stretto. Un dedalo di viuzze molto frequentate a tutte le ore, anche in agosto.
"Contro di me, a partire dall'attentato a gennaio contro la Procura generale, c'é stata una tensione malevola e delittuosa crescente, da parte della criminalità organizzata, che si è personalizzata", ha dichiarato Di Landro, facendo riferimento alla bomba fatta esplodere la scorsa notte contro la sua abitazione. "Vogliono farmela pagare, evidentemente, per il fatto che ho sempre ed in ogni circostanza fatto il mio dovere di magistrato".
"Questo ennesimo grave episodio si inserisce in una lunga scia di intimidazioni e minacce, iniziata lo scorso tre gennaio, nei confronti della magistratura calabrese tutta", ha detto il Procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso. "E' in corso una sfida alle istituzioni culminata", ha ricordato, "nel ritrovamento di una macchina con armi durante la visita a Reggio Calabria del presidente della Repubblica".
Secondo il presidente del senato, Renato Schifani, si è trattato di un "attacco al cuore dello Stato. Un gesto di gravissima violenza criminale che deve essere condannato duramente dalle istituzioni e da tutti gli italiani che credono e si battono per la legalità". E solidarietà ha espresso anche il presidente della Camera, Gianfranco Fini, che ha condannato "con fermezza questo gravissimo attentato", esprimento al procuratore generale "la più sincera solidarietà e il più vivo ringraziamento per il Suo impegno, a nome mio personale e della Camera dei deputati". Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ha manifestato i suoi sentimenti di solidarietà e la vicinanza del paese ribadendo "il convinto apprezzamento già espresso per l'impegno e la professionalità della magistratura reggina, insieme alle forze dell'ordine, nel dare sviluppi e ottenere risultati senza precedenti nell'azione di contrasto alla criminalità organizzata facente capo all'ndrangheta. Tale azione si è intensificata anche aggredendo i patrimoni illeciti e scoprendo le pericolose ramificazioni e infiltrazioni dell'ndrangheta nella economia legale in Italia e fuori d'Italia".
Anche alcune centinaia di persone hanno voluto manifestare la loro solidarietà a Di Landro con un sit-in davanti all'abitazione del magistrato, organizzato dall'associazione "Libera". All'iniziativa hanno partecipato esponenti di varie associazioni e in rappresentanza della Chiesa il vicario generale dell'arcidiocesi di Reggio Calabria e Bova monsignor Giovanni Iachino. Esposti alcuni cartelli con le scritte: "La libertà non ha pizzo", o quello di Legambiente, "No allo smog mafioso" e poi "La bomba al dottor Di Landro ha colpito anche me". E' stato lo stesso procuratore a scendere sotto casa per ringraziare personalmente i partecipanti all'iniziativa.
La bomba, confezionata molto probabilmente con del tritolo, è stata collocata sulla soglia del portone d'ingresso allo stabile di sei piani, che si affaccia direttamente sulla strada. Per arrivarvi non è quindi necessario superare alcuna barriera. Un ordigno innescato probabilmente da una miccia a lenta combustione, che ha sradicato il portone, provocato lesioni all'atrio e mandato fuori uso l'ascensore. Il Procuratore Generale della Corte d'Appello, al momento dell'esplosione era in casa con la moglie. I primi rilievi sono stati fatti dalla polizia scientifica e dagli artificieri della polizia, che hanno raccolto sul posto alcuni frammenti della bomba e messo in sicurezza l'area bonificando - per il timore di altri ordigni - l'intera strada. Poche decine di minuti dopo l'allarme a casa Di Landro c'erano il procuratore aggiunto Nicola Gratteri, il magistrato di turno Danilo Riva e il questore di Reggio Calabria Carmelo Casabona con Diego Trotta, uno dei dirigenti della squadra mobile.
Quello di ieri è solo l'ultimo degli episodi che si sono registrati ai danni di magistrati reggini. Dalla giorno della bomba di fronte al portone della Procura Generale 1 (il 2 gennaio scorso) ad oggi l'elenco delle toghe minacciate è particolarmente lungo. Ad inizio anno, una bombola di gas innescata con del tritolo fece tremare l'ingresso degli uffici della Procura generale in via Cimino, a poche decine di metri dal Tribunale nel quale è ospitata la Corte d'Appello di Reggio. Nei mesi successivi sono state intercettate una serie di lettere di minacce con proiettili inviate ai pm Giuseppe Lombardo (due volte) e Antonio Di Bernardo della Dda e una missiva intimidatoria fu indirizzata anche al Procuratore della Repubblica Giuseppe Pignatone. Fino all'auto carica di esplosivo trovata a genneaio sul percorso previsto per la visita di solidarietà del presidente della Repubblica Napolitano.
Ci sono poi almeno due sabotaggi ad auto di giudici. Tra giugno e luglio infatti sono state svitati i bulloni delle ruote delle auto di servizio dello stesso Di Landro e del sostituto procuratore generale Adriana Fimiani. Nel caso del Procuratore Generale la ruota si staccò in un momento in cui Di Landro non era a bordo e il suo autista stava andando a velocità ridotta per delle commissioni in città. Un altro episodio inquietante ha visto protagonista ai primi di agosto il Procuratore di Palmi Giuseppe Creazzo. Qualcuno ha infatti lasciato una cartuccia caricata a pallettoni sul parabrezza della sua auto di servizio parcheggiata all'interno del garage nel quale sono custodite tutte le macchine dei magistrati reggini, nel seminterrato del Tribunale. Messaggi mafiosi, con i quali la 'ndrangheta continua a dimostrare che è in grado di colpire chiunque e in qualsiasi posto.
Intanto, il Comitato per l'ordine e la sicurezza pubblica della provincia di Reggio Calabria, riunitosi questa mattina in prefettura, ha deciso di potenziare la scorta al procuratore generale Di Landro. Nel corso del vertice, presieduto dal prefetto di Reggio Calabria Luigi Varratta, al quale hanno patecipato i vertici delle forze dell'ordine e il presidente della Regione Calabria Giuseppe Scopelliti, è stato anche deciso di attuare la vigilanza fissa dell'abitazione dello stesso magistrato.
La Repubblica, 26 agosto 2010

Quelle ombre su Renato Schifani...

di Lirio Abbate
Il Senato della Repubblica
Dice il pentito Spatuzza che il presidente del Senato, in passato legale di boss, avrebbe fatto da tramite tra i Graviano e Berlusconi. I pm cercano riscontri
Ci sono ombre inquietanti che si dipanano nel passato del presidente del Senato Renato Schifani. Eda questa oscurità sembrano spuntare di tanto in tanto spettri che avvolgono la vita personale e professionale degli ultimi trent'anni dell'avvocato e senatore eletto nel collegio siciliano di Altofonte- Corleone sotto l'insegna di Silvio Berlusconi. Su questo passato ancora poco chiaro il leader dell'Italia dei Valori, Antonio Di Pietro, è stato molto preciso: «Sappiamo che, secondo molti testimoni, l'avvocato Schifani aveva rapporti con ambienti pericolosi. E il suo ruolo andava ben oltre la semplice assistenza legale. Sono ombre che non lasciano tranquilli». Sgomberare le ombre misteriose e parecchio aggressive che circolano attorno a questo avvocato che ha difeso davanti ai giudici il patrimonio accumulato dai boss mafiosi e che oggi, quando si parla di Pdl difende sempre tutto e tutti, è un ruolo che spetta alla magistratura. Proprio per questo i pm di Palermo vogliono fare luce su questa zona grigia a partire dal contributo che potrebbe offrire il dichiarante Gaspare Spatuzza.
Ma non è il solo chiamato dalla procura a parlare di Schifani, vi sono anche altri testimoni in lista d'attesa. L'ex boss del quartiere Brancaccio lo scorso ottobre si è aperto con i magistrati di Firenze ed ha sostenuto, durante un interrogatorio, che l'attuale seconda carica dello Stato nei primi anni Novanta avrebbe avuto un ruolo nel mettere in contatto i mafiosi stragisti Giuseppe e Filippo Graviano con Marcello Dell'Utri e Silvio Berlusconi. La procura fiorentina non ha approfondito il tema perché non è di sua competenza, ed ha inviato a Palermo il verbale top secret. Solo in parte è stato depositato nel processo d'appello a Dell'Utri, ma il fulcro sul quale potrebbero ruotare nuovi scenari giudiziari e politici è ancora coperto dalla massima segretezza. Il boss Giuseppe Graviano di cui parla il dichiarante è lo stesso che nel 1993 subito dopo avere organizzato le stragi di Roma, Milano e Firenze, avrebbe detto a Spatuzza «ci siamo messi il Paese nelle mani» grazie a Berlusconi e Dell'Utri che stavano per entrare in politica.
Ciò che afferma Spatuzza sul ruolo di Schifani nel mettere in contatto i Graviano con Dell'Utri e Berlusconi è solo farina del suo sacco o è stata davvero una confidenza del boss stragista? A sciogliere il nodo saranno i pm siciliani che a settembre interrogheranno Spatuzza per chiarire questo collegamento e valutare eventuali sviluppi giudiziari.
Su Schifani pende infatti un'archiviazione - decisa dal gip di Palermo nel 2002 - per concorso esterno in associazione mafiosa: un procedimento che può essere riaperto solo con l'arrivo di nuovi elementi d'accusa.
L'inchiesta archiviata nei confronti del presidente del Senato, all'epoca avvocato civilista, riguardava vicende diverse e prendeva le mosse dalle dichiarazioni del pentito Salvatore Lanzalaco su un appalto che sarebbe stato pilotato dalla mafia a Palermo.
Erano i primi anni Novanta e in quel periodo i lavori pubblici venivano decisi attorno a un tavolo al quale sedevano i boss, gli imprenditori e i politici. Lo studio di progettazione di Lanzalaco preparava gli elaborati per le gare, i politici mettevano a disposizione i finanziamenti, le imprese si accordavano, la mafia eseguiva i subappalti. Inoltre clan e uomini di partito incassavano anche una tangente.
Tutt'altra storia rispetto alle trattative condotte dalle cosche nel 1993 per trovare nuovi referenti politici. Ma pur sempre indagini relative all'ipotesi di un sostegno esterno a Cosa nostra e che potrebbero venire quindi riaperte in base alle nuove dichiarazioni di Spatuzza.
Il procuratore Francesco Messineo ha deciso che a occuparsi della questione saranno gli aggiunti Antonio Ingroia e Ignazio De Francisci e i sostituti Nino Di Matteo e Paolo Guido, che hanno già individuato una lista di persone da sentire: oltre a Spatuzza, il collaboratore di giustizia Francesco Campanella, il giovane politico di Villabate, alle porte di Palermo, amico dell'ex ministro Mastella, che fece arrivare a Bernardo Provenzano la falsa carta d'identità per il ricovero a Marsiglia.
Fonte: L'Espresso

