lunedì 23 agosto 2010

Parla Sergio Flamigni: «Il caso Moro resta il mistero mai svelato da Cossiga»

di Oreste Pivetta
Francesco Cossiga
Quando muore un uomo come Cossiga, per gli incarichi che ha rivestito, per la stagione che ha attraversato, è naturale chiedersi quanti misteri si porti appresso… Sergio Flamigni, per vent’anni parlamentare del Pci, membro della commissione d’inchiesta sul caso Moro, vivendo le più drammatiche e intricate vicende della nostra storia repubblicana, ha avvicinato molti di quei misteri.
Flamigni, è fondato pensare che Cossiga qualche mistero l’abbia mantenuto per sé?
«Di un mistero, soprattutto, mi sentirei di dire: il mistero legato al caso Moro, la vicenda che gli creò il turbamento maggiore, come ebbe lui stesso modo di ripetere. Ma ricordare il caso Moro significa innanzitutto, e purtroppo, mettere in rilievo il fatto che Cossiga fu il più fallimentare ministro degli Interni della Repubblica, segnando con il suo comportamento la storia del nostro paese, con il concorso ovviamente di altri fattori, anche internazionali. Peraltro, già prima di Moro, la sua gestione del Viminale fu caratterizzata da errori gravi e, addirittura, da atteggiamenti provocatori, che ebbero l’effetto di accentuare la tensione e di rinvigorire il terrorismo, anziché sconfiggerlo. Basterebbe ricordare quanto avvenne a Roma, nel 1977, il 12 maggio: gli agenti in borghese infiltrati che sparano, la morte di Giorgiana Masi. Pochi mesi prima era stato il giovane militante di Lotta Continua, Francesco Lorusso, a cadere, ucciso da un colpo esploso da un carabiniere, nel corso di una protesta a Bologna. Quello sarebbe stato il momento di usare la massima cautela, di lavorare tutti per convincere i giovani, non per reprimere soltanto. Cossiga aveva la tendenza a ricorrere alle misure militari. Gli piaceva schierare i blindati. Lo criticammo aspramente per questo. Lo criticai anch’io, quando ero capogruppo del Pci alla commissione interni della Camera...».
I servizi segreti furono oggetto prediletto della sua attenzione…
«All’inizio del 1978, con il governo Andreotti dimissionario e quindi in carica solo per l’ordinaria amministrazione, il 31 gennaio, Cossiga sciolse per decreto il servizio di sicurezza della polizia, unico servizio segreto che avesse ottenuto grandi successi contro il terrorismo: prima contro i Nap, nuclei armati proletari, poi contro Br, preparando la mappa del brigatismo. Determinando ovviamente perdita di professionalità, di competenze, disseminando personale specializzato in servizi di ben minore importanza. In compenso creò l’Ucigos, mettendo al comando il suo amico, questore di Sassari, che nel merito non vantava alcuna esperienza. Santillo, che era stato a capo del servizio di polizia e che sapeva di terrorismo, venne promosso alla carica di vicecapo della polizia: cioè venne promosso a un posto di tutto riposo. Nel frattempo il comando generale dei carabinieri aveva sciolto il primo servizio antiterrorismo creato dal generale Dalla Chiesa, dopo il sequestro Sossi. In compenso vennero inseriti nei servizi segreti con ruoli dirigenziali personaggi che risulteranno poi iscritti alla P2. Con un governo in crisi e senza un’ombra di consultazione delle commissioni parlamentari, con le conseguenze che presto si sarebbero potute apprezzare. Intanto, Aldo Moro, che lavorava per convincere i più riottosi del suo partito perché condividessero un’alleanza di governo con il Pci, malgrado i numerosi avvertimenti, venne lasciato senza adeguata protezione».
Se parliamo del sequestro Moro, la prima sensazione è di impotenza…
