Giovanni Bontade e Renato Schifani |
Il 4 dicembre 1983 dal carcere dell'Ucciardone parte una raccomandata. È firmata da Giovanni Bontate, l'uomo più ricco di Cosa nostra, fratello del padrino Stefano che armi alla mano aveva lottato per fermare l'ascesa dei corleonesi ed era stato ucciso su ordine di Totò Riina: l'ultimo esponente della famiglia mafiosa più importante di Palermo. Giovanni Bontate è ancora temuto, ma tutte le sue proprietà - immobili e aziende per un valore di decine di miliardi di lire - sono finite sotto sequestro.
Per questo dalla cella decide di affidarsi a due difensori di fiducia, un penalista e un brillante civilista, Renato Schifani.
L'attuale presidente del Senato all'epoca aveva 33 anni ed era un giovane avvocato di belle speranze. Di quell'incarico, che segnò il suo ingresso tra i nomi di rilievo del foro di Palermo, Schifani non ha mai parlato. Due mesi fa, di fronte alle rivelazioni di Gaspare Spatuzza che ne hanno determinato l'iscrizione nel registro degli indagati con l'ipotesi di concorso esterno in associazione mafiosa, il suo portavoce ha precisato: "La sua pregressa attività di avvocato è stata sempre improntata al pieno e totale rispetto di tutte le leggi e di tutte le regole deontologiche proprie dell'attività forense".
"L'espresso" ha recuperato gli atti di quel procedimento, in cui come legale di Giovanni Bontate Schifani ha prodotto corpose memorie difensive, seguendo il tesoriere di Cosa nostra fino alla Cassazione. L'avvocato non si è mai occupato delle questioni penali, ma soltanto di contestare il sequestro dei beni ed impedire che venissero confiscati. Per quasi cinque anni ha assistito il boss, studiandone le proprietà per sostenere con minuziosi interventi la legittimità delle sue ricchezze e soprattutto cercando di dimostrare i limiti dell'attività degli investigatori. In ballo c'erano due grandi società di costruzione, decine di appartamenti ma si discute anche di alcuni agrumeti - acquistati negli anni Settanta per circa mezzo miliardo di lire - intestati a Giovanni e al fratello Stefano, nomi che dominavano le cronache di mafia dell'epoca.
Con precisione e competenza, l'avvocato Schifani analizza i fondi del suo assistito, fa le pulci alle iniziative della procura e della Guardia di Finanza. È una sorta di causa pilota, perché la legge Rognoni-La Torre era recentissima: era stata approvata meno di un anno prima, sulla scia dell'orrore per l'omicidio del parlamentare comunista Pio La Torre. Per questo l'avvocato Schifani congegna una difesa molto articolata, ispirata a principi garantisti, criticando l'uso di tutte le indagini precedenti la legge ai fini dei provvedimenti di sequestro. Analizza uno per uno i beni di Giovanni Bontate - una figura di mafioso borghese, laureato in legge e attivissimo dal punto di vista imprenditoriale mentre gestiva il traffico di droga con gli States - sottolineandone la congruità con il tenore di vita, anche se in un passaggio si fa riferimento al condono fiscale che rende difficile confrontare i redditi dichiarati con quelli reali. Discute nei dettagli vita e opere della Atlantide Costruzioni, un'azienda controllata dal suo assistito che poi nel 1996 verrà indirettamente citata nelle prime indagini sui presunti rapporti tra l'entourage berlusconiano e Cosa nostra.
Nella sua memoria difensiva, Schifani sottolinea più volte i "fondati e sostanziali rilievi di incostituzionalità della legge Rognoni-La Torre" che inverte l'onere della prova: sono i mafiosi a dover dimostrare come hanno fatto a guadagnare i loro beni per evitare che il sequestro divenga confisca. Proprio questo era stato l'elemento rivoluzionario di quel provvedimento, che aveva costretto Cosa nostra a riorganizzare l'investimento dei colossali profitti del narcotraffico sull'asse Palermo-New York dominato dai Bontate. Fenomeni criminali ampiamente descritti nella documentazione usata da Schifani nelle udienze per tutelare il suo assistito, che intanto veniva condannato a nove anni nel maxiprocesso.
L'attività legale prosegue fino alla Cassazione, cercando di evitare che lo Stato incamerasse il più grande sequestro di beni realizzato in quella drammatica stagione segnata dai novecento morti della guerra di mafia scatenata da Totò Riina. Ma a rendere superflua l'opera dell'avvocato furono i killer corleonesi: nel settembre 1988 Giovanni Bontate, agli arresti domiciliari per motivi di salute, e la moglie vennero assassinati in uno degli ultimi delitti eccellenti di quella stagione. Automaticamente, con la loro morte una parte del sequestro venne annullata e altre misure di prevenzione furono bloccate: case e terreni vennero riconsegnati agli eredi che ne sono ancora i legittimi proprietari (vedi articolo a pag. 58). Un buco nero nella legge Rognoni-La Torre, nata come provvedimento d'emergenza, cancellava infatti ogni misura al momento del decesso del boss.
Oggi il senatore Schifani ha un'altra linea e nei suoi interventi parlamentari si vanta di avere eliminato quella falla, che per 16 anni ha impedito di chiudere la rete intorno a molti tesori di Cosa nostra: "Questa legislatura ha dimostrato di essere partita bene per ciò che riguarda l'aggressione ai patrimoni dei mafiosi. In particolar modo sono state inasprite le norme che riguardano la possibilità di sequestrare i patrimoni, coprendo anche quelle zone d'ombra ancora esistenti nella legislazione che ci erano state segnalate da diversi magistrati. Tra queste spiccano norme che offrono la possibilità di sequestrare anche i beni di persone nel frattempo morte, rivalendosi sugli eredi".
È interessante notare la descrizione di quel periodo terribile che il presidente Schifani ha illustrato nel 2008 durante la presentazione del libro di Giuseppe Ayala, magistrato al fianco di Borsellino e Falcone: "Il momento in cui, all'inizio degli anni Ottanta, l'esplosione della "guerra di mafia", con la sua scia di morte, fece da riflettore su quella realtà criminale, scuotendo un'intera generazione da quella "colpevole indifferenza" che Paolo Borsellino arrivò a rimproverare addirittura a se stesso". Ancora più dura la condanna della mafia pronunciata durante la commemorazione del giudice Rocco Chinnici, ucciso da un'autobomba nel 1983. Secondo le sentenze, fu l'arresto di Giovanni Bontate a spingere Cosa nostra ad assassinare Chinnici. E in quel lontano 4 dicembre 1983, dalla cella dell'Ucciardone il boss oltre a Schifani nominò come suo difensore di fiducia anche un penalista: Paolo Seminara. Nel suo diario Chinnici, sentendo avvicinarsi la morte, aveva scritto: "Se mi succederà qualche cosa di grave i responsabili sono due". E uno dei due nomi elencati era proprio "l'avvocato Paolo Seminara". Uno sfogo rimasto agli atti ma senza nessuna rilevanza processuale: solo un altro elemento per rendersi conto di quanto fossero duri quegli anni a Palermo.
L'Espresso, 4 novembre 2010
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