mercoledì 25 agosto 2010

Ma la bottega della legalità, aperta a Corleone, nell’immobile confiscato a Provenzano, potrà reggersi in piedi da sola, dopo il finanziamento?

Il prefetto Nicola Izzo, vice capo vicario della polizia e responsabile del “Pon”, a proposito dei 100 milioni di finanziamento per progetti da realizzare sui beni confiscati, ha detto: «Devono essere dei progetti in linea con le direttive dell’Unione Europea, quindi devono essere sostenibili, cioè devono avere una funzione sociale e reggersi in piedi da soli, anche dopo il finanziamento, un po’ come è successo con la bottega che è stata aperta nell’immobile confiscato a Bernardo Provenzano e consegnata dal ministro dell’Interno Maroni lo scorso Ferragosto a Corleone». Al riguardo, ci permettiamo di fare una domanda al prefetto Izzo (al sindaco di Corleone e al Consorzio “Sviluppo e Legalità”): siamo sicuri che la bottega della legalità, aperta a Corleone, nell’immobile confiscato a Provenzano, potrà reggersi in piedi da sola, “dopo il finanziamento”? Facendo un po’ di conti, solo per tenere aperta la bottega è necessaria la presenza di uno-due unità di personale al giorno, con i costi facilmente immaginabili. Chi pagherà questi costi? Le tre cooperative che potranno vendere i loro prodotti? Ma in questo cortile assolutamente fuori mano potranno mai vendere una tale quantità di prodotti da pareggiare (almeno) i costi di gestione? Nessuno ci crede. Nemmeno le tre coop sociali. Saremmo curiosi di leggere il business-plain che è stato allegato al progetto, il nome dell’insigne economista che l’ha elaborato e quello dell'ente committente… (d.p.)

Le minacce a Lumia e Liarda: solidarietà da Cracolici e Faraone

“Esprimo la mia piena solidarietà a Beppe Lumia e Vincenzo Liarda, destinatari di un’intimidazione che, è bene sottolinearlo, avrà l’unico effetto di rafforzare l’impegno antimafia”. Lo dice Antonello Cracolici, presidente del gruppo del Partito Democratico all’Assemblea regionale siciliana, a proposito della lettera di minaccia nei confronti del senatore del PD Lumia e del sindacalista della Cgil Liarda, recapitata stamani alla Camera del Lavoro di Petralia Sottana (Pa). “Questo ennesimo episodio – aggiunge Cracolici – non potrà che rilanciare l’impegno per restituire il feudo Verbumcaudo alla pubblica fruizione e per impedire che il bene possa tornare nelle mani sbagliate”. “Ancora una volta un tentativo di impedire a Beppe Lumia e Vincenzo Liarda di portare avanti la loro azione di contrasto alla mafia e di affermazione della legalità in un territorio difficile e contraddittorio. Esprimo la mia piena solidarietà e l’invito ad andare avanti nella battaglia per restituire il feudo Verbumcaudo alla comunità”. Lo dice Davide Faraone, deputato regionale del PD a proposito della lettera di minaccia nei confronti del senatore del PD Lumia e del sindacalista della Cgil Liarda, recapitata stamani alla Camera del Lavoro di Petralia Sottana (Pa).

La risposta del senatore Giuseppe Lumia alle intimidazioni: "L'impegno continua con rinnovata convinzione"

Giuseppe Lumia

"L'impegno continua con rinnovata convinzione e immutata determinazione. Il lavoro svolto da Falcone sul feudo Verbumcaudo è antesignano di una moderna lotta alla mafia che tutti dobbiamo promuovere per coniugare legalità e sviluppo. Il feudo deve trasformarsi in una risorsa preziosa di lavoro e di crescita per il territorio". Lo dice il senatore del Pd, Beppe Lumia, destinatario di minacce di morte assieme al sindacalista della Cgil Vincenzo Liarda. "Chiederò all'Agenzia nazionale sui beni confiscati di eliminare l'ipoteca che impedisce l'assegnazione del bene - aggiunge Lumia - il quale rischia di essere venduto all'asta e finire di nuovo nelle mani di Cosa nostra". "A Vincenzo Liarda e alla comunità tutta delle Madonie - aggiunge Lumia - assicuro il massimo sostegno e impegno: andremo avanti fino in fondo, come sempre abbiamo fatto, facendo nomi e cognomi e sfidando a viso aperto la mafia. Cosa nostra siciliana, delle Madonie e del Vallone (Caltanissetta) ancora non si rassegna all'idea che il bene è stato confiscato e che diventerà una realtà produttiva, esempio di riscatto e avamposto di libertà".

lunedì 23 agosto 2010

Parla Sergio Flamigni: «Il caso Moro resta il mistero mai svelato da Cossiga»