«Di fronte alla strage di via Fani e al sequestro di Aldo Moro, Cossiga seguì, d’accordo con Andreotti, la strada prediletta: mobilitazione dell’esercito e posti di blocco ovunque. Misure adatte solo a soddisfare l’opinione pubblica. Ricordo d’aver partecipato con Pecchioli e Violante, il 20 marzo 1978, quattro giorni dopo il rapimento, a palazzo Chigi, ad una riunione che avrebbe dovuto discutere misure antiterrorismo, in vista di un decreto previsto per il giorno successivo. Proponemmo, in quella riunione, presente con Cossiga anche il ministro di Giustizia Bonifacio, di anticipare nel decreto le norme di riforma della polizia, già approvate in commissione, norme che prevedevano il coordinamento dei vari corpi di sicurezza. Sarebbe stato il momento giusto dopo quanto era successo: mettere in campo le forze migliori, quando erano necessarie capacità investigativa, intelligenza, conoscenza, astuzia. Socialisti e repubblicani furono d’accordo, sembrarono tutti d’accordo… Cossiga si oppose. Inspiegabilmente. Obiettò solo che i carabinieri non avrebbero mai accolto un simile provvedimento. Pecchioli replicò citando il “comandamento” del Corpo: usi a obbedir tacendo. Cossiga non cambiò idea. Così la linea della fermezza divenne la linea della fermezza passiva e in cinquantacinque giorni di prigionia di Moro non vivemmo un solo giorno di gloria: neppure un terrorista arrestato. Più avanti, con il generale Dalla Chiesa, si capì quanto quelle misure sarebbero state necessarie e poi efficaci (ad esempio nella individuazione del covo di via Monte Nevoso e nella liberazione del generale Dozier). Continuo a non capire quel rifiuto di Cossiga. Forse non si fidava dei suoi stessi sottoposti…».
Di chi si fidava, allora?
«Dei suoi amici e di pochi altri… Durante la prigionia di Moro, si affidò all’esperto americano di antiterrorismo, che gli era stato spedito in soccorso dal dipartimento usa, un uomo assunto da Kissinger e in attività anche sotto l’amministrazione Carter… il professor Steve Pieczenik, che fu incaricato di guidare il comitato di esperti e che si preoccupò soprattutto di preparare l’opinione pubblica alla notizia della morte di Moro, come fu con il comunicato a proposito del lago della Duchessa, di orientare i rapporti con la famiglia, di controllare l’informazione».
Cossiga mise in piedi altri comitati, quello tecnico operativo e quello dei servizi segreti.
«… che pullulava di uomini della P2».
C’era anche Licio Gelli?
«Dall’inchiesta del giudice Priore, il giudice di Ustica, risultò soltanto che Gelli aveva frequentato il Palazzo della Marina, che per un certo periodo di tempo, per ragioni pratiche, aveva ospitato gli uffici di Cossiga. Ma non c’era rapporto con il caso Moro».
Che cosa la colpì della personalità di Cossiga?
«Era attratto dai misteri e per questo coltivava un autentica passione per i servizi segreti. L’altra sua passione era la massoneria. Era grande amico del capo della massoneria, Corona, sardo come lui: quand’era presidente, a Roma, non gli faceva mai mancare l’auto di Stato. Sicuramente non disprezzava neppure la massoneria di Licio Gelli: non esitò a dichiarare che tra gli iscritti alla P2 vi erano anche molti patrioti».
Di Gladio disse che era una organizzazione di patrioti.
«Di Gladio si occupò molto presto quando era sottosegretario agli Interni. Conosceva benissimo Gladio, che aveva peraltro la sua base operativa principale in Sardegna. Il giudice Casson, quando trasmise gli atti della sua inchiesta per incompetenza, perché l’indagine sarebbe andata oltre i suoi poteri investigativi, scrisse che Gladio era un paravento che nascondeva altre attività… Cossiga negò. Sicuramente Gladio, pensata per rispondere a un nemico esterno, divenne una meccanismo con il compito di impedire al Pci qualsiasi responsabilità di governo, ottenuta per via democratica naturalmente».
Malgrado tutto, lo votaste presidente della Repubblica.
«Un errore per il solito politicismo. Sono convinto che se Berlinguer fosse stato ancora al mondo, il nostro partito non l’avrebbe mai votato. Berlinguer fu assai risoluto quando scoppiò il caso Cossiga. Donat Cattin. Donat Cattin fu avvisato in anticipo del futuro arresto del figlio, capo di Prima Linea. Berlinguer pretese il dibattito parlamentare e dopo quel dibattito il governo Cossiga s’avviò verso la crisi».
Torniamo all’inizio, al mistero.
«Tutto conferma che Cossiga sapeva molto di più e qualcosa di diverso da quanto aveva sempre dichiarato…».
L’Unità, 22 agosto 2010

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