di Oreste Pivetta
Francesco Cossiga
Quando muore un uomo come Cossiga, per gli incarichi che ha rivestito, per la stagione che ha attraversato, è naturale chiedersi quanti misteri si porti appresso… Sergio Flamigni, per vent’anni parlamentare del Pci, membro della commissione d’inchiesta sul caso Moro, vivendo le più drammatiche e intricate vicende della nostra storia repubblicana, ha avvicinato molti di quei misteri.
Flamigni, è fondato pensare che Cossiga qualche mistero l’abbia mantenuto per sé?
«Di un mistero, soprattutto, mi sentirei di dire: il mistero legato al caso Moro, la vicenda che gli creò il turbamento maggiore, come ebbe lui stesso modo di ripetere. Ma ricordare il caso Moro significa innanzitutto, e purtroppo, mettere in rilievo il fatto che Cossiga fu il più fallimentare ministro degli Interni della Repubblica, segnando con il suo comportamento la storia del nostro paese, con il concorso ovviamente di altri fattori, anche internazionali. Peraltro, già prima di Moro, la sua gestione del Viminale fu caratterizzata da errori gravi e, addirittura, da atteggiamenti provocatori, che ebbero l’effetto di accentuare la tensione e di rinvigorire il terrorismo, anziché sconfiggerlo. Basterebbe ricordare quanto avvenne a Roma, nel 1977, il 12 maggio: gli agenti in borghese infiltrati che sparano, la morte di Giorgiana Masi. Pochi mesi prima era stato il giovane militante di Lotta Continua, Francesco Lorusso, a cadere, ucciso da un colpo esploso da un carabiniere, nel corso di una protesta a Bologna. Quello sarebbe stato il momento di usare la massima cautela, di lavorare tutti per convincere i giovani, non per reprimere soltanto. Cossiga aveva la tendenza a ricorrere alle misure militari. Gli piaceva schierare i blindati. Lo criticammo aspramente per questo. Lo criticai anch’io, quando ero capogruppo del Pci alla commissione interni della Camera...».
I servizi segreti furono oggetto prediletto della sua attenzione…
«All’inizio del 1978, con il governo Andreotti dimissionario e quindi in carica solo per l’ordinaria amministrazione, il 31 gennaio, Cossiga sciolse per decreto il servizio di sicurezza della polizia, unico servizio segreto che avesse ottenuto grandi successi contro il terrorismo: prima contro i Nap, nuclei armati proletari, poi contro Br, preparando la mappa del brigatismo. Determinando ovviamente perdita di professionalità, di competenze, disseminando personale specializzato in servizi di ben minore importanza. In compenso creò l’Ucigos, mettendo al comando il suo amico, questore di Sassari, che nel merito non vantava alcuna esperienza. Santillo, che era stato a capo del servizio di polizia e che sapeva di terrorismo, venne promosso alla carica di vicecapo della polizia: cioè venne promosso a un posto di tutto riposo. Nel frattempo il comando generale dei carabinieri aveva sciolto il primo servizio antiterrorismo creato dal generale Dalla Chiesa, dopo il sequestro Sossi. In compenso vennero inseriti nei servizi segreti con ruoli dirigenziali personaggi che risulteranno poi iscritti alla P2. Con un governo in crisi e senza un’ombra di consultazione delle commissioni parlamentari, con le conseguenze che presto si sarebbero potute apprezzare. Intanto, Aldo Moro, che lavorava per convincere i più riottosi del suo partito perché condividessero un’alleanza di governo con il Pci, malgrado i numerosi avvertimenti, venne lasciato senza adeguata protezione».
Se parliamo del sequestro Moro, la prima sensazione è di impotenza…
«Di fronte alla strage di via Fani e al sequestro di Aldo Moro, Cossiga seguì, d’accordo con Andreotti, la strada prediletta: mobilitazione dell’esercito e posti di blocco ovunque. Misure adatte solo a soddisfare l’opinione pubblica. Ricordo d’aver partecipato con Pecchioli e Violante, il 20 marzo 1978, quattro giorni dopo il rapimento, a palazzo Chigi, ad una riunione che avrebbe dovuto discutere misure antiterrorismo, in vista di un decreto previsto per il giorno successivo. Proponemmo, in quella riunione, presente con Cossiga anche il ministro di Giustizia Bonifacio, di anticipare nel decreto le norme di riforma della polizia, già approvate in commissione, norme che prevedevano il coordinamento dei vari corpi di sicurezza. Sarebbe stato il momento giusto dopo quanto era successo: mettere in campo le forze migliori, quando erano necessarie capacità investigativa, intelligenza, conoscenza, astuzia. Socialisti e repubblicani furono d’accordo, sembrarono tutti d’accordo… Cossiga si oppose. Inspiegabilmente. Obiettò solo che i carabinieri non avrebbero mai accolto un simile provvedimento. Pecchioli replicò citando il “comandamento” del Corpo: usi a obbedir tacendo. Cossiga non cambiò idea. Così la linea della fermezza divenne la linea della fermezza passiva e in cinquantacinque giorni di prigionia di Moro non vivemmo un solo giorno di gloria: neppure un terrorista arrestato. Più avanti, con il generale Dalla Chiesa, si capì quanto quelle misure sarebbero state necessarie e poi efficaci (ad esempio nella individuazione del covo di via Monte Nevoso e nella liberazione del generale Dozier). Continuo a non capire quel rifiuto di Cossiga. Forse non si fidava dei suoi stessi sottoposti…».
Di chi si fidava, allora?
«Dei suoi amici e di pochi altri… Durante la prigionia di Moro, si affidò all’esperto americano di antiterrorismo, che gli era stato spedito in soccorso dal dipartimento usa, un uomo assunto da Kissinger e in attività anche sotto l’amministrazione Carter… il professor Steve Pieczenik, che fu incaricato di guidare il comitato di esperti e che si preoccupò soprattutto di preparare l’opinione pubblica alla notizia della morte di Moro, come fu con il comunicato a proposito del lago della Duchessa, di orientare i rapporti con la famiglia, di controllare l’informazione».
Cossiga mise in piedi altri comitati, quello tecnico operativo e quello dei servizi segreti.
«… che pullulava di uomini della P2».
C’era anche Licio Gelli?
«Dall’inchiesta del giudice Priore, il giudice di Ustica, risultò soltanto che Gelli aveva frequentato il Palazzo della Marina, che per un certo periodo di tempo, per ragioni pratiche, aveva ospitato gli uffici di Cossiga. Ma non c’era rapporto con il caso Moro».
Che cosa la colpì della personalità di Cossiga?
«Era attratto dai misteri e per questo coltivava un autentica passione per i servizi segreti. L’altra sua passione era la massoneria. Era grande amico del capo della massoneria, Corona, sardo come lui: quand’era presidente, a Roma, non gli faceva mai mancare l’auto di Stato. Sicuramente non disprezzava neppure la massoneria di Licio Gelli: non esitò a dichiarare che tra gli iscritti alla P2 vi erano anche molti patrioti».
Di Gladio disse che era una organizzazione di patrioti.
«Di Gladio si occupò molto presto quando era sottosegretario agli Interni. Conosceva benissimo Gladio, che aveva peraltro la sua base operativa principale in Sardegna. Il giudice Casson, quando trasmise gli atti della sua inchiesta per incompetenza, perché l’indagine sarebbe andata oltre i suoi poteri investigativi, scrisse che Gladio era un paravento che nascondeva altre attività… Cossiga negò. Sicuramente Gladio, pensata per rispondere a un nemico esterno, divenne una meccanismo con il compito di impedire al Pci qualsiasi responsabilità di governo, ottenuta per via democratica naturalmente».
Malgrado tutto, lo votaste presidente della Repubblica.
«Un errore per il solito politicismo. Sono convinto che se Berlinguer fosse stato ancora al mondo, il nostro partito non l’avrebbe mai votato. Berlinguer fu assai risoluto quando scoppiò il caso Cossiga. Donat Cattin. Donat Cattin fu avvisato in anticipo del futuro arresto del figlio, capo di Prima Linea. Berlinguer pretese il dibattito parlamentare e dopo quel dibattito il governo Cossiga s’avviò verso la crisi».
Torniamo all’inizio, al mistero.
«Tutto conferma che Cossiga sapeva molto di più e qualcosa di diverso da quanto aveva sempre dichiarato…».
L’Unità, 22 agosto 2010

Il partigiano Giorgio...

Giorgio Bocca
di Roberto Saviano
Ha combattuto con il fucile durante la Resistenza. E con l'inchiostro sui giornali. Ma sempre per la libertà. L'omaggio dello scrittore Roberto Saviano al giornalista per i suoi novant'anni
Ho capito una cosa, molto semplice ma forse decisiva: gran parte delle protezioni mafiose, dei privilegi mafiosi certamente pagati dai cittadini non sono altro che i loro elementari diritti. Assicuriamoglieli, togliamo questo potere alla mafia, facciamo dei suoi dipendenti i nostri alleati... Quelli che parlavano erano due piemontesi e discutevano delle radici profonde del male meridionale, loro lo avevano capito e l'analisi che si scambiavano come un testimone che l'uno affidava all'altro non era disprezzo colonialista verso un popolo schiavo che non aveva la forza di riscattare i suoi diritti. No, il loro era amore per il Sud, da italiani che sapevano di essere parte di quella stessa terra così lontana dai portici delle città sabaude, costruiti per proteggere da un clima europeo che il sole della Sicilia e della Campania non sa immaginare: un amore che andava oltre il senso del dovere o della professione e che per questo si trasformava in denuncia, nella metodica, sistematica analisi di quanto il male fosse profondo nella vita della gente che non sapeva, non voleva, non poteva ribellarsi.
Quel colloquio tra Carlo Alberto Dalla Chiesa e Giorgio Bocca è stato importante per me e per quelli della mia generazione che hanno sempre chiesto di capire. Noi che abbiamo cominciato a fare domande dopo la morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, per riscoprire così il sacrificio del carabiniere diventato prefetto che aveva rinunciato alle scorte e alle blindate per essere parte della vita di Palermo, l'altra capitale del Sud, e si era imposto di cominciare la sua missione proprio dalle scuole, dal consegnare ai giovani meridionali la speranza in un futuro di legalità.
Noi volevamo capire perché senza capire non si può cambiare; capire anche a costo di specchiarsi nell'orrore di una realtà che non poteva più restare nascosta dietro slogan logori e paesaggi da soap: guardarsi in faccia, scoprire il proprio volto a costo di rendersi conto di quanto fosse brutto.
Questo è quello che Giorgio Bocca mi ha insegnato, a raccontare senza avere scrupoli né sentirmi un traditore. Lo hanno accusato di essere razzista, antimeridionale, di odiare il Sud. Sono le stesse cose che hanno detto di me, contro di me, "il rinnegato". Ci hanno dato degli "avvoltoi" che si arricchiscono con il dolore altrui. Bocca invece ha fatto dell'essere "antitaliano" una virtù, il metodo per non arrendersi a luoghi comuni. Da lui ho capito che non bisognava mai lasciarsi ferire, né abbassare gli occhi: gli insulti sono spinte ad andare oltre, a entrare più in profondità nei problemi. La mia strada per l'inferno l'ha indicata lui, "Gomorra" si è nutrito della sua lezione: guardare le cose in faccia, respirarle, sbatterci contro fino a farsele entrare dentro e poi scrivere senza reticenze, smussature, compiacenze.
Bocca lo ha sempre fatto, da fuoriclasse, lo continua a fare oggi a novant'anni con la curiosità e la tenacia di un ventenne; sempre pronto a mettersi in discussione come quel ragazzo che nel 1943 salì in montagna superando il suo passato e scegliendo il suo futuro.
E quando lui e Dalla Chiesa parlavano di un popolo da liberare lo facevano con l'anima dei partigiani, di chi aveva combattuto lo stesso nemico in nome dello stesso popolo. Avevano rischiato la vita e ucciso anche per consegnare un domani diverso a chi accettava passivamente la dittatura fascista e la dominazione nazitedesca; sono stati partigiani anche per chi non aveva il coraggio, la forza, la volontà, la possibilità o la capacità di lottare per i propri diritti. La loro vittoria è stata la Costituzione, quel documento vivo che dovrebbe essere il pilastro della nostra democrazia, un monumento di libertà troppo spesso ignorato o bollato di vecchiaia. No, è un testo modernissimo, come ancora oggi lo sono gli interventi di Giorgio Bocca. Essere partigiano prima con il fucile e poi per altri 65 anni con l'inchiostro significa avere la misura della libertà, saperla riconoscere ovunque.
A sud di Roma è difficile ascoltare racconti partigiani. La guerra di liberazione è stata più a nord e anche questo ha contribuito a non risvegliare coscienze già rassegnate. Napoli con le sue quattro giornate è stata una fiammata d'eroismo, l'unica metropoli europea a cacciare i tedeschi, ma la sua levata d'orgoglio è bruciata in meno di una settimana. Sembrava quasi che ad animare i napoletani diventati guerriglieri ci fosse lo stesso sentimento del tassista che Bocca descrive nell'incipit del suo "Napoli siamo Noi": "Lui che è più intelligente del forestiero. La maledetta presunzione individualista per la quale un napoletano è pronto a dannarsi".
Dopo, la rivolta della dignità in armi ha lasciato spazio all'umanità prostituta di Curzio Malaparte. Scriveva Bocca in quei mesi dell'autunno 2006 quando ancora una volta Napoli tornava a essere sinonimo di abisso criminale: "Una grande città può accettare un'occupazione delinquenziale? La risposta è sì: la grande città che dovrebbe ribellarsi all'occupazione è purtroppo composta da troppi cittadini impigliati nei vizi della camorra. Napoli dovrebbe ribellarsi contro se stessa e questo francamente è impensabile. In definitiva noi crediamo che almeno per ora la criminalità abbia vinto. Napoli ha toccato il fondo". Il Sud non ha speranze? Da solo, difficilmente può farcela, ma senza il Sud non c'è più l'Italia. I partigiani lo avevano capito, Dalla Chiesa lo aveva capito, Bocca continua a ripeterlo. E nel titolo del suo libro c'è la chiave per decifrarne il significato: "Napoli siamo noi, il dramma di una città nell'indifferenza dell'Italia". Lui non è antimeridionale, non è razzista ma da italiano dimostra un amore vero per questa terra devastata.
Per Bocca la guerra di liberazione era stata battaglia per salvare anche l'unità, contro i tedeschi, i francesi gaullisti e i comunisti titini; contro i "moti separatisti siciliani e calabresi, di Portella della Ginestra e di Caulonia, ci fu una spontanea offerta partigiana di riprendere le armi a difesa dell'unità nazionale. Il vento del Nord, come fu chiamata la presenza partigiana nei primi governi di Parri e di De Gasperi, guardasigilli il comunista Togliatti, fu chiaramente unitario e risorgimentale. Sentimento condiviso dagli italiani che si strinsero attorno a quei padri fondatori della Repubblica".
Oggi anche lui guarda con sospetto alla chiamata federalista: sa che le mafie non chiedono altro e non soltanto al Sud. Perché lui, quello che chiamano "razzista piemontese", quello che tra i primi ha saputo scorgere le istanze positive della Lega, non si fa scrupolo nel dire il male che vede al Nord, i frutti malati di quella colonizzazione criminale che ha trovato terreno fertile sulle due sponde del Po grazie anche alla distrazione spesso complice degli amministratori leghisti: "La presenza della criminalità organizzata, per sua storia e natura antistatale, è qualcosa di visibile, di onnipresente, di impudente. Ci sono ristoranti, mercati, club, sezione di partito, amministrazioni della Padania equamente divise fra la novità politica della Lega anti-unitaria e le cosche mafiose che di patria conoscono solo quella della rapina e delle consorterie criminali". Eccolo Bocca, in quello che parlando dei suoi maestri definì : "Lo stesso modo di vedere il mondo, senza retorica ma senza rassegnazione". Vedere il mondo a testa alta, la sua lezione, che mi accompagnerà sempre.
© 2010 Roberto Saviano Agenzia Santachiara
L’Espresso, 19 agosto 2010

Consulenze e mafia: nuove accuse a Schifani

Renato Schifani
Il pentito campanella ai Pm di Palermo: favorì il boss Mandalà. Quei "consigli" per la variante del piano regolatore a Villabate e gli interessi dei clan. Francesco Campanella, il pentito che ha ottenuto la falsa carta d'identità per favorire la latitanza di Bernardo Provenzano, torna ad accusare Renato Schifani. Il presidente del senato, 15 anni fa quando era solo un avvocato, secondo l'ex politico Udeur legato al clan Mandalà, avrebbe messo a disposizione del capofamiglia del mandamento Nino Mandalà (allora incensurato) la sua scienza giuridica. Nel suo ruolo di consulente del comune in materia urbanistica, secondo Campanella, Schifani avrebbe suggerito le soluzioni tecniche per modificare il piano regolatore in modo da aderire agli interessi immobiliari e imprenditoriali di Nino Mandalà. La Procura di Palermo sta verificando con attenzione queste dichiarazioni. Anche perché il duello tra il pentito e il presidente va avanti da alcuni anni e quello che si sta svolgendo a Palermo è il secondo round della contesa svoltasi davanti ai giudici di Firenze e conclusa con un pareggio che ha il sapore della sconfitta per Campanella. Il pentito aveva parlato dei rapporti tra Schifani e Nino Mandalà nel 2007 in un'aula a Firenze. La querela di Schifani per diffamazione è stata archiviata ma il decreto del gip conteneva giudizi molto duri nei confronti di Campanella. Il gip Michele Barillaro scriveva: "gli atti del procedimento hanno fornito la chiara e inconfutabile prova che le dichiarazioni di Campanella relative alla persona ed al ruolo dell'avvocato Schifani non solo non abbiano avuto alcun positivo riscontro ma, anzi, siano risultate, in taluni casi, palesemente infondate". Campanella non è stato affatto contento dell'archiviazione ed è tornato in Procura per puntualizzare le sue accuse. Al Fatto Quotidiano risulta che il pentito ha accusato Schifani di reticenza nel suo verbale reso di fronte alla Procura di Firenze nel 2008. Secondo Campanella quando il presidente del senato è stato nominato consulente del comune di Villabate nel novembre del 1994 non è vero che nessuno, come ha sostenuto davanti ai pm, "mi dà nessun ruolo nella rivisitazione del piano regolatore". Non è vero che non c'era stato "nessun accenno a varianti (del piano regolatore Ndr) perché il piano c'era, io non mi sono occupato di nessuna variante, nei primi mesi del 1996 non si parla di nuova variante né mi viene compulsata l'ipotesi di assistere qualcuno su varianti quindi con me non ha mai parlato con nessuno". Queste affermazioni, secondo Campanella, contrastano non solo con quanto appreso dal pentito per bocca del boss Nino Mandalà ma anche con gli atti del comune e della regione Siciliana. Campanella sfida i magistrati a riscontrare le sue parole acquisendo le delibere del consiglio comunale e della commissione urbanistica del comune di Villabate relative alle varianti presentate alla Regione Sicilia. La ricostruzione di Campanella inquadra il ruolo di Schifani in un momento particolare della storia di Villabate. In quegli anni il clan Mandalà aveva appena vinto la guerra di mafia con i Montalto che avevano guidato il mandamento fino ad allora. Il piano regolatore del 1993 era figlio della vecchia mafia e per questa ragione i Mandalà volevano modificarlo. Il sindaco Giuseppe Navetta era espressione della famiglia Mandalà, capeggiata dal vecchio Antonino (poi arrestato nel 1998 e condannato per mafia e riarrestato e ora scarcerato) e dal figlio Nicola (arrestato nel 2006 quando era diventato il braccio destro diProvenzano). Nicola Mandalà era amico fraterno di Campanella che divenne presidente del consiglio comunale di quella giunta, nonostante fosse stato eletto con la lista legata ai Montalto. Quando parlo del piano regolatore, del ruolo di Schifani e dei rapporti con Nino Mandalà, sostiene Campanella, in parte sono testimone diretto e in parte riferisco le cose che mi raccontò Nino Mandalà. Che non era uno che passava lì per caso ma era il vero dominus della maggioranza e del clan. Schifani scopre di essere stato scelto come consulente del comune nello studio di La Loggia alla presenza del sindaco Navetta e proprio di Mandalà. Il boss sosteneva di avere puntato su La Loggia e Schifani perché erano stati suoi soci e avevano partecipato al suo matrimonio. Il presidente ha confermato queste due circostanze riducendone però la portata. Fino al 1998, Antonino Mandalà era un dirigente provinciale di Forza Italia incensurato e sia la sua partecipazione (con una quota minima) alla società Sicula Brokers sia la presenza al matrimonio risalivano al 1980-1981 quando Schifani era un giovane legale dello studio La Loggia. Secondo Campanella, però Mandalà gli raccontava che ci furono diverse riunioni nello studio Schifani alla presenza di Mandalà proprio per il piano regolatore. Nell'estate del 1995 la Regione Sicilia, secondo il pentito, chiede al comune di Villabate le sue controdeduzioni. A quel punto si tiene un consiglio comunale al quale partecipa anche l'avvocato Schifani come consulente. L'avvocato Schifani, sempre secondo il racconto di Mandalà riferito ai pm da Campanella, si interessò anche di altre modifiche al piano regolatore. Mandalà avrebbe ottenuto dall'avvocato Schifani preziosi consigli per risolvere un paio di problemi: il centro storico e i terreni delle cooperative edilizie. La Regione aveva chiesto al comune di creare una zona A tutelata come centro storico. Mandalà aveva i suoi interessi in quell' area e – racconta sempre Campanella ai pm – fu proprio l'anziano capofamiglia a preparare le controdeduzioni con l'aiuto di Schifani per limitare i danni della zona A. Mentre della questione della localizzazione delle cooperative edilizie, Campanella racconta di aver parlato in prima persona con Schifani. In fondo l'avvocato del comune era pagato per fare il consulente. Il problema sorgerebbe se fosse mai provata la sua consapevolezza di fare gli interessi di Antonino Mandalà, in qualità di mafioso. E anche Campanella ammette con i pm di Firenze di non essere certo che il presidente del senato fosse consapevole della caratura mafiosa del suo vecchio ex socio. Al collaboratore di giustizia preme un altro aspetto: Schifani non ha detto tutta la verità nella sua testimonianza a Firenze. Il presidente del senato – a differenza di quello che ha detto ai pm – secondo Campanella, fu interessato da subito da Mandalà di tutte le questioni che riguardavano il piano regolatore di Villabate e si occupò delle varianti fino al maggio 1996 quando si candidò al Senato e lasciò l'incarico.
Il Fatto Quotidiano, 19 agosto 2010

mercoledì 18 agosto 2010

Corleone. Campo di lavoro antimafia. I volontari in visita alla Guardia di Finanza e a Portella delle Ginestre

Tutti in cerchio per la verifica finale...
Eccoci al nostro ultimo giorno di lavoro: le sveglie suonano sempre più tardi e ormai al mattino si discute solamente dei tempi da record coi quali ci si spaccia per pronti con la tenuta da “campo” mentre si fa colazione tutti insieme rigorosamente ad occhi chiusi. Veniamo scaricati col sole ancora basso di fronte alle vigne: nessuno ha più bisogno di spiegazioni, piuttosto ci si confronta per ore sulle diverse scuole di pensiero riguardo la quantità di foglie da lasciare, la tecnica più o meno aggressiva con cui rimuoverle o la giusta angolazione da cui far entrare i raggi di sole per consegnare alla cooperativa il miglior Naca degli ultimi 10 anni. Tra bevute e riposini, arrivano le 12 e rientriamo alla casa del popolo col pranzo già pronto: doccia fulminea e solita super magnata. Alle 15 incontriamo la Guardia di Finanza nella persona del Maresciallo Coppola che ci guida nella ex villa di Riina: incute un certo timore entrare in questi beni, che però lascia sempre spazio all'orgoglio e all'entusiasmo delle persone ci lavorano e che raccontano i progetti e le attività svolte. Dai cazzo. Chi non cade preda del travolgente abbiocco post-pranzo (le cuoche dello Spi/Cgil Pistoia non si/ci risparmiano neanche oggi..), ascolta ammirato i racconti del Pascucci che si è unito nel frattempo al maresciallo per spiegarci come funzionano le confische dei beni, il riciclaggio di denaro sporco e l'insabbiamento delle indagini con tecniche da film. Le studentesse delle facoltà di Legge ed Economia su tutti, mostrano vivissimo interesse sparando domande a raffica su procedimenti e flussi monetari verso attività lecite ormai diffuse e contagiate in tutto il territorio italiano; non potendo fare nomi e cognomi per ovvii motivi professionali, il nostro cantastorie lascia intendere è un gran casino un po' dappertutto.. ma proprio da lui, prima di uscire, sgorga finalmente un sincero entusiasmo che ci sorprende: sentire le motivazioni che lo spingono a lottare e a non mollare, pur con le difficoltà che ci ha illustrato per più di un'ora e in ambienti spesso ostili o burocraticamente avversi, è un toccasana che ci fa uscire contenti e sempre più desiderosi di capire come e cosa possiamo fare per impegnarci nella lotta.
All'uscita partenza immediata per Portella della Ginestra, luogo di strage e di memoria: il posto, vicino Piana degli Albanesi, è bellissimo ed evocativo, e veniamo accolti da due mitici vecchietti che a fatica si separano dal loro dialetto albanese per riportarci agli albori della Repubblica, quando la mafia nel territorio siciliano reprimeva con estrema violenza moti di protesta e lotte contadine per terreni coltivabili. Il tramonto che illumina i luoghi della strage, unito alla serenità e alla saggezza dei narratori, commuovono e lasciano stupiti quasi tutti: è incredibile l'entusiasmo e il piglio con cui i due superstiti riescono a parlare al cuore di tutti trasmettendo i valori del Lavoro e dello Studio come mezzi impareggiabili nella lotta alla mafia.
Infine, la giornata ci serba un dopocena da panico: la verifica con la responsabile dell'Arci Toscana. Fra giustificazioni e vani tentativi di fuga, tutti finalmente si siedono e commentano a turno come è stato il "loro campo" - persone, incontri, criticità e particolarità della settimana appena trascorsa: un confronto che molti attendevano e che ha fatto emergere opinioni anche molto eterogenee. Tra i tanti elogi, non mancano critiche e frecciatine agli organizzatori, che incassano stoicamente potendo replicare solamente alla fine, quando tutti, ormai, dopo 4h zzzzzzzz J Alle 2:00, la consegna della cittadinanza onoraria a ciascun volontario e la epica partitona finale a baci e abbracci. Tra poco più di 6 ore lasceremo Corleone: è stato un campo breve ma intenzissimo, felici di avervi preso parte e distrutti per i ritmi massacranti nei campi e fuori. SALUTAMMO
Paolo, Lorenzo e Marco Corleone
17 Agosto 2010

lunedì 16 agosto 2010

Il Diario di una professoressa del campo di lavoro sull'inaugurazione del laboratorio. "Eravamo lì a segnare la nostra presenza a favore del lavoro della Cooperativa, non certo per omaggiare la passerella del governo"

Il canto liberatorio arriva alle 3 per pomeriggio, dopo 4 ore passate sui gradini del viottolo o sotto lo stand/forno della Cooperativa. Il ministro Maroni, in una scia di macchine blindate sulle quali siedono anche Alfano e il sottosegretario Letta, si appresta a lasciare Corleone, e noi volontari intoniamo prima “Bella ciao”, poi “I cento passi”. Eravamo lì a segnare la nostra presenza a favore del lavoro della Cooperativa, non certo per omaggiare la passerella del governo. Ma Calogero, sulle cui parole contavamo molto per rendere meno ‘pesante’ la nostra mattinata davanti alla Bottega della legalità, non ha parlato. Il cerimoniale ha previsto solo l’intervento del sindaco, di Maroni e la benedizione del parroco. E la ‘propaganda’ di Maroni non ha certo provocato entusiasmo. Quando ha detto di considerare “la Sicilia sua terra d’adozione” e di “essere più presente qua che a Bergamo e Brescia”, abbiamo avvertito una sorta di vero disgusto. Marco che viene da Milano, non ce l’ha fatta a sopportare tante balle propagandistiche. Molti di noi, pur aspettandosi il circo Barnum mediatico con taglio del nastro incorporato, hanno ritenuto eccessivo ‘benedire’ la parata. E così, in modo spontaneo e gioioso, abbiamo cantato “Bella ciao” e “I cento passi” prima seduti per terra in attesa dell’arrivo dei ministri, poi al loro passaggio sulle auto blindate e di seguito ancora entrando nella Bottega della Legalità. Dentro l’ex casa confiscata di Provenzano abbiamo scandito anche lo slogan “Fuori la mafia dallo Stato”, oltre ai classici “Peppino sei uno di noi” e “Rizzotto sei uno di noi”. Nessuna tensione, solo la voglia di segnare una presenza ‘diversa’ di un gruppo di giovani (e non solo). In quel momento ogni perplessità è caduta. Tutti ci siamo sentiti uniti attorno all’idea di una società che vuole cambiare, a partire da noi. “Per le persone oneste”, ha detto l’altra seria Giulio, uno dei tanti toscani, che mi ha disarmato e colpito con una frase semplice ma esemplare e significativa. A quel punto il nostro Ferragosto caldissimo davanti alla Bottega della Legalità ha avuto un senso profondo. Che rimarrà scolpito nei nostri diari personali e intimi.
AnnaProf.

Corleone. Il diario dei volontari dei campi di lavoro sull'inaugurazione del laboratorio e della Bottega della Legalità. "Al ministro abbiamo cantato "Bella ciao"

Che giornata! Questo è stato un ferragosto decisamente impegnativo e fibrillante. Già dalla mattina l’aria che si respira è carica di “agitation”(da leggersi con accento francese). Locomotive di pizzette viaggiavano sui tavoli percorrendo immense montagne di panini, paste, pecorini e peperonate. Come api lavoratrici ognuno ha il suo compito: cibo, imballaggio, carico, scarico, allestimento, montaggio e pulizia. Alle 11 siamo tutti pronti per il grande evento. Uno sciame di magliette bianche della cooperativa lascia il “suo” alveare per invadere il cortile Colletti, luogo di inaugurazione del Laboratorio e Bottega della legalità. Inizia l’attesa. Veniamo accolti da legioni di carabinieri, poliziotti in divisa, in borghese e a cavallo, vigili urbani, finanzieri, agenti del Corpo Forestale, unità Cinofile, Artificieri antisabotatori (visti per la prima volta!), Protezione Civile, guardie del corpo (corpo che però non era ancora arrivato), agenti segreti, tecnici dell’Enel e della società idrica e l’immancabile stuolo di giornalisti. In questo quadro impressionista di colori stranamente accostati risplendono rare creature ancora umane: Maurizio in tenuta gessata bianca (che ricorda vagamente un capo mafia) e Calogero in elegante abito blu (con tanto di cravatta!). L’attesa si fa calda, assetata e affamata. I sistemi di sicurezza a difesa del buffet crollano miseramente davanti a stomaci urlanti (non solo i nostri ma anche quelli dei militari). Intanto “ordini superiori” ci impongono di occupare la parte bassa del cortile: la speranza che i nostri “onorevoli ospiti” appaiano presto all’orizzonte si infrange davanti alla figura di un intrepido operatore ecologico che, per svolgere il suo lavoro, elude ogni posto di blocco e arriva fino a pochi metri dal nastro tricolore. Mentre si diffonde ilarità tra il pubblico e panico tra gli agenti, un’ovazione accompagna la furente uscita di scena del furgoncino. Rotto il ghiaccio (e sciolto dal solleone), troviamo il modo per ingannare la lunga attesa. Le nostre ugole si cimentano in canti appassionati di chiaro stampo antimafioso sotto gli occhi incuriositi dei pochi corleonesi che con noi condividono quel momento. Il rombo di un elicottero dei carabinieri sempre più vicino annuncia l’ormai imminente arrivo della carovana di auto blu. Queste sgommano davanti ai nostri occhi scaricando il loro carico istituzionale davanti all’ingresso della casa confiscata. Circondati da un muro di agenti, il Ministro dell’Interno Maroni, quello della Giustizia (così dicono) Alfano, il sempre sorridente Sottosegretario Letta e il Procuratore Grasso incontrano don Luigi Ciotti (l’unico a farsi fotografare anche da noi), i sindaci del Corleonese e i rappresentanti delle cooperative. Ora può iniziare l’inaugurazione. I discorsi da manuale dei due ministri (Maroni dice di sentirsi siciliano, ma non ditelo ai padani!) e la benedizione del parroco danno il via al taglio del nastro tricolore. La manifestazione si sposta così all’interno della struttura dove, ovviamente, noi non possiamo neanche avvicinarci. Ma questo non ci dispiace affatto. Infatti assaltiamo in maniera definitiva il buffet. L’arrivo di Pino Maniaci ( l’eccentrico direttore di TeleJato) è coinvolgente come sempre. Convince un giornalista della Rai a filmarci mentre continuiamo a cantare le nostre canzoni. Alle 16 si ricompatta nuovamente il blocco di giornalisti per l’uscita dei ministri. Non vi descriviamo la faccia che ha fatto Maroni quando ha sentito “Bella ciao”!! Si è affrettato con quell’altro suo collega a raggiungere il furgone blindato. Defilati i pesci grossi, noi pescetti piccoli, come un “quarto stato” avanziamo verso l’acquario. “I cento passi” risuonano per i vicoli di Corleone e ci accompagnano all’interno del Laboratorio. Ora la scena è nostra. Qualcuno rilascia interviste, qualcuno visita la casa con i veri sostenitori, qualcuno segue Pino nelle sue malvagie perversioni giornalistiche e qualcuno (chi scrive) rischia la sbronza con il vino dei nostri campi: questa è l’inaugurazione che si meritano le cooperative “Lavoro e non solo” e “Placido Rizzotto”! La festa prosegue con un’affollatissima partita a calcio e una cena a base di avanzi del lauto banchetto. La giornata sembra finita ma non è così. E’ sorprendente vederci monopolizzare, sotto gli occhi vigili dei corleonesi, per oltre 4 ore la piazza principale con canti e danze sfrenate all’insegna della libertà più totale libertà di espressione! Siamo talmente bravi (fidatevi che è vero) che abbiamo conquistato la band che anima la piazza e insieme festeggiamo il compleanno di Federico (30 lunghi anni!!!!!!!). E ora, all’alba delle 4.08 mi sembra il caso di salutarci. A domani!
I Volontari del Progetto “Liberarci dalle spine”

Corleone. Inaugurati il Laboratorio e la Bottega della Legalità, alla presenza di Maroni e Alfano

L'intervento del ministro Maroni
di SALVO PALAZZOLO Viaggio a Corleone nella palazzina che ha ospitato la latitanza del super boss. Adesso lo stabile è diventato la casa delle associazioni impegnate nella lotta alle cosche. Don Luigi Ciotti: 'Ora questi misteri vogliamo cominciare a svelarli'
E' ancora la casa di molti misteri. Cortile Colletti 2, Corleone. Dove Bernardo Provenzano si sarebbe rifugiato più volte durante la sua lunga latitanza. "Ma adesso quei misteri vogliamo cominciare a svelarli", dice don Luigi Ciotti mentre entra nella palazzina che fino al 1985 apparteneva alla famiglia Provenzano e oggi è diventata una casa delle associazioni antimafia e una bottega dei prodotti realizzati nelle terre confiscate ai boss. "Questo non è un museo - dice il sindaco di Corleone, Nino Iannazzo - è un laboratorio concreto di antimafia. E da questo luogo simbolo, oggi, vogliamo dire che non c'è più spazio per chi vorrebbe tornare a seminare il terrore a Corleone, o da Corleone". Sono le stesse parole che il primo cittadino pronunciò l'anno scorso dopo la scarcerazione del figlio di Riina, Giuseppe: qualche mese dopo, il rampollo di don Totò tornò in carcere per scontare un residuo di pena della condanna per associazione mafiosa. Uscirà a marzo.
Sul prospetto della palazzina un tempo dei Provenzano campeggia adesso un manifesto: "Non abbiamo paura". Dentro, alle pareti, ci sono i quadri di Gaetano Porcasi, che ricordano le vittime della violenza mafiosa. Da Bernardino Verro, assassinato a Corleone nel 1915 a Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e padre Pino Puglisi, rappresentanti anche con delle sagome a grandezza naturale donate dallo scrittore Carlo Lucarelli.
L'intervento del ministro Alfano
La bottega della legalità è stata confiscata definitivamente nel 2005, ma ci sono voluti cinque anni prima che potesse essere riconsegnata alla comunità. La ristrutturazione è costata quasi 200 mila euro: arrivati dal "Pon sicurezza" del ministero dell'Interno, dal Comune di Corleone e dalla Regione Sicilia. Ad animare il laboratorio sono adesso il consorzio sviluppo e legalità, che raccoglie otto Comuni della provincia di Palermo, e soprattutto le cooperative sociali impegnate nei terreni un tempo dei boss ("Lavoro e non solo", "Placido Rizzotto" e "Pio La Torre"). "Quei frutti realizzati dai volontari - dice don Ciotti, instancabile animatore di Libera - sono un grande segno di speranza, perché offrono lavoro. E solo la speranza può sconfiggere la paura, che sembra tornata prepotente in molte regioni del nostro paese". Il sindaco di Corleone vuole lanciare un appello: "Questa iniziativa del governo non deve restare isolata. Corleone ha bisogno di grande attenzione, i giovani vivono un momento di forte disagio e a loro dobbiamo dare una risposta per evitare che si ripeta la storia amara di quei ragazzi diventati prima sicari e poi capimafia".
Poco dopo le 14, arrivano in cortile Colletti i ministri dell'Interno e della Giustizia. C'è anche il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Gianni Letta. Sono accompagnati dai vertici delle forze dell'ordine e dal prefetto di Palermo, Giuseppe Caruso. "Ci siamo sbilanciati - dice Maroni - nei prossimi tre anni vogliamo vincere la guerra contro la criminalità organizzata". C'è un rigido cordone di sicurezza attorno alla delegazione. I ragazzi delle cooperative e la gente di Corleone sono oltre una barriera di poliziotti e carabinieri. Maroni visita la palazzina, dentro c'è spazio anche per un piccolo buffet per le autorità. Quando arrivano le blindate del ministro dell'Interno, i ragazzi delle cooperative cominciano a intonare "Bella ciao". Sono momenti di tensione nel cordone di sicurezza, non si capisce perché. Qualcuno porta l'ordine di raddoppiare la barriera. Il coro si fa ancora più forte. Maroni, circondato dalla scorta, si muove veloce col suo seguito verso l'auto che lo porterà all'elicottero...
(La Repubblica, 15 agosto 2010)

L'INTERVISTA. Salvatore Provenzano: "Mio fratello capro espiatorio dei misteri d'Italia"

di Salvo Palazzolo
Parla Salvatore che abita di fronte la casa della legalità inaugurata dal ministro Maroni. Nel 1969 era stato proprio lui ad acquistarla. Prima che inizi la manifestazione accetta di parlare, e per la prima volta racconta la sua verità
Cortile Colletti. In fondo abitano i fratelli Provenzano
"Quella non è la bottega della legalità – sussurra Salvatore Provenzano, il fratello di Bernardo, il capo di Cosa nostra – la legalità non può mai fondarsi su una falsità. Quella casa è solo frutto del mio sudore, per anni di lavoro fatto in Germania come operaio. Ecco perché dico che quella casa è stata rubata dallo Stato. E oggi provo solo un senso di grande amarezza: lo Stato vuole per davvero fare giustizia e conoscere la verità? Si guardi dentro. Perché ho la sensazione che mio fratello sia diventato il capro espiatorio di tutto quello che è accaduto e accade ancora in Italia".
Continua ad affacciarsi Salvatore Provenzano nel piccolo cortile Colletti di Corleone dove fra poco meno di un’ora arriverà il ministro dell’Interno Roberto Maroni per inaugurare la casa delle associazioni antimafia nella palazzina che un tempo era della famiglia Provenzano. I poliziotti del nucleo antisabotaggio scrutano fin davanti la porta di casa di Salvatore Provenzano: guardano, controllano. Lui resta impassibile.
Signor Provenzano, la sentenza che ha confiscato la sua casa poco più in là sostiene che a fine anni Sessanta lei e i suoi fratelli non avevate ufficialmente un reddito tale da poter acquistare una palazzina. Cosa ha detto ai giudici?
“Intanto, vorrei rivolgerle anch’io una domanda, visto che oggi alti rappresentanti dello Stato si presentano qui in questo cortile Colletti. Cosa crede che abbia mai fatto lo Stato per Corleone? Cosa ha fatto il Comune quando io e tanti altri ragazzi volevamo andare a scuola? Siccome le nostre famiglie non avevano la possibilità fummo mandati a lavorare nei campi. E poi, emigrammo in Germania. Lì, per trent’anni, ho realizzato massetti, ne facevo 120 metri quadrati al giorno. E poi la sera percorrevo trenta chilometri per andare a frequentare un corso serale di licenza media. In quegli anni ho fatto anche un esame di abilitazione alla professione: uno dei docenti prese in mano il mio tema e mi guardò. Disse: “Provenzano, fanno più errori i tedeschi che lei”. Ma qualche tempo dopo fui arrestato, per cose che avrei commesso in Italia. Assurdo. E infatti fui assolto. Ma i miei guai non finirono comunque lì. Sono stato escluso dalla società. Questa è la giustizia che ho conosciuto, una giustizia che per quanto mi riguarda non si fonda sulla verità, che non vuole cercare la verità”.
Lei è stato però assolto dalla giustizia italiana. Suo fratello Bernardo, no. E’ in carcere con accuse gravissime appurate da sentenza ormai definitive, per aver ordinato omicidi e stragi
“Solo mio fratello può sapere. Per quello che lo conosco, credo che non può aver fatto del male. Ma la verità è che in questo paese serve un capro espiatorio. Serve ancora, per tutto ciò che è accaduto”.
Signor Provenzano, la ricostruzione delle sentenze parla chiaro: un gruppo di giovani sicari della cosca di Luciano Liggio iniziò da Corleone la sua ascesa criminale verso Palermo, puntando poi a un attacco senza precedenti contro i rappresentanti delle istituzioni
“Un gruppo di corleonesi contro lo Stato? Se l’hanno fatto saranno stati dei pazzi, e come tali andavano trattati. Mi domando: ma si può fare la guerra allo Stato? Io penso proprio di no, è chiaro che si esce sconfitti. E allora forse qualcuno li ha strumentalizzati quei ragazzi di Corleone. Chi, non lo so davvero. Bisogna avere il coraggio di chiederselo se si vuole conoscere la verità”.
I magistrati di Palermo e Caltanissetta la stanno cercando questa verità dentro lo Stato, anche grazie al contributo di testimoni nuovi, come Massimo Ciancimino, il cui padre era grande amico di suo fratello. “Chi Ciancimino? Quello che ogni giorno esce non si sa da dove un biglietto nuovo di mio fratello o di suo padre?"
Vedrà anche lei il ministro Maroni mentre entra in cortile Colletti? “Ma cosa ne sa questo ministro della Lega di Corleone? E cosa ne sa di questa casa che è stata rubata dallo Stato? Ho le carte che provano i miei anni di lavoro in Germania, e poi anche la donazione di un mio zio e un prestito di mia sorella. Quelle carte avevano convinto i giudici di primo grado a disporre il dissequestro, ma non sono bastate alla corte d’appello. Ho portato altre carte in Cassazione, ma è stato inutile. Ve l’assicuro, in quella casa mio fratello non c’è mai stato”.
(La Repubblica, 15 agosto 2010)

Il magistrato Gaetano Paci: "Ma il nuovo piano antimafia "dimentica" il reato di antiriciclaggio"

Il pm Gaetano Paci
di Salvo Palazzolo
I magistrati e persino il governatore della Banca d'Italia l'avevano invocato a gran voce per punire più severamente i boss e i loro prestanome. A giugno, il ministro della Giustizia Alfano l'avevo dato per inserito nel pacchetto all'esame del Parlamento, ma nel testo finale approvato a inizio agosto dal Senato non c'è. L'allarme dei pm Gaetano Paci
Il ministro della Giustizia Angelino Alfano l'aveva annunciato proprio a Palermo, durante un convegno che vedeva in platea moltissimi magistrati antimafia: il piano straordinario di contrasto alla criminalità organizzata varato dal governo avrebbe previsto il reato di antiriciclaggio, tanto sollecitato anche dal governatore della Banca d'Italia Mario Draghi alla commissione parlamentare antimafia per punire più severamente i padrini e i loro prestanome. Era giugno quando il ministro Alfano faceva il suo annuncio. All'inizio di agosto, il Senato ha approvato all'unanimità il piano antimafia del governo. Ma il nuovo reato non c'è. Lo sottolinea Gaetano Paci, sostituto procuratore della Direzione distrettuale antimafia di Palermo, che indaga sui patrimoni dei padrini di Cosa nostra. "L'antiriciclaggio è importante - spiega - consente di punire con un reato specifico il reinvestimento di somme da parte di colui che le ha illecitamente conseguite. Con la legislazione attuale può essere contestato solo il reato presupposto, ovvero ad esempio l'intestazione fittizia, l'estorsione, l'associazione mafiosa. Con l'antiriciclaggio - spiega Paci - avremmo uno strumento in più contro il crimine organizzato, così come avviene negli Stati Uniti. Peraltro, da tempo si sarebbe dovuto prevedere, per dare attuazione alla convenzione Onu sul crimine transnazionale firmata proprio a Palermo".
Paci ha analizzato tutti gli articoli del piano straordinario antimafia varato ad agosto. Dice: "L'impostazione di fondo è positiva, perché fa tesoro dei lavori delle precedenti commissioni Fiandaca e Pisapia. Dunque, il piano fonde esperienze che provengono da sensibilità e governi diversi. Lo spirito resta quello di razionalizzare tutta la normativa antimafia". Adesso la palla passa al governo, che dovrà attuare al più presto le direttive fissate dal Parlamento. Dall'esame del testo fatto dal pm Gaetano Paci emergono alcuni "buchi". A partire dai punti cruciali della lotta alla mafia. Il primo: la lotta ai patrimoni. Il piano antimafia non prevede che si possano utilizzare le intercettazioni per le misure di prevenzione patrimoniali, quelle che portano al sequestro e alla confisca dei beni mafiosi. Spiega il magistrato palermitano: "Oggi, l'indagine per le misure di prevenzione patrimoniali è rimessa alla consultazione delle banche dati, che offrono esclusivamente degli elementi di tipo formale. Tutto il resto lo si attinge dall'indagine penale. Bisognerebbe fare di più - suggerisce Paci - consentendo strumenti di indagine più efficaci anche per individuare i patrimoni mafiosi". Il piano straordinario varato ad agosto prevede poi l'istituzione di una banca dati nazionale di tutte le certificazioni antimafia: "Ottima cosa - commenta Gaetano Paci - ma vi può accedere solo la Procura nazionale antimafia. Sono tagliate fuori tutte le 26 direzioni distrettuali che operano sul campo. Non si comprende perché"
(La Repubblica, 15 agosto 2010)

CI SCRIVONO. Corleone, ancora tanta storia. Il rientro della scultura lignea di San Giovanni Battista restaurata

Il manifesto che annuncia l'iniziativa
Caro Direttore, ancora una volta attraverso il suo giornale le chiedo di attenzionare un evento che a mio pensare è un legame tra passato e presente della Nostra cittadina ricca di storia cultura e tradizioni. Il rientro, dopo il restauro, della scultura lignea del San Giovanni Battista a Corleone nella Parrocchia Maria SS. Delle Grazie dove è custodita dai frati del terzo ordine Francescano, sarà sicuramente un momento particolare, oltre a quanto la statua rappresenta per i devoti ci permetterà di riflettere su quanto il Nostro paese sia ricco di storia, una cittadina che nel tempo ha ospitato genti di diverse culture ed etnie che hanno lasciato il segno della loro presenza. La statua già dichiarata patrimonio nazionale lega Corleone ai Cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme, detti anche di Rodi o di Malta, presenti nella città nel ‘300 dove hanno realizzato una chiesa dedicata al Santo con annessi un convento e un ospedale, secondo le ricerche storiche la chiesa di San Giovanni Battista di Corleone sorgeva fuori le mura, nei pressi dell’attuale chiesa di Sant’Elena. Negli anni la statua è stata affidata ai frati che l’hanno custodita nel convento di santa Maria delle grazie sino a oggi. La stessa, di pregevolissima fattura realizzata da ignoto scultore datata secondo gli storici 1572, è stata ultimamente sottoposta ad un attento restauro da parte della restauratrice Ivana Mancino che ne ha evidenziato la bellezza e il prezioso apparato decorativo, ridando a Corleone un’immagine che, dopo il rientro che avverrà il 28 agosto alle 18,30 nei pressi della cappella di “Santu Lucuzza” e da lì proseguirà in corteo sino alla Parrocchia Maria SS. delle Grazie, sarà sicuramente da ammirare. Il parroco, Fra Giuseppe Gentile, sta lavorando per ricostruire oltre alla storia le tradizioni legate al San Giovanni Battista, pertanto, chi ha memoria di particolari tradizioni o semplici avvenimenti legati alla statua del Santo presente a Corleone, farebbero cosa gradita se dessero testimonianza di ciò che ricordano al fine di arricchire la conoscenza delle tradizioni legati alla statua.
Ricordo ancora che l’appuntamento per accogliere la statua ed ammirarne il restauro è per Sabato 28 agosto ’10 alle ore 18,30 nei pressi di “Santu Lucuzza” a Corleone.
Stefano Comajanni

venerdì 13 agosto 2010

L'intervista esclusiva del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, a l'Unità: «Si fermi la campagna dei veleni»

Giorgio Napolitano

di Marcella Ciarnelli  «Occorre consolidare e rafforzare i segni di ripresa e far fronte alle tante difficoltà e incognite... Ma, chiedo, se invece si va verso un vuoto politico e verso un durissimo scontro elettorale, quali possono essere le conseguenze per il Paese?». È uno dei passaggi dell’intervista in esclusiva al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano pubblicata oggi su l’Unità, nella quale vengono affrontati tra l’altro i temi della crisi e della campagna contro il presidente della Camera. Ecco l'intervista integrale:
Bilancio di una breve vacanza. Fatto in una mattina di mezzo agosto all'ombra degli alberi del giardino di “Casa Matta”, la residenza di Pino e Adriana, gli amici che come negli anni scorsi hanno ospitato un caro amico “importante”, e non solo perché è il presidente della Repubblica, ma perché tale lo è da sempre. Se n’è appena andato il sindaco. Le isole hanno il grosso problema dei collegamenti. La vicenda Tirrenia sta andando come si sa. Giorgio Napolitano, al termine del suo soggiorno strombolano, solo otto giorni, nei quali il riposo si è inevitabilmente intrecciato con le notizie della calda estate della politica, parla volentieri del suo antico amore per l’isola ma anche dell’inquietudine che ha accompagnato la vacanza. Inquietudine e incertezza che avvolgono e rischiano di paralizzare un paese che sta vivendo una sia pur lieve ripresa «in un sempre critico quadro mondiale» e che potrebbe invece trovarsi a fare i conti «con la gelata delle elezioni».

Presidente, dunque è già sulla via del ritorno?
«Ho trascorso otto giorni di riposo come si possono trascorrere qui a Stromboli, un luogo di straordinario incanto e distacco, sempre accogliente e discreto. Ma ciò non toglie che mi sia sentito e mi senta molto inquieto per le vicende politiche di queste due settimane e per le loro implicazioni istituzionali».

Il dialogo, il confronto costruttivo che lei ha sempre auspicato sembrano essere stati cancellati dal vocabolario della politica. Come sta vivendo questi momenti?
«Debbo innanzitutto rilevare come sia ancora una volta scattato un clima di polemiche e contrapposizioni esasperate sul piano politico e come si stia diffondendo in generale un senso di grave precarietà e incertezza per quel che può accadere sul piano della governabilità, della capacità di risposta delle istituzioni ai problemi del paese. Ci sono in Italia segni recenti, positivi e incoraggianti, di ripresa produttiva, di ritorno alla crescita pur se il quadro mondiale resta critico: occorre però consolidarli e rafforzarli e far fronte alle tante difficoltà e incognite che restano, farvi fronte con visioni politiche e azioni di governo adeguate e coerenti. Ma, chiedo, se invece si va verso un vuoto politico e verso un durissimo scontro elettorale quali possono essere le conseguenze per il paese?»

Una domanda la sua che in troppi non sembrano porsi.
«Eppure è proprio di qui che dovrebbe partire la riflessione di tutte le forze politiche».

Ma lo scontro aperto all’interno della maggioranza le sembra che tenga conto delle conseguenze?
«Certo, si è aperto un serio conflitto politico dentro la coalizione uscita vincitrice dalle elezioni del 2008 e quindi dentro la maggioranza di governo. Non posso, naturalmente, entrare nel merito di quel conflitto né esprimere valutazioni o previsioni circa la sua possibile composizione. Le mie responsabilità istituzionali entreranno in giuoco solo quando risultasse in Parlamento che la maggioranza si è dissolta e quindi si aprisse una crisi di governo. Compirò in tal caso tutti i passi che la Costituzione e la prassi ad essa ispiratasi chiaramente dettano. Sarebbe bene che esponenti politici di qualsiasi parte non dessero indicazioni in proposito senza averne titolo e in modo sbrigativo e strumentale».

Un altro esercizio di questi giorni è l’attacco al presidente della Camera...
«Ho sempre ritenuto che nessun contrasto politico debba investire impropriamente la vita delle istituzioni. Perciò è ora che cessi una campagna gravemente destabilizzante sul piano istituzionale qual è quella volta a delegittimare il Presidente di un ramo del Parlamento e la stessa funzione essenziale che egli è chiamato ad assolvere per la continuità dell’attività legislativa».

Presidente nel giorno in cui lei fa ritorno a Roma qual è l’invito che vuole rivolgere ai tanti protagonisti di una stagione conflittuale che sembrano intenzionati a continuare in questa dannosa contrapposizione?
«Questo è il momento di abbassare i toni, di compiere uno sforzo di responsabile ponderazione tra le esigenze della chiarezza politica e quelle della continuità della vita istituzionale, guardando al paese che ha bisogno di risposte ai propri problemi anziché di rese di conti e di annunci minacciosi nell’arena politica cui non consegua alcuna prospettiva generatrice di fiducia».
L'Unità, 13 agosto 2010

martedì 3 agosto 2010

In panne contro la mafia

di Umberto Lucentini
Le auto che dovrebbero proteggere i giudici e i testimoni minacciati sono vecchie, scassate e si fermano in mezzo alla strada. L'incredibile denuncia del sindacato di polizia siciliano
Sono giorni di tensione altissima a Palermo. Il ministero dell'Interno lancia l'allarme attentati: Cosa Nostra starebbe progettando nuove stragi. E dagli addetti alle scorte di "personalità a rischio" parte di nuovo un grido: siamo pochi e con mezzi inadeguati. L'urlo lo lanciano gli uomini senza volto e senza nome che a Palermo e in Sicilia proteggono magistrati antimafia minacciati dalle cosche, imprenditori che si sono ribellati al racket delle estorsioni, testimoni di giustizia chiamati a confermare le accuse a boss ed esattori del "pizzo" durante i processi. Poliziotti costretti all'anonimato dalle rigide regole del corpo ma che denunciano: le auto blindate che utilizziamo per proteggere le "personalità a rischio" spesso sono inadeguate.
«Ci sono vetture che hanno percorso 270 mila chilometri e si guastano troppo spesso, Croma con i vetri blindati bloccati e con l'aria condizionata fuori uso, altri mezzi che si fermano all'improvviso perché la batteria va in tilt o perché i radiatori vanno in ebollizione», scrivono gli agenti nelle denunce che finiscono sulla scrivania dei dirigenti sindacali del Siulp. Tanto che i sindacati adesso rilanciano: «L'ufficio scorte di Palermo, che in fatto di importanza è uno dei più grandi d'Italia sia per numero di persone impiegate in tali servizi sia per numero di persone da scortare, continua ad essere afflitto dai problemi di carenza di auto e di personale», dicono al Siulp. Tutto documentato, e segnalato da mesi, da poliziotti rimasti finora inascoltati.
L'ultimo caso di una blindata rimasta in panne a Palermo riguarda l'imprenditore Rodolfo Guajana: il 31 luglio del 2007, all'alba, la sua azienda è stata devastata da un incendio, lui ha denunciato tutto e da allora vive sotto protezione. L'auto blindata su cui viaggiava si è guastata di sera lungo la strada che porta a Mondello, la borgata marinara di Palermo: per il poliziotto addetto alla guida, e per il collega armato che segue Guajana come un'ombra, è scattato il massimo allarme. Anche perché l'impianto di illuminazione pubblico era spento. Una volante della Polizia Stradale li ha raggiunti in pochi minuti, l'imprenditore è stato portato a destinazione sano e salvo.
«Nell'ultimo anno», racconta Roberto Falcone, dirigente sindacale del Siulp, «si sono aggiunti tanti servizi di protezione soprattutto per imprenditori vittime della mafia che hanno deciso di denunciare il pizzo. Ma a questo aumento di servizi non ha corrisposto né un potenziamento del personale né un miglioramento del parco auto».
A Palermo sono dieci, negli ultimi mesi, i nuovi "obiettivi a rischio" che la polizia deve scortare e questo – secondo i sindacati – non ha portato al rafforzamento di uomini e mezzi. I poliziotti parlano di turni di servizio che vanno ben oltre le 6 ore previste e un taglio automatico allo straordinario che ogni mese tocca il 20 per cento delle ore effettivamente svolte.
Nel Reparto scorte lavorano 280 agenti con 20 auto blindate per 40 "personalità" da tutelare. Il tutto mentre in Italia, secondo il ministro della Pubblica Amministrazione, Renato Brunetta, si scopre che ci sono circa 690 mila le "auto blu" utilizzate da politici per i loro spostamenti che costano allo Stato 4 miliardi di euro all'anno. Il guasto all'auto di Guajana non è il solo, recente intoppo di un sistema di sicurezza che dovrebbe girare come un orologio svizzero. Tra le vittime delle blindate che restano in panne anche il figlio del presidente del Senato, Renato Schifani: a febbraio l'avvocato che ha ricevuto minacce di morte è rimasto bloccato per mezz'ora nella galleria di Isola delle Femmine, lungo l'autostrada che da Palermo porta all'aeroporto.
Mesi prima, a subire uno stop imprevisto per un guasto, erano stati Annamaria Palma, magistrato della Dda di Palermo e ora capo di gabinetto del presidente del Senato, e Antonio Ingroia, procuratore aggiunto di Palermo e titolare di delicatissime indagini anti-mafia (la sua auto blindata si bloccò lungo l'autostrada per Caltanissetta) in una zona deserta. «Il più delle volte, i poliziotti che devono iniziare il loro turno di scorta», racconta Vittorio Costantini, segretario generale del Siulp Sicilia, «aspettano in caserma che rientri il turno smontante per avere un'auto disponibile. I mezzi sono tropo pochi. A Palermo servono almeno altre dieci auto blindate per garantire un servizio a regime». Lo Stato arranca. E Cosa Nostra affila le armi.
L’Espresso, 30 luglio 2010